Le catacombe Romane

Le catacombe sono forse i luoghi archeologici sui quali sono nate il maggior numero di storie e leggende: è molto diffusa, ad esempio, l’idea che fossero dei rifugi, per sfuggire alle persecuzioni, e che in questi sotterranei si svolgessero delle riunioni segrete, basta pensare alle sequenze di film famosissimi…

In realtà non erano affatto dei luoghi segreti: le autorità romane sapevano benissimo dove si trovavano le catacombe, inoltre, per quanto ne sappiamo, qui i Cristiani non si riunivano affatto come dei partigiani, ma venivano alla spicciolata, unicamente per pregare i loro morti.

C’è un altro mito da sfatare, e cioè che le catacombe erano tutte collegate tra loro, creando una specie di gigantesca rete sotterranea. In realtà non potevano superare i confini delle proprietà nelle quali erano state scavate, e in questo, le leggi romane erano severissime. Proprio per questo si svilupparono in verticale, su più piani, un po’ come le miniere, a volte anche per venti metri, cioè quanto un edificio di sei piani, come, ad esempio, nelle Catacombe di Priscilla.Le catacombe non erano altro che cimiteri, e il nome di ogni catacomba deriva dal martire sepolto, o dal nome del proprietario che aveva donato il terreno sotto al quale veniva successivamente scavata.

Nell’immaginario collettivo le catacombe non sono altro che una serie infinita di loculi scavati nel tufo, attraversati da corridoi molto stretti e bui, ma in realtà (purtroppo) questo è il risultato di una serie di devastazioni avvenute in epoche successive, soprattutto a cavallo tra il 1500 e il 1700, quando si aprivano le tombe per cercare le ossa dei martiri.

I defunti venivano inumati nelle nicchie che poi venivano richiuse con delle lastre di marmo, o, molto più spesso, con delle tegole e, a volte, in un solo corridoio trovavano posto più di cinquecento tombe.

Non è vero che i corridoi fossero bui, venivano illuminati da una miriade di lucerne posate su dei piccoli davanzai, ancora oggi se ne trovano molte sigillate nella malta. Sulle lastre, a volte, si leggono ancora i nomi, ma è raro: solitamente i morti erano seppelliti senza iscrizioni, e questo perchè all’epoca c’era moltissimo analfabetismo. Così per riconoscere il loculo del proprio defunto, i parenti fissavano nell’intonaco ancora fresco, degli oggetti: piccole conchiglie o pezzi di vetro colorati.

A volte sulle lastre tombali c’erano delle forature, che servivano a far passare del cibo all’interno della tomba: era il cosiddetto “refrigerium”, cioè un rito che consisteva nel banchettare assieme al defunto il giorno dell’anniversario della sua morte…in questi riti c’era ancora un po’ di paganità.

Le catacombe nacquero nel II secolo d.C.

Inizialmente si sfruttarono delle cave abbandonate di tufo, delle cisterne, ma poi, in seguito, le catacombe vennero scavate con una straordinaria precisione ingegneristica: i soffitti erano altissimi e le pareti rettilinee. Gli autori di queste gallerie erano i “fossori”, si tramandavano la professione di padre in figlio, e gestivano tutte le catacombe: erano loro che scavavano i corridoi, scavavano i loculi, inumavano i morti, dipingevano gli affreschi e scrivevano i nomi (dietro lauto compenso, ovviamente)

Si sa di casi in cui accettavano mazzette per sostituire delle salme nei punti più ambiti, magari vicino alle tombe dei martiri, o anche rivendevano più volte la stessa tomba.La paura di essere traslati era tale, che molti specificavano addirittura sulla lastra tombale, di essere i legittimi proprietari. Non tutti però venivano messi nei loculi, chi se lo poteva permettere, aveva un proprio sarcofago. C’era anche chi aveva delle cappelle, che si trovano un po’ ovunque, disseminate in questi corridoi,e qui però, è tutto un tripudio di affreschi molto belli, e hanno mantenuto i loro colori fino ai giorni nostri.

Nelle pitture che si trovano all’interno delle cappelle ci sono anche delle piccole sorprese: ad esempio nelle Catacombe di Priscilla c’è una Madonna con il Bambino considerata la più antica che si conosca, ha quasi 2000 anni ed è un piccolo capolavoro dell’antichità, anche se è in parte danneggiato.

