La macchina del tempo di Herbert George Wells

“La macchina del tempo”, uscito nel 1895, è uno spettacolare romanzo di Herbert George Wells noto come uno dei padri della fantascienza moderna. Una storia sci-fi, critica sociale, romanzo distopico: temi che sono assai attuali in un periodo storico dominato dai “like” piuttosto che dalla socialità tangibile volta alla crescita comune.

Il capolavoro di Wells è l’opera di un grande visionario narrata in prima persona come fosse il resoconto di un ospite di una “cena” con un viaggiatore del tempo. La trama del libro ruota attorno alle vicende di un geniale inventore senza nome, creatore di una macchina capace di spostarsi nel passato o nel futuro. Dopo anni di lavoro, riesce a completare la sua invenzione e decide di presentarla ad un ristretto gruppo di persone, venendo invece ritenuto un ciarlatano. Pochi giorni dopo la deludente presentazione, il viaggiatore torna a Londra per una cena con degli amici con un aspetto strano, i capelli sporchissimi e l’abito indecente.

Durante il pasto, sede appunto della narrazione “in prima persona”, il Viaggiatore dichiara agli astanti che è riuscito a viaggiare nel futuro fino all’anno 802701. Vi trova un mondo diviso in due razze umane: gli Eloj, creature delicate e pacifiche che conducono una vita di svaghi, e i Morlock, esseri pallidi e ripugnanti che vivono nei sotterrane. Lui stesso viene coinvolto in una sanguinosa lotta per la sopravvivenza, durante la quale stringe amicizia con Weena, una Eloj di cui si innamora. Grazie alla sua determinazione e alla sua intelligenza, riesce a ritrovare la macchina del tempo, che gli era stata sottratta dai Morlock nel loro mondo sotterraneo. Dopo angoscianti e tragiche avventure, riuscirà ad andare ancora piú lontano nel tempo, in una Terra senza piú tracce di uomini, abitata soltanto da crostacei con «occhi maligni» e «bocche bramose di cibo».

La storia è fantastica e coinvolgente grazie a descrizioni mai scontate e mai eccessive, che catturano l’attenzione anche del lettore contemporaneo. La macchina del tempo è sostanzialmente l’urlo di denuncia di Wells verso i rischi del degrado sociale e della divisione di classe, un invito alla riflessione e all’azione per evitare un futuro simile. Il Viaggiatore di Wells incontra infatti una società in cui la natura umana è stata ridotta a una vita oziosa e vuota, con la cultura e l’istruzione dimenticate, e il tempo libero dedicato solo al piacere e al riposo.

Considerato un capolavoro della letteratura fantascientifica, “La macchina del tempo” di Herbert George Wells rappresenta ancora oggi una lettura imprescindibile per coloro che credono nell’importanza della crescita personale e sociale.

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il capolavoro musicale dei Beatles. La storia personale dell’album che ha rivoluzionato il mio modo di pensare la musica.

Come a scuola si incomincia dall’asilo prima di approdare all’Università, così ho fatto anch’io a livello musicale. Un po’ me ne vergogno (ma poi, perché?) quando ricordo che la prima musicassetta che ho ascoltato e amato (manco fosse stata un primo amore) quando ero bambino era di Raoul Casadei e la sua Mazurka di periferia faceva capolino nelle mie orecchie durante le spensierate giornate di piccolo e tenero cucciolo di famiglia. Poi, arrivarono Antonello Venditti (ancora oggi mi fa impazzire “Penna sfera”), Baglioni (checce volete fa…), i Pink Floyd (mai amati) e i Beatles.

Inutile dire che quando i Fab Four si sono presentati alla porta delle mie orecchie poco aduse ai suoni incomprensibili e psichedelici, come quelli di Animals, decimo album dei Pink Floyd, pubblicato il 21 gennaio 1977, lo hanno fatto in punta di piedi, aspettando che io crescessi prima di propormi quei brani che allora sentivo di sottofondo dappertutto senza sapere che erano “cosa” loro.

Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band

Il motivetto che mi affascinò in quegli anni era, col senno di poi, piuttosto bruttino e lo cantava il meno dotato del gruppo. S’intitolava “I wanna be your man” ed era un modesto rock’n roll nella quale non si riusciva proprio a nascondere la voce nasale di Ringo Starr. Tuttavia, allora mi piaceva e con i Beatles, quei Beatles, io ho trascorso i primi migliori anni della mia vita.

Poi, si cresce, si cambia abitazione, ci si sposta di località. L’amore per la musica lascia il posto all’arrivo della primavera (non intesa come stagione dell’anno ma di quella della vita) e la ricerca di una compagna si permeava di sottofondi musicali diversi. I Beatles, però, non se ne erano andati. Avevano semplicemente deciso di farmi maturare a sufficienza prima che, durante quelle che una volta venivano chiamate “prove tecniche di trasmissione” di una radio che avrebbe aperto i battenti a pieno regime soltanto qualche mese dopo, le nostre strade s’incrociassero un’altra volta. La radio, in sequenza, trasmetteva una scaletta, oggi si chiamerebbe “playlist”, in cui c’erano canzoni bellissime che non avevo mai ascoltato e che mi ricordavano terribilmente le voci e le atmosfere che conoscevo bene. Tempo prima ero riuscito a procurarmi una rivista, non rammento nemmeno quale, che trattava di gossip. Per me era diventata preziosa in quanto al suo interno era contenuto il “fotoromanzo dei Beatles”. Ebbene, grazie a quella che a quei tempi era la wikipedia dei bambini (la carta stampata) provai a dare dei titoli a quei pezzi e giurai che due di essi rispondevano a “While my guitar gently weeps” e “I am the walrus”.

Da allora, scoprì che il mio gruppo preferito aveva scritto pagine sonore memorabili tanto che, senza alcun ritegno, ero pronto a dire: “I wanna be your man”… scansati. È arrivato di meglio. Da adolescente con i primi stipendi potei coronare il mio sogno e, complice un negozio in Via Vigone a Pinerolo, cominciai ad acquistare tutti gli album dei miei eroi insieme e nelle loro carriere soliste. Ovviamente, questa decisione non comportò nessuna delusione. Ogni LP (allora si chiamavano così) era più bello del precedente.

Uno spettacolo nello spettacolo.

Tutto continuò fino a che incocciai in una loro produzione del 1967. I Fab Four hanno realizzato quell’album quando avevo due anni. Pensa un po’… Ricordo benissimo quei momenti. Avevo appena acquistato il disco ed ero tornato a casa. Prima di ascoltarlo mi colpì la copertina. Piena zeppa di colori. Nemmeno una confezione di matite colorate ne ha così tanti e quei bei disegni, la costruzione del puzzle di immagini che la compone era qualcosa che non avevo mai visto. Ci sono personaggi incredibili che riconosco: Tony Curtis, Oliver Hardy, Marlon Brando, Marilyn Monroe, Fred Astaire, Marlene Dietrich, Bob Dylan, Edgar Allan Poe, William Burroughs, H. G. Wells, Albert Einstein, Carl Gustav Jung, Karl Marx. La leggenda narra che ci fosse anche l’immagine di Gandhi ma la EMI la tolse per timore di turbare i rapporti con l’India. In verità, temeva che un po’ tutti potessero far causa alla Casa Discografica ma i Fab Four promisero che avrebbero pagato gli eventuali danni richiesti.

Naturalmente, mai nessuno fece causa. Anzi…

Prima di parlare della magistrale Opera musicale contenuta in quei solchi debbo raccontare un’altra leggenda, tutt’altro che metropolitana. Si narra che nonostante il battage pubblicitario della Decca Records per imporre all’opinione pubblica un dualismo tra i Beatles e i Rolling Stones tra i due gruppi non vi fu mai alcuna rivalità tanto che ancora oggi si possono visionare dei filmati fatti durante le riprese dal vivo di “All you need is love” di poco tempo dopo. Mick Jagger si nota tranquillamente seduto insieme a tutti gli ospiti in studio durante la mondovisione. Chi riteneva invece i Fab Four dei nemici da sconfiggere, qualcuno da seppellire a forza di note, era il leader degli americani Beach Boys, che si chiuse per lungo tempo in studio per creare l’album della vita da consegnare ai posteri e col quale intendeva spodestare dallo scranno più alto della popolarità musicale Lennon & McCartney. Quando lo terminò convocò una conferenza stampa. Peccato che durante la stessa, un giornalista gli chiese se avesse ascoltato un disco appena arrivato d’importazione. Si intitolava Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Inutile dire che dopo l’ascolto di questo capolavoro, il nostro trascorse un lungo periodo in clinica per riaversi dal duro colpo appena subito dalla sua ambizione.

