Archivi tag: paramount

Star Trek torna al cinema: una nuova rotta per la saga, lontana dal passato e pronta a riscrivere il futuro

Il futuro cinematografico di Star Trek si rimette in moto con una direzione imprevista e, per certi versi, coraggiosissima. La notizia della cancellazione del quarto film ambientato nell’universo Kelvin, con Chris Pine e Zachary Quinto nei panni di Kirk e Spock, ha inizialmente lasciato i fan in un limbo degno di un paradosso temporale. Nonostante ciò, la Paramount ha dimostrato di non voler affatto rallentare l’espansione del franchise sul grande schermo, anzi: gli ingranaggi creativi sembrano essersi rimessi in funzione con un’energia nuova, quasi stessero alimentando il warp drive per un salto nelle possibilità narrative ancora inesplorate.

Tra le prime rivelazioni spicca l’arrivo di John Francis Daley e Jonathan Goldstein come autori e registi di un nuovo film completamente indipendente dai precedenti tentativi, scollegato da ogni incarnazione cinematografica precedente. Una scelta sorprendente, soprattutto considerando che il duo ha dimostrato di saper maneggiare l’avventura con ironia e ritmo in opere come Dungeons & Dragons: Honor Among Thieves e Game Night, oltre ad aver contribuito alla costruzione dell’universo di Spider-Man: Homecoming. Il loro sguardo fresco potrebbe rappresentare quell’ossigeno che la saga attende da anni, un modo per restituire allo spettatore quella sensazione di scoperta che da sempre è il marchio di fabbrica della Federazione dei Pianeti Uniti.

Il progetto affidato a Daley e Goldstein sembra puntare verso una reinterpretazione totale, con un cast nuovo e protagonisti mai apparsi prima. Le prime indiscrezioni suggeriscono un tono brillante, pur senza cadere apertamente nella commedia. Una sfumatura narrativa che potrebbe richiamare l’equilibrio raggiunto nel loro Dungeons & Dragons, dove humour e avventura si intrecciavano senza annullarsi a vicenda. Non è chiaro se la Paramount deciderà di collocare questa nuova storia in un futuro remoto o addirittura in uno scenario mai affrontato, ma il solo fatto di abbandonare la linea Kelvin indica un desiderio di rinnovamento radicale.

Lo sguardo dei fan più nostalgici, nel frattempo, continua a posarsi sulla possibilità di un reboot della Next Generation in chiave cinematografica. È un’ipotesi che aleggia da tempo come un’eco proveniente da una trasmissione subspaziale, ma la scelta di procedere con personaggi totalmente nuovi sembra dimostrare la volontà di evitare percorsi sicuri. Un’idea quasi rivoluzionaria per un brand che, nonostante la sua spinta innovativa, ha spesso preferito il comfort delle icone classiche. Immaginare una nuova Enterprise, magari un modello futuro come la mitica Enterprise-J, rappresenterebbe un passo narrativo capace di ampliare la mappa della galassia sotto una luce completamente nuova.

Ma il multiverso cinematografico di Star Trek non si limita al progetto Daley/Goldstein. Durante il CinemaCon di Las Vegas del 2024, Paramount ha presentato un ulteriore film indipendente, affidato stavolta alla visione di Toby Haynes, regista già apprezzato per Star Wars: Andor e autore di uno degli episodi più iconici di Black Mirror: l’indimenticabile USS Callister, una riflessione metanarrativa sull’eredità pop della serie originale di Gene Roddenberry. Con una sensibilità simile non è difficile immaginare quanto Haynes possa comprendere e rispettare l’essenza dell’universo trekker.

Il film da lui diretto sarà un’origin story ambientata decenni prima del lungometraggio del 2009, con una sceneggiatura firmata da Seth Grahame-Smith. Chi segue la narrativa pop conosce bene il suo nome, legato a bestseller come Orgoglio e Pregiudizio e Zombi e Abraham Lincoln Vampire Hunter, oltre a film come The Lego Batman Movie e Dark Shadows. Un autore in grado di fondere ironia e genere con disinvoltura, qualità che potrebbero dare vita a un racconto di origini dinamico, rispettoso e al tempo stesso audace. A supervisionare il tutto ci sarà Simon Kinberg, uno dei produttori più influenti dell’era moderna degli X-Men.

Questo secondo progetto si colloca prima degli eventi di Discovery e poco dopo quelli di Enterprise, suggerendo un territorio narrativo ancora poco battuto dal cinema. Le origini dei personaggi cardine della Federazione potrebbero trovare nuova linfa attraverso una reinterpretazione rispettosa ma non vincolata agli standard del passato. Forse non torneranno esattamente le figure che conosciamo, ma le loro radici potrebbero essere reimmaginate per parlare a un pubblico contemporaneo senza tradire ciò che da sessant’anni rende Star Trek un simbolo della fantascienza idealista.

Nonostante i piccoli schermi stiano vivendo una nuova età dell’oro grazie a serie come Picard, Strange New Worlds e Discovery, il desiderio della Paramount è riportare il franchise alla dimensione epica del grande schermo. Una scelta comprensibile: Star Trek, per quanto potente nel formato seriale, esplode davvero quando la sua visione utopica si allarga sullo schermo cinematografico, quando le sue astronavi diventano ponti tra mondi, quando le sue storie si fanno specchi di ciò che siamo e di ciò che potremmo diventare.

La sensazione è quella di trovarsi davanti a un bivio storico per la saga. Da una parte un film completamente nuovo e indipendente, pronto a sperimentare un tono inedito; dall’altra un progetto che guarda alle radici mitologiche dell’universo. Due rotta parallele, forse destinate un giorno a incrociarsi, forse concepite per percorrere linee temporali completamente separate. Ciò che conta davvero è che la Flotta Stellare si sta rimettendo in viaggio. E ogni nuova partenza, per un fan di Star Trek, porta con sé l’emozione di un salto nel warp verso possibilità tutte da immaginare.

Per ora non resta che restare vigili come osservatori davanti a una distorsione subspaziale, perché le prossime comunicazioni potrebbero modificare ancora una volta il corso della saga. Lo spazio, dopotutto, resta l’ultima frontiera. E qualcosa ci dice che il viaggio è appena cominciato.

Sir Patrick Stewart si congeda dalle stelle: l’ultima rotta del capitano che ha insegnato a sognare

C’è un momento, nella vita di ogni fan, in cui capisci che l’eroe non sta davvero scomparendo: sta solo passando il testimone. L’annuncio del ritiro di Sir Patrick Stewart — l’uomo che ha guidato generazioni di sognatori tra le nebulose di Star Trek e le tempeste dell’universo Marvel — ha la forza di quelle scene finali che non chiudono, ma aprono. Non è un epilogo, è un invito a rivedere la rotta. Lo farà con un ultimo inchino, Avengers: Doomsday, presentato come la sua “curtain call” definitiva: un finale simbolico per un interprete che ha trasformato il concetto stesso di leadership sullo schermo in una lezione di empatia.

Il magnetismo della calma: perché ci fidavamo di lui al primo sguardo

Patrick Stewart non recitava soltanto comandanti, mentori e sovrani tragici: incarnava una qualità rara, la serenità delle scelte difficili. C’era in lui una gravità gentile, una fermezza che non schiacciava ma liberava. Che fosse seduto sulla poltrona della plancia della USS Enterprise o in carrozzina, con quella mano a sfiorare i profili telepatici del mondo, Stewart rendeva credibile l’impossibile. I suoi personaggi non imponevano, sussurravano una strada. Il capitano Jean-Luc Picard e il professor Charles Xavier sono figure cardine della cultura pop proprio perché nascono da una stessa radice: l’idea che l’autorità, per essere grande, debba prima di tutto essere umana.

Ecco perché i suoi ruoli non si “guardavano” soltanto: si sentivano, come una vibrazione a bassa frequenza che ti rassetta il cuore. La sua presenza era quieta ma carismatica, una bussola morale in tempi fragili. In un panorama spesso dominato dall’eccesso, Stewart ha fatto dell’essenzialità la sua super-skill.

Dal West Riding a Shakespeare: il fuoco sotto la cenere

Dietro quella calma c’è stato sempre un fuoco vivo. Nato a Mirfield il 13 luglio 1940, cresciuto tra ristrettezze e ferite familiari, Stewart ha trasformato la disciplina in arte. La scuola, un insegnante che ti mette in mano Shakespeare e ti dice “alzati e recita”, un teatro che diventa rifugio e orizzonte. La Royal Shakespeare Company non è stata un capitolo, ma una fucina: lì ha temperato la voce, il corpo, il respiro del verso. È il motivo per cui, quando negli anni Ottanta Hollywood gli affida un’astronave, lui la pilota come fosse Enrico V: con misura, ritmo, etica del comando.

Questa radice teatrale spiega un paradosso solo apparente: Stewart è stato un attore amatissimo dai nerd proprio perché profondamente classico. Portava in dote a franchise iper-contemporanei il rigore del palcoscenico, la cura della parola, l’intelligenza del silenzio. La fantascienza, con lui, ha trovato un ambasciatore capace di dialogare con Cicerone e con Asimov nello stesso respiro.

L’Enterprise come palcoscenico morale

Nel 1987, mentre molti pronosticavano che The Next Generation sarebbe stato un fuoco di paglia, Stewart trasformava Jean-Luc Picard in un archetipo. Non era un capitano “d’azione” nel senso stereotipato: era un esploratore di coscienze. La sua Enterprise non viaggiava solo tra stelle e anomalie subspaziali; attraversava dilemmi etici, con una regia emotiva fatta di sguardi, pause e ordini pronunciati come preghiere laiche. Picard ha insegnato che la diplomazia non è debolezza, che il pensiero è un gesto eroico, che “engage” può essere la parola più potente della fantascienza.

Quando, decenni dopo, Star Trek: Picard gli ha chiesto un nuovo decollo, Stewart non si è limitato al fan service: ha portato in scena l’invecchiare come atto di coraggio, la memoria come responsabilità, il lutto come crepa da cui far passare luce. Non tutti i ritorni sono necessari; questo lo era.

Cerebro, mutanti e acciaio gentile

Se Picard è l’ammiraglio dell’intelletto, Charles Xavier è il professore del cuore. Nei film degli X-Men, Stewart ha costruito un leader inclusivo, fallibile e quindi necessario. In un’epoca in cui il supereroistico rischiava di farsi solo spettacolo, Xavier ha ricordato che il potere più interessante è quello che scegli di non usare. La sua relazione speculare con Magneto — magnificamente riscritta dalla complicità con l’amico Ian McKellen — è diventata la migliore lezione pop di filosofia politica degli ultimi trent’anni: due visioni del mondo, due ferite, un’amicizia che resiste persino all’apocalisse.

Una voce che scolpisce immagini

C’è poi la voce. Non solo timbro, ma architettura. Stewart è uno di quei rari interpreti che “costruiscono” lo spazio sonoro: documentari, audiolibri, serie animate, videogiochi. Ovunque l’abbia prestata, la sua voce ha agito come una didascalia emotiva che rende tutto più nitido. Ascoltarlo è come mettere a fuoco un’immagine sfocata: all’improvviso la scena trova profondità, le parole acquistano peso specifico.

Dalla scena al mondo: l’impegno fuori dal set

Quell’autorevolezza, però, non l’ha confinata ai ruoli. La sua storia personale — il coraggio di parlare di violenza domestica, l’attivismo per i diritti, il dialogo costante con la scuola e l’università — ha trasformato l’attore in cittadino esemplare. Non l’icona irraggiungibile, ma il “prof” che vorresti come vicino di banco dell’anima. La sua è stata una fama che ha preferito il servizio all’autocelebrazione.

