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Addio a Enrico Valenti, papà di Uan e mago del Gruppo 80: il genio dietro Bim Bum Bam

La notizia della scomparsa di Enrico Valenti, fondatore del mitico Gruppo 80 e creatore di Uan, Five, Four e tanti altri indimenticabili pupazzi della tv anni ’80 e ’90, è un colpo al cuore per tutti noi cresciuti a pane e Bim Bum Bam. È come se un pezzo della nostra infanzia si fosse spento, lasciandoci però un’eredità incalcolabile di sogni, risate e pomeriggi trascorsi davanti alla televisione, rapiti da quel mondo di gommapiuma, stoffa e magia. Enrico Valenti nasce a Milano nel 1954 e si forma nel teatro di figura, il mondo dell’animazione di pupazzi, ben lontano da quello dei cartoni animati. Il teatro Buratto, con spettacoli come Cipì, L’arca di Braccio di Ferro, Il Granbuffone, fu il suo primo palcoscenico. Ma Valenti non si fermò alle scene teatrali: il suo talento visionario lo portò presto a esplorare le potenzialità della televisione, un medium allora in piena espansione.

Nel 1980 fonda il Gruppo 80 insieme a Kitty Perria. Quella compagnia di animazione diventò un laboratorio magico, un luogo in cui la gommapiuma prendeva forma, gli occhi finti brillavano di vera vita e le voci si trasformavano in anime capaci di entrare nel cuore di milioni di bambini. Da quel laboratorio, fra l’odore della colla e il fruscio delle stoffe, nacquero personaggi iconici: Five, la mascotte di Canale 5; Four per Rete 4; Vitamina per Caffelatte; Frittella e MicMac per Italia 7; e ovviamente lui, l’intramontabile Uan, il cane rosa mascotte di Italia 1, protagonista assoluto di Bim Bum Bam.

La storia della creazione di Uan sembra uscita da un film: durante una cena fra amici, un consiglio buttato lì – “perché non fate un cane?” – e in laboratorio, per caso, un rotolo di peluche rosa avanzato. Nessuno avrebbe immaginato che quel colore “provvisorio” sarebbe diventato definitivo, e che proprio quell’esperimento avrebbe conquistato i bambini di tutta Italia, superando ogni aspettativa.

Uan non era solo un pupazzo. Era uno di noi. Un amico che faceva battute, sbuffava, si arrabbiava, giocava e a volte si commuoveva. E dietro quella vitalità c’erano le mani, la voce e l’intelligenza artistica di Enrico Valenti e del suo team. Valenti amava lavorare dietro le quinte, senza protagonismi, ma il suo genio traspariva da ogni movimento, da ogni sorriso strappato a chi lo guardava. Il successo travolgente di Bim Bum Bam non fu solo il risultato di un fortunato incastro televisivo, ma di una totale libertà creativa: Valenti e i suoi collaboratori avevano carta bianca, potevano sperimentare, inventare, creare un linguaggio nuovo per la tv dei ragazzi.

Nonostante gli anni d’oro, Valenti era un uomo lucido, consapevole della natura effimera del successo televisivo. Non si faceva illusioni sul mondo dello spettacolo, sapeva che la riconoscenza era merce rara e che i riflettori prima o poi si spengono. Ma non ha mai smesso di amare il suo lavoro. Anche quando il Gruppo 80 si è sciolto e Bim Bum Bam ha chiuso i battenti, lui ha continuato a creare, a costruire pupazzi per collezionisti, a fare consulenze, a trasmettere il mestiere.

Negli ultimi anni, Valenti aveva assistito con sorpresa e commozione al revival nostalgico degli anni ’80 e ’90. I bambini cresciuti, ormai adulti, tornavano a parlare di Uan, di Five, di quei pomeriggi passati a ridere con Bonolis, Licia Colò, Manuela Blanchard, Carlo Sacchetti, Debora Magnaghi, e naturalmente Cristina D’Avena. Valenti, abituato a stare dietro le quinte, si era ritrovato suo malgrado di nuovo al centro dell’attenzione, ma sempre con quella modestia e quell’orgoglio un po’ schivo che lo contraddistingueva.

Quello che rende immortale l’eredità di Enrico Valenti non è solo la fattura tecnica dei suoi pupazzi, ma il cuore che ci ha messo. Non c’era solo il divertimento, ma anche una visione: l’idea che i bambini meritassero uno spazio fatto di leggerezza, ironia, complicità. Un luogo dove rifugiarsi per mezz’ora al giorno e dimenticare i compiti, le piccole ansie quotidiane, le regole dei grandi.

Sapere che oggi, nelle teche del Castello dei Burattini di Parma, sopravvivono alcuni di quei pupazzi – non gli originali primissimi, certo, ma fratelli di gommapiuma di quelli visti in tv – ci ricorda quanto il lavoro di Valenti sia diventato parte della nostra memoria collettiva. Non è solo nostalgia. È riconoscenza.

Enrico Valenti ci lascia a 71 anni, ma ci lascia circondati da amici colorati che hanno reso più bello crescere. E adesso, mentre immaginiamo Uan che lassù fa battute al suo creatore, un po’ ci viene da sorridere, anche se con le lacrime agli occhi.

Ciao Enrico, e grazie. Grazie per averci insegnato che la magia esiste, e a volte ha le orecchie flosce, il pelo rosa e un sorriso birichino.

Se anche voi avete amato Uan e i personaggi del Gruppo 80, raccontateci i vostri ricordi nei commenti qui sotto o condividete questo tributo sui vostri social. Facciamo in modo che l’eredità di Enrico Valenti continui a vivere, anche solo con una risata, un “ciao Uan!” o un abbraccio nostalgico ai pomeriggi passati davanti alla tv.

Trent’anni senza “Non è la Rai”: il programma che ha segnato un’epoca e acceso i riflettori sulla nuova generazione televisiva

Era il 30 giugno del 1995 quando si spensero le luci dello Studio 1 del Centro Palatino di Roma sull’ultima, malinconica puntata di Non è la Rai. Con Ambra Angiolini che cantava T’appartengo tra lacrime vere e finzione scenica, si chiudeva un’era della TV italiana. Un’era fatta di lustrini, playback, coreografie, adolescenti alle prese con costumi a fiori e domande da telefono fisso. Un universo che oggi sembra uscito da un VHS impolverato, ma che ha inciso indelebilmente nella memoria collettiva — e soprattutto nerd — di chi è cresciuto nei ruggenti anni Novanta.

Non è la Rai non è stata solo una trasmissione televisiva. È stata una rivoluzione pop che ha traghettato il varietà italiano dentro un’altra dimensione. Una sorta di Wonder Woman culturale che ha gettato le basi per il concetto stesso di fenomeno mediatico adolescenziale ante litteram. Non era fiction, non era reality, non era talk show, ma aveva elementi di tutti questi generi messi insieme. E, nel bene o nel male, ha influenzato il nostro modo di intendere l’intrattenimento e persino la costruzione del divismo giovanile. Oggi, a trent’anni di distanza dalla sua chiusura, è tempo di (ri)scoprire perché Non è la Rai è stata così dirompente. E perché, in fondo, non abbiamo mai davvero smesso di parlarne.

Boncompagni e il colpo di genio

A creare il mostro — nel senso buono — fu Gianni Boncompagni, lo stesso che aveva già scritto pagine memorabili di radio e televisione con programmi come Alto Gradimento e Pronto, Raffaella?. Con Non è la Rai riuscì a fondere la sua capacità di cogliere i trend giovanili con una visione produttiva moderna, al passo con MTV ma con un cuore profondamente italiano. Affiancato da Irene Ghergo, costruì uno show quotidiano, rigorosamente in diretta, popolato da una galassia di ragazze giovanissime, molte delle quali adolescenti o appena maggiorenni, che cantavano, ballavano, giocavano al telefono e, soprattutto, diventavano star per i fan.

In un’epoca priva di social media e di smartphone, Non è la Rai riuscì a creare un rapporto diretto e quasi ossessivo tra pubblico e protagoniste. Le fan accalcate fuori dagli studi di Roma, le lettere inviate a chilate, i muri del Centro Palatino pieni di scritte e dediche, le serate in discoteca con le esibizioni delle ragazze: ogni elemento del programma sembrava precorrere il culto delle idol moderne giapponesi o delle teen star di Disney Channel.

L’esercito delle “ragazze di”

Se oggi parliamo di Ambra Angiolini come attrice pluripremiata, di Sabrina Impacciatore in odore di Oscar, di Claudia Gerini come una delle presenze più solide del cinema italiano, di Laura Freddi e Antonella Elia come volti iconici della televisione… beh, dobbiamo ringraziare Non è la Rai. È da lì che sono emerse, è lì che hanno costruito la loro identità pubblica.

Il programma ha rappresentato una vera e propria fabbrica di volti — come se fosse un laboratorio nerd di supereroine della cultura pop italiana. Era impossibile non scegliere la propria preferita. C’era la romantica, la comica, la sensuale, la ribelle, l’intellettuale (o presunta tale): ognuna interpretava un archetipo capace di soddisfare il gusto del pubblico generalista e adolescenziale.