Il giornalista aveva ragione. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è un album quasi perfetto. L’unica sua imperfezione è talmente incastonata bene da sembrare quasi un suo punto di forza, un neo sul viso che ne aumenta l’appeal.

Va bene, mettiamolo sul piatto.

Lato A

  1. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – 2:00 (Lennon-McCartney)
  2. With a Little Help from My Friends – 2:43 (Lennon-McCartney)
  3. Lucy in the Sky with Diamonds – 3:26 (Lennon-McCartney)
  4. Getting Better – 2:47 (Lennon-McCartney)
  5. Fixing a Hole – 2:35 (Lennon-McCartney)
  6. She’s Leaving Home – 3:33 (Lennon-McCartney)
  7. Being for the Benefit of Mr. Kite! – 2:35 (Lennon-McCartney)

Durata totale: 19:39

Lato B

  1. Within You Without You – 5:05 (Harrison)
  2. When I’m Sixty-Four – 2:37 (Lennon-McCartney)
  3. Lovely Rita – 2:41 (Lennon-McCartney)
  4. Good Morning Good Morning – 2:42 (Lennon-McCartney)
  5. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise) – 1:19 (Lennon-McCartney)
  6. A Day in the Life – 5:34 (Lennon-McCartney)

Durata totale: 19:58.

Quasi quaranta minuti, di musica e di emozioni.

L’Opera che si ascolta fin dall’inizio non è una raccolta di canzoni com’era stata fin da allora confezionata dai Beatles ma inaugurava un nuovo genere, una nuova idea. Era il primo esempio di quello che in seguito verrà definito come “concept album”. Insomma, i Fab Four avevano deciso di comporre sinfonie anziché canzonette e così stavano dicendo al mondo di essere dei veri compositori e non dei menestrelli che seguivano le mode del momento allo scopo di diventare sempre più ricchi. Il brano rock che apre il disco non è il migliore dell’album ma, come prima traccia, funziona alla perfezione, quasi a spiazzare l’ascoltatore per quel che seguirà. Il secondo pezzo, pur se cantato da Ringo Starr, è talmente perfetto che il batterista cantante avrebbe potuto esser sostituito dal primo stonato che s’incontra per la strada senza che il risultato cambiasse di una virgola.

Con il terzo brano entriamo in un’atmosfera di canzoni che finiscono con l’inizio della successiva o che ne sono la naturale continuazione sonora e melodica fino a diventare un corpo unico. Non sto a dilungarmi sulla chiave di lettura delle parole del titolo che vedrebbe un’allusione all’uso di una certa sostanza stupefacente perché tale è il risultato musicale da far dimenticare qualsiasi altro ragionamento. “Getting better” e “Fixing a Hole” possono sembrare a un’analisi superficiale la stessa canzone ma in realtà sono due perle incastonate in uno scrigno d’oro e preparano al brano successivo: “She’s leaving” home, struggente atto di accusa nei confronti della società degli adulti che vede perdere i suoi figli che se ne vanno perché non possono più convivere con loro.

Il brano più bello in assoluto del primo lato (così come del secondo) è l’ultimo. Si tratta di una carrellata di suoni attorno a una melodia accattivante che ricrea sonorità tipiche del Luna Park.

Il lato B si apre con il peggior brano dell’Opera. Il tentativo di George Harrison di ricreare atmosfere indiane non è riuscito appieno ma lo scoppiettante prosieguo delle canzoni risistema le cose innalzando l’asticella sempre più in alto. I successivi tre brani e mezzo praticamente non hanno una fine ma s’incastrano con l’inizio del successivo e lo completano.