Avengers: Doomsday, un’uscita di scena degna del mito

Che l’ultimo saluto avvenga dentro un kolossal supereroistico non è una concessione all’effimero, ma una scelta profondamente “stewartiana”. È nella cultura pop che Sir Patrick ha trovato la forma più democratica per parlare a molti; ed è giusto che sia lì, davanti a un pubblico trasversale, a chiudere il cerchio. L’idea che Avengers: Doomsday diventi il sipario definitivo è insieme poetica e programmatica: un maestro che saluta nella lingua che milioni di allievi hanno imparato grazie a lui.

Eredità: l’arte di passare la luce

Quando pensiamo alla parola “legacy”, spesso la confondiamo con la nostalgia. Stewart ci mostra che l’eredità non è chiedere di essere ricordati, ma insegnare ad andare oltre. Il suo addio suona così: i veri eroi non svaniscono, si rifrangono. Li ritroviamo nei registi che hanno imparato a mettere l’etica in una carrellata, negli attori che capiscono il valore di una pausa, negli sceneggiatori che sanno che una frase può essere più esplosiva di un’esplosione. Li ritroviamo soprattutto in noi, spettatori cresciuti a pane, warp 9 e sogni condivisi.

Epilogo (con promessa)

Sir Patrick Stewart non lascia un vuoto; lascia una rotta. Per chi ama il teatro, c’è una biblioteca di interpretazioni cui tornare come a un porto sicuro. Per chi vive di fantascienza, ci sono coordinate stellari da ricalcolare ogni volta che la realtà sembra perdere senso. Per chi respira cultura pop, c’è l’esempio di un artista che ha dimostrato che intrattenere e pensare non sono verbi in conflitto.

Qui su CorriereNerd.it lo salutiamo come si saluta un capitano che ha appena detto “make it so”: con gratitudine, con il sorriso che si fa brivido, con la certezza che la prossima generazione — in tutti i sensi — saprà farne tesoro.

Hai un ricordo personale legato a Picard o a Xavier? Una puntata, una scena, una battuta che ti ha cambiato la giornata? Raccontacelo nei commenti: la plancia è aperta, la discussione è tua. Engage.

Ebenezer: A Christmas Carol – Ian McKellen e Johnny Depp riscrivono Dickens nel dark fantasy di Ti West

Quando la letteratura immortale incontra il cinema d’autore più visionario, nascono opere che sembrano appartenere a un universo parallelo. E stavolta quel mondo alternativo prende forma nel gelo vittoriano di Ebenezer: A Christmas Carol, la nuova rilettura del classico di Charles Dickens prodotta da Paramount Pictures. È ufficiale: dopo settimane di rumor, Johnny Depp è in trattative finali per vestire i panni di Ebenezer Scrooge, mentre Ian McKellen è entrato ufficialmente nel cast, suggellando un incontro che ha già scatenato brividi e hype tra cinefili e appassionati di cultura gotica. Ma non si tratta dell’ennesimo adattamento natalizio: questa è la versione che promette di riportare alla luce — o forse nelle tenebre — l’anima più tormentata, umana e spettrale del capolavoro dickensiano.

Il fantasma di Dickens sotto la lente di Ti West

Ti West, nome culto per chi ama l’horror psicologico e le atmosfere retrò, è la chiave di volta del progetto. Dopo aver riscritto le regole del cinema di paura con la trilogia composta da X, Pearl e MaXXXine, il regista americano si prepara a varcare una nuova soglia: quella che separa il gotico vittoriano dal thriller metafisico. A Christmas Carol, nelle sue mani, diventa un viaggio nella mente umana, una discesa tra colpa e redenzione che mescola spiritualismo, incubo e poesia.

La sceneggiatura è firmata da Nathaniel Halpern, mente dietro Legion e Tales from the Loop, due serie che hanno ridefinito i confini tra fantascienza e introspezione. Halpern non intende limitarsi a ripercorrere le tappe del racconto originale, ma a scavare nelle pieghe dell’animo di Scrooge, trasformando i fantasmi del Natale Passato, Presente e Futuro in manifestazioni di un trauma personale, quasi psicoanalitiche. Il risultato promesso è un film che vibra come una seduta spiritica collettiva, capace di far risuonare la voce di Dickens attraverso la sensibilità perturbante di West.

Johnny Depp: il ritorno di un’anima perduta

Per Johnny Depp, Ebenezer rappresenta molto più di un ruolo: è una rinascita simbolica. Dopo anni di ombre e controversie, l’attore torna al centro della scena mondiale con un personaggio che sembra cucito su misura per lui. Scrooge è un uomo divorato dal rimorso, dall’isolamento, dalla paura di amare — temi che risuonano profondamente nel percorso artistico e personale di Depp. La sua interpretazione potrebbe unire la ferocia di Sweeney Todd alla malinconia onirica del Jack Sparrow più umano, restituendoci un attore che ha sempre saputo trasformare l’oscurità in arte.

Accanto a lui, la presenza di Ian McKellen aggiunge un’aura quasi mitologica. Non è difficile immaginarlo nei panni di uno degli spiriti, o forse in un ruolo inedito, sospeso tra guida e giudice. La sua voce, capace di attraversare epoche e dimensioni, sarà la bussola morale di un film che vuole parlare al cuore ma anche alla paura più primitiva.

E nel cast si aggiunge anche Andrea Riseborough, già candidata all’Oscar per To Leslie, attrice camaleontica che incarna quella sottile linea tra empatia e follia che tanto piace a West. Un trio d’eccezione per un racconto che non teme di ribaltare l’immaginario natalizio.

Il Canto di Natale come horror esistenziale

Quella di Dickens è una storia che appartiene alla memoria collettiva: un uomo avaro che, nella notte più lunga dell’anno, affronta i fantasmi del proprio passato per riscoprire il valore della compassione. Ma sotto la patina morale del racconto originale si nasconde un’anima gotica, quasi horror. Dickens parlava di spettri, di rimorsi, di redenzione — e lo faceva in un’Inghilterra che viveva tra rivoluzione industriale e disuguaglianze sociali, dove i fantasmi erano metafore reali. West sembra voler riportare in superficie proprio quella materia oscura: la paura della solitudine, la colpa, la perdita dell’umanità.

Il Natale di Ebenezer non sarà fatto di luci e fiocchi di neve, ma di ombre, fumo, nebbia e candele tremolanti. Una Londra che sembra uscita da un incubo di Hieronymus Bosch, dove i fantasmi non bussano alla porta, ma vivono nelle crepe della coscienza. Eppure, tra tanta oscurità, il messaggio rimane quello di sempre: la possibilità di cambiare, di salvarsi, anche all’ultimo istante.

Una sfida tra autori del terrore

Come se non bastasse, Ebenezer: A Christmas Carol si prepara a competere con un altro progetto in arrivo: una versione firmata da Robert Eggers, regista di The Lighthouse e Nosferatu, che potrebbe avere Willem Dafoe nel ruolo di Scrooge. Due maestri del cinema d’autore, due visioni complementari: l’uno più mistico e simbolico, l’altro più realistico e psicanalitico. Una doppia rivisitazione del mito che renderà il 2026 un anno cruciale per gli amanti del dark fantasy e dell’horror filosofico.

La sfida tra West ed Eggers, tra Depp e Dafoe, tra Paramount e Warner, promette di essere una delle più intriganti nella storia recente del cinema. Una sorta di “duello tra spettri” dove a vincere sarà, forse, chi saprà restituire al pubblico non solo la paura, ma anche la meraviglia.

Un nuovo classico per la cultura pop gotica

Dietro la produzione troviamo Emma Watts, garanzia di equilibrio tra qualità autoriale e appeal mainstream. L’uscita americana è fissata per il 13 novembre 2026, in tempo per trasformare il film in un evento pre-natalizio di risonanza globale. Se tutto andrà come previsto, Ebenezer: A Christmas Carol potrebbe diventare il nuovo punto di riferimento per un pubblico che ama le storie dove l’horror incontra la poesia, e dove la redenzione è un atto di coraggio interiore più che un miracolo.

E allora, preparatevi a un Natale diverso, più inquieto e più vero, in cui le catene che tintinnano nella notte non sono solo quelle di Marley, ma anche le nostre. Johnny Depp e Ti West ci invitano a guardarci dentro, a scendere nel gelo per ritrovare il calore.

Perché in fondo, come scriveva Dickens, “non c’è nulla al mondo di più inaridito di un cuore che non sa più donare”.


E voi, cari lettori di CorriereNerd.it, siete pronti a tornare nel regno degli spiriti con Johnny Depp? Vi affascina di più la visione oscura di Ti West o quella ultrarealista che promette Robert Eggers? Raccontatecelo nei commenti e unitevi alla discussione sui nostri canali social ufficiali: Instagram, Threads, Telegram e Facebook.
Il confronto tra appassionati è il cuore pulsante della nostra community — e ogni opinione è una scintilla che tiene accesa la magia del Natale… anche quello più oscuro.

Star Trek: la fine del capitolo Kelvin e il futuro del franchise secondo la nuova Paramount

Per quasi un decennio, tra rumor, false partenze e promesse mai mantenute, il destino della Enterprise di Chris Pine ha oscillato come una navicella in balia di una tempesta cosmica. Oggi, però, la notizia è ufficiale: secondo quanto riportato da Variety e confermato da TrekCore, Paramount ha definitivamente archiviato l’idea di “Star Trek 4” con il cast del reboot firmato J.J. Abrams.
Niente più Pine, Quinto, Saldana o Urban: l’equipaggio della Kelvin Timeline chiude qui il suo viaggio.

Addio all’Enterprise di Chris Pine

L’annuncio non sorprende del tutto i fan. Gli attori originali erano contrattualizzati solo per una trilogia e, dopo il successo di Beyond nel 2016, i costi per un ritorno sarebbero diventati stellari. Chris Pine è ormai un volto da blockbuster, Zoe Saldana un’icona da Oscar e il mercato non è più quello di dieci anni fa.
Paramount, dopo aver flirtato con idee firmate Quentin Tarantino e Matt Shakman, non è mai riuscita a trovare la rotta giusta. Ogni sceneggiatura si è arenata nei cantieri di Hollywood, lasciando la plancia di comando vuota e i fan con un’unica domanda: “Qual è la prossima frontiera?”

La nuova rotta di Paramount: Ellison al comando

Il futuro ha preso forma quest’estate, quando una mossa da 8 miliardi di dollari ha cambiato per sempre l’orbita dello studio: Paramount Pictures si è fusa con Skydance Productions. Al timone ora c’è David Ellison, un CEO giovane, ambizioso e – cosa non scontata – sinceramente appassionato di cinema geek.
Durante la conferenza di presentazione a Hollywood, Ellison ha tracciato la nuova rotta con chiarezza: Top Gun 3, World War Z e soprattutto Star Trek saranno le punte di diamante del nuovo corso. “La nostra missione – ha dichiarato – è riportare l’immaginazione nelle sale”. Una promessa che suona come un giuramento di sangue per i nerd di tutto il mondo.

Star Trek: un nuovo orizzonte narrativo

Dal 2009 in poi, J.J. Abrams aveva riscritto l’immaginario trekkie con una timeline alternativa – la Kelvin, appunto – fatta di ritmo, azione e nostalgia pop. Ma il testimone era poi passato ad Alex Kurtzman, architetto del moderno Trek televisivo: Discovery, Picard, Strange New Worlds, Prodigy e la futura Starfleet Academy hanno costruito una nuova galassia narrativa, coesa e coraggiosa.
Ellison vuole abbattere le barriere tra cinema e serie TV, trasformando l’universo Star Trek in un continuum organico, dove le trame televisive possano sfociare sul grande schermo e viceversa. Non è fantascienza, è strategia: Strange New Worlds, che chiuderà con la quinta stagione, potrebbe addirittura evolversi in un film-evento, o aprire la strada al chiacchierato spin-off Star Trek: Year One.