Boncompagni, con un orecchio da direttore d’orchestra e uno da hacker televisivo, dava spazio solo a chi sapeva funzionare sullo schermo. Il resto era formato umano di contorno. Ma anche quel contorno è diventato nel tempo carne da Wikipedia: basti pensare a nomi come Miriana Trevisan, Alessia Mancini, Pamela Petrarolo, Nicole Grimaudo, Romina Mondello, Lucia Ocone.

Le critiche? Carburante per il successo

Ovviamente Non è la Rai non è stato tutto rose e playback. Le polemiche furono tantissime. La sessualizzazione precoce delle ragazze, i costumi troppo succinti, le inquadrature giudicate maliziose, le lacrime sospette durante le canzoni struggenti, l’accusa di “telepedofilia” lanciata da alcune associazioni familiari e femministe. E poi, il discusso episodio del diavoletto che avrebbe rivelato ad Ambra che Dio tifava Berlusconi e Satana invece Occhetto. In piena campagna elettorale. Roba che oggi farebbe impazzire Twitter e Reddit.

Ma come spesso accade, le critiche alimentano la leggenda. L’odio e l’amore per lo show viaggiavano di pari passo, e Boncompagni lo sapeva. Non è un caso che proprio durante le edizioni più criticate si raggiunsero gli ascolti migliori e si triplicarono le tariffe pubblicitarie di Italia 1 nella fascia pomeridiana. Non è la Rai era il Minecraft delle trasmissioni: criticato da genitori e insegnanti, ma amato visceralmente da chi lo viveva in prima persona.

Il culto nerd e la macchina del merchandising

Come ogni fenomeno che si rispetti, anche Non è la Rai ha avuto il suo expanded universe. Compilation musicali, album delle figurine, quaderni, t-shirt, zainetti, CD, cassette, videocassette, e chi più ne ha più ne metta. Le ragazze diventavano personaggi da collezionare, idoli da seguire con la dedizione con cui oggi si segue una saga di Stranger Things o l’uscita di un nuovo Final Fantasy.

L’industria intorno al programma macinava numeri importanti. Gli album musicali delle compilation raggiungevano i vertici delle classifiche, alcuni brani originali venivano scritti appositamente per le esibizioni, come Ailoviù o Tutta tua, mentre le ragazze cantavano spesso (e volentieri) in playback su voci di professioniste. Pamela Petrarolo, Francesca Pettinelli e Ambra furono le poche a ottenere l’opportunità di incidere davvero con la propria voce. E anche qui: tra finzione e realtà, si alimentava il mito.

L’eredità culturale

Oggi, guardando indietro, Non è la Rai appare come un fenomeno difficilmente replicabile. Era figlio del suo tempo, ma ha saputo anticipare molte dinamiche future dello star system, dell’ossessione per i giovani talenti, della serializzazione dell’intrattenimento. Una sorta di Black Mirror pop che metteva in scena tutto e il contrario di tutto: innocenza e provocazione, gioco e controllo, spontaneità e regia occulta (tramite auricolari, of course).

Eppure, nel flusso apparentemente caotico di playback e telefonate, si è formata un’intera generazione di professioniste dello spettacolo. Alcune sono ancora oggi protagoniste del panorama culturale italiano. Altre hanno scelto vie alternative, dal teatro alla musica indipendente, passando per missioni umanitarie e attività sociali. Ma tutte, volenti o nolenti, sono parte di un DNA culturale condiviso che ancora pulsa nel nostro immaginario nerd e pop.

Trent’anni dopo

Oggi, a tre decenni dalla sua chiusura, Non è la Rai continua a essere oggetto di studi, revival nostalgici, speciali televisivi e pagine social dedicate. I fan — molti dei quali oggi quarantenni e cinquantenni — condividono ancora i video su YouTube, si emozionano a rivedere le vecchie sigle, collezionano memorabilia. Perché, in fondo, Non è la Rai è diventata una sorta di Doctor Who del piccolo schermo italiano: ha avuto rigenerazioni, momenti di gloria, stagioni discutibili, ma una base affettiva indistruttibile.

E quindi, se sei stato uno di quei ragazzi che chiamava per partecipare al gioco del cruciverbone o uno di quelli che sognava di incontrare Ambra fuori dagli studi… oppure se sei tra coloro che allora odiavano profondamente lo show e oggi ci scherzano sopra su TikTok… in entrambi i casi, Non è la Rai ha fatto parte del tuo mondo. E lo fa ancora.


E tu che ricordi hai di Non è la Rai? Avevi una ragazza preferita? Collezionavi gli album o ballavi le coreografie in cameretta? Raccontacelo nei commenti oppure condividi questo articolo con chi, come te, non ha mai smesso davvero di cantare T’appartengo sotto la doccia.

35 anni di Twin Peaks: il mistero che ha cambiato la televisione per sempre

Esattamente 35 anni fa, l’8 aprile 1990, andava in onda negli Stati Uniti il primo, enigmatico episodio di Twin Peaks. In Italia arrivò nove mesi dopo, il 9 gennaio 1991 su Canale 5, portando con sé un vento nuovo, inquieto e visionario che avrebbe riscritto le regole della narrazione televisiva. Non è esagerato dire che da quel momento, nulla è stato più come prima. Perché I segreti di Twin Peaks non è solo una serie cult: è un’esperienza, un enigma avvolto in sogno e incubo, capace ancora oggi di stregare gli spettatori con il suo fascino oscuro e le sue atmosfere surreali.

Dietro l’operazione, due nomi destinati a entrare nella leggenda: David Lynch, il regista che ha fatto dell’inquietudine un’arte, e Mark Frost, mente acuta e raffinata della scrittura seriale. Insieme, hanno dato vita a una piccola città nel nord-ovest degli Stati Uniti, immersa tra boschi e nebbie, dove niente è come sembra. Una città che custodisce segreti inconfessabili dietro le tende di pizzo e i sorrisi cordiali.

Tutto inizia con il ritrovamento del corpo di Laura Palmer, la ragazza perfetta della porta accanto. Una scena che pare uscita da un noir anni ’50, ma che presto si rivela il portale per qualcosa di ben più complesso. L’agente speciale dell’FBI Dale Cooper, interpretato con magnetismo da Kyle MacLachlan, arriva in città per indagare sull’omicidio. Ma la sua missione investigativa si trasforma ben presto in un viaggio dentro il cuore oscuro di Twin Peaks – e dell’animo umano.

Laura Palmer non è solo una vittima: è un simbolo, una maschera che nasconde abissi.

Dietro la facciata della studentessa modello si cela una doppia vita fatta di droga, relazioni proibite e prostituzione. La sua morte diventa lo specchio deformante di una comunità intera, dove ogni abitante ha qualcosa da nascondere. La tensione cresce episodio dopo episodio, mentre Cooper – guidato da sogni profetici e visioni mistiche – si addentra in un mondo sempre più perturbante, dove il razionale cede il passo al sovrannaturale.

Ed è qui che Twin Peaks compie la sua vera rivoluzione: fonde il thriller psicologico con il surrealismo, l’horror con la soap opera, la commedia con il dramma esistenziale. Le Logge Bianca e Nera, l’entità demoniaca BOB, i sogni nella Stanza Rossa con il nano che parla al contrario e l’uomo con un solo braccio… ogni elemento contribuisce a creare un mosaico visionario che sfugge a ogni etichetta. La scoperta che l’assassino di Laura è Leland Palmer – suo padre, posseduto da BOB – è una rivelazione devastante, che affonda il colpo non solo nella storia, ma nello spettatore stesso.

Ma Twin Peaks non si accontenta mai. Dopo aver risolto (si fa per dire) il caso di Laura Palmer, la serie prosegue, alzando la posta con l’introduzione di Windom Earle, l’ex collega psicopatico di Cooper. Il suo arrivo trasforma la seconda stagione in una partita a scacchi letale, un gioco mentale che scava nella psiche dei protagonisti e ci accompagna verso un finale tanto criptico quanto memorabile. La chiusura della serie lascia più domande che risposte. Ed è proprio questo il bello.

Un ritorno atteso 25 anni

Nel 2017, quando Twin Peaks – Il ritorno debutta dopo un’attesa lunga 25 anni, il mondo è cambiato. Ma Lynch no. E per fortuna. La terza stagione non cerca di piacere, non cerca di spiegare: è pura arte televisiva. Cooper è intrappolato nella Loggia Nera, il tempo implode, la realtà si frantuma. I vecchi personaggi tornano, irriconoscibili eppure familiari, mentre nuovi enigmi si aggiungono ai vecchi, in una narrazione che è più un’opera audiovisiva che una serie TV.

Ogni episodio è un affresco disturbante, accompagnato dalle musiche eteree di Angelo Badalamenti, che contribuiscono a creare un’atmosfera onirica e disturbante. Non si guarda Il ritorno, lo si vive – come un sogno lucido, in cui non tutto è chiaro, ma ogni dettaglio lascia il segno.

Il preludio dell’incubo: “Fuoco cammina con me”

A chi cerca risposte, Lynch ha sempre dato nuove domande. E il film Fuoco cammina con me (1992), prequel della serie, ne è l’esempio perfetto. Qui ci viene raccontata la settimana che precede la morte di Laura Palmer. Una discesa negli inferi, tra abusi, possessioni e disperazione. Il film, inizialmente accolto con freddezza, è oggi considerato una pietra miliare dell’universo lynchiano.