Con le prime incursioni barbariche nel V secolo d.C. le catacombe cominciarono ad essere gradualmente abbandonate, e le salme dei martiri vennero traslate in luoghi più protetti.

di Annarita Sanna

Il cuore di Nerone

Tra i 2 milioni di sanpietrini che compongono l’enorme piazza di San Pietro, si nasconde un sanpietrino molto particolare noto ai romani come “Il cuore di Nerone”. Si tratta di un piccolissimo bassorilievo a forma di cuore trovato dai ragazzini di Borgo Pio che passavano il loro tempo libero a giocare nella piazza con una palla fatta di stracci e soprannominato in questo modo per nessun motivo particolare. È conosciuto anche con i nomi di “Cuore di Bernini” e “Cuore di Michelangelo” e le leggende che corrono su questa piccolissima opera d’arte sono numerosissime. Secondo la prima è opera di Bernini in segno di un amore mai trovato, la seconda narra che è frutto del lavoro di Michelangelo come simbolo di un amore infranto, un’altra leggenda ancora dice che fu una donna a crearlo per ricordare il marito condannato a morte ingiustamente.

Un’ultima leggenda racconta che fu inciso tristemente da un soldato durante il discorso che Garibaldi tenne qui il 2 luglio 1849, prima di abbandonare Roma, sancendo così di fatto la fine della famosa “Repubblica Romana”.

Intraprendere la ricerca senza una minima traccia è un’impresa impossibile data la sua piccolezza nel complesso della piazza. Il cuore di Nerone si trova nel Libeccio della Rosa dei Venti piantata nella piazza, ed è sicuramente passata sotto milioni di occhi ma identificata poche volte.

Va anche detto che il pavimento della piazza è stato rifatto varie volte, l’ultima nel 1936. In quest’ultima occasione vennero sostituiti tutti i sampietrini preesistenti, tranne però proprio quelli interni ai riquadri della Rosa dei Venti, probabilmente per la forma irregolare dei riquadri stessi, o forse per il materiale ed il colore leggermente diversi rispetto agli altri sampietrini della piazza. Sembra perciò che il “cuore di Nerone” non sia andato perduto per una serie di circostanze incredibilmente fortunose.

Si trova ancora lì, a testimonianza di un passato che, davanti alle migliaia di opere d’arte straordinarie che Roma può vantare, potrebbe apparire ai più trascurabile ma che invece andrebbe trattato con maggior rispetto anche dai romani stessi che, di fatto, per la maggior parte, ignorano il meraviglioso coacervo di leggende, storia e identità che essa trasmette.

di Annarita Sanna

Gli obelischi di Roma

Se un antico egizio potesse visitare Roma oggi, una delle cose che lo colpirebbero di più, oltre al traffico e alle macchine, sarebbero sicuramente gli obelischi. Perchè a Roma ce ne sono tantissimi, anzi, è il luogo fuori dall’Egitto dove si concentrano più obelischi al mondo: pensate, ce ne sono addirittura tredici!

Il termine “obelisco” fu coniato dai greci, i primi viaggiatori eruditi dell’antichità: Obelos in greco vuol dire spiedo, e obelisco che è un diminutivo, vuol dire spiedino. Un termine un po’ irriverente e ironico per queste strutture che svettavano in cielo. Ogni faraone costruiva degli obelischi per avere la protezione, la forza del dio Sole, o anche solo per ringraziarlo di una vittoria…possiamo dunque considerarli dei giganteschi ex voto. Ma erano anche considerati un simbolo del potere, perchè dovevano ricordare a tutti, qualora ce ne fosse stato bisogno, proprio questo legame diretto tra il faraone e il dio Sole.

Le dimensioni degli obelischi e le loro dimensioni non sfuggirono agli imperatori romani, che li vollero portare a Roma come simbolo della grandezza del loro impero.

Certo, non doveva essere facile trasportare qualcosa di così immenso: Caligola, per esempio, per trasportare l’obelisco che attualmente si trova in piazza San Pietro ed è il secondo in altezza tra i tredici presenti a Roma, dovette far costruire una nave gigantesca, che venne utilizzata in seguito dall’imperatore Claudio come isola artificiale, quando costruì il suo porto ad Ostia, la fece trainare al largo, la riempì di calcestruzzo, l’affondò e sopra ci mise il faro.