Un nuovo film, ma senza l’equipaggio di Abrams

Secondo le fonti interne a Paramount, il nuovo film di Star Trek sarà completamente inedito, con un cast e un equipaggio completamente nuovi.
Le parole chiave sono “rinascita” e “sinergia”: la casa di produzione vuole un titolo che parli sia ai veterani che ai neofiti, un nuovo “primo contatto” cinematografico.
Non è escluso che alcuni volti storici – come Zachary Quinto nei panni di Spock – possano apparire in cameo, fungendo da ponte simbolico tra due epoche del franchise. Ma la sensazione è chiara: la Kelvin Timeline, così come la conoscevamo, si chiude qui.

Eppure, chi conosce la storia di Star Trek sa che ogni “fine missione” è solo l’inizio di un nuovo viaggio. Forse, la prossima rotta sarà quella del futuro della Next Generation, ambientata proprio nella realtà Kelvin. E chissà che non sia questa la chiave per riportare la Federazione sul grande schermo con una nuova generazione di esploratori.

Paramount rinasce tra Top Gun, zombie e commedie vietate ai minori

Star Trek non sarà l’unico motore a curvatura nel piano di Ellison. Dopo il miliardo di dollari incassato da Top Gun: Maverick, il terzo capitolo è ormai una certezza, con Tom Cruise pronto a tornare nei cieli.
Parallelamente, il progetto World War Z 2 torna in vita, come un cadavere rianimato dal successo di 28 anni dopo: gli zombie non muoiono mai, e nemmeno l’interesse per loro.
A completare il quadro, l’intenzione di rilanciare i Transformers e addirittura di riportare in auge le commedie R-Rated, un genere quasi scomparso a Hollywood, ma che per Ellison rappresenta “la linfa vitale del cinema popolare”.

La nuova età dell’oro di Paramount

Dietro i numeri e le strategie industriali, si intravede una visione romantica: quella di riportare la magia del cinema condiviso, del grande schermo come rito collettivo.
Paramount vuole tornare a essere il laboratorio dei sogni, quello stesso luogo che nel 1979 diede i natali a Star Trek: The Motion Picture e nel 1986 lanciò un certo Top Gun nell’immaginario pop.

Ora, quasi mezzo secolo dopo, l’obiettivo è lo stesso: farci credere di nuovo che lo spazio, là fuori, sia davvero l’ultima frontiera.
E anche se l’Enterprise di Chris Pine si ferma qui, la missione continua

Paramount punta su Call of Duty: il videogioco cult pronto a diventare film!

Per anni, il progetto cinematografico di Call of Duty è rimasto bloccato in una sorta di respawn infinito, un fantasma che aleggiava tra le voci di corridoio di Hollywood e i comunicati stampa mai concretizzati. Ma cari lettori di CorriereNerd.it, preparatevi a riempire il caricatore: la nebbia del campo di battaglia si è finalmente diradata. Quello che per un decennio è stato un easter egg per soli addetti ai lavori, ora è realtà, e il team-up dietro la macchina da presa ha il peso specifico di un nuke lanciato sul box office.

A far tremare i controller e a rivelare i dettagli di questa operazione ad alto rischio è stata la fonte autorevole di Variety. I nomi in ballo non sono semplici comparse, ma due colonne portanti del racconto d’azione contemporaneo, maestri nel dissezionare le complessità del conflitto: Taylor Sheridan, il visionario creatore dell’universo Yellowstone, e Peter Berg, l’abile regista di pellicole intense e realistiche come Deepwater Horizon e l’iconico Friday Night Lights. Saranno loro a co-firmare la sceneggiatura, con Berg che assumerà anche la cruciale responsabilità della regia per conto di Paramount e Activision.

Il Genio di Sheridan a Servizio della Guerra Virtuale

L’arrivo di Sheridan, un narratore di razza noto per le sue storie tese, sporche e moralmente ambigue, su un franchise come CoD non è affatto casuale. Il suo ingaggio arriva in una fase cruciale, quasi una “missione finale” prima del suo passaggio a NBC Universal nel 2029. Fino ad allora, Paramount Skydance intende spremere fino all’ultima goccia il suo talento nel costruire world-building credibili e complessi. E cosa c’è di più complesso e stratificato di Call of Duty?

Questo videogioco non è solo uno sparatutto in prima persona (o FPS); è una saga ventennale che ha plasmato l’immaginario collettivo della guerra moderna, trasformando le meccaniche di gioco in un thriller geopolitico dal ritmo mozzafiato. L’approccio di Sheridan, così radicato nel realismo e nell’analisi delle zone grigie, sembra il veicolo perfetto per trasportare l’intensità emotiva e la scrittura cinematografica che da sempre caratterizzano le migliori incarnazioni del brand, in particolare le ramificazioni di Modern Warfare e Black Ops.

Dal 2003 a Oggi: L’Evoluzione di un Mito Nerd

Nato nel 2003 sui campi innevati della Seconda Guerra Mondiale, Call of Duty ha dimostrato una camaleontica capacità di reinventarsi. Il vero punto di svolta, il level up che ha ridefinito le regole del gioco, è arrivato nel 2007 con Modern Warfare. Quell’episodio non si limitò a offrire un’azione frenetica, ma osò raccontare la geopolitica del nuovo millennio con una prospettiva matura, degna delle migliori regie di genere. Da quel momento, ogni nuovo capitolo ha consolidato la reputazione di Call of Duty come una delle saghe più longeve, redditizie e influenti nel panorama dei videogiochi tripla A.

L’ultimo capitolo, Black Ops 6 (2024), è l’ennesima riprova della maestria di Activision nel mescolare azione viscerale e narrativa complessa. Trasportare questo universo sul grande schermo è, tuttavia, una sfida titanica. Il franchise non ha un singolo eroe iconico come un Master Chief o un Nathan Drake; è un mosaico in perenne espansione fatto di soldati anonimi, agenti segreti e operazioni clandestine che si estendono attraverso decenni e continenti. Questa è la vera opportunità creativa: costruire un Universo Cinematografico capace di spaziare dai conflitti iper-realistici di Modern Warfare alle oscure trame di Black Ops, fino all’amato e attesissimo mistero della modalità Zombie.

Il Passato è Passato, La Nuova Alleanza è Reale

Ricordiamo bene i tentativi falliti. Nel 2015, l’idea di un ambizioso “Call of Duty Cinematic Universe”, con nomi come Stefano Sollima e persino l’ipotesi di Tom Hardy, naufragò silenziosamente, vittima delle priorità mutevoli e, forse, della complessità di gestione di un mega-franchise prima dell’acquisizione di Microsoft.

Oggi, il vento è cambiato. Paramount ha mostrato di saper maneggiare le icone videoludiche con un rispetto inaspettato, come dimostrato dal successo miliardario dei film di Sonic the Hedgehog. Certo, l’eco della serie Halo su Paramount+, sebbene partita con numeri record, resta un monito. Ma l’unione tra Sheridan e Berg, due maestri del racconto d’azione realistico e militare, ha il potenziale per elevare questo progetto a qualcosa di più di un semplice blockbuster di genere: potrebbe essere il nuovo Black Hawk Down per la generazione cresciuta con il dual-shock in mano.

In Assetto di Guerra: Cast e Primi Dettagli Top Secret

L’accordo siglato tra Paramount e Activision (ora sotto il gigante Microsoft) prevede che la coppia Sheridan-Berg si occuperà di sviluppo, produzione e, naturalmente, della direzione artistica. E se la trama resta top secret, i primi rumors sul cast hanno già acceso la discussione. Spicca il nome di Salma Hayek nel ruolo di Rosa, personaggio noto ai gamer di Call of Duty: Mobile, un’ex agente DEA e CIA specializzata in infiltrazioni e cecchinaggio. Al suo fianco, si parla di Elsa Pataky come Belen e Judy Alice Lee nei panni di una pilota d’élite.

Le fonti vicine alla produzione suggeriscono un intreccio ambientato in un contesto militare contemporaneo, ma con forti ispirazioni alle radici del primo Call of Duty del 2003: la narrazione di soldati comuni trascinati in missioni impossibili, eroi senza nome che combattono tra le rovine di un mondo in conflitto. Un ritorno alle origini che non è solo nostalgia, ma una solida base di lancio per un’auspicata trilogia o, perché no, un intero Universo Espanso.

L’Offensiva del Cinema Nerd

Il potenziale di questo film è stratosferico. Con un budget degno del nome e la giusta visione artistica, Call of Duty può colmare l’enorme spazio tra il dramma realistico e la messa in scena epica, situandosi idealmente tra l’intensità di Salvate il soldato Ryan e l’adrenalina spettacolare di Top Gun: Maverick. Sheridan e Berg sanno raccontare l’umanità sotto l’elmetto, l’ambiguità delle missioni segrete e il prezzo morale del potere. Se sapranno trovare il perfetto equilibrio tra l’azione frenetica e l’introspezione che ha reso celebre il brand, avremo un nuovo manifesto dell’era d’oro degli adattamenti videoludici.

Il cinema e il videogioco, due linguaggi da sempre in dialogo, si ritrovano oggi sullo stesso, cruciale campo di battaglia. Dopo i successi clamorosi di The Last of Us, l’avventura di Uncharted e l’inaspettato trionfo di Fallout sulle piattaforme streaming, l’industria dell’intrattenimento ha finalmente compreso che dietro ogni joypad si nascondono storie ricche e complesse, pronte per il grande schermo. E in questo scenario, Call of Duty si prepara ad essere la prossima, grande offensiva.

Riusciranno Paramount e il team di Berg e Sheridan a tradurre in immagini la frenesia di un multiplayer 6 contro 6, la tensione palpabile di un colpo di precisione in un villaggio distrutto, l’eco dei passi tra le rovine digitali di Stalingrado? Il film è ancora in pre-produzione, ma una cosa è certa: il franchise che ha ridefinito la guerra virtuale è pronto a sferrare il suo attacco al box office.


E voi, soldati virtuali, cosa ne pensate? Siete pronti per questo adattamento cinematografico di Call of Duty? Quale arco narrativo o personaggio vorreste assolutamente vedere sul grande schermo?

Condividete la vostra opinione nei commenti qui sotto e spargiamo la voce! Trovate la vostra squadra sui social e condividete l’articolo: usate l’hashtag #CoDCinema per unirvi alla discussione!

Addio MTV Music in Europa: La Fine di un’Epoca?

MTV chiude i suoi canali musicali tematici in gran parte d’Europa: un taglio netto che suona come una campana a morto per un pezzo della nostra cultura pop. Per la generazione cresciuta a pane e videoclip, lo slogan “I want my MTV” non era solo un claim, ma una dichiarazione d’amore. Oggi, però, il colosso mediatico sembra dire: “Non li vogliamo più noi”. Ma cosa significa davvero la scomparsa di MTV Music in UK, Benelux e altrove? È la vera fine di un’era o solo la conferma che il futuro è già qui?

Da Music Television a Reality Show: L’Evoluzione Brutale

La storia è nota: MTV, nata nel 1981 (non 1984 come riportato nel testo, ma il concetto non cambia!), ha plasmato l’immaginario di intere generazioni, dettando le mode e sdoganando un nuovo linguaggio visivo. Poi, la musica ha iniziato a sbiadire in favore dei reality show e dell’intrattenimento generalista (e diciamocelo, a volte trash).

Il testo lo conferma: l’obiettivo di Paramount Skydance è tagliare i rami secchi. Canali come MTV 80s, MTV 90s, Club MTV e persino l’evento di punta, gli Europe Music Awards (EMA), vengono sacrificati sull’altare della convenienza strategica e dello streaming su Paramount+. Il flagship MTV sopravvive, ma è un guscio vuoto, riempito da Catfish, Teen Mom e, negli USA, Ridiculousness.