Il lascito eterno di un capolavoro

Twin Peaks non è semplicemente una serie: è un fenomeno culturale. Ha ispirato generazioni di registi, sceneggiatori e artisti. Senza Twin Peaks, oggi non avremmo Lost, Dark, True Detective, Stranger Things e molti altri titoli che hanno osato spingersi oltre il formato tradizionale. Ma nessuno ha mai davvero eguagliato quel senso di mistero, quella commistione di ironia, angoscia e poesia che solo Lynch e Frost hanno saputo creare.

A 35 anni dalla sua prima messa in onda, I segreti di Twin Peaks continua a parlarci. Non è solo un omicidio da risolvere. È una riflessione sull’identità, sul dolore, sulle maschere che indossiamo ogni giorno. È la dimostrazione che la televisione può essere arte, e che il vero mistero non è chi ha ucciso Laura Palmer, ma cosa si nasconde dietro le tende rosse dei nostri sogni.

E allora, una tazza di caffè nero in mano, un donut sul piattino e la sigla di Badalamenti in sottofondo: buon compleanno, Twin Peaks. Ci hai cambiato per sempre.

Legends: il nuovo thriller di Netflix tra infiltrazioni, identità segrete e crimine

“Legends” è la nuova serie thriller che sta per debuttare su Netflix, creata da Neil Forsyth, il genio dietro a titoli come “The Gold” e “Guilt”. Questa serie promette di immergerci in un’atmosfera di tensione, inganno e, ovviamente, adrenalina. Ambientata agli inizi degli anni ’90, la trama ci porta nel cuore di una missione top secret affidata a un gruppo di agenti della dogana britannica. L’obiettivo? Infiltrarsi nelle più pericolose bande criminali di droga del Regno Unito e aiutarle a cadere dall’interno. Ma c’è un dettaglio che rende questa missione ancora più intrigante: questi agenti non sono spie professioniste, bensì persone comuni, prelevate dalle loro vite ordinarie, sottoposte a un addestramento di base e costrette a costruire identità fittizie nel mondo della criminalità. Queste identità vengono chiamate “Leggende” e, come suggerisce il titolo della serie, la loro vita da infiltrati non è affatto semplice.

Nel cast, troviamo alcuni nomi che sicuramente attireranno l’attenzione. Tom Burke, noto per il suo ruolo in “Furiosa: A Mad Max Saga”, interpreta uno dei protagonisti principali. Al suo fianco, c’è Steve Coogan, celebre per il suo lavoro in “Philomena” e “The Reckoning”. La presenza di attori così talentuosi promette di elevare ulteriormente il livello della serie, aggiungendo una carica di intensità e profondità emotiva. Hayley Squires, Aml Ameen, Jasmine Blackborow, e molti altri completano il cast, tutti pronti a portare in vita un racconto che esplora il confine sottile tra il bene e il male, tra l’identità autentica e quella costruita.

La regia, affidata a Brady Hood e Julian Holmes, promette di fare un lavoro impeccabile nel catturare l’essenza di un thriller psicologico che gioca sull’ambiguità e sulla continua tensione. Brady Hood, già noto per “Top Boy”, dirigerà i primi quattro episodi, mentre Julian Holmes, che ha lavorato su “Reacher” e “The Boys”, si occuperà degli ultimi due, dando sicuramente un tocco personale alla serie, specialmente verso il finale. Il mix di esperienze e stili di regia contribuirà a rendere il ritmo della serie frenetico e coinvolgente, mantenendo sempre alta l’attenzione dello spettatore.

La trama, con la sua premessa intrigante e il suo tema centrale, quello delle “leggende” – identità create ad hoc per infiltrarsi nel crimine – ci fa pensare a quanto sia sottile e pericolosa la linea che separa il bene dal male, soprattutto quando si è costretti a vivere una doppia vita. Questi agenti, che partono come persone normali, si trovano ad affrontare un destino che potrebbe cambiarli per sempre, costringendoli a fare i conti con le proprie scelte e le proprie menzogne. Il tutto si svolge in un contesto storico preciso, con le dinamiche degli anni ’90 che non mancheranno di aggiungere un tocco nostalgico, pur mantenendo una narrazione moderna e pungente.

Non sappiamo ancora quando la serie arriverà su Netflix, ma c’è sicuramente molta curiosità intorno a “Legends”. Il fatto che sia ispirata a uno degli più straordinari casi di indagine criminale mai realizzati, alimenta ancora di più l’attesa. Se Forsyth ha l’abilità di unire il reale con il fittizio come ha fatto in passato, possiamo aspettarci una serie che non solo intrattiene, ma che fa anche riflettere sul nostro rapporto con la legge, la giustizia e la moralità.

Se siete amanti dei thriller psicologici che esplorano il lato oscuro dell’animo umano e delle storie di infiltrazione sotto copertura, “Legends” sembra proprio quello che fa per voi. Prendete nota, perché la missione inizia presto, e sicuramente non vorrete perdervela.

The Electric State: Il Film Post-Apocalittico dei Fratelli Russo che Mescola Nostalgia e Fantascienza

The Electric State è sicuramente uno dei film più attesi del 2025, una pellicola che unisce elementi di fantascienza, avventura, commedia e dramma. A dirigere questo ambizioso progetto ci sono i fratelli Russo, Anthony e Joe, che hanno già fatto la storia con la loro collaborazione ai film Marvel. Il film si ispira al graphic novel omonimo del 2018 scritto da Simon Stålenhag, ed è destinato a trasportare gli spettatori in un futuro alternativo, ambientato negli anni ’90, che si distingue per un conflitto devastante tra umani e robot.

La trama di The Electric State si svolge in un mondo post-apocalittico, in cui una guerra fra esseri umani e intelligenze artificiali ha ridisegnato il paesaggio degli Stati Uniti. La storia segue Michelle, una giovane donna interpretata da Millie Bobby Brown, che intraprende un viaggio attraverso una terra desolata alla ricerca del suo fratellino scomparso. Lungo il cammino, sarà accompagnata da un robot giocattolo misterioso e da Keats, un contrabbandiere interpretato da Chris Pratt, che aggiungerà un tocco di umorismo al dramma che i due protagonisti stanno vivendo. Il film, quindi, non si limita a raccontare una storia di sopravvivenza, ma esplora temi profondi come la solitudine, la speranza e la resilienza, il tutto in un mondo ormai ridotto in macerie dalla guerra tra uomo e macchina.

Ma quello che rende davvero speciale The Electric State è l’atmosfera nostalgica che permea l’intero film. Il paesaggio distrutto, con i rottami dei droni da battaglia e gli avanzi di una società ossessionata dalla realtà virtuale, richiama quel periodo degli anni ’90, quando la tecnologia stava cambiando rapidamente e la cultura popolare si tuffava in un futuro che sembrava sia promettente che inquietante. È un mondo che potrebbe sembrare familiare per chi ha vissuto quei tempi, ma che appare ormai irriconoscibile, come se tutto ciò che avevamo costruito fosse collassato sotto il peso delle nostre stesse invenzioni.

Nel cast stellare del film troviamo anche Ke Huy Quan, Jason Alexander, Woody Harrelson, Anthony Mackie, Brian Cox, Jenny Slate, Giancarlo Esposito e Stanley Tucci, un elenco che aumenta ulteriormente l’interesse attorno al progetto. Ma The Electric State non è solo il racconto di una giovane donna e del suo viaggio, è anche una riflessione sull’impatto della tecnologia sull’umanità. La sceneggiatura, firmata da Christopher Markus e Stephen McFeely, che hanno già collaborato con i Russo in numerosi film Marvel, promette di esplorare questi temi con una sensibilità contemporanea, riuscendo a mescolare azione ed emozioni con la consueta maestria dei registi.

L’aspetto visivo del film gioca un ruolo fondamentale nel creare questa atmosfera. Le immagini di paesaggi distrutti, disseminati di rottami tecnologici e droni abbandonati, non possono fare a meno di richiamare alla mente altri grandi film che hanno esplorato universi post-apocalittici, come Mad Max: Fury Road o Blade Runner. Tuttavia, The Electric State si distingue per il suo tocco nostalgico, che evoca il passato recente, un’epoca che sembra ormai distante ma che ancora esercita un forte fascino su di noi.

Millie Bobby Brown, che ha già conquistato i fan con Stranger Things, torna sul grande schermo con un ruolo che le permette di mostrare tutta la sua versatilità. Al suo fianco, Chris Pratt sembra trovarsi a suo agio nel mescolare azione e umorismo, creando una chimica irresistibile con la Brown. La loro interazione si riflette perfettamente nel trailer ufficiale, che offre un assaggio delle emozionanti avventure e dei momenti comici che punteggiano il film. Tra scene spettacolari e battute pungenti, The Electric State sembra avere tutti gli ingredienti per diventare un successo.

