I cinque samurai: il clone di Saint Seiya che non ce l’ha fatta a diventare un cult!

“I cinque samurai” è un anime televisivo giapponese prodotto dalla Sunrise e dalla Nagoya Television composto da 39 episodi trasmessi in Giappone dal 30 aprile 1988 al 4 marzo 1989. L’anime è stato trasmesso per la prima volta in Italia nell’aprile 1990 su Italia 7, per poi approdare su altre reti come TMC e Junior TV. Nonostante l’assenza di violenza esplicita o presenza di sangue, non è mai andato in onda su reti Mediaset, fatta eccezione per il canale Hiro.

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Anche grazie  alle bellissime action figure (al tempo superiori a quelle di Saint Seiya per molti aspetti), questa serie ha goduto di un discreto seguito in Italia, anche se è stata trasmessa solo su reti con minore copertura nazionale. Tuttavia, ha riscosso un grande successo in paesi come Giappone, Stati Uniti e Francia. Sono stati prodotti tre OAV ispirati alla serie, insieme a un manga, numerosi romanzi e audio drama. In Italia, sia la serie animata che gli OAV sono distribuiti dalla Yamato Video.

La storia di “I cinque samurai” si svolge circa mille anni prima dell’avventura narrata negli episodi. Il mondo era devastato da guerre alimentate da rancore e smania di potere, che hanno dato vita a Harago, uno spirito maligno dotato di un’armatura con immensi poteri di distruzione. Un monaco-guerriero di nome Hariel sconfisse e eliminò Harago, ma decise di dividere la sua armatura in nove pezzi destinati ad altrettanti uomini virtuosi per combattere il male. Ogni armatura rappresentava una virtù: giustizia, saggezza, fiducia, determinazione, sensibilità, fedeltà, clemenza, franchezza e tenacia. Secoli dopo, gli Spiriti del Male risvegliarono lo spirito di Harago, assegnando quattro armature corrotte a quattro uomini demoniaci. Le restanti cinque armature furono invece affidate a cinque nobili samurai per combattere il male. Durante la serie, compare l’armatura bianca, che rappresenta la fusione delle cinque armature dei samurai.

“I cinque samurai” rispecchia molte caratteristiche della cultura giapponese, con le armature che rappresentano gli elementi tradizionali e i demoni associati a concetti negativi. Nonostante alcuni spunti interessanti, la serie presenta alcune lacune logiche e manca di originalità. La grafica e la regia sono buone per l’epoca, ma la trama risulta piatta e prevedibile. In conclusione, “I cinque samurai” non è un clone de “I Cavalieri dello Zodiaco”, ma manca di originalità e logica. Nonostante alcuni temi interessanti, la serie non riesce a distinguersi e ad offrire una narrazione coinvolgente e appassionante. Oltre alle promesse non mantenute, la serie soffre di superficialità e mancanza di coerenza, che la rendono una visione deludente per chi cerca un’esperienza animata più profonda e coinvolgente.

L’anime di Gundam Origini

Gundam – Origini è un manga che rappresenta un adattamento originale della popolare serie televisiva anime Mobile Suit Gundam. La storia è stata scritta e disegnata da Yoshikazu Yasuhiko, il character designer della serie TV, insieme a Kunio Ōkawara, responsabile del mecha design. Nel 2015, lo studio Sunrise ha deciso di portare il manga su schermo con una serie animata in formato OAV composta da quattro episodi, distribuiti tra il 28 febbraio 2015 e il 19 novembre 2016. Successivamente, è stata prodotta una seconda stagione di due episodi, trasmessa dal 2 settembre 2017 al 5 maggio 2018. In Italia, l’anime è stato pubblicato da Dynit con il titolo Mobile Suit Gundam: The Origin ed è stato disponibile su Daisuki, una piattaforma di streaming a pagamento, fino alla sua chiusura. Attualmente, la serie può essere vista su Prime Video a partire dall’autunno del 2020.

La storia di Gundam – Origini si svolge in un futuro in cui l’umanità ha iniziato a colonizzare lo spazio per risolvere i problemi di sovraffollamento e carenza di risorse sulla Terra, durante un periodo chiamato Universal Century. Nell’anno U.C. 79, la colonia spaziale chiamata Zeon dichiara la sua indipendenza dalla Federazione Terrestre, dando inizio alla guerra di un anno. Il protagonista della storia, Amuro Ray, vive nella colonia Side 7, finora risparmiata dalla guerra, ma la Federazione decide di utilizzarla per un programma militare segreto. Quando le forze di Zeon si rendono conto di quest’intento, inviano una squadra di robot da combattimento chiamati mobile suit per ostacolare i piani della Federazione. Durante gli scontri a Side 7, Amuro scopre il prototipo di mobile suit terrestre RX-78 Gundam e riesce a pilotarlo con successo per distruggere gli attaccanti, mettendo in fuga anche Char Aznable, un famoso pilota di Zeon. In seguito, Amuro si unisce all’esercito come membro dell’equipaggio della corazzata spaziale Base Bianca, la flotta più potente della Federazione e una minaccia costante per Zeon. Qui diventa un abile pilota e sviluppa anche delle abilità psichiche latenti chiamate newtype, che rappresentano l’evoluzione dell’uomo nello spazio.