Il Vero Colpevole? YouTube, TikTok e Spotify

La verità, dolorosa ma innegabile, è che l’utente medio tra i 20 e i 40 anni (il nostro target) non ha più bisogno di un palinsesto lineare per la musica. Se vuoi rivedere un’iconica performance dei Video Music Awards (VMA) o ascoltare l’ultima hit di un artista, non aspetti la rotazione televisiva. Vai su YouTube, salvi il brano su Spotify o scopri la nuova banger virale su TikTok.

Questa è la vera rivoluzione del consumo musicale:

  • On-Demand: Scegli cosa, quando e come ascoltare/vedere.
  • Algoritmi: Le piattaforme conoscono i tuoi gusti meglio di un VJ storico.
  • Brevità e Verticalità: I video musicali lunghi lasciano il passo ai brevi clip e ai formati pensati per i social.

I canali musicali tematici di MTV erano i residuati bellici di un sistema obsoleto. La loro chiusura è un atto finale che certifica la vittoria dello streaming e della distribuzione digitale.

L’Eccezione Italiana: Un Piccolo SOS

L’unica nota “positiva” per noi nerd italiani è che MTV Music (il canale tematico) sopravvive in Italia. Un piccolo, forse temporaneo, baluardo di resistenza. Ma anche qui, è un’oasi in un deserto, visto che il focus aziendale di Paramount Global è chiaramente su Paramount+ e sull’assetto in vista della potenziale (e gigantesca) fusione con Warner Bros. Discovery.

Nostalgia vs. Realtà: Il Prezzo del Progresso

Resta un retrogusto amaro. Quello che si perde non è solo un canale TV, ma un luogo. Un punto di riferimento generazionale che univa i fan di cinema, fumetti, musica e cultura pop sotto un unico tetto. Il logo di MTV, quello con il mattone che cambiava, simboleggiava proprio questa fluidità e centralità. Sacrificarlo per “ottimizzare le risorse” è cinico, ma necessario in un mercato guidato dalla competizione tra giganti come Netflix, Disney e, appunto, la potenziale super-entità Warner-Paramount.

Quindi, no: non è la fine del mondo. La musica è viva, più accessibile che mai. Ma è la fine di un’epoca, quella in cui un canale televisivo poteva dettare l’immaginario collettivo globale. E, diciamocelo, una parte di noi sentirà sempre un piccolo, nostalgico impulso a urlare: “I want my MTV!

Avatar Legends: The Fighting Game – Il ritorno degli elementi in un picchiaduro da leggenda

L’aria, perdonate il gioco di parole, è nuovamente elettrica. Un’onda sismica ha attraversato il fandom globale, non generata da Toph Beifong, ma dall’annuncio che ha infiammato i cuori degli appassionati: il franchise che ha ridefinito l’animazione occidentale, Avatar: The Last Airbender e il suo coraggioso sequel, The Legend of Korra, sta per tornare a scuotere l’etere, letteralmente, con un progetto videoludico che promette di trasformarsi in una vera e propria arena di pura potenza elementale.

Dopo anni di tie-in onesti ma spesso dimenticabili, la nostalgia che avvolge le avventure di Aang, Korra e della loro indimenticabile compagnia si appresta a svanire in favore di una frenesia di hype. L’occasione è stata la recente New York Comic Con, dove un panel rovente ha visto Gameplay Group International svelare l’ambizioso Avatar Legends: The Fighting Game (nome provvisorio), un picchiaduro 1 contro 1 destinato a unire lo spirito filosofico dell’animazione con la tecnica e la profondità dei grandi classici del genere.

Non è solo un gioco, è una dichiarazione di intenti. Sviluppato in stretta collaborazione con Paramount, questo titolo è un ritorno in pompa magna, pensato per fare da ponte tra la comunità di fan di lunga data, che ha pianto la fine delle serie originali, e una nuova generazione di gamer pronti a scoprire il potere del bending. La data da segnare sul calendario è l’Estate 2026, quando il gioco debutterà su una vasta gamma di piattaforme, inclusa PS4, PS5, Xbox Series X|S, PC (Steam) e, attenzione, anche l’attesa Nintendo Switch 2.

L’Arte del Bending: Filosofia in Movimento

Il mantra che ha guidato il team di sviluppo, come è stato rivelato, è “Combattere con uno scopo”. E qui sta la vera magia, la ragione per cui noi nerd storciamo il naso di fronte ai prodotti superficiali. Avatar Legends: The Fighting Game non vuole essere solo un’accozzaglia di scontri spettacolari. È concepito come un vero e proprio viaggio all’interno della filosofia del dominio degli elementi, il Bending che è cuore pulsante della saga.

Acqua, aria, terra e fuoco non sono, in questo contesto, semplici pulsanti o combo da eseguire. Sono l’estensione stessa dell’anima dei personaggi, la manifestazione fisica di una danza complessa tra tecnica e spiritualità, tra l’impeto travolgente del Fuoco di Zuko e il controllo sereno dell’Aria di Aang.

Questa profonda immersione si riflette nella scelta stilistica che farà sussultare di gioia ogni appassionato di anime e animazione di qualità: il gioco è interamente disegnato a mano in 2D. Una decisione coraggiosa e meravigliosa, presa per preservare quel tratto espressivo, quella fluidità e quella calligrafia visiva che hanno reso immortali i capolavori di Nickelodeon. Ogni mossa, ogni piccolo gesto di bending, sarà un omaggio fedele alle opere originali. Un autentico banchetto per gli occhi, che farà vibrare le corde della nostalgia più pura.

Il “Flow System”: Innovazione al Centro del Ring

Il progetto di Gameplay Group si presenta come un ibrido, un sapiente mix tra la solidità e la precisione dei picchiaduro classici – pensiamo ai grandi nomi che hanno fatto la storia del genere – e un intento rivoluzionario, concentrato su un sistema di combattimento totalmente basato sul movimento e sul ritmo.

Il battito cardiaco del gameplay è il “Flow System”, un meccanismo che promette di rendere gli scontri dinamici, coreografici e incredibilmente strategici. Non basterà la forza bruta; in questo gioco il ritmo, il controllo dello spazio, l’equilibrio e l’armonia degli elementi in campo conteranno quanto la potenza del colpo finale.

Ad arricchire il pacchetto, c’è l’annuncio di una campagna single player con narrativa originale, pensata per espandere l’universo di Avatar con nuove storie e legami inediti tra i leggendari maestri degli elementi. Al lancio, potremo contare su 12 personaggi giocabili di base, ognuno affiancato da compagni di supporto (i celebri Assists) che influenzeranno lo stile di lotta e sbloccheranno abilità speciali. L’obiettivo, chiarissimo, è quello di creare duelli sempre diversi, in cui strategia e l’affinità (o l’opposizione) tra gli elementi determineranno la vittoria finale.

La Community al Centro: Netcode, E-Sport e Crossover Epici

Ma un grande picchiaduro vive di competizione, di e-sport e di una solida base online. Gameplay Group lo sa bene e, per questo, ha promesso un set di contenuti di alta qualità per la community più accanita: combo trials, una gallery mode per i collezionisti di arte e, cosa fondamentale, il cross-play e un netcode di nuova generazione per garantire scontri online fluidi e reattivi. Un punto cruciale per un titolo che aspira a entrare nel pantheon dei fighting game competitivi.

Il team ha inoltre confermato un modello stagionale di espansioni, con un flusso costante di nuovi combattenti, arene e modalità aggiuntive in arrivo dopo il lancio. Un approccio che ricorda il lavoro di studi del calibro di Arc System Works e Bandai Namco, ma declinato con la sensibilità filosofica e spirituale che solo l’universo Avatar può offrire.

E veniamo al punto che ci fa letteralmente impazzire di gioia: il crossover generazionale. L’idea di vedere personaggi provenienti dalle due serie, l’era di Aang e quella di Korra, condividere lo stesso campo di battaglia è pura adrenalina nerd. Poter mettere l’uno contro l’altro Aang, Katara, Zuko, Toph, Korra e magari la tecnologica Asami in un duello che celebra il passaggio del testimone tra epoche e filosofie, è la vera promessa di questo titolo.

Avatar Legends: The Fighting Game non vuole limitarsi alla facile leva della nostalgia. Il suo scopo è rendere giustizia alla crescita tematica e spirituale che da sempre caratterizza questo mondo fantasy. Ogni scontro sarà, dunque, una riflessione sul controllo, sull’equilibrio, sull’armonia tra potere e responsabilità. In fondo, non è forse questo il vero significato dell’essere un Maestro dell’Aria, della Terra, dell’Acqua o del Fuoco?

Con questo annuncio, il ciclo si è ufficialmente riaperto. Dopo le recenti, e per certi versi deludenti, performance di alcuni tie-in, questo progetto sembra voler rialzare l’asticella puntando non sulla grafica iperrealistica, ma sul rispetto profondo per la fonte originale e sull’autenticità artistica.

Il nome definitivo è ancora avvolto nel mistero, ma una cosa è certa: prepariamoci a piegare gli elementi, a respirare con il mondo, e a riscoprire, ancora una volta, il vero significato dell’equilibrio. La leggenda continua, e stavolta, siamo noi a impugnare il destino.


E voi, cari Maestri Elementali di CorriereNerd.it, quale scontro sognate di realizzare per primo? Sarete un maestro dell’acqua che annulla il fuoco, o una maestra della terra che resiste al vento? Ditecelo nei commenti qui sotto! E non dimenticate di condividere questo articolo sui vostri social network per accendere il dibattito tra gli appassionati!

Star Trek: Starfleet Academy – La Nuova Frontiera della Flotta Stellare arriva su Paramount+

Ragazzi, ci siamo davvero. Dopo decenni di rumor, fan theory, concept abortiti e mille discussioni infinite tra forum e convention, Star Trek: Starfleet Academy è finalmente realtà. E non sto parlando di un altro spin-off marginale o di una miniserie celebrativa, ma del progetto che da anni aleggiava come un mito tra i trekkers di tutto il mondo. Il 2026 sarà l’anno del sessantesimo anniversario del franchise creato da Gene Roddenberry, e Paramount+ ha deciso di festeggiarlo nel modo più ambizioso possibile: portandoci nel cuore pulsante dell’universo Federale, dentro le aule e i corridoi dell’Accademia della Flotta Stellare. Durante il panel dello Star Trek Universe al San Diego Comic-Con, abbiamo finalmente potuto dare uno sguardo al primo teaser ufficiale, e lasciatemelo dire: hype a warp 9, senza nemmeno un grammo di diluizione! L’atmosfera è quella delle grandi occasioni, perché non si tratta solo di un nuovo show, ma di un vero e proprio passaggio di testimone. Ambientata nel 32° secolo, la stessa epoca di Discovery, la serie ci mostra la nascita della prima nuova classe di cadetti dopo più di cento anni di silenzio. In un futuro in cui la Federazione è ancora impegnata a rimettere insieme i pezzi dopo eventi catastrofici, l’Accademia riapre i battenti per addestrare i futuri esploratori delle stelle.

La sinossi ufficiale promette un mix irresistibile di emozioni, avventura e ideali puramente rodderberryani: un gruppo di giovani provenienti da diversi angoli della galassia, uniti dal desiderio di costruire un futuro migliore e di incarnare gli ideali di speranza, collaborazione e curiosità che sono l’anima stessa di Star Trek. È chiaro che non si tratterà solo di lezioni di astrofisica o esercitazioni olografiche: tra i banchi dell’Accademia nasceranno amicizie, amori e rivalità, e incomberà una nuova minaccia che rischierà di scuotere non solo la scuola, ma l’intera Federazione.

La regia di Alex Kurtzman e Noga Landau sembra orientata a un equilibrio perfetto tra rispetto del canone e narrazione moderna. Da una parte c’è la classicità di Star Trek, la sua filosofia di fondo, il suo senso di meraviglia scientifica e umana; dall’altra c’è un linguaggio più vicino al pubblico contemporaneo, con personaggi giovani, dinamici, pieni di contraddizioni. Un po’ come i nostri cadetti preferiti di sempre, ma con l’energia e la fragilità di una nuova generazione che deve reinventarsi tra le stelle.