E come se non bastasse, il robot giocattolo che accompagna Michelle si rivela essere un personaggio a sé stante, con un comportamento ironico che non solo alleggerisce il tono della pellicola, ma arricchisce anche la trama con momenti di pura leggerezza. Questo mix di dramma e umorismo, unito a una riflessione sulla tecnologia, è ciò che rende The Electric State un film tanto promettente quanto intrigante.

Con un budget che si dice superi quello di The Gray Man, un altro grande progetto dei fratelli Russo per Netflix, The Electric State si prepara a essere una delle produzioni più costose e ambiziose della piattaforma di streaming. I fan possono quindi aspettarsi un’esperienza visivamente spettacolare, con effetti speciali all’avanguardia che daranno vita a un mondo post-apocalittico ricco di dettagli e atmosfera. Il film sarà disponibile su Netflix a partire dal 14 marzo 2025, dopo la presentazione in anteprima mondiale al Grauman’s Egyptian Theatre di Los Angeles il 24 febbraio dello stesso anno. Non resta che aspettare per scoprire come questa storia avvincente si trasformerà in una delle esperienze cinematografiche più coinvolgenti degli ultimi anni.

Il migliore dei mali: Un Thriller Fantastico che Sfida l’Identità e l’Ambiente

Nel panorama cinematografico italiano, dove l’innovazione sembra oggi andare di pari passo con il rispetto per le tradizioni, Il migliore dei mali si inserisce come una proposta intrigante e audace. Regia di Violetta Rovetto, nome noto per la sua presenza online come Violetta Rocks, il film si presenta come un esordio solido che mescola sapientemente vari generi, tra cui il giallo, il fantastico e il dramma sociale, dando vita a un’opera che riesce a parlare a più livelli e ad attraversare le sensibilità di diversi tipi di pubblico.

Tratto dalla graphic novel Il migliore dei mali – L’uomo di latta, scritta dalla stessa regista e pubblicata nel 2019 da Shockdom, il film si ambienta negli anni ’90, un’epoca che funge da sfondo non solo per una ricca nostalgia estetica ma anche per una riflessione profonda su tematiche ancora attuali, come il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, le disuguaglianze sociali e la lotta per la propria identità. Al centro della storia ci sono cinque ragazzi, un gruppo di giovani amici che si trovano a dover affrontare eventi inspiegabili e inquietanti, a partire dalla misteriosa scomparsa di un cane. Le loro vite sono coinvolte da un fattore esterno oscuro e perturbante: la presenza di una fabbrica chimica, la Termaranto, che non solo inquina l’ambiente circostante ma pare avere un impatto devastante sulle vite dei protagonisti. Le sostanze tossiche che vengono rilasciate dall’impianto sembrano sottrarre qualcosa alla comunità locale, ma allo stesso tempo lasciano una sorta di “dono” ambiguo e pericoloso che segnerà irreversibilmente il cammino dei ragazzi.

Quello che emerge chiaramente da Il migliore dei mali è la forza della regia di Rovetto, che mescola il thriller con il fantastico senza mai scivolare nel banale. La lotta dei giovani protagonisti per superare la paura e le difficoltà, per affermare se stessi in un mondo che li ha segnati e li costringe a vivere ai margini, è il cuore pulsante del film. La regista stessa ha dichiarato che la ricerca del riscatto, e il desiderio di combattere contro un sistema che impone limiti ingiustificati, è al centro della trama. I ragazzi, pur affrontando una minaccia visibile e tangibile, devono anche confrontarsi con il peso delle loro differenze e della loro “diversità”, che li rende vulnerabili ma anche, in un certo senso, unici e in grado di sfidare le convenzioni.

Il film non si limita a essere una storia di formazione, ma offre anche una riflessione sociale, un’esplorazione delle disuguaglianze che esistono dentro e fuori la comunità. Il contesto anni ’90 diventa, quindi, una lente con cui possiamo osservare le problematiche moderne, un modo per riflettere su quanto la lotta contro l’inquinamento e le ingiustizie sociali sia ancora più che mai attuale. La crescita personale dei protagonisti è legata al loro incontro con l’ignoto, alla necessità di fare i conti con il male, rappresentato non solo dall’industria che inquina ma anche dalle paure interiori e dai sacrifici che sono costretti a fare per trovare il loro posto nel mondo.

Un altro punto di forza del film è il cast, che sa coniugare l’esperienza e la freschezza. Massimo Wertmüller, Pietro Ragusa e Annalisa Insardà si alternano con i giovani attori emergenti, tra cui Giuseppe Pallone, Andrea Arru, Riccardo Antonaci, Giorgia Piancatelli, Niccolò Bizzoco e Matteo Ferrara, creando un’armonia che funziona tanto nelle dinamiche di gruppo quanto nei singoli momenti di introspezione dei protagonisti.

Dal punto di vista tecnico, il film si avvale di un team di professionisti che contribuiscono a dare forma a questa storia inquietante e affascinante. La direzione della fotografia di Marina Kissopoulos coglie perfettamente l’atmosfera di sospetto e tensione che aleggia su ogni scena, mentre il montaggio di Natascia Di Vito e i costumi di Sabrina Beretta contribuiscono a rendere l’ambientazione ancora più densa di significato.

La coproduzione tra Italia, Slovenia e Polonia, con il supporto di Rai Cinema e il contributo di realtà regionali come la Calabria Film Commission, la Regione Molise e la Regione Lazio, ha permesso di realizzare un film visivamente ricco e dalla produzione internazionale. Dopo una presentazione come evento speciale al Noir in Festival, Il migliore dei mali si prepara a sbarcare nelle sale italiane, dove, sono sicuro, saprà conquistare il pubblico con la sua miscela di tensione, emozioni e riflessioni. Con il suo intreccio di giallo e fantastico, il film è un viaggio avvincente nella ricerca di sé, nella paura e nel sacrificio, e, soprattutto, nell’incontro con il “migliore dei mali”.

Cartoni Animati e Sviluppo Cognitivo: Il Passato Batte il Presente?

Negli ultimi decenni, il mondo dell’animazione ha subito una trasformazione radicale, passando dai classici cartoni della nostra infanzia nerd a prodotti moderni caratterizzati da ritmi serrati e stimoli visivi incessanti. Secondo la neuropsichiatra Zabina Bhasin, questa evoluzione non ha necessariamente giovato alle nuove generazioni: anzi, i cartoni animati del passato sembrano avere un impatto più positivo sullo sviluppo cognitivo dei bambini rispetto a quelli contemporanei. La differenza principale risiede nella qualità della narrazione, nei valori trasmessi e nel modo in cui queste opere interagiscono con la mente infantile.

Tra gli anni ’60 e gli anni ’90, l’animazione visse una sorta di epoca d’oro, con serie che ancora oggi occupano un posto speciale nella memoria collettiva. Titoli come “Goldrake”, “Saint Seiya”, “Heidi”, “Candy Candy”, “Lupin III”, “Occhi di Gatto”, “Doraemon”, “Anna dai Capelli Rossi”, “Holly e Benji”, “Mila e Shiro”, “Sailor Moon” e “Ken il Guerriero” erano più di semplici prodotti di intrattenimento: erano strumenti di crescita, veicoli di insegnamenti morali e fonte di ispirazione per i giovani spettatori. Anche i classici occidentali, come “Scooby-Doo”, “Gli Antenati” e “Tom & Jerry”, pur avendo un taglio comico e leggero, offrivano spunti di riflessione sulla società e sulla famiglia.

 

Ma cosa rendeva questi cartoni così speciali?

Innanzitutto, il ritmo narrativo. A differenza delle produzioni moderne, spesso frenetiche e caratterizzate da un montaggio rapido, i cartoni dell’epoca concedevano più spazio all’approfondimento emotivo e alla costruzione dei personaggi. Le transizioni erano fluide, i dialoghi ben strutturati e i momenti di pausa non erano riempiti da effetti sonori invadenti. Questo approccio permetteva ai bambini di sviluppare una maggiore capacità di concentrazione e di apprendere in modo più efficace.

Inoltre, la componente didattica era molto più marcata rispetto a oggi. Molti cartoni erano progettati con l’intento di educare, come “Siamo Fatti Così”, che spiegava il funzionamento del corpo umano in modo chiaro e accessibile, oppure “Heidi”, che insegnava il valore della semplicità e dell’amore per la natura. Anche nelle serie d’azione come “Dragon Ball”, “Thundercats” o “I Cavalieri dello Zodiaco”, il messaggio di fondo era spesso legato all’amicizia, al coraggio e alla perseveranza.

Un altro aspetto fondamentale era la qualità dell’animazione. Le produzioni degli anni ’80 e ’90 si distinguevano per i disegni dettagliati e le animazioni curate, spesso realizzate con tecniche tradizionali che conferivano un tocco artistico unico. Anche i personaggi erano più sfaccettati e realistici rispetto alle figure stereotipate che popolano molti cartoni moderni. Gli eroi non erano semplici archetipi, ma individui con debolezze, paure e sogni. Lady Oscar, ad esempio, incarnava un modello di indipendenza e forza femminile in un’epoca in cui le protagoniste femminili erano spesso relegate a ruoli secondari.