Su questo obelisco sono nate molte leggende popolari, si diceva, ad esempio, che la sfera contenesse le ceneri di Cesare, e nella Roma papalina si credeva che chi fosse riuscito a passare sotto l’obelisco, tra i leoni, avrebbe ottenuto la remissione di tutti i peccati…

Un fatto però è certo: l’obelisco di piazza San Pietro non è originale: come si può notare non ci sono dei geroglifici…ha sì più di duemila anni (Caligola lo fece trasportare nel 40 d.C.) Possiamo considerarlo un “falso originale” perchè è stato realizzato dagli antichi romani sempre in Egitto, e lì eretto in un quartiere romano della città, poi trasportato a Roma per volere dell’imperatore.

Viene da chiedersi a cosa servissero gli obelischi a Roma, visto che a raccontare le gesta degli imperatori c’erano già archi trionfali e costruzioni ciclopiche.

L’obelisco che si trova in piazza del Popolo fu costruito da uno dei faraoni più famosi e potenti dell’antico Egitto: Ramesse II e fu innalzato a Heliopolis più di tremila anni fa. Fu portato a Roma da Augusto, nel 10 a.C., e sistemato al centro del circo Massimo, così dopo aver visto le processioni dei sacerdoti egizi, questo obelisco assistette per ben cinque secoli alle corse delle bighe.

Ma non sempre gli obelischi dovevano ricordare la forza di un imperatore: l’obelisco che si trova di fronte a Montecitorio, anche questo portato da Augusto, servì come gnomone di un’immensa meridiana, più grande di un campo di calcio, in Campo Marzio.

Riflettendoci bene, nessun passante o automobilista ci fa caso, ma l’obelisco che si innalza a piazza San Giovanni, è il più grande obelisco egizio conosciuto, raggiunge i 32 metri di altezza e ha una base di 3 metri per lato, con un peso di 340 tonnellate. E’ immenso, imponente, e riassume tutta la potenza del faraone Tutmosis III, eppure, malgrado la mole, fu abbattuto : in epoca medievale infatti, la popolazione di Roma era ridottissima, avvolta dalla miseria e dall’ignoranza; dilagò la furia di un’integralismo simile a quello dei talebani oggi, si credeva infatti che dentro questi obelischi ci fosse la sede del demonio, e che per questo erano riusciti a sopravvivere a tutto: ai terremoti, alla fine dell’Impero Romano, ai saccheggi…e quindi si decise di abbatterli, vennero smussati e spezzati gli spigoli, e poi vennero buttati giù…scomparendo così dalla storia.

Vennero ritrovati solo nel Rinascimento,sotto sette metri di terra, e i papi di allora decisero di innalzarli di nuovo, in una Roma in piena rinascita, e divennero “capolavori nei capolavori”, come a piazza Navona, dove l’obelisco realizzato per celebrare l’imperatore Domiziano è come un diamante incastonato nella fontana dei Quattro Fiumi del Bernini.

Slanciandosi verso l’alto, gli obelischi contribuivano a dare movimento all’architettura delle piazze.

Straordinario è l’obelisco che si trova in piazza della Minerva: è appoggiato su un piccolo elefantino, un’opera progettata dal Bernini, che voleva sintetizzare in questo modo, la forza e lo spirito che bisogna avere per riuscire a sorreggere il peso della saggezza, ma nell’immaginario collettivo, quest’ opera aveva tutt’altra lettura: significava tutto il peso e le critiche che il Bernini aveva dovuto sopportare in quegli anni dalla Chiesa, e non è un caso che quest’elefantino porga le terga al Collegio dei Domenicani…

C’è un fatto curioso che riguarda gli obelischi a Roma, e cioè che in tempi moderni, anzi, recentissimi, ne è stato eretto uno. E’ quello è stato voluto da Mussolini; pochi lo sanno, ma dietro questo monumento, c’è stato un lavoro immenso. E’ composto da due blocchi sovrapposti che sono stati scavati nelle cave di Carrara, ed è stata un’opera davvero sovrumana, che ha avuto anche delle vittime, e che è ricaduta interamente sulle spalle degli abili scalpellini che lavoravano nelle cave di Carrara da infinite generazioni. Come in antichità, i blocchi sono stati portati su delle slitte e poi imbarcati su navi speciali, che hanno dovuto attendere le piene del Tevere per poter risalire fino al sito dell’innalzamento definitivo.