La scelta di affidare un ruolo di spicco a un’attrice del calibro di Holly Hunter è un colpo da maestro. La sua cancelliera Nahla Ake, capitana della U.S.S. Athena, è una Lanthanite, la stessa specie dell’eccentrica Pelia di Strange New Worlds. La prospettiva di un personaggio con una vita potenzialmente millenaria è pura poesia trekkiana: cosa può aver visto una donna che forse ha attraversato le ere di Kirk, Picard, Janeway e Burnham? Solo immaginarlo fa venire i brividi.

Accanto a lei si muove la nuova classe di cadetti. Genesis Lythe, interpretata da Bella Shepard, è la figlia di un ammiraglio che lotta per affermarsi senza vivere all’ombra del padre. Caleb Mir, portato in scena da Sandro Rosta, è un orfano con un passato complesso e un cuore ribelle. Jay-Den Kraag, il cadetto klingon interpretato da Karim Diané, sogna di diventare ufficiale medico, rompendo ogni stereotipo guerriero della sua razza. Kerrice Brooks dà vita a Sam, una creatura mai vista prima nell’universo Trek, mentre George Hawkins sarà Darem Reymi, il rampollo di un pianeta ricchissimo, convinto di avere già in tasca il comando di una nave stellare. E infine c’è Tarima Sadal, la cadetta interpretata da Zoë Steiner, figlia della presidente di Betazed: sì, proprio il mondo della nostra amata Deanna Troi.

E poi ci sono i ritorni. Quando è stato annunciato che Robert Picardo avrebbe ripreso il ruolo del Dottore olografico di Voyager, il fandom ha esploso in un coro di gioia collettiva. Questa volta lo ritroveremo come insegnante all’Accademia, con più di 900 anni di esperienza virtuale sulle spalle. Una presenza che, oltre a strappare sorrisi nostalgici, rappresenta un ponte perfetto tra vecchie e nuove generazioni. A completare il quadro tornano anche Tig Notaro nei panni dell’ingegnosa Jett Reno e Oded Fehr come l’Ammiraglio Vance.

Il lato oscuro di questa nuova avventura ha un volto d’eccezione: Paul Giamatti, che interpreterà Nus Braka, un antagonista misterioso e inquietante, legato al passato di uno dei cadetti. Al suo fianco spicca anche Gina Yashere come la Comandante Lura Thok, una formidabile ibrida Klingon/Jem’Hadar. Solo questo basterebbe per accendere il dibattito tra fan e teorici del canone.

E poi c’è quel frame, brevissimo ma dirompente: sul monitor compare il nome di Benjamin Sisko. Sì, proprio lui, il capitano profetico di Deep Space Nine, scomparso tra i Pah-Wraith nel 1999. È bastato un solo riferimento per scatenare l’intero fandom, perché l’idea di una possibile chiusura del suo arco narrativo è qualcosa che molti trekkers attendono da più di venticinque anni.

Le riprese si sono concluse a febbraio 2025 nei Pinewood Toronto Studios, dove è stato costruito l’atrio dell’Accademia: il più grande set mai realizzato nella storia di Star Trek, con una maestosa vista sul Golden Gate Bridge di San Francisco. Jeff Russo, compositore delle musiche di Discovery e Picard, è tornato per firmare una colonna sonora che promette di mescolare emozione sinfonica e suggestioni futuristiche.

Starfleet Academy debutterà su Paramount+ il 15 gennaio 2026 con i primi due episodi, seguiti da un rilascio settimanale fino al 12 marzo. Dieci episodi in tutto, dieci occasioni per tornare a credere nel sogno della Federazione, dieci viaggi che ci ricorderanno perché amiamo questa saga.

Per me, questo show è molto più di un semplice spin-off: è la conferma che Star Trek non ha mai smesso di evolversi. È la storia di un ideale che continua a reinventarsi senza tradirsi, di una filosofia che parla di inclusione, curiosità e rispetto reciproco anche in un’epoca di cinismo digitale. E quando penso ai nuovi cadetti che alzeranno lo sguardo verso le stelle, non posso fare a meno di immaginare noi, davanti allo schermo, pronti a seguirli in ogni salto a curvatura.

Il futuro della Federazione comincia tra quei banchi. E, in fondo, ogni vero trekker sa che la missione non è mai finita.
Ci vediamo all’Accademia, cadetti. E ricordate, sempre: Lunga vita è prosperità.

Yellowjackets: la serie cult tra sopravvivenza, follia e oscurità si avvia alla conclusione

C’è una strana magia in Yellowjackets. Una magia oscura, viscerale, quasi selvaggia, che ti graffia l’anima e ti costringe a guardare il lato più spietato dell’essere umano. Fin dal suo debutto, la serie Showtime ha conquistato pubblico e critica con un mix unico di mistero, horror psicologico e dramma adolescenziale. Ora, però, quella corsa nella foresta sta per finire: Paramount+ ha ufficialmente annunciato che la quarta stagione sarà l’ultima.

Una decisione che divide, ma che ha una sua logica narrativa. Dopo un primo capitolo da applausi, dove tensione e simbolismo si fondono in una narrazione magistrale, Yellowjackets aveva mostrato qualche incertezza nelle stagioni successive. Il fascino del mistero e della superstizione, l’inquietante equilibrio tra passato e presente, avevano perso parte della loro forza originaria. Eppure, nonostante tutto, l’hype è rimasto vivo, come una fiamma impossibile da spegnere.

Una fine annunciata ma inevitabile

Gli showrunner Ashley Lyle e Bart Nickerson hanno confermato la notizia con una dichiarazione intensa e riconoscente:

“Dopo tre incredibili stagioni e grande considerazione, siamo entusiasti di annunciare che porteremo la storia di Yellowjackets alla sua conclusione più contorta in questa quarta e ultima stagione. Raccontare questa storia selvaggia, emotiva e profondamente umana è stata un’esperienza straordinaria. Siamo grati al cast, alla troupe e soprattutto ai fan: l’alveare non esisterebbe senza di voi”.

La serie, che inizialmente era stata pensata per cinque stagioni, si chiuderà dunque prima del previsto. Ma, come spesso accade nella giungla dell’intrattenimento, la sopravvivenza non è mai garantita. In un panorama televisivo in cui i tagli colpiscono anche i titoli più amati, riuscire ad avere un finale pianificato è già un lusso.

Il fascino disturbante della sopravvivenza

Forse è proprio questo che ha reso Yellowjackets una serie tanto potente: la sua capacità di scavare nei meandri più oscuri dell’animo umano. Non è solo una storia di adolescenti abbandonate a se stesse dopo un disastro aereo. È una parabola crudele sul potere, la fede e la follia.

La Foresta — con la F maiuscola, perché ormai è un personaggio a sé — non è solo un luogo fisico, ma una divinità primordiale, un’entità che divora lentamente la mente delle protagoniste. E anche quando, anni dopo, le vediamo adulte e apparentemente “salve”, quella voce della foresta continua a chiamarle, insinuandosi tra i ricordi e i sensi di colpa.

Dalla rivelazione al declino

La prima stagione era stata una rivelazione: un intreccio di tensione, sangue e superstizione che ricordava Lost, ma con un’anima decisamente più disturbante. Le stagioni successive hanno faticato a mantenere quella stessa intensità, alternando momenti di puro genio a trame più frammentarie. Il pubblico, tuttavia, non ha mai smesso di seguire le “api regine”, alimentando forum, teorie e discussioni degne di un culto.

E sì, alcuni misteri sono stati finalmente risolti — il più celebre: l’identità della “Pit Girl” — ma altri continuano a bruciare come ferite aperte. Il simbolo, quell’enigmatica runa che ricorre ovunque, resta un rebus mitologico. E ogni nuova rivelazione sembra solo aggiungere strati di inquietudine.

Un fenomeno culturale

Chris McCarthy, Co-CEO di Paramount Global e presidente di Showtime/MTV Entertainment Studios, ha definito Yellowjackets “un colosso culturale”, lodando la terza stagione per aver “frantumato ogni record precedente”. E non è difficile capire il perché. Il mix tra horror psicologico, dramma adolescenziale e narrazione corale ha creato un linguaggio unico, capace di parlare tanto ai fan del thriller quanto a chi ama le storie di formazione contaminate dal buio.

Il merito va anche al cast: Melanie Lynskey, Christina Ricci, Tawny Cypress e Juliette Lewis (la cui interpretazione resta tra le più intense della sua carriera) hanno dato vita a personaggi complessi, spezzati, umani. Un mosaico di sopravvissute che non cercano la redenzione, ma solo di convivere con i propri demoni.

L’ultimo morso dell’alveare

La quarta stagione, già in sviluppo, promette di chiudere il cerchio con una conclusione “deliziosamente” inquietante — parola degli stessi autori. Ci si attende un ritorno alle origini, a quella tensione viscerale che aveva reso la prima stagione un piccolo capolavoro.

E allora la domanda sorge spontanea: scopriremo finalmente la verità dietro il simbolo? La foresta lascerà andare le sue vittime? O il vero orrore è ciò che le ragazze hanno portato con sé nel mondo civile?

Per ora non esiste una data di uscita ufficiale per Yellowjackets 4, ma le prime tre stagioni sono disponibili su Paramount+ (e le prime due anche su Netflix). E in attesa di rimettere piede nella foresta, possiamo solo prepararci psicologicamente.

Perché quando Yellowjackets tornerà, lo farà per l’ultima volta. E sarà affamata.

Lioness 3: Zoe Saldaña e Nicole Kidman tornano nella serie spy-thriller di Taylor Sheridan su Paramount+

Il ruggito è tornato. Allacciate le cinture, nerd e amanti dello spy-thriller: Paramount+ ha finalmente sciolto ogni riserva e ha rinnovato Lioness per una terza stagione. Una decisione attesa con un hype pazzesco dalla community, arrivata dopo un dietro le quinte degno delle migliori operazioni sotto copertura: trattative serrate, agenda delle star da incastrare e una posta in gioco altissima per uno dei titoli più tesi e geopoliticamente “caldi” della TV contemporanea.

Al timone resta Taylor Sheridan, architetto di universi narrativi ad alta pressione e maestro nel trasformare conflitti globali in drammi umanissimi. Negli ultimi anni il suo marchio di fabbrica ha ridisegnato il paesaggio seriale con personaggi più grandi della vita, moralmente complessi e dialoghi taglienti. In questo ecosistema, Lioness è diventata un perno: un’unità clandestina, agenti sotto copertura gettati nella zona grigia tra dovere e sacrificio, e missioni dove ogni scelta costa cara.

Il ritorno delle due colonne: Saldaña e Kidman

La notizia che accende i radar è il ritorno di Zoe Saldaña e Nicole Kidman. Non solo protagoniste in scena, ma anche executive producer dal peso specifico enorme. Se l’impegno di Saldaña per un terzo ciclo era già in cassaforte, la partecipazione di Kidman ha richiesto un fine lavoro di incastri e rinegoziazioni — comprensibile, vista una stagione professionale fittissima e ricca di riconoscimenti. Il loro sì mette il sigillo di qualità su un progetto che punta a coniugare ritmo, azione e riflessione politica senza anestetizzare le zone d’ombra.

Il “gioco a scacchi” dei contratti e il fascino (nero) dell’intelligence

Perché tanta attesa? Semplice: le trattative per un cast così prestigioso sono complessissime. Portare a casa la combinazione Saldaña–Kidman significa garantire al pubblico non solo volti iconici, ma la continuità di quella visione autoriale che ha fatto di Lioness un’esperienza densa, dove la spettacolarità non cancella il “costo umano” della guerra segreta.

