Il termine “Brain Rot” è emerso con forza nel lessico contemporaneo, designando un presunto declino cognitivo attribuibile all’uso pervasivo dei social media e alla fruizione di contenuti digitali di scarsa qualità. Nel 2024, l’Oxford University Press lo ha persino eletto “termine dell’anno”, a testimonianza della sua risonanza culturale. Tuttavia, un’analisi approfondita delle evidenze scientifiche rivela una realtà ben diversa: il deterioramento cerebrale è un fenomeno legato a complessi processi biologici post-mortem e non è, come suggerito dal folklore digitale, una conseguenza diretta dell’interazione con piattaforme come TikTok.
Sebbene l’esposizione prolungata a stimoli digitali possa indurre sintomi quali mal di testa, affaticamento oculare e la persistenza di melodie orecchiabili, il cervello umano non subisce un processo di “putrefazione” o decadimento in vita. Come sottolineato da Andy McKenzie, neuroscienziato presso l’organizzazione no-profit Apex Neuroscience, il cervello non si decompone letteralmente fino alla morte. La scienza che sottende il destino del cervello post-mortem è, infatti, tutt’altro che banale.
La Decomposizione Cerebrale: Un Fenomeno Biologico
Contrariamente all’accezione popolare del “Brain Rot”, il deterioramento del tessuto cerebrale è principalmente causato da processi biologici intrinseci e dall’azione di organismi decompositori. Dopo la morte, il cuore cessa di battere e il flusso sanguigno si interrompe, privando le cellule cerebrali dell’ossigeno e dell’energia necessari alla loro sopravvivenza. Questo innesca l’autolisi, un processo cellulare di autodigestione in cui gli enzimi degradano le proteine e le strutture cellulari.
Alexandra Morton-Hayward, antropologa forense dell’Università di Oxford, evidenzia la straordinaria attività metabolica del cervello in vita: pur rappresentando solo il 2% del peso corporeo, consuma il 20% dell’energia totale. Questa elevata richiesta energetica lo rende particolarmente vulnerabile alla degradazione rapida post-mortem. Entro poche ore o giorni, il cervello può perdere la sua forma caratteristica, trasformandosi da una struttura plicata a una sostanza più liquida e gelatinosa. In genere, come spiega la Morton-Hayward, la liquefazione del cervello avviene entro i primi tre giorni dal decesso.
A contribuire ulteriormente alla decomposizione sono i detritivori, ovvero batteri e altri microrganismi che si nutrono di tessuti morti. Charlotte King, archeologa forense dell’Università di Otago, descrive il cervello come una “sostanza organica, morbida e spugnosa che i batteri amano mangiare”. Il processo completo di decomposizione del corpo, dalla fase di cadavere a quella scheletrica, può variare da giorni a anni, influenzato da numerosi fattori come farmaci assunti in vita, clima, e pratiche funerarie. Ambienti caldi e umidi, come quelli della Florida, accelerano notevolmente la decomposizione, mentre temperature più basse, analoghe a quelle di un frigorifero o dell’Alaska, rallentano l’attività batterica ed enzimatica, favorendo la conservazione.
Cervelli Anomali: Quando la Putrefazione Non Avviene
Nonostante la rapidità della decomposizione cerebrale, sono sempre più numerosi i ritrovamenti di cervelli sorprendentemente conservati per decenni, secoli o addirittura millenni. Questa anomalia sfida la convinzione scientifica radicata che il cervello sia il primo organo a decomporsi nel corpo umano. Brittany Moller, ricercatrice della James Cook University, sottolinea come questa assunzione, a lungo accettata, stia ora rivelando le sue lacune.
Nel 2024, Morton-Hayward e il suo team hanno documentato oltre 4.000 campioni di cervello conservati provenienti da siti archeologici di tutto il mondo, con una storia che abbraccia 12.000 anni. Questi reperti, sebbene spesso rimpiccioliti e di colore arancione a causa dei residui di ferro, mantengono chiaramente le caratteristiche di cervelli umani. La loro conservazione è stata possibile in ambienti estremamente diversi, da tundre gelide a torbiere, note per la loro capacità di preservare i tessuti molli. Sorprendentemente, alcuni cervelli si sono mantenuti intatti anche in ambienti umidi e paludosi, condizioni che convenzionalmente si ritengono sfavorevoli alla conservazione. Ciò suggerisce meccanismi di conservazione inaspettati in contesti anossici e ricchi d’acqua, un’area che richiede ulteriori indagini scientifiche.
Le Rivelazioni dei Cervelli Conservati
Lo studio dei cervelli conservati offre preziose intuizioni sulla vita e sulla salute degli individui a cui appartenevano. Ad esempio, la scoperta di batteri della sifilide in un campione proveniente da un cimitero neozelandese del XIX secolo ha fornito indizi su malattie prevalenti in quell’epoca. Tuttavia, la comprensione esatta delle circostanze che permettono questa conservazione a lungo termine rimane una sfida.
Morton-Hayward auspica che la ricerca sui cervelli conservati possa un giorno offrire una prospettiva inedita sulla salute mentale e le malattie psichiatriche nel passato, condizioni che, a differenza delle patologie ossee, non lasciano tracce evidenti nei reperti scheletrici. Sebbene non si possa determinare quante ore una persona abbia trascorso su TikTok dal suo cervello conservato, la speranza è che future ricerche possano rivelare marcatori biologici legati a condizioni come la depressione o la schizofrenia.
Parallelamente, l’obiettivo è sensibilizzare gli archeologi sulla possibilità di rinvenire e preservare questi reperti. In passato, strutture cerebrali conservate potrebbero essere state scambiate per altro o, peggio, distrutte accidentalmente. Riconoscere l’importanza di questi ritrovamenti è fondamentale per ampliare la nostra conoscenza non solo della neuroscienza ma anche della storia e delle esperienze umane.
Hai mai riflettuto su come la scienza possa demistificare concetti diffusi nella cultura popolare, come il “Brain Rot”?