Oggi, invece, i cartoni animati tendono a essere più commerciali e orientati al consumo. Molte serie sembrano progettate con l’obiettivo principale di vendere giocattoli e accessori, piuttosto che raccontare una storia significativa. La CGI, sebbene offra possibilità tecniche avanzate, ha portato spesso a una semplificazione delle animazioni e a una perdita di quel calore artigianale che caratterizzava i cartoni del passato.

Un fenomeno interessante che potrebbe rappresentare una risposta a questa deriva è la “Slow TV”, una corrente che promuove esperienze visive più rilassate e meno caotiche.

Cartoni come “Winnie The Pooh”, “Franklin la Tartaruga” e “The Little Bear” incarnano perfettamente questa filosofia, proponendo trame lineari e ambientazioni serene, in netto contrasto con la frenesia di molte produzioni attuali. Questa tendenza potrebbe offrire ai bambini un’alternativa più sana e bilanciata, riducendo l’iperstimolazione e migliorando la loro capacità di autoregolazione.

Ma quali sono i rischi legati ai cartoni moderni?

Secondo la dottoressa Bhasin, la velocità delle scene, i colori sgargianti e i suoni aggressivi possono avere conseguenze negative sul cervello in via di sviluppo. L’iperstimolazione può portare a difficoltà di concentrazione, irritabilità, sintomi di ansia e iperattività. Inoltre, molti bambini che crescono con contenuti troppo frenetici mostrano difficoltà a gestire la noia senza uno schermo, sviluppando una dipendenza precoce dai dispositivi digitali.

Per questo motivo, è importante che i genitori scelgano con attenzione i contenuti che i loro figli guardano. Se sei un genitore appassionato di animazione, potresti riscoprire insieme ai tuoi bambini i classici del passato, offrendo loro un’esperienza più equilibrata e arricchente. Il futuro del loro cervello potrebbe dipendere proprio da questa semplice scelta: optare per un racconto ben costruito e significativo, piuttosto che per un prodotto pensato solo per attirare l’attenzione con stimoli continui. In un mondo che corre sempre più veloce, forse la vera rivoluzione è tornare a guardare i cartoni con il ritmo e la magia di un tempo.

Retrò Games Day – Vol.1. Il Grande Evento per Gamer e Nostalgici!

L’Associazione Culturale Giuseppe Perrone, in collaborazione con La Tana Del Drago – Associazione Ludica e con il Patrocinio del Comune di Maierà, è pronta a far rivivere la magia del passato con la prima edizione del Retrò Games Day – Vol.1. Domenica 16 febbraio, il suggestivo Palazzo Patrizio di Maierà si trasformerà in un tempio della nostalgia, un punto di incontro per gamer, nerd e appassionati di retrogaming, offrendo un viaggio nel tempo alla riscoperta di console storiche, giochi vintage e sfide da tavolo mozzafiato. Dalle 10:00 alle 18:00, adulti e ragazzi dai 14 anni in su potranno immergersi in un’atmosfera unica, tra joystick, dadi e carte, vivendo un’esperienza che unisce generazioni.

I veri protagonisti dell’evento saranno le console e i videogiochi che hanno segnato l’infanzia di milioni di giocatori. Titoli iconici, pixel intramontabili e sonorità inconfondibili accenderanno il fuoco della passione per il gaming classico, ricordando l’epoca d’oro dell’intrattenimento digitale. Ma non finisce qui: gli appassionati di giochi da tavolo e carte avranno l’occasione di sfidarsi in avvincenti partite strategiche, dove la socialità e la competizione si fonderanno in un’unica, coinvolgente esperienza ludica.

A rendere l’evento ancora più speciale sarà la presenza di un’ospite d’eccezione: la leggendaria auto parlante di Supercar! La vera e unica riproduzione a grandezza naturale di KITT sarà esposta in Piazza Croce a Maierà, regalando ai visitatori l’emozione di ammirare dal vivo uno dei simboli più iconici della cultura pop anni ‘80 e ‘90. Un’occasione imperdibile per tutti gli amanti del cinema, delle serie TV e della fantascienza, che potranno scattare foto e rivivere le avventure di Michael Knight con la sua inseparabile compagna tecnologica.

L’ingresso all’evento sarà completamente gratuito, offrendo a tutti la possibilità di riscoprire il fascino del retrogaming senza alcun costo. Un’opportunità da non perdere per chi vuole tuffarsi in un’epoca in cui il divertimento era fatto di pixel, cartucce e partite fino a notte fonda.

Per chi desidera prendere parte attivamente alle sessioni di gioco, è possibile prenotare un tavolo contattando gli organizzatori su WhatsApp al 329 355 9718.

Il Retrò Games Day – Vol.1 non è solo un evento, ma una celebrazione della cultura videoludica che unisce passato e presente, generazioni di giocatori e appassionati di ogni età. Che tu sia un nostalgico degli anni ‘90 o un giovane curioso di scoprire le origini del gaming, questa è l’occasione perfetta per premere start e lasciarti trasportare nel magico mondo dei videogiochi classici!

Non perdere l’occasione di vivere un’esperienza fuori dal tempo: Maierà ti aspetta per un viaggio indimenticabile nella storia del videogioco!

Sydney Sweeney indossa i guantoni: il biopic su Christy Martin racconta la leggenda della boxe e la sua rinascita

È tempo di dimenticare la Sydney Sweeney di Euphoria o Tutti tranne te, la giovane attrice dallo sguardo seducente e l’aria misteriosa. Preparatevi invece ad assistere a una trasformazione radicale: sul ring, con i guantoni ben saldi, il volto segnato dalla fatica e dalla determinazione, Sweeney diventa Christy Martin, la pugile che ha cambiato per sempre la storia della boxe femminile. Un’impersonificazione potente, muscolare, e profondamente umana. Il film biografico – ancora senza titolo ufficiale – promette di essere molto più di un semplice racconto sportivo. È un ritratto intimo e doloroso di una donna che ha dovuto combattere, letteralmente e metaforicamente, per ogni centimetro della propria libertà e del proprio successo. Diretto da David Michôd (The King, War Machine) e scritto in collaborazione con Mirrah Foulkes, il progetto si annuncia come un’opera intensa e vibrante, capace di alternare i toni crudi del ring ai momenti più oscuri della vita privata della protagonista.

Una storia vera, più forte della finzione

Christy Martin – o meglio, The Coal Miner’s Daughter, come veniva chiamata – non è solo una leggenda della boxe. È un simbolo di resilienza. Con un record di 49 vittorie (di cui 31 per KO), Martin ha scalato la vetta del pugilato americano tra gli anni ’90 e i primi 2000, diventando la prima donna a firmare con Don King e la prima eletta nella Nevada Boxing Hall of Fame e, nel 2020, anche nella International Boxing Hall of Fame.Ma dietro il successo sul ring si nascondeva una realtà molto più tragica. Nel 2010, Martin fu vittima di un tentato omicidio da parte del marito e manager James V. Martin, interpretato nel film da Ben Foster (Hell or High Water). Dopo averle inferto diverse coltellate durante una lite domestica, l’uomo tentò di finirla con un colpo d’arma da fuoco. Martin sopravvisse miracolosamente e diventò, da quel giorno, anche una voce attiva contro la violenza domestica.

In questo breve video pubblicato da TMZ Sports, possiamo già dare uno sguardo alla performance fisica di Sydney Sweeney: intensa, credibile, sorprendente. Si allena, si muove con rapidità e potenza, fianco a fianco con la vera Christy Martin. Non è chiaro se le immagini siano tratte dal film o da una sessione di preparazione, ma l’effetto è lo stesso: Sweeney convince.

Una foto, anch’essa diffusa in anteprima, la mostra seduta su un divano, intenta a osservare una copertina di Sports Illustrated che la ritrae nei panni della campionessa. La scena dovrebbe essere ambientata nel 1996, momento clou nella carriera di Christy Martin, quando la boxe femminile stava finalmente ricevendo attenzione mediatica e rispetto.

Una regia che promette profondità

David Michôd ha già dimostrato in passato di saper trattare personaggi complessi e narrazioni stratificate. Con l’aiuto di una sceneggiatura co-firmata da Mirrah Foulkes, punta qui a raccontare tanto la gloria quanto il buio. E lo fa con un cast ricco di talento: oltre a Sweeney e Foster, troviamo Merritt Wever (Nurse Jackie, Scissione), Ethan Embry, Tony Cavalero (The Righteous Gemstones) e Jess Gabor.

Non è solo una storia di pugni e sudore. È una storia d’identità, di autodeterminazione, di coraggio femminile in un mondo profondamente maschilista. È un film che parla di sport, certo, ma soprattutto di sopravvivenza e rinascita.

Una produzione ambiziosa

Prodotto da Anonymous Content, Fifty-Fifty Films e Black Bear Pictures, il film è stato girato in North Carolina tra settembre e novembre 2024. Sydney Sweeney, sempre più presente anche dietro le quinte, figura anche tra i produttori insieme a Teddy Schwarzman, Justin Lothrop, Brent Stiefel e Kerry Kohansky-Roberts.

L’attrice è in un momento di grande ascesa, e dopo ruoli in Madame Web e progetti futuri come The Housemaid accanto ad Amanda Seyfried, questa potrebbe essere la performance che consacra definitivamente il suo talento nella Hollywood dei grandi.