Magistrale è la versione breve e reprise (molto più ritmica e veloce) del brano iniziale che dà il titolo all’album.

Manco a dirlo, la migliore canzone è quella con cui si chiude il sipario: “A day in the life”. Il pezzo sembra che sia nato quasi per caso ma appartiene alla Storia del Rock. Lennon non aveva il ritornello di una canzone mentre a McCartney mancavano le strofe di una accattivante melodia. George Martin, il loro Direttore Artistico, nonché co-produttore, suggerì al duo di unire le due incompiute in un’unica canzone e fu subito un’apoteosi.

Quando arrivai alla fine dell’ultimo solco dell’album mi resi conto che dopo aver ascoltato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band avrei definitivamente seppellito la “Mazurka di periferia”.

Da quel giorno la musica per me non è mai più stata la stessa e accontentarsi men che meno il verbo riflessivo che avrebbe influenzato il mio presente e il mio futuro. Spero che possa accadere anche a tutti i lettori che vorranno concedersi quei quasi 40 minuti di ascolto che un album così merita.

Un saluto a tutti e anche ai Fab Four. Due sono ancora con noi. Gli altri due, da lassù staranno certamente applaudendomi per ringraziarmi per le splendide (! ndr) parole che ho usato. Tuttavia, l’applauso più grande è quello che faccio io ogni volta che apro le mie orecchie al suono di qualunque cosa è MUSICA.

Ciao John, George, Paul, Ringo. Grazie per aver educato la mia mente al meglio del meglio…

di Piergiorgio Tomatis

Pier Giorgio Tomatis è nato nel 1965, a Torino e vive a Cantalupa, una graziosa cittadina vicina ai monti. Scrive da sempre, racconti e sceneggiature. Ha collaborato in qualità di giornalista pubblicista con il settimanale il monviso e il periodico il piccolo di pinerolo. E’ stato direttore del bollettino comunale di saluggia e presidente dell’associazione di volontariato culturale e sociale gruppo sisifo. E’ promotore dell’associazione to.ta.le. per la diffusione dei libri e delle performance di autori a km zero… Redattore dei progetti la lettura è magia e 10 piccoli autori, è stato un educatore scout. Attualmente è titolare della casa editrice pinerolese hogwords.

I primi maestri del fantastico

Dopo il successo della precedenti edizioni, torna in edicola la collana “I primi maestri del fantastico” una carrellata di eccellenti opere realizzata con cura e raffinatezza. Paura, incubi, allucinazioni, mondi lontani, creature aliene, pulsioni umane oscure e spaventose: queste sono le tematiche che hanno reso celebre la narrativa fantastica, un genere che ha ispirato grandi scrittori di best seller contemporanei, i cui capostipiti sono H.G. Wells, E.A. Poe, R.L. Stevenson, Mary Shelley, Bram Stoker, H.P. Lovecraft, che con la loro fervida fantasia e splendido spirito avventuroso, sono stati i pionieri di questo genere. Con una veste curata e raffinata, i loro capolavori entrano a far parte della tua biblioteca di grandi classici.

Una scelta unica di opere:

I Romanzi e i racconti pubblicati in questa collana, costituiscono un patrimonio editoriale ispirante per gli amanti del Vintage. Le copertine illustrate sono ispirate ai cataloghi delle edizioni più prestigiose dell’epoca come Hetzel, William Heinemann e Scribner. Le illustrazioni e le frontespizi originali sono curati da maestri come Harry Clarke, H. Alvim Corrêa, Harry Rountree, e Nino Carbe. Disegni interni e decorazioni sono ricavati da prime edizioni originali secondo le cui linee estetiche, che precedono i tempi nostri. Le impronte, stilistiche e rifiniture di pregio, conferiscono a ogni uscita una bellezza ed eleganza che rendono ogni libro un regalo artistico unico.