Flashback: dove ci aveva lasciati Lioness

Nata come costola laterale nell’universo di Sheridan, Lioness: Operazione Speciale ha trovato presto una sua identità feroce.
Stagione 1: dentro il cuore del programma, guidato dalla carismatica e lacerata Joe McNamara (Saldaña). L’innesco emotivo è stato Cruz Manuelos (Laysla De Oliveira), giovane marine lanciata in un’infiltrazione letteralmente da infarto: entrare nella vita della figlia di un sospetto finanziatore del terrorismo. Un’immersione nel trauma e nei compromessi di chi vive stabilmente sul filo.
Stagione 2: acceleratore schiacciato e focus che si sposta in Messico, tra cartelli, poteri criminali che mutano pelle e pressioni istituzionali intollerabili. Joe, Kaitlyn Meade (Kidman) e Byron Westfield (Michael Kelly) si muovono tra necessità operative e voragini personali, mentre il programma cerca una nuova Lioness. Se l’esordio aveva diviso parte della critica, il secondo capitolo ha stretto le viti: tono più cupo, trama più serrata, crescita evidente nel consenso del pubblico.

L’“impero” Sheridan e la rotta produttiva

Il rinnovo di Lioness 3 è anche un segnale chiarissimo: Paramount+ continua a investire nell’ecosistema Sheridan, considerandolo uno dei pilastri del proprio racconto seriale. Le nuove riprese punteranno sul mega–campus produttivo di AllianceTexas, la “fabbrica delle storie” dove lo showrunner ha impostato una pipeline capace di sostenere progetti multipli (qui hanno già preso forma produzioni come Landman 2). La parola d’ordine? Ambizione, in scala e in controllo creativo.

Chi rivedremo sul campo

Oltre a Saldaña e Kidman, tornano i volti chiave che hanno dato spessore allo show: Michael Kelly, Morgan Freeman, Laysla De Oliveira, Genesis Rodriguez, Dave Annable, Jill Wagner. Un ensemble che lavora sulla tensione psicologica quanto sull’azione, perfetto per una serie che vive di decisioni spurie, fiducia fragile e lealtà a tempo.

Perché Lioness non è “solo” intrattenimento muscolare

Dietro la carica adrenalinica, Lioness funziona come una lente: ingrandisce la linea sottilissima tra dovere, sacrificio e disumanizzazione, interrogando lo spettatore sul prezzo della sicurezza e sui confini etici dell’azione coperta. È qui che la serie vincerà o perderà la sua scommessa nella terza stagione: continuare a farci discutere dopo i titoli di coda.

E adesso tocca a voi, squadra CorriereNerd

La rotta è tracciata, ma l’obiettivo resta avvolto nella nebbia operativa.
Secondo voi, Lioness 3 guarderà a nuove crisi a Est, aprendo scenari inediti, o scaverà ancora di più nelle fratture interne dei servizi, tra conflitti morali e tradimenti? Joe e Kaitlyn riusciranno a non farsi inghiottire dalla macchina che tengono in moto?
Parliamone nei commenti: teorie, wish list, paure, hype. Condividete l’articolo con la vostra cellula nerd di fiducia: l’operazione community è in corso, e il briefing migliore è quello che facciamo insieme.

Scott Bakula e il sogno di “Star Trek: United” – Il ritorno di Jonathan Archer tra politica, intrighi e Federazione

Sono passati vent’anni da quando Star Trek: Enterprise ha chiuso i portelloni dell’NX-01, lasciando nei fan un senso di nostalgia e di incompiutezza. Eppure, il tempo nel multiverso di Star Trek è una dimensione elastica, fatta di ritorni inaspettati e nuove prospettive. Ed ecco che oggi un’idea prende forma: rivedere Scott Bakula non più come capitano, ma come Presidente Jonathan Archer, in una serie dal titolo provvisorio Star Trek: United.

Dietro il progetto c’è Michael Sussman, veterano della scrittura trekker con decine di episodi di Voyager e Enterprise alle spalle. La sua visione? Un dramma politico maturo, che abbandoni i viaggi tra nebulose e warp drive per raccontare le fondamenta della Federazione dei Pianeti Uniti. Un esperimento narrativo che molti hanno già paragonato a The West Wing o The Diplomat, e che ambirebbe a fare per Star Trek quello che Andor ha fatto per Star Wars: mostrare l’anima politica e fragile di un universo che abbiamo sempre visto soprattutto attraverso le sue navi stellari.


Un seme piantato vent’anni fa

La scintilla non nasce dal nulla, ma da un dettaglio che solo i fan più attenti ricordano. Nell’episodio In a Mirror, Darkly – Part II di Enterprise, un breve dossier sul futuro dell’Archer “Prime” rivelava che il nostro capitano sarebbe diventato prima ammiraglio e poi Presidente della Federazione. Un easter egg voluto proprio da Sussman, rimasto silente per anni ma mai dimenticato.

Quando, in piena era Picard, lo sceneggiatore ha ripescato quell’appunto e ne ha parlato con Bakula, l’attore si è detto subito entusiasta. Da lì è partita una collaborazione che oggi ha assunto la forma di una vera proposta: sceneggiatura pilota, archi narrativi, concept art e un’idea chiara di tono e direzione.


Archer statista: un West Wing interstellare

Lontano dall’eroismo esplorativo delle prime serie, Star Trek: United metterebbe al centro un Archer più maturo, alle prese con dilemmi diplomatici e scelte che segneranno il destino della Federazione nascente. Le tensioni tra i mondi fondatori, i conflitti etici legati alla Prima Direttiva e gli intrighi interstellari diventerebbero il terreno narrativo della serie.

Non più “la missione della settimana”, ma trame fitte e continue, capaci di intrecciare il respiro epico di Star Trek con la concretezza del realismo politico. Una sfida narrativa che, nelle intenzioni di Sussman, potrebbe parlare non solo ai fan di lunga data, ma anche a chi ama i grandi thriller geopolitici.


Il primo contatto con Paramount (e il problema del tempismo)

Il progetto fu portato anni fa agli studi di Alex Kurtzman, ma il momento non era favorevole. I budget erano ridotti, e una nuova serie – Starfleet Academy – rischiava di sovrapporsi tematicamente. Così l’idea venne accantonata, senza però essere abbandonata.

Bakula e Sussman hanno continuato a lavorarci, spostando la sede narrativa da San Francisco a Babel, pianeta simbolo della diplomazia trekker fin dai tempi della Serie Classica. Una mossa che allontanerebbe United dal contesto accademico e lo porterebbe su un terreno più ampio, interstellare, e al tempo stesso carico di rimandi alla tradizione.


Una nuova occasione grazie a Paramount e Skydance

Oggi, dopo la fusione di Paramount con Skydance e con la nuova direzione di David Ellison, le possibilità si riaprono. I vertici hanno espresso interesse per storie che sappiano mescolare eredità del passato e freschezza narrativa. Progetti come Star Trek: Year One o il possibile ritorno del Kelvinverse dimostrano che le acque sono in fermento.

In questo contesto, Star Trek: United potrebbe finalmente trovare la sua collocazione: una serie meno spettacolare dal punto di vista visivo, ma intensa, stratificata e perfettamente in linea con i tempi attuali, in cui le tensioni politiche e i giochi di potere sono quanto mai attuali.


Perché ci serve una serie così?

Star Trek: United non sarebbe solo un tributo a Scott Bakula o un “regalo” ai nostalgici di Enterprise. Sarebbe un’occasione per colmare un vuoto narrativo, per raccontare la nascita della Federazione con la complessità che merita.

In un’epoca in cui il franchise cerca nuovi modi per restare rilevante, questa serie offrirebbe uno sguardo inedito e adulto, capace di mostrare come dietro ogni viaggio tra le stelle ci sia sempre un fragile equilibrio politico. E ci permetterebbe di esplorare un Archer che, dopo aver guidato l’NX-01, si ritrova a guidare un’intera civiltà verso il futuro.


Il futuro a curvatura… politica

Se Star Trek: United vedrà davvero la luce, potremmo assistere a uno degli esperimenti più audaci nella storia del franchise. Un ponte narrativo tra Enterprise e le serie moderne, un laboratorio di idee politiche ed etiche che parlano tanto di noi quanto del futuro che immaginiamo.

E, soprattutto, un’occasione unica di rivedere Scott Bakula nei panni di un personaggio che non abbiamo mai smesso di amare. Questa volta senza uniforme da capitano, ma con il peso – e la speranza – di un’intera Federazione sulle spalle.


E tu cosa ne pensi? Ti piacerebbe vedere una serie di Star Trek che abbandona le battaglie spaziali per tuffarsi negli intrighi diplomatici e politici della nascita della Federazione? Facci sapere nei commenti su CorriereNerd.it e unisciti alla discussione nella nostra community!

Vita da Carlo: l’ultimo atto di Carlo Verdone arriva su Paramount+ dal 28 novembre

Dal 28 novembre, in esclusiva su Paramount+, andrà in onda la stagione finale di Vita da Carlo, la serie autobiografica – ma sempre giocata con intelligenza comica e autoironia – che segna l’ultimo capitolo di un viaggio televisivo unico nel panorama italiano. In occasione dell’annuncio, è stata rilasciata la key art ufficiale e confermata l’anteprima assoluta alla prossima Festa del Cinema di Roma, ulteriore sigillo di prestigio per un’opera che racconta molto più di una semplice fiction: è un vero autoritratto generazionale. Dietro la macchina produttiva ritroviamo Luigi e Aurelio De Laurentiis, mentre la scrittura porta la firma di Carlo Verdone insieme a Pasquale Plastino e Luca Mastrogiovanni, con il contributo creativo di Nicola Guaglianone e Menotti. Alla regia, lo stesso Verdone si alterna con Valerio Vestoso, in un equilibrio tra tradizione e freschezza stilistica.

Una storia di cadute e rinascite

La trama riparte dal terremoto mediatico che aveva travolto Carlo nella terza stagione, quando una gaffe durante il Festival di Sanremo lo aveva catapultato nel mirino della cancel culture. Stanco della gogna pubblica e desideroso di silenzio, l’attore aveva scelto l’esilio volontario a Nizza, lontano dai riflettori italiani. Una scelta quasi catartica, che gli ha permesso di rimettere in ordine i pensieri e dedicarsi a sé stesso, lontano dall’assillo delle aspettative.

Eppure, proprio quando tutto sembrava destinato a spegnersi nella quiete francese, arriva la telefonata inaspettata: il direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia gli propone di insegnare regia. È il colpo di scena che rimette Verdone in pista, pronto a trasformare la sua esperienza in un ultimo grande atto creativo.

Roma, gli allievi e lo scontro generazionale

Il ritorno nella Capitale, quasi in sordina, segna un cambiamento profondo. Carlo riscopre il piacere di passeggiare anonimo per le strade di Roma, senza l’assedio costante di selfie e fan. Lontano dall’ossessione di “dover piacere”, trova la sua nuova missione: formare sei giovani registi del Centro Sperimentale.

Qui esplode il cuore del racconto: il contrasto tra un uomo che ha fatto del cinema la sua vita e un gruppo di ventenni cresciuti tra social network, sensibilità politicamente corrette e un’idea di narrazione lontana dalle convenzioni. Due mondi che parlano lingue diverse ma che, episodio dopo episodio, si incontrano e si scontrano, rivelando quanto sia difficile ma necessario costruire un ponte tra generazioni creative.

Il percorso non sarà semplice: colleghi ostili, produttori diffidenti, compromessi inevitabili. Eppure Verdone comprende che non si tratta di riabilitare la sua immagine pubblica, ma di lasciare un’eredità concreta, guidando i ragazzi alla realizzazione di un film collettivo sul tema della solitudine. Una scelta tematica potente, che trasforma la serie in un meta-racconto sul cinema stesso come specchio della società.