Nel 2011, lo studio Sunrise ha annunciato l’intenzione di adattare il manga in una serie animata. Inizialmente, si progettava di animare la storia precedente dei personaggi Casval e Artesia, oltre agli eventi precedenti alla guerra di un anno contenuti nei volumi dal 9 al 12 del fumetto. Questi contenuti sono stati riorganizzati in una serie OAV composta da quattro episodi, proiettata in anteprima in un numero limitato di sale cinematografiche giapponesi. Il primo episodio, chiamato “Blue Eyed Casval”, è stato proiettato per la prima volta il 28 febbraio 2015 e poi commercializzato per il mercato home video dal 24 aprile dello stesso anno. Il secondo episodio, intitolato “Artesia’s Sorrow”, ha debuttato il 31 ottobre e poi è stato messo in vendita dal 26 novembre 2015. Il terzo episodio, chiamato “Dawn of Rebellion”, è stato proiettato in anteprima al cinema e in streaming a partire dal 21 maggio 2016, mentre in DVD e Blu-ray dal 10 giugno dello stesso anno. Il quarto e ultimo episodio, “Eve of Destiny”, è stato presentato per la prima volta il 19 novembre e poi distribuito in formato home video a partire dal 9 dicembre 2016.

In Italia, la serie è stata pubblicata da Dynit. Il primo episodio è stato proiettato al cinema il 23 e 24 giugno 2015 e reso disponibile in DVD e Blu-ray dal 28 ottobre dello stesso anno, sia in edizione standard che in edizione First Press, che includeva trailer, un quaderno con disegni preparatori per lo storyboard e un booklet con schede sui personaggi e approfondimenti. Il secondo episodio è stato commercializzato a partire dall’11 marzo 2016, il terzo dal 26 ottobre 2016 e il quarto dal 1º marzo 2017. La serie è stata trasmessa in tutto il mondo, ad eccezione del Giappone e della Cina, in simulcast su Daisuki, con le versioni in giapponese e inglese e sottotitoli in inglese, francese, tedesco, coreano e cinese tradizionale e semplificato.

Successivamente, è stata prodotta una seconda stagione di due episodi, che si concentra sulla battaglia di Loum e andata in onda dal 2 settembre 2017 al 5 maggio 2018. Yoshikazu Yasuhiko, autore del manga, aveva dichiarato di voler continuare l’adattamento per coprire anche la guerra di un anno, ma con l’uscita del sesto episodio il team ha annunciato la conclusione del progetto.

Witch Hunter Robin

La serie di Witch Hunter Robin, creata da Shukō Murase, è composta da ventisei episodi e rappresenta uno dei migliori risultati degli ultimi anni.  Realizzata nel 2002 sotto l’egida della Sunrise, mare di Cowboy Bebop, narra le vicende di Robin, cacciatrice di streghe /stregoni dai poteri particolari, che si trova ad affrontare uno scontro fra agenzie che gestiscono queste attività. Witch hunter Robin rientra in un filone iniziato da Hellsing due anni prima, nel quale l’ambientazione assume i toni gotici tipici dei romanzi ottocenteschi decadentisti. I personaggi hanno poteri simili a quella di streghe, che confermano l’approccio ad una materia solo in parte inaspettata. S pensi a lavori quali Blood, Vampire hunter D: Bloodlust, lo stesso Hellsing, al bolso Devil lady, sono tutte opere aventi come tema quello di Vampiri, Streghe, esseri soprannaturali che sono di fatti il retaggio di certa letteratura occidentale. Tutto questo è legato ad una moda, esplosa anni prima con X-files ma confermata da serie televisive quali Alias, 24 o addirittura dal Codice da Vinci di Dan Brown, ossia quella del complotto, della congiura.

Insomma, Witch Hunter Robin è sicuramente un prodotto caratterizzato da codici contemporanei, e influenzato da correnti più o meno esplicite delle arti visivo/sonore di oggi. In questo rappresenta una novità fino ad un certo punto. Ciò che colpisce è altro, aspetti collaterali comunque importanti. Dal punto di vista prettamente stilistico un character design adulto, figlio di quello di Cowboy bebop.