Missione e Valore:

Ogni copertina di questo patrimonio editoriale si distingue per le preziose illustrazioni classiche di ogni opera, rendendo ogni libro un vero e propri gioiello della narrativa fantastica. Questi maestri di iniziò vissero nella tumultuosa era del XIX secolo, presso la quale una serie di scrittori geniali aprì le porte a universi mai esplorati. Le loro opere si immisero nel chimico, l’incredibile e lo straordinario con una fantasia che è ancora stupenda oggi. I capitoli di pionieri come H.G. Wells, Mary Shelley, Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft ci sorprendono ancora oggi per la loro ineguagliata fantasia.

Distopie e universi al di là della realtà:

Con l’avanzare della scienza e della tecnologia, alcuni scrittori visionari dell’epoca si preoccuparono delle conseguenze di questi cambiamenti così sconvolgenti. E trovarono risposte a queste domande nel fro ghiaccio del terrore e nel fantastico.

SteamCon 2017

Letteratura, Arte, Musica, Spettacolo, Cosplay e Mostra Mercato: nasce a Pisa SteamCon, la convention italiana interamente dedicata alla cultura steampunk. Dal 23 al 25 giugno 2017, SteamCon 2017 si svolgerà nella spettacolare location dei Vecchi Macelli di Pisa, dove’è ospitato anche il Museo degli Strumenti per il Calcolo (comodissimo punto di riferimento su Google Maps e navigatori).

Lo Steampunk è uno dei generi della fantascienza più affascinanti e amati al mondo, perchè introduce tecnologie anacronistiche all’interno di un’ambientazione storica, spesso l’Ottocento e in particolare la Londra vittoriana dei romanzi di Conan Doyle e H. G. Wells. Le storie steampunk descrivono un mondo in cui armi e strumentazioni vengono azionate dalla forza motrice del vapore (steam in inglese) e l’energia elettrica torna a essere, come nella fantascienza ottocentesca, un elemento narrativo capace di ogni progresso e meraviglia.

Ospiti d’onore e Show Musicali La prima edizione di SteamCon parte alla grande con due ospiti d’onore. Due personaggi d’eccellenza del mondo della fantascienza, protagonisti di incontri culturali, dibattiti tematici, firmacopie con i fan. Lo scrittore Paul Di Filippo, il “padrino” letterario del movimento letterario, l’uomo che ha coniato il termine “steampunk” per la sua celebre trilogia di racconti. Vincitore di premi importantissimi di settore come il Nebula, lo Hugo, il World Fantasy. L’illustratore e fumettista inglese Bryan Talbot, alfiere dello steampunk disegnato, autore di capisaldi di genere come The Adventures of Luther Arkwright e Nemesis the Warlock. Vincitore di Eisner Awards e Eagle Awards, è uno dei più osannati illustratori di fantasy e fantascienza al mondo.

Spettacolare la sezione musicale della convention, con due band di caratura internazionale che saranno impegnate in una serata di rock a tutto volume… e tutto vapore! I Celtica, gruppo di fama mondiale che arriva dall’Indiana, si esibirà nel rock-show Steamphonia, dedicato proprio al genere steampunk, un “distillato musicale” dallo stile gothic, e metal capace di rompere tutti i limiti tradizionali del loro strumento d’elezione, la Great Highland Bagpipe. I Poison Garden, musicisti italiani e pionieri nazionali dello steampunk rock, porteranno sul palco dei Vecchi Macelli il loro ultimo album “A Victorial Carol”, con un mix suggestivo di musica, teatralità e surrealismo scenografico e sonoro. I Contest di SteamCon 2017 SteamCon 2017 non è solo spettacolo ma anche arte. Tutti gli appassionati di fantascienza possono sbizzarrirsi e mettere in mostra le loro abilità letterarie e artistiche attraverso due contest: uno di illustrazione e l’altro di scrittura. I vincitori verranno premiati direttamente dai due ospiti d’onore di SteamCon, che vestono anche i ruoli di presidenti delle giurie di eccellenza.