Tra cinema e famiglia: il microcosmo verdoniano

Parallelamente, non mancano i fili narrativi che da sempre colorano l’universo verdoniano: la famiglia. Chicco e Maddalena, travolti dai preparativi del matrimonio; Annamaria e Sandra, incastrate nelle loro relazioni complicate; Giovanni ed Eva, rientrati dalla Nuova Zelanda con una sorpresa destinata a sconvolgere gli equilibri domestici. Tutti, inevitabilmente, finiscono per rivolgersi al solito punto di riferimento: Carlo. Una costante che ribadisce, tra risate e malinconie, quanto Verdone sia capace di raccontare le dinamiche quotidiane meglio di chiunque altro.

Un cast corale e stellare

Accanto al protagonista troviamo volti amatissimi e presenze sorprendenti: Sergio Rubini, Monica Guerritore, Antonio Bannò, Caterina De Angelis, Maria Paiato, Claudia Potenza, Filippo Contri e un irresistibile Maccio Capatonda. Non mancano le guest star, da Francesca Fagnani a Renzo Rosso, passando per Giovanni Veronesi, Vera Gemma e un’icona della commedia come Alvaro Vitali.

La coralità si allarga ulteriormente con la partecipazione di Roberto Citran, Aida Flix, Tommaso D’Agata, Phaim Bhuiyan e tanti altri nomi che arricchiscono un mosaico di volti e talenti. Una scelta precisa che restituisce la sensazione di trovarsi davanti a un affresco vitale, dove il cinema italiano si osserva allo specchio.

Un addio o un nuovo inizio?

Vita da Carlo non è solo l’ultima stagione di una serie. È una riflessione sul mestiere dell’attore e del regista, sul rapporto tra memoria e futuro, sulla fragilità di chi vive sotto i riflettori e sulla necessità di reinventarsi sempre. Con l’arma della sua inconfondibile ironia, Verdone accompagna lo spettatore in un percorso che sa di bilancio esistenziale, ma anche di passaggio di testimone.

Il finale non sarà soltanto un addio, ma forse l’inizio di un nuovo capitolo, quello in cui Carlo si spoglia del ruolo di protagonista assoluto per diventare guida silenziosa, maestro dietro le quinte. E in questo gesto, paradossalmente, c’è forse la sua più grande dichiarazione d’amore al cinema.

Star Trek: Strange New Worlds 3 – Una stagione di luci, ombre e nuove frontiere

C’è un suono che per ogni trekker non è semplice rumore di scena, ma pura nostalgia che vibra nel cuore: il ronzio del teletrasporto, il beep del ponte di comando, e quella frase immortale che ancora oggi è un inno all’immaginazione: «Spazio, ultima frontiera». Ogni volta che risuona, è come se una porta dimensionale si aprisse davanti a noi. Con la terza stagione di Star Trek: Strange New Worlds giunta al termine con l’episodio Nuova vita e nuove civiltà, quella porta si è spalancata ancora una volta, mostrando paesaggi narrativi tanto affascinanti quanto contraddittori.

Dal debutto del 17 luglio fino al gran finale dell’11 settembre, abbiamo vissuto un viaggio che ha alternato momenti di autentico splendore a episodi più fragili, tanto da farci chiedere: la serie ha già raggiunto il suo apice creativo? Oppure questo è solo un passaggio necessario prima di un rilancio ancora più audace nelle prossime due stagioni già confermate?


Una stagione sperimentale e imprevedibile

Gli showrunner Akiva Goldsman e Henry Alonso Myers avevano promesso episodi che avrebbero osato oltre i confini della formula classica. Promessa mantenuta. La stagione ha spaziato da scontri epici con i Gorn a matrimoni Klingon che si trasformano in intrighi politici, passando per un murder mystery in pieno stile Agatha Christie ambientato a bordo dell’Enterprise e persino per un episodio mockumentary che sembrava un incrocio tra Black Mirror e Rick & Morty.

L’impressione è che la writers’ room abbia deciso di divertirsi sperimentando con i generi, senza paura di rischiare. A volte il risultato è stato sorprendente, altre volte dissonante, ma di certo mai monotono. È stata una stagione che ha preferito il rischio alla sicurezza, anche a costo di lasciare qualcuno perplesso.


Il lato comico: tra triboli e pupazzi

Da sempre Star Trek inserisce episodi più leggeri per bilanciare l’intensità della narrazione. Dalla serie classica con Il problema dei triboli a momenti più ironici in The Next Generation, la vena comica è una tradizione. Ma in questa stagione il pendolo ha oscillato un po’ troppo verso il farsesco. Quattro episodi su dieci hanno scelto toni buffi o eccessivamente artificiosi, e non sempre con la grazia che ci si aspetta dal franchise.

Il caso più emblematico? Quattro Vulcaniani e mezzo, un episodio che ha lasciato più imbarazzo che risate. Anche l’avventura sul ponte ologrammi, Un’ora di avventure spaziali, ha diviso il fandom tra chi l’ha vista come una ventata di freschezza e chi come un eccesso di leggerezza. La comicità può funzionare come spezia narrativa, ma se diventa l’ingrediente principale rischia di coprire il gusto autentico della saga.


Le dinamiche da soap opera: Spock al centro

Un altro aspetto che ha fatto discutere è l’accento sulla vita sentimentale di Spock, interpretato da Ethan Peck. La sua relazione con l’infermiera Christine Chapel (Jess Bush) è diventata uno dei filoni centrali, portando il vulcaniano a confrontarsi con emozioni e scelte romantiche quasi più che con dilemmi scientifici o etici.

Se da un lato è affascinante vedere un nuovo volto di Spock – vulnerabile, innamorato, persino geloso – dall’altro molti fan hanno avvertito una deriva eccessivamente “soap”, quasi a suggerire che gli sceneggiatori abbiano usato il romance come stampella narrativa. Star Trek ha sempre intrecciato storie d’amore, ma come condimento, non come portata principale.


Troppo Kirk, troppo presto?

Paul Wesley, chiamato a vestire i panni di James T. Kirk, si è ormai conquistato la simpatia di buona parte del fandom. Eppure la sua presenza in ben quattro episodi rischia di oscurare il vero protagonista di questa serie: il Capitano Christopher Pike, interpretato da un carismatico Anson Mount.

Il rischio è che Strange New Worlds si trasformi troppo presto in un prequel diretto della TOS, bruciando l’opportunità di raccontare l’epopea di Pike e del suo equipaggio come storia a sé stante. Perché se è vero che Kirk è destinato a salire sulla plancia dell’Enterprise, lo è altrettanto che i fan vogliono ancora godersi l’era Pike senza sentirla come una lunga attesa verso ciò che già conosciamo.


Fantascienza o fantasy mascherato?

Altro punto delicato: l’equilibrio tra scienza e fantasy. Non è la prima volta che Star Trek flirta con il soprannaturale: basti pensare al Q Continuum o ai profeti di Bajor. Ma in questa stagione gli episodi con possessioni divine, zombie cosmici e cliché da dark fantasy hanno fatto storcere il naso a chi cerca nel franchise soprattutto stimoli scientifici e speculazioni plausibili.

La prima stagione brillava per episodi di pura fantascienza speculativa, capaci di unire meraviglia e rigore. Qui invece si è preferito spesso l’effetto spettacolare, a scapito della coerenza scientifica. Per la quarta stagione, il desiderio espresso a gran voce dai fan è chiaro: più scienza, meno “magia”.


Il cast e le guest star

Il cuore pulsante della serie resta il suo cast corale. Anson Mount conferma Pike come il capitano empatico e riflessivo che avremmo voluto da sempre. Rebecca Romijn regala solidità al ruolo di Numero Uno, mentre Celia Rose Gooding (Uhura), Melissa Navia (Ortegas), Christina Chong (La’an) e Babs Olusanmokun (M’Benga) continuano a portare freschezza e umanità.

Tra le guest star, spiccano nomi come Rhys Darby e Patton Oswalt, ma soprattutto il ritorno di Cillian O’Sullivan nei panni di Roger Korby, personaggio che affonda le radici nella serie classica. E poi l’ingresso di Martin Quinn come Montgomery “Scotty” Scott: sentire riecheggiare «I can’t change the laws of physics!» ha riacceso l’entusiasmo dei fan storici.


Una stagione di contrasti, ma ancora piena di speranza

La terza stagione di Strange New Worlds non è stata perfetta: ha alternato episodi da antologia a scivoloni narrativi che hanno fatto discutere la community. Ma, ed è qui il punto, ha osato. Ha provato a sperimentare, a mischiare generi, a cercare nuove strade. In fondo, non è questo lo spirito di Star Trek?

La serie originale crollò alla sua terza stagione e non ebbe mai una quarta per riscattarsi. Oggi, invece, abbiamo la fortuna di poter assistere a un percorso più lungo. E la speranza è che gli autori sappiano raccogliere le critiche per correggere la rotta, tornando a quell’alchimia di scienza, avventura ed esplorazione che ha reso immortale la saga.


Star Trek e il suo rinascimento

Non dimentichiamo il contesto più ampio: Star Trek sta vivendo un vero rinascimento. Dopo le difficoltà legate agli scioperi di Hollywood del 2023-2024, la macchina si è rimessa in moto a pieno ritmo. Con progetti come Section 31, Starfleet Academy, le nuove stagioni di Discovery, Lower Decks e Picard, l’universo Trek è più vivo e fertile che mai.

Strange New Worlds è parte di questa nuova era, un tassello fondamentale di un mosaico che parla di diversità, progresso e identità con la stessa forza visionaria di sempre.


Lunga vita e prosperità

La terza stagione di Star Trek: Strange New Worlds è stata un regalo contraddittorio ma prezioso: ci ha fatto sorridere, discutere, emozionare. Ha confermato che questa serie non vuole essere un semplice revival nostalgico, ma un laboratorio narrativo che guarda al futuro.

Ora tocca a noi, fan e viaggiatori della galassia nerd, tenere viva la discussione. Qual è stato l’episodio che vi ha colpito di più? Avete apprezzato le scelte coraggiose degli autori o avreste preferito un approccio più classico? Scrivetelo nei commenti: come in ogni ponte di comando che si rispetti, la missione continua solo se l’equipaggio partecipa.

Lunga vita e prosperità, trekkers. 🖖

Scary Movie 6: il grande ritorno dei fratelli Wayans con Anna Faris e Regina Hall

Le urla si mescolano alle risate, di nuovo. Tredici anni dopo l’ultima volta, Scary Movie torna a colpire. E questa volta non si tratta di un semplice sequel, ma di una vera e propria reunion generazionale che promette di riportare sul grande schermo l’irriverente follia dei primi capitoli. Scary Movie 6 è ufficialmente in arrivo, e il solo nome dei fratelli Wayans — Keenen Ivory, Shawn e Marlon — basta a far tremare (dal ridere) il mondo dell’horror. Il nuovo film, prodotto da Paramount, entrerà in produzione a ottobre 2025 e arriverà nelle sale il 12 giugno 2026, pronto a trasformare l’estate in una giostra di scream e gag sopra le righe. Alla regia troveremo Michael Tiddes, già collaboratore storico dei Wayans in Ghost Movie e Cinquanta sbavature di nero, mentre la sceneggiatura vedrà riuniti i creatori originali insieme a Rick Alvarez. Un ritorno alle origini, dunque, dove la parodia torna ad affilare le unghie come una lama di Ghostface.


Il grande ritorno: Cindy e Brenda sono tornate

Il web è letteralmente esploso alla notizia del ritorno di Anna Faris e Regina Hall, le indimenticabili Cindy Campbell e Brenda Meeks. Due personaggi diventati sinonimo di comicità demenziale, sopravvissute (più o meno) a fantasmi, serial killer, alieni e persino bambini indemoniati. Le attrici hanno commentato l’annuncio con ironia perfettamente in linea con lo spirito del franchise:

“Non vediamo l’ora di riportare in vita Brenda e Cindy e di riunirci con i nostri grandi amici Keenen, Shawn e Marlon — tre uomini per i quali moriremmo volentieri… nel caso di Brenda, di nuovo!”