Per gli Egizi erano un simbolo religioso, per i Romani un simbolo di potere, e per il Rinascimento l’elemento centrale dell’architettura: hanno visto passare faraoni, imperatori, papi e re, e svettano ancora alti e possenti per raccontarci tutte le storie e le leggende che conoscono: il tempo per loro, sembra davvero non passare mai!

di Annarita Sanna

Le salsicce del Pantheon

In piazza della Rotonda a Roma c’è una targa che ricorda l’opera di demolizione, fatta eseguire da Pio VII nel 1823, con l’obiettivo di liberare la piazza da ignobili taverne e dal mercato che ne deturpavano la bellezza e restituirla al pubblico godimento:

PAPA PIO VII NEL XXIII ANNO DEL SUO REGNO

A MEZZO DI UN’ASSAI PROVVIDA DEMOLIZIONE

RIVENDICÒ DALL’ODIOSA BRUTTEZZA L’AREA DAVANTI AL PANTHEON DI M. AGRIPPA

OCCUPATA DA IGNOBILI TAVERNE E

ORDINÒ CHE LA VISUALE FOSSE LASCIATA LIBERA IN LUOGO APERTO

In zona poi, ancora aleggiava il ricordo di un certo macabro fatto di cronaca avvenuto all’inizio del Seicento. Si raccontava che due coniugi originari di Norcia vendevano con gran successo delle salsicce dalla bontà incredibile e particolare. La fama di queste salsicce tenne cartello per parecchi anni finché un giorno cominciò a girar la voce che quella che si vendeva non era propriamente tutta carne di maiale, ma bensì anche carne umana.

La notizia, che ovviamente fece restare gli attoniti consumatori a bocca aperta e con lo stomaco rivoltato, arrivò alle orecchie del Capitano di Giustizia (una sorta di attuale Commissario di Polizia), che dopo una veloce indagine, appurò che il fatto non era una semplice diceria, ma la cruda realtà. Questi due esperti norcini, per far le salsicce più saporite, attiravano infatti nella cantina della loro bottega ignari clienti piuttosto in carne e li uccidevano a colpi di bastone. Poi, bruciati i loro abiti e le ossa, impastavano la carne nelle salsicce, ottenendo così quel prodotto trovato tanto buono, al punto che molti ghiottoni di Roma lo ricercavano.Processati, vennero condannati a morte e la sentenza, tramite il taglio della testa, fu eseguita sotto il pontificato di Urbano VIII, il 3 febbraio 1638.

Al riguardo, nella tradizione dei detti romaneschi, è rimasta l’abitudine di esclamare “Ha fatto a fine dei “noricini da’ Rotonna” riferendosi a qualcuno che tarda ad arrivare o che non dà più notizie di sé.

di Annarita Sanna

L’Auditorium di Mecenate

Nel quartiere Esquilino di Roma, in via Merulana, si conserva una sala semi-sotterranea decorata di affreschi, unico resto del complesso architettonico appartenente a Mecenate. Il monumento, tradizionalmente conosciuto come Auditorium di Mecenate ma in realtà antico ninfeo, è situato all’interno del giardino pubblico in Largo Leopardi (lungo la via Merulana) e ancora ben conservato nel suo complesso; il suo ritrovamento è avvenuto nel 1874, nell’ambito dei grandi lavori di scavo per la costruzione del nuovo quartiere Esquilino, subito dopo la proclamazione di Roma Capitale del Regno d’Italia.

L’edificio è oggi coperto da una moderna tettoia, mentre in antico aveva una copertura a volta. E’ costituito da un’ampia sala larga 13 e lunga 24 metri, con un’abside semicircolare sul fondo che presenta una gradinata costituita da sette stretti gradini concentrici. L’accesso, sul lato opposto alla gradinata, avveniva lateralmente mediante una doppia rampa di accesso in discesa, di cui si conserva oggi solo l’ultimo tratto.