Per info: https://www.facebook.com/steamconpisa/ o il sito http://steamcon.it/

Steampact Festival 2015

steampact
Il termine Steampunk venne coniato alla fine degli anni ’80 dallo scrittore K. W. Jeter per definire le opere che imitavano le convenzioni della fantascienza dell’epoca, come “La Macchina del Tempo” di H. G. Wells. E’ parafrasabile come “cyberpunk a vapore”, fantascienza ambientata nell’800. Col tempo questo genere letterario ha guadagnato una fama esponenziale, arrivando ad influenzare moda, cinema, musica, diventando un vero e proprio movimento, al pari del punk o del gothic.
Nel settembre 2012 Veronique Chevalier, presentatrice e performer teatrale, tenne un discorso al Los Angeles Convention Center, dove in risposta alla classica catalogazione dello Steampunk come sub-cultura, ridefinì il movimento come vera e propria super-cultura, in quanto capace di abbracciare le più diverse scuole di pensiero. Da allora quest’idea di movimento inclusivo e trasversale è ripresa dalla maggior parte dei suoi esponenti. In questo contesto, nel 2013, in un periodo di misteriose eruzioni solari, nasce Steampact Project. Il nome deriva dall’unione delle parole “Steampunk” e “impact” (impatto).
Steampact si propone di portare lo Steampunk fuori dai libri di testo e di immetterlo nella cosiddetta realtà ordinaria. Per farlo, celebriamo questa super-cultura con eventi unici nel loro genere, delle chimere meccaniche formate da musicisti, maker, scrittori, performer e scienziati pazzi, in un confronto che mira alla crescita di ogni realtà coinvolta. Il primo evento, Steampact Festival, è stato il primo festival Steampunk italiano, seguito da SteaMachine, la prima Makers Faire in Italia tutta dedicata allo Steampunk. Nel tempo Steampact Project ha collaborato con le realtà più disparate, dall’alternative clubbing al museo, realizzando nuovi eventi o versioni Steampunk di eventi già affermati.
steampact

Il 27 e il 28 giugno Steampact Festival torna a Roma per un week end tutto dedicato alla subcultura più prolifica e geniale degli ultimi anni. Due giorni in cui una caosfera di scrittori, artisti, proiezioni, musica, makers, mostre, board games e molto altro attenuerà l’illusione del tempo lineare, celebrando lo Steampunk in tutte le sue forme e portando il Vapore nella cosiddetta realtà ordinaria. Per sua seconda edizione Steampact, il primo festival Steampunk italiano, si svolgerà al Black Out Rock Club, live club storico della scena rock romana attivo dal 1979. Entrambi i giorni le porte saranno aperte dalle 11 del mattino fino a tarda notte, l’ingresso sarà gratuito fino alle ore 19, dalle 19 in poi ingresso 5€.

www.steampact.com

https://www.facebook.com/steampact.fest

Film e romanzi per esplorare il futuro distopico

In questi ultimi anni il cinema americano ci propone, costantemente, una ricca offerta di film tratti dai “Popular Young Adult Science Fiction Books“: The Hunger Games, trilogia di fantascienza per ragazzi scritta da Suzanne Collins che comprende Hunger Games (2008), La ragazza di fuoco (2009) e Il canto della rivolta (2010).

Divergent, primo racconto della trilogia creata dalla scrittrice americana Veronica Roth. Pubblicato negli Stati Uniti il 3 maggio 2011 è diventato in breve tempo un best-seller con più di un milione di copie vendute. Successi come anche Il mondo di Jonas (Quartet of The Giver) o The Giver – Il donatore (1993), di Lois Lowry , primo capitolo di una fortunata serie di cui fanno parte anche i romanzi La rivincita (2000), Il messaggero (2004) e Il figlio (2012), uscito in Italia con il titolo Il mondo di Jonas, (Mondadori, 1995)  e come The Giver – Il donatore (Giunti, 2010). Senza dubbio queste pellicole segnalano il riemergere dell’interesse del pubblico giovanile verso un genere che ha più di cent’anni di vita: il romanzo distopico. La letteratura ci fornisce innumerevoli esempi di società distopiche: già nel primo Novecento incontriamo narrazioni fantapolitiche e antitotalitarie. Precursore del genere è forse H.G. Wells, che nel 1895, nel suo romanzo La macchina del tempo aveva immaginato un futuro in cui i discendenti della classe dirigente vittoriana, gli Eloi, venivano allevati come carne da macello dai Morlocchi, discendenti della classe operaia.