Marlon Wayans ha poi incendiato i social postando una foto delle due attrici ai tempi del primo film, accompagnata solo dalla sigla “SM6” e da un’emoji a forma di occhio. È bastato quello per scatenare migliaia di commenti e teorie: segno che la nostalgia, quando incontra l’ironia, sa ancora fare miracoli.


Una saga che ha cambiato le regole del gioco

Quando nel 2000 Scary Movie approdò nelle sale, il cinema horror viveva una rinascita. L’eredità di Scream di Wes Craven aveva riportato in auge il genere, e i Wayans decisero di ribaltarlo con una parodia impietosa, dissacrante e allo stesso tempo geniale. Il pubblico rispose con un’ovazione: oltre 900 milioni di dollari incassati nel mondo, una valanga di citazioni pop e un esercito di fan che ancora oggi ripetono battute come mantra.

Ma dopo il secondo capitolo, l’uscita di scena dei fratelli Wayans segnò l’inizio di un lento declino. Le gag divennero prevedibili, l’ironia meno pungente, e l’anima originale sembrava svanita. Per questo, l’annuncio del loro ritorno non è solo una notizia: è una redenzione cinematografica. È il ritorno dei veri maestri del demenziale.


Scary Movie 6: cosa ci aspetta

Secondo le prime anticipazioni rilasciate da Marlon Wayans a ComicBook.com, il nuovo Scary Movie prenderà di mira alcuni dei titoli più influenti dell’horror contemporaneo. Nel mirino ci sono Scappa – Get Out e Nope di Jordan Peele, due opere che hanno rivoluzionato il genere con una miscela di tensione sociale e simbolismo visionario. Accanto a loro, non mancheranno riferimenti a Longlegs, il fenomeno horror del 2024 con Nicolas Cage nei panni di un serial killer satanico, e a The Exorcist: Il Credente, reboot targato Blumhouse del classico di Friedkin.

Un altro bersaglio nel mirino dei Wayans sarà Sinners, l’horror sovrannaturale ambientato nel Mississippi degli anni ’30 firmato da Ryan Coogler, tra i maggiori successi dell’anno.
E, naturalmente, non potevano mancare i grandi classici del terrore anni ’90: Scream e So cosa hai fatto, già parodiati nei primi film, torneranno in una chiave metacinematografica che potrebbe giocare sul contrasto tra vecchia e nuova generazione di horror.

Tutto lascia intendere che Scary Movie 6 sarà una gigantesca lettera d’amore (e di sberleffo) al cinema horror moderno, in grado di unire cultura pop, nostalgia e satira contemporanea.


Una doppia reunion, un’eredità viva

Per i fratelli Wayans, questo film è più di un progetto: è un ritorno alle origini, ma anche una riunione di famiglia. «Ricordiamo ancora le risate nei corridoi dei cinema», hanno dichiarato. «È una doppia reunion: con i fan e tra di noi».
Anche Jonathan Glickman, presidente di Miramax, ha confermato l’entusiasmo:

«Scary Movie 6 è perfettamente in linea con i tempi. È raro oggi poter portare in sala una commedia corale capace di parlare a più generazioni.»

Del resto, Scary Movie non è mai stato solo una parodia: è un termometro culturale. Un modo per prendere in giro le nostre paure collettive, trasformandole in risate liberatorie. I Wayans hanno sempre avuto questa capacità: leggere il momento storico e raccontarlo con umorismo tagliente e un ritmo da cartoon per adulti.


L’attesa è iniziata

Oggi, in un panorama dominato da reboot e sequel, Scary Movie 6 rappresenta una rarità: un ritorno richiesto a gran voce dai fan, costruito sull’affetto per un’epoca in cui ridere dell’horror era un rito collettivo. Se riuscirà a ritrovare il giusto equilibrio tra follia slapstick, parodia intelligente e critica pop, il film potrebbe riportare la saga al centro della cultura geek, proprio come accadde all’inizio degli anni Duemila.

Il conto alla rovescia è ufficialmente iniziato: 12 giugno 2026, segnate la data. Le urla torneranno a farsi sentire nelle sale… ma questa volta, saranno seguite da una risata.

E voi? Quali film pensate verranno presi di mira stavolta? Ditecelo nei commenti su CorriereNerd.it — perché ridere insieme, dopotutto, è ancora il modo migliore per esorcizzare le nostre paure più nerd.

Star Trek 60 anni: celebrazioni, nuove serie e il futuro della saga

L’anno che verrà non è un anno qualunque per chi vive e respira il cosmo della fantascienza. Il 2026, infatti, si prepara a segnare un traguardo epocale: il sessantesimo anniversario di Star Trek, la saga che ha proiettato il piccolo schermo verso l’infinito. Ben più di una semplice serie TV, l’opera visionaria di Gene Roddenberry si è tramutata in un fenomeno culturale che ha scolpito il DNA di intere generazioni di sognatori, scienziati e narratori. Ha anticipato tecnologie che oggi ci appaiono scontate, come il comunicatore tascabile o il traduttore universale, e ha seminato un messaggio che ancora oggi risuona potente: la vera forza non risiede nell’omologazione, ma nella ricchezza della diversità. Non stupisce, quindi, che nel corso dei decenni abbia collezionato una pioggia di riconoscimenti, da 33 Emmy a 5 Hugo e persino un Oscar. Ma il premio più grande è aver dato vita a un universo autonomo, abitato da una comunità straordinaria: i trekker, i pionieri di quel che oggi chiamiamo fandom, capaci di trasformare le convention in autentici festival di cultura nerd.

Un Futuro per Tutti: La Missione dell’Enterprise

Il cuore di queste celebrazioni batte al ritmo di un messaggio tanto potente quanto semplice: “Spazio per tutti”. Non è uno slogan vuoto, ma un invito appassionato a immaginare un futuro intriso di speranza, esplorazione e inclusione, esattamente come Roddenberry lo aveva concepito nella turbolenta atmosfera degli anni Sessanta. In un’epoca segnata da incertezze e fratture, questo monito risuona più forte che mai, agendo come una bussola morale che ci ricorda una verità inconfutabile: il futuro non è un’eredità da ricevere passivamente, ma un’avventura da costruire insieme, sulla base solida della conoscenza e della collaborazione.

La Parata Stellare e il Ritorno alle Origini con Starfleet Academy

I festeggiamenti si apriranno in grande stile, con un evento che farà vibrare il cuore di milioni di fan. Il primo gennaio 2026, il leggendario Rose Parade® di Pasadena accoglierà un maestoso carro allegorico interamente dedicato a Star Trek. Sarà il preludio di una parata stellare che celebrerà sessant’anni di avventure intergalattiche e, al contempo, offrirà una gustosa anteprima di una delle produzioni più attese: la nuova serie Star Trek: Starfleet Academy. Un lancio simbolico che manda un messaggio forte e chiaro: la Flotta Stellare ha ancora nuove generazioni da ispirare, e il viaggio è appena ricominciato. La serie ci condurrà tra i corridoi della celebre accademia, seguendo il percorso di un gruppo di giovani cadetti che si destreggiano tra amicizie, amori, lezioni e sfide che ne forgeranno il destino. Un intrigante mix di drama e fantascienza creato per conquistare tanto i fan storici, che scopriranno nuovi volti e storie, quanto i neofiti. Il cast si arricchisce di nomi di altissimo calibro come Holly Hunter nel ruolo della Cancelliera e comandante della U.S.S. Athena, e Paul Giamatti in quello dell’antagonista principale, una coppia che promette performance attoriali stellari. Potete avere un assaggio di questa entusiasmante novità nel trailer ufficiale:

L’Enterprise Continua a Viaggiare e il Passato Torna a Ruggire

Mentre molti appassionati hanno appena salutato la terza stagione di Star Trek: Strange New Worlds, Paramount+ ha già dato il via libera alle stagioni 4 e 5. L’Enterprise, sotto la guida del capitano Christopher Pike, proseguirà la sua missione di esplorare nuovi mondi e confrontarsi con civiltà inedite, riportando in auge quel fascino episodico che ha reso immortale la serie classica. Un segnale inequivocabile: il franchise non si nutre solo di nostalgia, ma è più vivo e dinamico che mai.

Ma le celebrazioni non dimenticano le radici. Il passato rivivrà attraverso il podcast narrativo Star Trek: Khan, che esplora gli eventi di Ceti Alpha V e la trasformazione di Khan, uno degli antagonisti più iconici di sempre. Con la voce di Naveen Andrews (il Sayid di Lost) e la partecipazione di George Takei, l’originale Capitano Sulu, il podcast si propone di aggiungere un tassello inedito al mito di Star Trek II: L’ira di Khan. Nuovi episodi sono disponibili ogni lunedì fino al 3 novembre. Non perdete il trailer di questo imperdibile viaggio nel passato:

Non Solo Schermo: Nuove Frontiere per il Fandom di Star Trek

Il 2026 sarà un anno di partnership a dir poco storiche, che porteranno lo spirito della Federazione oltre lo schermo. Per la prima volta, la saga collaborerà con un colosso del calibro di LEGO per creare set ufficiali, un sogno che i fan più accaniti accarezzavano da decenni. Preparatevi a costruire l’Enterprise mattoncino dopo mattoncino o a ricreare le scenografie più celebri. Per un’anteprima, date un’occhiata qui:

L’espansione non si ferma qui: Star Trek approderà anche su WEBTOON, la piattaforma di webcomic con oltre 155 milioni di utenti globali, per aprirsi a nuove generazioni e a nuove forme di narrazione. E per i trekker del futuro, arriverà Star Trek: Scouts, la prima serie animata prescolare, già disponibile su YouTube. Con episodi brevi e divertenti, tre piccoli esploratori vivranno avventure pensate per avvicinare i bambini all’universo Trek, senza perdere lo spirito educativo e il senso di meraviglia che lo contraddistingue. Trovate qui un assaggio di questa serie dedicata ai più piccoli:

La Missione Continua: “Boldly Go Green”

In perfetto spirito progressista, le celebrazioni per il 60° anniversario non si limiteranno a festeggiamenti e uscite inedite. In collaborazione con l’organizzazione no-profit DoSomething, verrà lanciata la campagna “Boldly Go Green”, pensata per sensibilizzare i giovani sui temi cruciali della sostenibilità ambientale. È un modo per fondere la fantasia della Flotta Stellare con le responsabilità del nostro presente, per ricordarci che esplorare nuove galassie non ha senso se non siamo in grado di prenderci cura della nostra casa, la Terra. Il 60° anniversario di Star Trek non è solo un’occasione per celebrare un passato glorioso. È un momento per guardare al futuro, e per chiederci dove la saga ci porterà nei prossimi sessant’anni. Per restare aggiornati, Star Trek lancerà l’hub ufficiale dell’anniversario – StarTrek.com/60 –, che sarà la casa digitale delle celebrazioni per tutto l’anno. All’interno del portale sarà possibile consultare il calendario completo delle attività, con nuove partnership, eventi speciali e tante occasioni di partecipazione per i fan. Già da ora potete visitare l’hub e iscrivervi per essere tra i primi a ricevere aggiornamenti su iniziative esclusive, nuovi gadget, merchandise dedicato e molto altro. Se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che la missione di Star Trek è in continua evoluzione, e che il motto di Roddenberry non smetterà mai di essere un monito e un’ispirazione: andare là dove nessuno è mai giunto prima.

E voi, lettori di CorriereNerd.it, come vi preparate a festeggiare questo anniversario leggendario? Qual è il vostro ricordo più caro legato alla saga? Raccontatecelo nei commenti e condividete questo articolo sui vostri social network, l’Enterprise vi aspetta a bordo!