Questo ci conferma che la sala era in origine seminterrata, e questo costituiva anzi la sua principale caratteristica; l’edificio doveva essere parte di un più vasto e lussuoso complesso residenziale fatto costruire da Mecenate, il celebre statista collaboratore di Augusto, eseguendo grandi lavori (come ricordano famosi versi di Orazio), in particolare la bonifica del sepolcreto che si estendeva subito fuori le Mura cd. Serviane (cui l’edificio si addossa) e il riempimento del fossato antistante le mura stesse. La caratteristica più evidente dell’edificio è tuttavia la decorazione pittorica, effettuata agli inizi del I secolo d.C., conservata sia nelle nicchie che sopra di esse, dove corre un lungo fregio su sfondo nero con scene dionisiache e giardini miniaturistici; raffigurazioni analoghe erano anche nelle nicchie che movimentano le pareti laterali e la parete curva di fondo, affrescate internamente come se fossero delle finestre, aperte su lussureggianti giardini ricchi di vasche e fontane, e animati da piccoli uccelli in volo. La gradinata che caratterizza la parete di fondo, dai gradini troppo stretti per far pensare ad una cavea teatrale (ipotesi che all’epoca della scoperta diede al monumento il suo attuale nome) è identificabile invece con una fontana monumentale.

Questa sala, riccamente decorata e allietata da giochi d’acqua che accrescevano la frescura dell’ambiente già seminterrato, doveva essere destinata a “triclinio estivo”, cioè a luogo di riunioni conviviali e culturali. alcuni versi di un epigramma del poeta greco Callimaco, rinvenuti dipinti sull’intonaco esterno dell’abside, che alludono agli effetti del vino e dell’amore, costituiscono un’ulteriore prova dell’utilizzo della sala come un cenacolo di intellettuali.

di Annarita Sanna

Il Museo Nazionale di Palazzo Venezia

Il Museo Nazionale di Palazzo Venezia ha sede in quella che fu la grandiosa dimora papale del veneziano Paolo II Barbo (1464-1471), grande appassionato di collezionismo e iniziatore ideale del destino museale ed artistico dell’edificio. Istituito nel 1921, il museo polarizza il suo interesse attorno alle cosiddette arti applicate. Le sue raccolte si sono formate a partire da un primo nucleo di sculture e opere provenienti da Castel Sant’Angelo, dalla galleria Nazionale d’Arte Antica e dalle collezioni del vicino Museo del Collegio Romano fondato nel seicento dall’enciclopedico gesuita Athanasius Kircher.

Il materiale artistico dell’originaria collezione era composto di opere prevalentemente di epoca medievale e rinascimentale, testimonianza di particolari settori dell’arte decorativa come piccoli bronzi, smalti, marmi, ceramiche di manifattura italiana.Il suo primo ordinamento si deve a Federico Hermanin (1871-1953), Direttore e al tempo stesso Soprintendente alle Gallerie del Lazio e dell’Abruzzo, il quale realizzò un allestimento mirato a far rivivere al visitatore lo spirito degli antichi fasti di una ricca dimora rinascimentale, esponendo, nella parte più antica del complesso architettonico di San Marco, pitture, mobili e arredi del Quattro e Cinquecento.

Tra il 1924 ed il 1926 alle collezioni originarie si aggiunsero vari oggetti (interi corredi ceramici, mobili chiesastici, argenterie, oreficerie e paramenti sacri) confiscati agli ordini religiosi soppressi alla fine del secolo scorso e provenienti da varie comunità monastiche sul territorio regionale e da edifici distrutti e pesantemente danneggiati in Abruzzo dal terremoto della Marsica del 1915.Nel 1929 il palazzo fu scelto da Benito Mussolini come sede del Capo del Governo e il museo, che pure conservò formalmente la sua denominazione ed il suo ordinamento, fu praticamente chiuso e divenne visitabile solo dietro autorizzazione degli organi di Pubblica Sicurezza.Dopo la parentesi della guerra, in seguito a consistenti lasciti e a numerose donazioni pubbliche e private, il Museo di Palazzo Venezia ha poco a poco definito la sua fisionomia di grande Museo delle Arti Applicate.

Esso conserva materiali artistici di varia natura ed epoche storiche che occupano praticamente tutto il piano nobile dell’edificio (fatta eccezione per i saloni monumentali e l’Appartamento Barbo): gli ampi locali dell’Appartamento Cybo; il Passetto dei Cardinali e tutte le sale storiche che si snodano lungo il perimetro del Palazzotto San Marco.