Il padrone del mondo di Hugh Robert Benson, scritto nel 1907, è un romanzo profetico che racconta l’ascesa del grande filantropo Giuliano Felsemburgh, democratico e rassicurante fautore della pace mondiale, realizzerà un mondo ideale con l’avvento di un nuovo umanitarismo volto a  stemperare le differenze fra le religioni e predica la tolleranza universale ma che sfocerà in violenze e persecuzioni nei confronti della Chiesa cattolica.

Il mondo nuovo (Brave New World) altro romanzo di fantascienza di genere distopico scritto nel 1932 da Aldous Huxley anticiperà temi quali lo sviluppo delle tecnologie della riproduzione, l’eugenetica e il controllo mentale, usati per forgiare un nuovo modello di società. Difatti Il romanzo distopico è caratterizzato dalla presenza nella storia di una società che è la peggiore possibile. Il termine distopia nasce nel 1868 a opera del filosofo John Stuart Mill, anche se un termine diverso ma dallo stesso significato (cacotopia – dal greco kakós ovvero cattivo e tòpos – luogo) era già stato usato nel 1818 da Jeremy Benthan.

Questi racconti hanno molte caratteristiche comuni ma anche alcuni tratti distintivi: la rappresentazione di società futuristiche distopiche, la presa di coscienza della realtà da parte di giovani “eroi”, la presenza di adulti guida e/o antagonisti e il capovolgimento dello status quo. L’ambientazione del romanzo distopico è sostanzialmente un lontano futuro, o un presente che si è evoluto in modo diverso – e peggiore – da quello reale e che rifiuta fortemente il passato, ogni forma di emozione e di libero pensiero e l’evidenza dei fatti storici.

Siamo sicuri che le realtà descritte in questi romanzi siano davvero peggiori di quelle odierne? Esistono giovani “comuni” disposti a cambiare le regole del gioco? Capaci di far risvegliare le coscienze collettive? La visione di questi film da parte dei ragazzi rappresenta solo una moda, un trend passeggero? Oppure sortisce qualche effetto producendo anche qualche spunto di riflessione?

Invero, oggi mi sembra davvero di vivere in un romanzo distopico: naturalmente, le condizioni di vita e le prospettive dei giovani cambiano da paese a paese: da un lato, in alcune zone del mondo, i bambini e i ragazzi sono vera e propria “carne da macello” utilizzati da governi e organizzazioni politiche e paramilitari ( Isis, Al – Quaeda, etc.) per folli piani che celano e hanno sempre celato da secoli la bramosia del potere e lo spirito di sopraffazione. Dall’altro lato nelle aree cosiddette “democratiche” e “civili” o “industriali” dove essi sembrano rotelline di un ingranaggio illusorio che promette di creare felicità, benessere, abbondanza, autodeterminazione ma che rende perlopiù questi ultimi depressi e impotenti.

Ma per quale motivo bisogna stravolgere lo status quo? Mi chiedo se i giovani cinesi vogliano cambiare la propria realtà, oppure i giovani russi, i giovani palestinesi e israeliani, i giovani arabi, i giovani europei, i giovani africani etc. Magari si, secondo una propria visione del mondo o della realtà nella quale essi vivono. Oppure no. Perché dovrebbero? Tutti uniti per quale tipo di società? Tutti uniti per quali bisogni, sogni e interessi da soddisfare o da realizzare? Questo potrebbe essere concepito come il migliore dei mondi possibili. Scusate sono andata fuori tema. Mi sono lasciata trasportare da un altro genere di film o di romanzo, quello utopico. In effetti l’utopia e la distopia sembrano raffigurare le due facce estreme della stessa medaglia come d’altronde queste realtà poc’anzi descritte che possono apparire distanti, ma che in realtà risultano essere talvolta fortemente concatenate e legate indissolubilmente, rappresentando le due facce estreme di uno stesso male.

di Danila Iacomino

La Guerra dei Mondi

Il grande Spielberg è tornato,con uno dei suoi colossal epocali. Tuttavia il caro regista, questa volta, non si è impegnato a fondo, nel mettere in scena il fortunato remake de “La guerra dei mondi”. Certo può dirsi fortunato, perchè, nonostante le pecche la pellicola ha ottenuto successo presso il pubblico, ma può definirsi ancora grande, dopo La guerra dei mondi?