Una pellicola attesa, una storia necessaria

In un momento in cui le biografie cinematografiche sembrano aver perso un po’ di mordente, questa su Christy Martin potrebbe riportare freschezza al genere, con un ritratto che non indulge nel sensazionalismo ma che restituisce tutta la complessità di una donna straordinaria. Non una santa, non un’icona idealizzata, ma un essere umano ferito, tenace, vibrante.

Sarà interessante vedere come Michôd saprà dosare i colpi narrativi. Ma se le premesse verranno mantenute, ci troveremo davanti a un’opera capace di far male e commuovere, di scuotere e ispirare. Perché alla fine, come ogni grande storia, anche questa ci parla della forza che serve per rialzarsi quando si è già a terra.

Il ritorno di Romy & Michele: il sequel cult degli anni ’90 sta per arrivare

Dopo anni di attese, voci e richieste da parte dei fan, il sequel di “Romy & Michele” è finalmente in fase di sviluppo. Il film originale, uscito nel lontano 1997, è diventato un vero e proprio cult, con protagoniste le irresistibili e un po’ svampite Romy White (Mira Sorvino) e Michele Weinberger (Lisa Kudrow). Le due amiche, entrambe alle prese con la loro vita da ventenni ormai adulte, si ritrovano per una rimpatriata del liceo, dove cercheranno di impressionare i loro ex compagni fingendo di aver costruito una carriera di successo. Nonostante il tono leggero e le situazioni surreali, il film ha conquistato il pubblico, incassando 29,2 milioni di dollari e cementando il legame tra le due protagoniste, che ora sono pronte a rivestire i loro ruoli per un sequel.

Come riportato da The Hollywood Reporter, le due attrici sono ormai in trattative finali per tornare insieme sul grande schermo, portando con sé la freschezza e l’umorismo che hanno reso il film originale così amato. Oltre a tornare nei panni delle loro indimenticabili protagoniste, Lisa Kudrow e Mira Sorvino saranno anche produttrici esecutive del progetto, un segno chiaro del loro impegno e della passione con cui si apprestano a far rivivere queste due figure emblematiche. La regia è stata affidata a Tim Federle, che vanta una solida esperienza con “High School Musical: The Musical: The Series” e “Better Nate Than Never”. La sua capacità di raccontare storie per adolescenti e giovani adulti sembra perfetta per un film che mira a raccogliere l’eredità di una commedia cult come questa.

Le riprese del sequel sono previste per l’estate del 2025, con una location a Los Angeles. Anche se i dettagli ufficiali sono ancora pochi, sembra ormai certo che la coppia di amiche tornerà a farci sorridere in un nuovo capitolo delle loro avventure. Sebbene non si sappiano ancora i dettagli della trama, Mira Sorvino ha anticipato che tutti i personaggi di rilievo del film originale potrebbero tornare, alimentando così le speranze dei fan. La sceneggiatura è stata scritta da Robin Schiff, già autrice del film originale e del prequel televisivo “Romy & Michele – Quasi ricche e famose”, che nel 2005 aveva portato sul piccolo schermo una versione giovanile delle due protagoniste, interpretate da Katherine Heigl e Alexandra Breckenridge.

A supportare il progetto, ritroviamo anche Laurence Mark e Barry Kemp, che avevano prodotto la pellicola del 1997. Nonostante la data ufficiale di uscita del sequel non sia ancora stata confermata, l’attesa è palpabile. I fan si chiedono quale nuova fase della vita le due amiche dovranno affrontare, soprattutto dopo oltre vent’anni dal loro debutto sul grande schermo. Riusciranno a mantenere quel mix di umorismo e dolce malinconia che le ha rese così speciali?

4 Kids Walk Into a Bank: la graphic novel cult diventa un heist movie nerd tra anni ’90 e colpi di scena

C’è un nuovo colpo all’orizzonte nel multiverso delle rapine cinematografiche, ma stavolta i ladri non indossano maschere da Salvador Dalí e non ascoltano piani su vinile da una voce suadente alla Tarantino. No, questa è tutta un’altra storia. “4 Kids Walk Into a Bank” non è solo un titolo strambo che sembra uscito da una barzelletta: è un’esplosiva miscela di umorismo nero, azione e adolescenza problematica, pronta a fare irruzione nei cinema (o nelle vostre piattaforme preferite) il 17 aprile 2026 sotto l’etichetta Orion Pictures, grazie ad Amazon MGM Studios. E fidatevi: non sarà una passeggiata in banca.

Una rapina anni ’90, ma con i piedi nei fumetti

Il film nasce da una graphic novel del 2017 che ha fatto impazzire i lettori indie: firmata da Matthew Rosenberg e Tyler Boss, pubblicata da Black Mask Studios, “4 Kids Walk Into a Bank” è uno di quei piccoli cult destinati a diventare grandi. Una storia piena di ritmo, sarcasmo e cuore, con protagonisti quattro ragazzini outsider che decidono di fermare una rapina… facendone una loro. Una specie di “Stranger Things” senza mostri, ma con criminali veri e un’ironia tagliente da fumetto underground.

A trasformare questa perla in cinema è Frankie Shaw, attrice, sceneggiatrice e ora anche regista al suo debutto dietro la macchina da presa. Ma non pensate a un esordio timido: Frankie ha già riscritto lo script partendo da un adattamento di Matt Robinson, e ha messo insieme un cast che fa brillare gli occhi a ogni geek appassionato di cinema.

Un cast nerd-approved tra leggende e giovani eroi

La vera sorpresa è il cast. A guidare il gruppo troviamo un Liam Neeson che abbandona i toni da padre vendicativo di “Taken” per calarsi nei panni di Danny, un ex rapinatore con un passato ingombrante e una nipote molto sveglia. Proprio lei, Paige, interpretata dalla talentuosa Talia Ryder (“Never Rarely Sometimes Always”), è la scintilla che innesca tutto: quando scopre che il nonno sta per essere coinvolto in un’ultima rapina, decide che l’unico modo per salvarlo… è batterlo sul tempo. Con l’aiuto dei suoi tre inseparabili amici – interpretati da Whitney Peak (“Gossip Girl”), Jack Dylan Grazer (“IT”) e Berger, e dal giovane Deacon Phillippe (figlio di Reese Witherspoon e Ryan Phillippe, qui al debutto) – organizza un colpo in piena regola, con tanto di zaini, walkie-talkie, e quella folle convinzione tipica dei film cult anni ’90.

Completano il cast Teresa Palmer, Jim Sturgess, Spike Fearn, Caylee Cowan, Sam Strike e George Basil, in un mix intergenerazionale che promette scintille e battute pronte a diventare virali.

Atmosfere retrò, ma con un’anima punk

Girato a Limerick, in Irlanda, con l’obiettivo di ricreare una città americana degli anni ’90, il film si preannuncia come un viaggio nostalgico nel decennio delle VHS, delle sale giochi e delle biciclette BMX. Ma non aspettatevi solo estetica vintage: la regia di Shaw, accompagnata dalla fotografia del leggendario Robert Richardson (sì, quello di “Kill Bill” e “The Aviator”), promette un’estetica cruda, vibrante, capace di bilanciare ironia e tensione, adolescenza e noir.

L’idea è quella di creare un universo narrativo che parli sia ai fan della graphic novel originale, sia a chi cerca nel cinema un’esperienza visiva fresca, audace e fuori dagli schemi.

Produzione con superpoteri

A mettere insieme questo ambizioso progetto ci sono alcuni nomi da heavy metal della produzione: Erik Feig con Picturestart, Seth Rogen ed Evan Goldberg con la loro Point Grey Pictures e, ovviamente, Black Mask Studios. Una squadra di creativi nerd fino al midollo, pronti a trasformare questa storia in un fenomeno pop che potrebbe diventare una nuova saga di culto per le prossime generazioni.

FilmNation si è occupata delle vendite internazionali, presentando il progetto al Toronto International Film Festival, dove ha suscitato grande interesse tra gli addetti ai lavori. L’hype si è diffuso rapidamente, e il progetto è stato subito acquisito da Amazon MGM Studios per la distribuzione domestica. Un colpo in banca riuscito ancora prima dell’uscita.

Una graphic novel che lascia il segno

Per chi non ha mai letto “4 Kids Walk Into a Bank”, sappiate che non è solo una storia di rapine e ragazzini ribelli. È una riflessione sul potere dell’immaginazione, sull’amicizia come resistenza contro un mondo adulto corrotto, sul passaggio difficile dall’infanzia all’età adulta. È un racconto punk, tenero e cinico allo stesso tempo, dove i protagonisti sono vulnerabili e coraggiosi, ingenui e disillusi, proprio come noi nerd cresciuti con i Goonies, ma affacciati al mondo con le ombre di “Breaking Bad”.

Il film si preannuncia come un’opera capace di portare tutto questo su schermo, aggiungendo livelli nuovi alla narrazione e – forse – conquistando anche chi non ha mai sentito parlare del fumetto.


Preparatevi, perché il 17 aprile 2026 entreremo tutti in banca. Ma non come clienti. Come complici.