Vi sono conservati: collezioni di dipinti su tavola e su tela dei secoli XV-XVIII, pastelli settecenteschi nonché miniature e ventagli; una ricca serie di sculture lignee italiane e tedesche; una pregevole collezione di bozzetti e rilievi in terracotta del ‘500 e ‘600; marmi altomedievali e rinascimentali; matrici sigillari, smalti, oreficerie sacre ed argenti di uso profano, vetri, avori e bronzetti rinascimentali di scuola italiana; una vastissima collezione di ceramiche che comprende esemplari di maiolica arcaica orvietana, maioliche rinascimentali italiane, porcellane di manifatture nazionali e straniere (tra cui un vasto repertorio di porcellane orientali da esportazione); non manca una nutritissima sezione di tessuti che annovera, oltre ad una significativa serie di arazzi, tappeti, stoffe copte, stoffe moderne di uso sacro e di uso profano, pizzi merletti, copricapo ed acconciature di manifatture e fogge varie; vasto è inoltre il repertorio di cassoni e mobili in genere, di ferri battuti, di serramenti vari oltre che una ragguardevole collezione di armi antiche e armature.

di Annarita Sanna

Il Passetto di Borgo

L’origine del Passetto di Borgo a Roma risale alla metà del VI secolo, quando Totila, il re ostrogoto conquistatore di gran parte della penisola italiana, fece costruire un primo muro difensivo.

Questo andò presto in rovina; di tale struttura primitiva oggi rimane solo qualche frammento.

Nella prima metà del VII secolo papa Leone III lo fece costruire di nuovo, ma ancora una volta il muro non durò a lungo. Nell’846 Roma subì l’assedio dei Saraceni; ma mentre la città era ancora protetta dalle antiche mura edificate nel III secolo dall’imperatore Aureliano, il Vaticano ed altre aree situate fuori della cinta muraria furono facilmente raggiunti e saccheggiati dagli invasori. Il tesoro di San Pietro subì tale sorte, e la stessa tomba dell’apostolo Pietro fu profanata.

Onde evitare ulteriori rischi, attorno all’850 papa Leone IV trasformò il Vaticano in una cittadella fortificata facendo erigere un’intera cinta muraria, che si estendeva per 3 Km, con ben 44 torri; l’attuale Passetto ne era solo un segmento. Purtroppo non è più dato conoscere quale ne fosse esattamente il percorso, che girava tutto intorno al colle Vaticano, a protezione della basilica. Il nome dell’architetto incaricato dell’opera, Agatho, ancora si legge in un’epigrafe sulle stesse mura.

La parte superiore del muro venne modificata così da realizzare un camminamento all’aperto al di sopra della preesistente galleria. L’opera fu completata nel 1492 sotto papa Alessandro VI.

Il passaggio nascosto consentì a papa Clemente VII di fuggire dai suoi appartamenti in Vaticano per raggiungere il più sicuro castello, quando nel 1527 Roma cadde vittima dei lanzichenecchi , le malfamate truppe mercenarie dell’imperatore Carlo V, che per circa un anno letteralmente vandalizzarono la città.

Erano state inviate per ritorsione, essendo il pontefice venuto meno alla parola data di formare un’alleanza contro il re francese Francesco I.

Quando nel XVI secolo papa Pio IV estese i confini urbani dalla parte del Vaticano erigendo un secondo muro quasi parallelo al Passetto, circa 100 metri più a nord, la vecchia struttura venne lasciata al suo posto, ma perse la sua funzione difensiva originale; attraversando Borgo per la sua intera lunghezza, divideva il rione in due parti: il nucleo originale, rinominato Borgo Vecchio, e Borgo Nuovo compreso tra il muro nuovo e quello preesistente. Nel Passetto furono aperti diversi passaggi in modo da permettere la libera comunicazione delle due parti del rione; sopra ciascuno di essi il papa fece collocare il proprio stemma.

Attorno al 1630 papa Urbano VIII fece aggiungere al camminamento una copertura, trasformandolo in un passaggio coperto.Solo nel 1949 il tetto fu rimosso, ripristinando così l’originaria merlatura

Nel XX secolo il castello fu convertito in museo, ma per molti anni la galleria che attraversa il Passetto è rimasta chiusa al pubblico, in quanto molte sue parti erano divenute instabili ed insicure. Finalmente, tra le molte opere civiche e di restauro portate a termine per il giubileo del 2000, anche il Passetto è stato ripulito e consolidato, per poterlo parzialmente riaprire ai visitatori del castello, sebbene ancora oggi ne è consentito l’accesso solo a piccoli gruppi.