La trama, non ricalca le orme dello splendido E.T.; questa volta, gli alieni arrivano sulla terra, attraverso lampi di fuoco e sono ,purtroppo per noi, ostili:a bordo di giganteschi tripodi, ci disintegrano (letteralmente), ci succhiano il sangue e ne ricoprono la terra, attraverso radici di cui si cibano; lo scenario è terrificante, un lago di sangue, con corpi maciullati,che ricoprono la Terra.Nel bel mezzo di tutto questo, il bel faccione di tom cruise,il quale,con figli a seguito, che, guarda caso, gli ha lasciato l’ex moglie,partita per Boston.Cruise scappa di città in città, cercando di salvare i figli,dalla minaccia aliena,inutile dire che ce la farà; il finale,però, lascia alquanto a desiderare, lasciando un punto interrogativo nella mente degli spettatori.
Il film non manca di tensione e paura nella prima parte, ma crolla terribilmente nella seconda, mostrando immagini da film splatter,e cadendo nella noia, nelle scene in cui la famigliola si trova nei sotterranei con il pazzo Tim Robbins.
Spielberg, nel finale, non manca di inserire una morale, che però lascia l’amaro in bocca.Forse il pubblico, avrà apprezzato gli effetti speciali del film, ma dal grande Spielberg, sinceramente,attendevamo qualcosa di meglio….Ma come si dice”nessuno è perfetto”…

 

di Martina “Martygrissom Capitelli


 

Quando vedi un film di Spielberg bene o male sai che cosa ti aspetta: azione, effetti speciali, magniloquenza, regia di gran classe, buoni sentimenti e l’immancabile lieto fine. Non è da meno l’adattamento cinematografico del celebre romanzo di H.G. Wells del 1898 (peraltro già proposto nel 1953 da Byron Haskin).

Ray Ferrier (un Tom Cruise che inizia ad impersonare anche personaggi non proprio positivi, come era già successo in “Collateral” di Michael Mann, anche se forse non era l’attore più indicato per la parte) operaio edile separatosi dalla moglie che ora ha un nuovo compagno, ospita per il weekend il figlio (Justin Chatwin) e la figlia (la bravissima Dakota Fanning, già apprezzata in Taken, serie tv prodotta dallo stesso Spielberg. Certo se la voce non risultasse quella di una donna e non di una ragazzina sarebbe meglio!). Non si può certo affermare che Ray sia un padre modello: infatti i rapporti tra i tre (soprattutto tra padre e figlio) sono piuttosto tesi. Ma un avvenimento straordinario sta per cambiare le loro vite. Preannunciati da dei lampi minacciosi, in grado di scavare crateri sull’asfalto, arrivano sulla terra degli esseri alieni che, alla guida di giganteschi tripodi, iniziano a distruggere tutto ciò che incontrano. Da quel momento per padre e figli inizia una fuga angosciosa, prima in macchina e poi a piedi, attraverso un’America allo sbando, in cui emergono i peggiori istinti dell’uomo. I tre incontreranno anche Ogilvy (il bravissimo Tim Robbins a cui forse poteva essere concesso più spazio), un uomo dalla psiche molto labile che mette a repentaglio la vita dei tre fuggitivi.

Il film procede in un’avvincente atmosfera di terrore degna di un film thriller-horror. In particolare colpisce molto la scena in cui gli alieni cercano Ray con i figli e Ogilvy, momento che può ricordare “Signs”.

Ma a rovinare un’opera che fino a quel momento si era rivelata più che degna ci pensa il pessimo finale. Non racconto tutto per non rovinare la sorpresa a chi voglia vedere il film, ma bisogna sottolineare come il film sia sbrigativo, vago e soprattutto iperottimistico fino al limite dell’inverosimiglianza nella soluzione della trama, ben oltre quanto raccontava il romanzo di Wells.

 

 

di Michele “Inglesino” Lo Presti

Exit mobile version