Un’animazione non sempre lineare e fluida, ma con momenti davvero potenti. Si pensi all’episodio in cui l’agenzia per cui Robin lavora viene attaccata: la tensione raggiunge vertici unici, esaltati peraltro da musiche di rara bellezza. Inventive interessanti, che però a lungo andare stancano. La struttura narrativa in  effetti sembra girare un po’ a vuoto, mira a prolungare la materia fino all’ultimo episodio, con l’inevitabile conseguenza che la sensazione finale sia di forzatura. Del tutto originale è invece la rappresentazione dei rapporti fra i personaggi. Non c’è una vera e propria amicizia che li lega, spesso sono indifferenti, spesso trattengono le emozioni. Questo è sicuramente l’aspetto più reale della serie, che fa assimilare i personaggi come esseri umani e non come elementi di umana fantasia.

Riguardo a questo, una menzione particolare spetta alla stessa Robin. Per certi versi questa ragazza ricorda lo Shinji di Evangelion. Infatti è chiusa ed introversa, perché diversa. Questo elemento di diversità (che sta alla base dell’intera serie) è percepito come la causa di tutte le separazioni, delle avversità, degli odi. Ma è l’amore il primo passo per la comprensione, a cui segue l’accettazione dell’”altro”, del diverso. Il finale è un po’ vago, e non trova una soluzione compiuta. Nonostante tutto Witch hunter Robin affascina e coinvolge a sufficienza. Un accenno particolare va alla colonna sonora, ottima e funzionale, e alla splendida sigla iniziale, assolutamente impedibile.

Colorful, il film di Keiichi Hara ed Eto Mori

Keiichi Hara, il celebre regista insignito della Medaglia d’Onore con Nastro Viola dal governo giapponese, porta sul grande schermo il film d’animazione “Colorful.” Uscito nel 2010 e basato sul romanzo omonimo della rinomata scrittrice Eto Mori, questa non è la prima volta che una delle opere di Mori viene adattata per il cinema. La serie di romanzi “Dive!!” ha avuto anche una versione cinematografica dal vivo.

Hara, conosciuto per la sua semplicità ed eleganza come narratore, offre una dramma intellettualmente stimolante che risuona profondamente nello spettatore. “Il regista Hara cattura la magia di momenti sfuggenti e inaspettati. Le chiacchiere tra amici, le battute banali, il sorriso di qualcuno che ti affascina, le promesse innocenti, uno sguardo che resta quando si guarda indietro,” ha dichiarato Eto Mori, l’autrice del romanzo originale, quando l’adattamento anime è stato pubblicato. “Il pubblico si renderà conto che la nostra vita quotidiana è costruita su cose inaspettate e che è permeata da una vasta gamma di colori.”

In “Colorful,” un’anima si trova incarnata in un giovane uomo che si è suicidato per espiare i suoi peccati. Dopo la morte, una nuova reincarnazione sarebbe stata impossibile, ma un angelo annuncia che ha vinto alla Grande Lotteria Celestiale. Il premio? L’anima può riguadagnare la sua memoria e, insieme ad essa, i ricordi dei suoi peccati. Così, il quattordicenne Makoto Kobayashi miracolosamente torna in vita sulla Terra poco dopo il suo suicidio.

Intorno al giovane si muove un padre ipocrita, la cui carriera nel baseball è stata interrotta da un affare di corruzione losco, una madre coinvolta in loschi affari con un insegnante d’inglese e un fratello che si traveste da donna. Fondamentalmente, tutti nel mondo di Makoto potrebbero spingerlo verso una nuova fine tragica se non fosse per il fatto che lo spirito al suo interno è completamente diverso: il timido e ritirato Makoto è un ricordo del passato. Il nuovo Makoto è estroverso, capace di allenare una squadra di baseball femminile e di entrare negli spogliatoi delle ragazze. La tragedia si trasforma in commedia.Ma i problemi sono ancora lì, pronti ad esplodere, poiché i guai della famiglia non scompariranno con una battuta.

Per quanto riguarda lo staff del film, prodotto da Sunrise e distribuito da Toho, la sceneggiatura è stata scritta da Maruo Miho (School Rumble), mentre il character design é stato creato da Atsushi Yamagata (Yokohama Kaidashi Kikou OAV, Hakkenden, Tower of Druaga: the Sword of Uruk).

Origini e innovazioni di Gundam

Mobile Suit Gundam fu ideata da Yoshiyuki Tomino insieme al gruppo creativo della Sunrise che utilizzava lo pseudonimo Hajime Yatate con l’intenzione di presentare una serie robotica molto realistica, incentrata su un tema specifico introdotto da un interrogativo di fondo: perché gli uomini continuano a farsi la guerra?