di Annarita Sanna

Benvenuto Cellini e la prigionia a Castel Sant’angelo

Benvenuto Cellini è stato uno scultore, orafo e scrittore italiano, considerato uno dei più importanti artisti del manierismo. Durante la sua vita scrisse anche poesie e una celebre autobiografia, in cui raccontò le sue avventure artistiche e personali. Tra le sue opere più famose ci sono la Saliera di Francesco I di Francia, il Perseo con la testa di Medusa e il busto di Cosimo I de’ Medici

L’ultimo anno di prigionia a Castel Sant’Angelo fu per Cellini veramente atroce. Chiuso in una piccola cella sotterranea, dalle pareti colava acqua che manteneva costantemente bagnati il pavimento e il giaciglio dove dormiva, senza finestra e gli fu negata anche una lampada. Per mesi e mesi visse nel buio totale, solo ad una certa ora del giorno un po’ di luce passava dalle fessure della porta. Si comprende la sua grande forza interiore:

“di tutte le cose che io avevo in questa prigione disdicevoli, tutte me l’ero fatte amiche e nulla più mi disturbava e nulla temevo…solo questo desiderio avevo, quello di vedere il sole e pregavo Dio che mi facesse rivedere il sole coi miei occhi mortali, se none altrimenti almeno in sogno.”

In seguito Benvenuto fece un sogno in cui vide il sole:

“…m’affrettavo di salire e tanto andai su per gli scaglioni che io scopersi tutta la sfera del sole. E perché la forza dei suoi razzi mi fece chiudere gli ochi, subito li apersi di nuovo e guardando fiso il sole dissi: Oh sole mio, che t’ho tanto desiderato, non voglio mai più vedere altra cosa, se bene i tua razzi mi acciecano. Ma tutti i razzi scomparvero e rimase il sole netto, che con grandissimo piacere io potevo guardare. E in un tratto nel sole si fece un Cristo in croce, di tanta bella grazia e benignissimo aspetto…”

Nei giorni successivi Cellini pregò i suoi carcerieri di portargli un po’ di cera e con alcune schegge di legno strappate con le unghie dalla porta si fece dei piccoli attrezzi per modellare la cera. Nell’ora in cui un po’ di luce entrava nella stanza fece il modello del Crocifisso che aveva visto in sogno.

Portò sempre con sè il modellino, fino a quando lo scolpì “in marmo comperato di mia denari”, a Firenze.

“Mi sono preso per piacere di fare una delle più faticose opere che mai sia fatte: e questo si è un Crocifisso di marmo bianchissimo in su una croce di marmo nerissimo, ed è grande quanto un uomo vivo.”

di Annarita Sanna

La Quaresima nella Roma dei Papi

La Quaresima è il periodo penitenziale di quaranta giorni che precede e prepara la Pasqua; inizia con il “Mercoledì delle Ceneri” e si prolunga per quasi sei settimane terminando il Giovedì Santo, quando inizia il Triduo Pasquale.

La campana sona a merluzzo”: questo detto popolare commentava il suono delle campane che annunciava le funzioni religiose all’inizio del periodo quaresimale, improntato, ad un rigido regime di astinenza dalle carni per tutti i quaranta giorni. Nella Roma papalina il compito di richiamare i fedeli ai loro doveri era affidato ai predicatori quaresimali, che a volte non esitavano a terrorizzare i mancati penitenti minacciando castighi divini e tormenti infernali, anche se non mancarono religiosi come S. Paolo della Croce e S. Leonardo di Porto Maurizio dotati di eloquenza autenticamente ispirata dalla fede.

Specie negli ultimi giorni, era d’uso che ogni pomeriggio, fino all’Ave Maria, tutti i bottegai, osti, fruttaroli, tabaccai tenessero chiuse le loro botteghe, per partecipare insieme agli altri cittadini all’ascolto delle infervorate e ammonitrici prediche, dette “Missioni” proprio perché tenute da frati missionari.

La principale restrizione quaresimale, il divieto di consumare carni, era imposta con estremo rigore, tanto che si ricordano casi di macellai romani condannati alla galera per aver messo in vendita i loro prodotti nel periodo di penitenza.

“In quaresima pe’ ddivuzzione…se magneno li maritozzi, anzi c’è cchi è ttanto divoto pe’ mmagnalli, che a ccapo ar giorno se ne strozza nun se sa quanti”.

Così, con la sua ironica vivacità Giggi Zanazzo, le cui opere sono un prezioso strumento per chi vuole conoscere le tradizioni della Roma del secolo scorso, commentava l’usanza quaresimale “der santo maritozzo“, dolce allora molto amato, che il primo venerdì di marzo, una sorta di giorno di S. Valentino dell’epoca, veniva anche donato dai giovani alla propria innamorata.