Call of Duty: Black Ops 6. Riporta in Vita l’Iconica Esperienza Black Ops

Call of Duty: Black Ops 6, sviluppato da Treyarch e Raven, rappresenta un capitolo epico della saga, portando i giocatori a vivere una storia di spionaggio e tradimenti in un periodo storico cruciale: i primi anni ’90, la fine della Guerra Fredda e l’ascesa degli Stati Uniti come superpotenza. Non si tratta solo di un tuffo nel passato, ma di un’esperienza mozzafiato che unisce una campagna intensa, un multiplayer frenetico e il ritorno della modalità Zombi, tanto amata dai fan.

La trama di Black Ops 6 è avvincente e ricca di tensione. Mentre il mondo è concentrato sulla guerra del Golfo, una forza misteriosa si infiltra nei vertici della CIA, etichettando come traditori chiunque osi opporsi. Frank Woods, protagonista della saga, e la sua squadra di veterani della Black Ops si trovano traditi e abbandonati, braccati da un governo che li ha celebrati come eroi solo fino a poco prima. Senza risorse né alleati, sono costretti a rifugiarsi nel sottobosco criminale per combattere i veri traditori e tentare di riabilitare il loro nome, sfidando i propri limiti morali. La campagna non ha paura di spingere il giocatore a confrontarsi con scelte difficili, facendo della moralità un tema centrale dell’avventura.

Dal punto di vista del gameplay, Black Ops 6 offre una serie di momenti adrenalinici, con azioni mozzafiato e missioni di spionaggio che lasciano il fiato sospeso. I dettagli cinematografici degli ambienti e la fluidità dei movimenti grazie all’introduzione del sistema Onnimovimento rendono il gioco ancora più coinvolgente. Ogni manovra e sparatoria sembra provenire da un film d’azione, con la sensazione di un’azione ininterrotta e realistica che arricchisce l’esperienza complessiva.

https://youtu.be/oyZY_BiTmd8

Non può mancare la modalità Zombi, che torna con nuove mappe e storie. In questa nuova iterazione, i giocatori affrontano orde di non morti in due mappe completamente nuove, esplorando l’origine di un virus che trasforma gli esseri umani in mostri. La modalità, pur mantenendo la sua tradizione, introduce alcune novità, tra cui la possibilità di giocare in terza persona, anche se l’innovazione non ha convinto del tutto i fan. Tuttavia, rimane una curiosa aggiunta che vale la pena provare, soprattutto se si gioca in compagnia.

Il multiplayer di Black Ops 6 è una vera forza, con 16 mappe al lancio e numerose modalità che spingono i giocatori a mettere alla prova le proprie abilità in vari scenari. La modalità Moshpit, che mescola le partite e permette di affrontare diverse modalità in una sola sessione, aggiunge varietà e novità all’esperienza. Inoltre, l’aggiunta della modalità “Obiettivo ad alto valore”, che premia l’eliminazione di un giocatore chiave, crea una nuova dimensione strategica nelle partite. La personalizzazione delle armi, con nuove opzioni di miglioramento come ottiche e caricatori, permette ai giocatori di adattare il proprio stile di gioco, un aspetto sempre apprezzato dai fan della serie.

Un tocco di italianità arriva grazie alla collaborazione con Cristina Scabbia, la storica voce dei Lacuna Coil. Cristina ha contribuito alla colonna sonora del gioco con il brano “Destroy Something Beautiful”, scritto appositamente per la Modalità Zombie da Kevin Sherwood. La canzone è diventata un easter egg nel gioco, che può essere ascoltata raccogliendo tre cuffie nella mappa Liberty Falls. Non è la prima volta che Cristina si unisce al mondo dei videogiochi, avendo già partecipato a progetti come Guitar Hero e Diablo 2 Resurrected.

Call of Duty: Black Ops 6 è un gioco che non solo soddisfa le aspettative, ma le supera, con un mix perfetto di azione intensa, una trama coinvolgente e innovazioni nel gameplay. La campagna singolo giocatore è un viaggio nelle ombre di un mondo corrotto e traditore, mentre la modalità multiplayer continua a consolidare il titolo come uno dei migliori sparatutto online. Anche se la modalità Zombi presenta qualche incertezza, con l’aggiunta della modalità in terza persona, Black Ops 6 resta una scelta solida e appassionante, un must per ogni fan della saga.

Leon: il thriller poetico e controverso di Luc Besson compie trent’anni

Il 18 novembre 1994 arriva nelle sale Léon, scritto e diretto da Luc Besson, e da quel momento il cinema non sarà più lo stesso. Non sto esagerando: pochi film hanno saputo lasciare una cicatrice così profonda nel cuore della cultura pop come questo noir metropolitano, cupo e poetico, che mescola violenza brutale e tenerezza quasi infantile, mettendo in scena un rapporto controverso che ancora oggi divide spettatori e critici.

A New York, Léon Montana (Jean Reno) è un sicario italoamericano che vive in un appartamento spoglio, spartano come un eremo zen, popolato solo dalla sua pianta in vaso e da un paio di occhiali rotondi neri, che sono diventati il suo marchio di fabbrica. Un killer perfetto: freddo, meticoloso, invisibile. Eppure, dietro a quell’apparenza da macchina per uccidere, cova un’umanità fragile, che troverà uno sfogo inatteso nell’incontro con Mathilda Lando, una dodicenne interpretata da una folgorante Natalie Portman al suo debutto cinematografico.

Mathilda è una bambina cresciuta troppo in fretta, con un padre violento e una famiglia disastrata. Quando l’agente della DEA Norman Stansfield (un Gary Oldman sopra le righe, quasi istrionico, psicotico e magnetico) massacra la sua famiglia in un’esplosione di droga, corruzione e sangue, Mathilda trova rifugio nell’appartamento accanto: quello di Léon. Da lì nasce un legame difficile da definire, che fluttua tra rapporto padre-figlia, complicità di sopravvivenza e una tensione ambigua che, all’epoca, fece molto discutere — e ancora oggi non smette di generare dibattiti.

Luc Besson, del resto, non ha mai nascosto di aver preso ispirazione dalla sua stessa vita: conosceva Maïwenn, la sua futura moglie, quando lei aveva solo quindici anni. Questo aspetto, al di là della qualità artistica del film, ha gettato un’ombra inquietante su Léon, perché l’elemento più controverso non è la violenza, ma il legame tra i due protagonisti. Un legame che sullo schermo vive di sguardi, di piccoli gesti, di un’intimità sottile eppure così densa da risultare destabilizzante.

Jean Reno, scelto appositamente da Besson dopo Nikita e Il grande blu, dà vita a un Léon malinconico e dolce, un uomo che ha trovato rifugio in un’esistenza spietata solo per anestetizzare il dolore. Natalie Portman, invece, porta sullo schermo una Mathilda che è al tempo stesso bambina e adulta, vulnerabile e provocatoria, una performance che le valse una nomination ai Golden Globe e che lanciò la sua carriera verso l’Olimpo di Hollywood, dove arriverà all’Oscar con Il cigno nero. E poi c’è lui, Gary Oldman, che con il suo Stansfield ha creato uno dei cattivi più memorabili del cinema: drogato, imprevedibile, crudele, capace di uccidere con sadismo e di fare il verso alla musica classica mentre massacra un’intera famiglia. Chiunque abbia visto Léon ricorda il suo “EVERYONE!” urlato con ferocia.

Il film fu un successo enorme, applaudito sia dal pubblico che dalla critica. Ai César — l’equivalente francese degli Oscar — vinse per miglior regia, miglior montaggio e miglior musica, consolidando Besson come uno degli autori europei più talentuosi degli anni ’90. Ma soprattutto, Léon è entrato nell’immaginario collettivo, diventando un cult. Chi non ha mai visto cosplay di Mathilda alle fiere? Quel caschetto corto, il choker, la sigaretta tra le labbra, la pistola nascosta sotto il bomber: un’immagine iconica di ribellione adolescenziale. E Léon stesso è ormai un archetipo del “killer dal cuore tenero”, una figura ripresa, imitata, citata in film, serie tv, manga, anime, videogiochi.

La sua influenza si è estesa alla musica — basti pensare a quante band alternative hanno usato spezzoni audio del film nei loro brani — e persino alla letteratura noir. Persino nel mondo videoludico troviamo omaggi diretti e indiretti: dalla malinconia sporca di Max Payne alla freddezza letale degli assassini di Hitman, fino ai personaggi femminili ribelli e armati di titoli come The Last of Us, dove la giovane Ellie sembra un’eco lontana di Mathilda.

A trent’anni dalla sua uscita, Léon resta un film scomodo, affascinante e insostituibile. Non è invecchiato, è semplicemente diventato un pezzo di storia. Rivederlo oggi significa non solo fare un tuffo nostalgico negli anni ’90, ma anche riflettere su come siano cambiati i nostri occhi, il nostro modo di percepire le storie e i rapporti al cinema. È un film che non cerca facili redenzioni, non moralizza, non spiega: mette in scena, lascia a noi il compito di interpretare.

