Il trailer italiano ufficiale di The Life of Chuck è finalmente arrivato, e per chi, come me, vive di pane, Stephen King e cinema, è stato come ricevere un colpo al cuore e una carezza allo stesso tempo. Questo film, interpretato da Tom Hiddleston e diretto da Mike Flanagan, non è semplicemente un adattamento cinematografico di un racconto. È una dichiarazione d’amore alla vita, alla memoria, a quei dettagli minuscoli eppure sconvolgenti che rendono ogni esistenza degna di essere raccontata. Sarà nei cinema italiani dal 18 settembre, distribuito da Eagle Pictures, e già dalle prime immagini capiamo che non ci troviamo davanti al solito horror kinghiano, ma a qualcosa di molto più raro: un viaggio emotivo dentro l’essere umano.
Per chi conosce Mike Flanagan – e qui parlo a voi, fedeli spettatori di The Haunting of Hill House, Midnight Mass, Doctor Sleep – il suo nome accanto a quello di Stephen King non è solo una collaborazione. È un incontro di anime affini. Flanagan non è il tipo di regista che si limita a portare in scena fantasmi o case stregate; lui si muove con delicatezza dentro il dolore, la perdita, la redenzione, come un autore che sa che dietro ogni terrore si nasconde una ferita umana. Per questo l’annuncio di The Life of Chuck ha fatto saltare sulla sedia tanti appassionati: qui non si parla di mostri sotto il letto o entità maligne che spuntano dagli angoli bui. Qui si parla di vita. Quella di Charles Krantz – per gli amici Chuck – ma, inevitabilmente, anche la nostra.
Il racconto originale, incluso nella raccolta Se scorre il sangue del 2020, è tra le opere più enigmatiche e toccanti di King. Strutturato al contrario, parte dalla fine del mondo e arriva fino all’infanzia di un uomo comune. Sembra assurdo? Lo è. Ma è anche straordinariamente umano. Quando ho saputo che Flanagan voleva portarlo al cinema, la mia reazione è stata un misto di entusiasmo e ansia. Perché trasporre una storia così intima e sfuggente è un rischio: non basta ricostruirla, bisogna sentirla. E poi è arrivato quel trailer, con le prime note malinconiche, Hiddleston che cammina assorto in un centro commerciale semideserto, e quella frase che mi ha stesa: “L’universo è grande e contiene moltitudini, ma… contiene anche me.”
Tom Hiddleston, inutile negarlo, è perfetto. Ha quella dolcezza fragile, quel fascino quasi etereo che lo rende capace di raccontare mondi interiori con un solo sguardo. Lo avevamo amato come Loki, certo, ma qui abbandona ogni maschera divina per diventare uomo. Un uomo qualunque, al centro di qualcosa di straordinario. Attorno a lui, un cast che fa venire i brividi (quelli belli): Karen Gillan, Chiwetel Ejiofor, Jacob Tremblay, Mark Hamill. Non sono solo nomi da locandina, sono interpreti che sanno sussurrare emozioni, anche quando il copione è fatto di silenzi e di piccoli gesti.
La struttura del film ricalca quella del racconto, in tre atti distinti, e anche se non voglio spoilerarvi nulla – davvero, questa è una storia che va vissuta in prima persona – vi posso dire che ogni segmento è un tassello di un mosaico più grande. Solo alla fine, o forse all’inizio, ci accorgiamo di avere tra le mani l’immagine completa di una vita. Le riprese, svoltesi in Alabama durante lo sciopero SAG-AFTRA, hanno paradossalmente accentuato l’atmosfera sospesa del film, fatto di tempo che si dilata e memorie che si sfaldano. E la colonna sonora dei Newton Brothers – storici complici di Flanagan – è un sussurro continuo, un filo emotivo che lega le scene con delicatezza.
Personalmente, seguo Mike Flanagan da anni, e ogni volta resto colpita dalla sua capacità di parlare di dolore e amore come facce della stessa medaglia. In The Haunting of Hill House ci ha insegnato che i fantasmi sono spesso i nostri rimpianti. In Midnight Mass ci ha fatto riflettere sulla fede, sull’abbandono, sull’eternità. In Doctor Sleep ha preso un classico come Shining e ci ha trovato dentro redenzione e perdono. Con The Life of Chuck sembra aver compiuto un passo ulteriore: non c’è bisogno del soprannaturale per raccontare l’infinito. Basta una vita. Una qualsiasi.
La presentazione al Toronto International Film Festival ha confermato tutto questo: standing ovation, lacrime, cuori infranti e pieni allo stesso tempo. Non è horror. Non è nemmeno, forse, un dramma come lo intendiamo di solito. È un viaggio meditativo dentro ciò che ci rende umani, fragile e splendente insieme. Un film che ci ricorda quanto siamo piccoli e, proprio per questo, immensi.
C’è una frase, nel racconto di King, che mi ossessiona da giorni: “Ogni vita è un universo. Ogni morte, una fine del mondo.” Ecco perché The Life of Chuck è così importante. Perché ci restituisce la prospettiva perduta. Perché ci costringe a guardarci allo specchio e a chiederci: cosa resterà di me? Un sorriso? Un abbraccio? Una musica che si spegne piano?
Io, intanto, conto i giorni che mi separano dal 18 settembre. So già che andrò al cinema con una scorta di fazzoletti, pronta a lasciarmi travolgere da questa storia intima e universale. E lo dico senza vergogna: sono pronta a ballare anche io nell’universo di Chuck, a ricordarmi che, in fondo, ogni vita è un miracolo.
E voi? Siete pronti a immergervi in questo viaggio emozionante? Fatemelo sapere nei commenti o condividete questo articolo sui vostri social. Voglio sapere cosa pensate, voglio leggere le vostre storie, voglio sapere se anche voi, come me, avete già iniziato a sentirvi un po’ Chuck.