Per alcuni secoli le autorità pontificie emanarono annualmente provvedimenti volti a disciplinare il digiuno quaresimale. Uova, formaggio e carne erano consentiti soltanto per anziani e malati, previo permesso scritto. Medici e parrocchiani venivano ammoniti: coloro avessero sottoscritto questi permessi senza legittima causa oltre al farsi carico dei peccati altrui, sarebbero stati anche puniti dall’autorità. Gli avvertimenti restavano però spesso inascoltati: a volte bastava allungare qualche soldo al parroco per ottenere la dispensa; mentre a coloro che volevano invece essere ligi alle regole non restavano che ceci e baccalà… fortunatamente però c’erano i maritozzi con cui consolarsi!

A Roma sopravvisse a lungo l’abitudine di “spezzare la Quaresima”, con la festa del “segare la vecchia” che si celebrava a Campo Vaccino nel Foro Romano. Qui un enorme fantoccio ripieno di fichi, arance, frutta secca e dolci quaresimali veniva squartato ed il contenuto diveniva preda degli spettatori che facevano a gara, spesso anche con metodi cruenti, per appropriarsene.

di Annarita Sanna

La firma, La Madonna adolescente, Il dente del peccato: in due parole… La Pietà Vaticana

La Pietà vaticana è l’unica opera che Michelangelo abbia mai firmato. C’è un episodio piuttosto fantasioso riportato dal Vasari nel suo “Le vite”, in cui viene rivelata la ragione di questa firma, incisa su una fascia trasversale sopra il petto della Vergine. Alcuni gentiluomini lombardi stavano ammirando la bellezza della statua della Pietà e, dopo averne tessuto le lodi, cercarono di identificarne l’autore. Alla fine si convinsero che fosse opera di un loro conterraneo, il Gobbo di Milano. Michelangelo, che aveva ascoltato la discussione, si nascose nella chiesa e di notte intagliò il suo nome sulla statua:

MICHEL.A[N]GELVS BONAROTVS FLORENT[INVS] FACIEBAT

(Lo fece il fiorentino Michelangelo Buonarroti)

È più probabile che in realtà Michelangelo avesse seguito l’usanza dei pittori toscani dell’epoca, che successivamente decise di abbandonare. Nonostante la Pietà avesse destato fin da subito un’enorme ammirazione, vennero mosse delle critiche all’aspetto giovanile del volto della Vergine, che sembra un’adolescente. Questa fu una scelta consapevole del Michelangelo, che come specificato dai suoi biografi, fu di natura teologica. La Vergine incorrotta, l’Immacolata Concezione, è il simbolo di una giovinezza cristallizzata, che non può appassire; l’artista si rifà anche ai versi del paradiso di Dante: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. La statua della Pietà ha un’altra particolarità, più difficile da notare: il Cristo ha un dente in più, un quinto incisivo. Questo dente è soprannominato “il dente del peccato” e nelle opere di altri artisti rinascimentali è prerogativa di personaggi negativi. Il Cristo della Pietà, invece, dovrebbe esserne stato dotato perché, con la sua morte, prende su di sé tutti i peccati del mondo.

Il ventuno maggio del 1972 un geologo ungherese di passaporto australiano, Laszlo Toth, eluse la sorveglianza della Basilica di San Pietro e colpì ripetutamente con un martello la Pietà vaticana. Spaccò il braccio sinistro della Vergine e provocò numerosi danni al volto, staccando il naso e la palpebra sinistra. L’uomo fu fermato prima che potesse continuare a infierire sul Cristo. Giudicato insano di mente, fu prima rinchiuso in un manicomio italiano e poi rimpatriato in Australia. Ci fu un lungo dibattito in Vaticano riguardo al tipo di restauro da effettuare: una corrente suggeriva di lasciare il volto della Madonna sfigurato, come testimonianza di un’epoca dominata dalla violenza; una seconda propendeva per un restauro critico, in cui cioè venissero messe in evidenza le parti mancanti o rifatte; la terza proposta, quella di un restauro integrale, alla fine ebbe la meglio. Si concluse, difatti, che anche la più piccola lesione nella perfezione splendente della Pietà di Michelangelo Buonarroti sarebbe stata intollerabile

di Annarita Sanna

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