Se non l’avete visto, recuperatelo subito. Se l’avete visto, ditemi: quale scena vi è rimasta tatuata nella memoria? Vi sentite più vicini a Léon, a Mathilda o al folle Stansfield? E soprattutto: riuscite ancora ad ascoltare Beethoven senza che vi venga un brivido lungo la schiena? Scrivetemi nei commenti o parliamone sui social. Condividete le vostre impressioni, fatevi sentire: perché Léon non è solo un film, è un pezzo del nostro immaginario nerd, ed è bello continuare a celebrarlo insieme.

Nikoderiko: The Magical World – Un tuffo nel passato dei platform

In un’epoca dominata da open world mastodontici e sparatutto frenetici, arriva un titolo che ci fa tornare con la mente agli splendori dei platform 3D degli anni ’90. Nikoderiko: The Magical World, sviluppato dal team indie Vea Games, è un piccolo gioiello che riporta in vita l’avventura colorata e divertente che tanti di noi ricordano con affetto. Un tuffo nella nostalgia che non possiamo non apprezzare.

Un’Isola Felice per Nostalgici

Nikoderiko è un concentrato di pura nostalgia. Le ambientazioni esotiche, i personaggi carismatici, i collezionabili nascosti e una colonna sonora che ricorda quelle di giochi leggendari del passato, tutto concorre a creare un’atmosfera che ci riporta direttamente ai bei vecchi tempi. Il gioco ci mette nei panni di Niko e Luna, due manguste intrappolate in un mondo magico e pieno di insidie. Ogni angolo di questo universo colorato è un invito all’esplorazione, con una sensazione di familiarità che avvolge il giocatore in ogni momento.

Gameplay Solido e Ispirato

Il gameplay di Nikoderiko si distingue per la sua solidità. Le meccaniche sono facili da comprendere, ma richiedono una certa abilità per essere padroneggiate al meglio. I livelli sono progettati con cura, offrendo una varietà di sfide: piattaforme mobili, trappole da evitare e nemici da affrontare. La possibilità di giocare in modalità cooperativa aggiunge una marcia in più, trasformando ogni sessione di gioco in un’esperienza ancora più coinvolgente e divertente, specialmente se si gioca in compagnia.

Un Omaggio ai Grandi Classici

Se c’è una cosa che Nikoderiko sa fare bene, è rendere omaggio ai grandi platform 3D degli anni ’90. Ispirato da titoli come Donkey Kong Country e Crash Bandicoot, il gioco riprende gli stessi elementi che hanno fatto la storia del genere: ambientazioni vivaci, personaggi iconici e meccaniche di gioco che, pur restando fedeli alla tradizione, sanno comunque regalare qualche sorpresa. Sebbene il gioco si ispiri a queste opere leggendarie, non si limita a copiare; anzi, riesce a metterci del suo, con un tocco di originalità che lo rende unico.

Punti di Forza

L’atmosfera di Nikoderiko è una delle sue caratteristiche più affascinanti. Le ambientazioni colorate, la musica coinvolgente e i personaggi pieni di personalità riescono a creare un’esperienza magica e indimenticabile. Anche il gameplay, pur essendo semplice e diretto, sa come intrattenere, mescolando azione e esplorazione con maestria. La modalità cooperativa, inoltre, arricchisce ulteriormente l’esperienza, permettendo di godere del gioco insieme a un amico. E la colonna sonora, composta dal leggendario David Wise, storico compositore della serie Donkey Kong Country, è un vero capolavoro che accompagna l’avventura con melodie che rievocano immediatamente il passato.

Punti di Debolezza

Nonostante le sue indiscutibili qualità, Nikoderiko non è privo di qualche difetto. Per i giocatori più esperti, il livello di difficoltà potrebbe risultare troppo semplice, e la durata dell’avventura è piuttosto breve. Inoltre, purtroppo, non apporta innovazioni radicali al genere, restando ben ancorato a un formato classico che potrebbe non soddisfare chi cerca esperienze più audaci o originali.

Nikoderiko: The Magical World è un vero e proprio tributo ai platform 3D classici, una perla di nostalgia che farà felici tutti gli appassionati del genere. Se siete alla ricerca di un’avventura che mescoli divertimento e ricordi del passato, questo gioco è assolutamente da non perdere. Tra colori vivaci, musica coinvolgente e gameplay solido, Nikoderiko riesce a riportarci indietro nel tempo, regalandoci un’esperienza che ci fa sentire ancora bambini, pronti a saltare da una piattaforma all’altra, alla ricerca del prossimo collezionabile.

Pulp Fiction compie 30 anni: un cult senza tempo che continua a far parlare di sé

Il 28 ottobre 1994, il mondo del cinema fu testimone di un evento che cambiò per sempre il panorama della settima arte: Pulp Fiction, il secondo lungometraggio di Quentin Tarantino, trionfava al Festival di Cannes, conquistando la Palma d’Oro. Questo successo non fu solo una sorpresa, ma un vero e proprio colpo al cuore della concorrenza, che comprendeva registi già affermati come Krzysztof Kieślowski e Robert Altman. Pulp Fiction non era semplicemente un film; era una rivoluzione. La sua trama, che intrecciava le storie di personaggi coinvolti nella criminalità di Los Angeles, si distingueva per una struttura narrativa non lineare e per dialoghi che oscillavano tra il cinismo e l’irriverenza. Il tutto condito da violenza, humor nero e una profonda miscela di citazioni alla cultura popolare e al cinema di genere.

Pulp Fiction è un’opera che si rifà alla tradizione pulp nel suo senso più ampio. Ispirato dalle riviste di genere degli anni Trenta, quelle pubblicazioni di bassa qualità che raccontavano storie di crimine, mistero e azione, Tarantino non si limitava a riprendere i cliché del genere. Piuttosto, li mescolava, li sovvertiva e li reinventava, creando un mondo unico dove ogni dettaglio aveva una sua funzione e significato. Un universo originale, che affascinava tanto il pubblico quanto la critica.

L’impatto di Pulp Fiction sul cinema è stato straordinario. Con un budget di soli 8 milioni di dollari, il film è riuscito a incassare oltre 200 milioni, conquistando sette nomination agli Oscar, tra cui quella per la miglior sceneggiatura originale, che vinse. Ma l’influenza di Pulp Fiction non si è limitata ai numeri. Ha rilanciato carriere e dato nuova vita a attori come John Travolta, Samuel L. Jackson, Uma Thurman e Bruce Willis, consolidando Tarantino come uno dei registi più originali e influenti della sua generazione. La sua pellicola è diventata un cult, ispirando parodie, imitazioni e citazioni che si sono diffuse in film, serie TV, libri, fumetti, videogiochi e persino musica. La misteriosa valigetta, la danza tra Uma Thurman e John Travolta al Jack Rabbit Slim’s, il celebre monologo di Jules su un versetto biblico, e il burger di Big Kahuna sono entrati di diritto nella cultura popolare, diventando icone di un’era cinematografica.

Oggi, a trent’anni di distanza, Pulp Fiction continua a esercitare un fascino indiscusso. Tarantino ha saputo mescolare generi diversi—dal noir al western, dal gangster movie alla commedia nera—dando vita a una formula esplosiva che ha lasciato un segno indelebile. I personaggi, con le loro complessità, sono diventati leggendari. Chi non ricorda il carismatico e inquietante Jules Winnfield, con il suo memorabile monologo biblico? E cosa dire di Vincent Vega, il cui stile inconfondibile e la dipendenza dall’eroina hanno fatto sognare e riflettere generazioni di spettatori?

La danza di Uma Thurman nei panni di Mia Wallace è uno degli esempi più emblematici di come Tarantino abbia saputo regale momenti indimenticabili, trasformando una semplice scena in una vera e propria celebrazione della sensualità sullo schermo. Ma oltre alle performance straordinarie degli attori, Pulp Fiction ha ridefinito il linguaggio cinematografico. La sua struttura narrativa non lineare, i dialoghi serrati e una colonna sonora perfetta hanno reso il film un punto di riferimento per il cinema indipendente, ispirando innumerevoli registi.

Eppure, ciò che rende Pulp Fiction così speciale, così amato, è la sua capacità di parlare a tutti, di attraversare i decenni e le generazioni. Temi universali come la morte, la redenzione, la violenza e l’amicizia risuonano in modo profondo in ogni spettatore, creando un legame che va oltre il tempo. La visione di Tarantino, con le sue inquadrature mozzafiato e un montaggio dinamico, ha dato vita a uno stile che è diventato inconfondibile, un marchio di fabbrica che lo ha reso unico. E poi ci sono i dialoghi: battute e monologhi che sono entrati nel linguaggio comune, citati e parodiati ancora oggi.

In occasione del trentesimo anniversario, Pulp Fiction viene celebrato con ristampe speciali in Blu-ray, eventi cinematografici, mostre e convegni. Una celebrazione non solo del film, ma di un’epoca, di un cambiamento che ha segnato un punto di non ritorno nel cinema moderno. Pulp Fiction è molto più di un film: è un’opera d’arte, un manifesto culturale, un’esperienza che rimane impressa nella memoria. È uno di quei film che, come dice il suo regista, è fatto di “momenti” che non smettono mai di affascinare. E a distanza di tre decenni, rimane un faro luminoso per gli amanti del cinema, una pellicola che non smette mai di stupire, divertire e provocare, una testimonianza della forza e della potenza della settima arte.