 

Tra le diverse fonti di ispirazione è indicata anche l’opera dello scrittore di fantascienza americano Robert A. Heinlein Starship Troopers, del 1959: in particolare, l’idea di base del mobile suit deve le sue origini alla powered suit (tuta potenziata nella traduzione italiana del romanzo) immaginata da Heinlein. La serie doveva intitolarsi inizialmente Freedom Fighter Gunboy o più semplicemente Gunboy (in inglese, gun = pistola, boy = ragazzo), perché il robot del titolo era armato con un fucile ed il target di riferimento del programma erano i ragazzi. Nei primi stadi della produzione c’erano, quindi, numerosi richiami alla parola inglese freedom (libertà): per esempio la nave madre White Base (Base Bianca) si chiamava in origine Freedom’s Fortress (Fortezza della Libertà), il Core Fighter era il Freedom Wing (Ala della Libertà) ed il Gunperry (l’aereo da trasporto per mobile suit) si chiamava Freedom Cruiser (Incrociatore della Libertà). Il nome tuttavia non fu ritenuto efficace, ed il gruppo Yatate provò allora a combinare la parola “gun” con l’ultima sillaba di “freedom”, per formare la parola “Gun-dom”, ma a Tomino non piaceva l’effetto della sua trascrizione in katakana e così lo cambiò ancora nel definitivo “Gun-dam”, spinto anche dal significato che in questo modo il nome acquisiva: un’arma potente abbastanza da trattenere i nemici, come una diga (in inglese “dam”) trattiene le inondazioni. Il gruppo di produzione continuò quindi a sviluppare la trama e l’aspetto dei mezzi e dei personaggi fino al Gundam che conosciamo oggi.
 

Proprio la prima serie televisiva rappresenta un punto di svolta nella storia degli anime e dei manga robotici, in quanto capostipite del sottogenere dei cosiddetti real robot.Esso differisce da quello precedentemente in voga dei super robot per diversi aspetti stilistici e tematici, quali la verosimiglianza tecnologica e la complessità della trama sotto il profilo morale, che pure si riscontrano in embrione già in una precedente opera di Tomino, la serie Muteki Chojin Zanbot 3 (Zambot 3), prodotta sempre dalla Sunrise. Sotto il primo profilo, almeno nelle prime opere ambientate nell’Universal Century, tutti i mezzi sono trattati come macchine “vere”, che necessitano di energia, munizioni e riparazioni in caso di danni o malfunzionamento. La tecnologia è verosimile ed implica nozioni scientifiche, come i punti di Lagrange, i cilindri di O’Neill come ambiente di vita nello spazio, e la produzione di energia basata sul ciclo di fusione nucleare dell’elio 3. I mobile suit (“armature mobili”, generalmente abbreviati in MS) sono macchine antropomorfe multiuso ai comandi in genere di un singolo pilota. Ogni mezzo è realistico, si può sporcare, danneggiare, rompere od esplodere, ed è provvisto di una sigla di identificazione o numero di serie come un qualunque mezzo militare (per esempio il Gundam della prima serie è contrassegnato dalla sigla RX-78-02).

 

Ma, al di là del realismo tecnologico ampiamente sottolineato, l’innovazione forse più importante, introdotta anche questa soprattutto con le serie ambientate nell’Universal Century ed in parte ripresa da quelle della Cosmic Era, sta invece proprio nello spostamento dell’attenzione dalle macchine ai personaggi, cosa che segna maggiormente la differenza con le serie dei “super robot” alla Go Nagai, dove un eroe “buono”, spesso e volentieri identificato nel robot salvatore, deus ex machina per antonomasia, si contrappone il più delle volte ad un nemico incarnazione del male assoluto. Proprio questo tratto morale un po’ manicheo e semplicistico lascia il posto, in Gundam, ad una complessità drammaturgica in cui la stereotipata contrapposizione tra bene e male viene scardinata con il riferimento, pure questo assolutamente realistico, alla tragica avventura umana della guerra in quanto tale, che non è mai fatta da buoni contro cattivi, ma da esseri umani che, per ragioni spesso a loro estranee, sono costretti in ogni caso ad affrontare morte, distruzione ed alienazione. E di questi personaggi gli autori approfondiscono le emozioni, i sentimenti, le ambizioni e la psicologia, inquadrando il tutto in una cornice di verosimiglianza storica che tiene il passo con architetture fantapolitiche di lignaggio letterario. Conseguenza di tale impostazione è, tra l’altro, l’articolazione delle serie in puntate concatenate l’una all’altra in modo non autoconclusivo, secondo un meccanismo narrativo molto più avvincente che non quello delle precedenti serie, in cui il canovaccio di ciascun episodio si ripeteva sempre simile finché ad un certo punto il nemico veniva sconfitto e la serie terminava.

 

 

 

 

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