Il sacrificio umano in contesto precolombiano

I sacrifici umani erano un aspetto importante della cultura Mesoamericana. I conquistadores spagnoli che per primi ebbero contatti con il popolo Azteco (popolo residente a Tenochtitlán, oggi Città del Messico, (situata su un’isola del lago Texcoco) dicono nelle loro testimonianze che il sacrificio umano era largamente praticato in tutta la Mesoamerica.

Templo Mayor presso Tenochtitlan ( attuale città del Messico),nella seconda foto in primo piano Quetzalcoalt (serpente piumato ). scatto fotografico della sottoscritta

Il nome originale con cui gli Aztechi si indicavano è “Mexica” o “Tenochca”.  Mexica è tuttora il termine usato per definire i loro discendenti; il termine azteco è stato coniato molti secoli dopo dal geografo tedesco Alexander von Humboldt per distinguere queste popolazioni precolombiane dall’insieme dei Messicani moderni. A partire dalla fine degli anni 70’, gli scavi delle offerte rinvenute presso il Templo Mayor di Tenochtitlán, la Piramide della Luna di Teotihuacan e altri siti archeologici, hanno portato alla luce prove certe di sacrifici avvenuti tra i popoli mesoamericani.   

La Piramide della Luna presso Teotihuacan, scatto fotografico della sottoscritta

Sono state proposte varie interpretazioni della pratica azteca del sacrificio umano, teoria alquanto controversa, sia riguardo il significato religioso sia quello sociale. Da precisare, una teoria assolutamente screditata è quella secondo la quale la dieta mesoamericana era carente di proteine, e che il cannibalismo di vittime sacrificali era una componente necessaria della dieta del tempo. Buona parte degli studiosi mesoamericani, comunque, considera i sacrifici umani come parte della loro tradizione religiosa e socio-culturale.

Rimanendo in contesto Azteco, il primo sacrificio di cui si parla nelle fonti scritte fu lo scotennamento della figlia di re Achicometl di Culhuacan; questa storia fa parte della leggenda sulla fondazione di Tenochtitlán. Gli Aztechi sacrificavano le “vittime” durante ognuna delle loro 18 festività, una per ogni mese di 20 giorni. Fattore importante che va precisato, durante le così dette “Guerre fiorite”, dove si reclutavano vittime, per i sacrificati era un grande onore, poiché venendo immolati alla divinità Huitzilopochtli (colibrì del sud, dio della guerra e del sole), contribuivano al sorgere, al tramontare del sole e al rinnovo dei cicli.

I culti religiosi Nahua erano basati su una grande paura del fatto che l’universo potesse collassare dopo ogni ciclo, se gli dei non erano sufficientemente forti. Secondo Diego Durán, nel suo “Historia de las Indias de Nueva España e islas de la tierra firme”, le guerre dei fiori erano inizialmente un accordo tra le città della Triplice alleanza azteca, Tlaxcala e Huexotzingo a causa della carestia che colpì la Mesoamerica nel 1450. La cattura dei prigionieri vivi per i sacrifici era chiamata nextlaualli (“pagamento del debito agli dei”). Queste fonti, però, ne contraddicono altre, come ad esempio il Codice Chimalpahin, che cita alcune guerre fiorite avvenute prima della carestia e contro avversari diversi da quelli citati nell’accordo.

Dal momento che l’obbiettivo della guerra azteca era la cattura di possibili vittime, la tattica della battaglia era studiata soprattutto per ferire il nemico senza ucciderlo. Dopo la conquista delle città, gli abitanti non erano più considerati buoni per i sacrifici, ma solo per il pagamento delle tasse. Anche gli schiavi potevano essere usati nei sacrifici, ma solo se venivano considerati pigri ed erano stati venduti almeno tre volte.                                                                                                

La Pratica del Sacrificio Umano

Il sacrificio, come detto precedentemente, era un tema comune in tutte le culture mesoamericane. All’interno del mito azteco dei “Cinque soli “, tutti gli dei si autosacrificarono per permettere all’umanità di sopravvivere. Alcuni anni dopo la conquista del Messico da parte degli spagnoli, un gruppo di francescani si dovette confrontare con gli ultimi sacerdoti aztechi ai quali ordinarono, sotto minaccia di morte, di porre fine a questa pratica omicida.  I sacerdoti aztechi si difesero in questo modo: «La vita è opera degli dei; con il loro sacrificio ci diedero la vita […]. Essi forniscono il nostro sostentamento […] che nutre la vita»  (Henry B. Nicholson, Handbook of Middle American Indians). Quello a cui i sacerdoti aztechi si riferivano era che un grande sacrificio sempre in corso sostenesse l’universo. Tutto è tonacayotl: la “incarnazione spirituale” o “presenza corporea [sacrificale]” degli dei sulla terra. Tutto (terra, mais, luna, stelle e persone) nasce da corpi morti o sepolti, dita, sangue o teste degli dei sacrificati. L’umanità stessa è macehualli, “quelli meritevoli e riportati in vita tramite la penitenza”.  Un forte senso di indebitamento è collegato a questa visione del mondo. Infatti, il nextlahualli (pagamento del debito) era una metafora comune per riferirsi al sacrificio umano e, come disse anche il francescano Bernardino de Sahagún, si diceva che in un certo senso le vittime stessero “svolgendo il loro lavoro”. Sia Sahagún sia Toribio de Benavente (chiamato anche “Motolinía”) osservarono che gli Aztechi usavano  tutto come sacrificio. Anche l’elemento principale del sacrificio umano, le grandi piramidi che fungevano da tempio, erano colline offerte agli dei e ornate con la miglior arte azteca. L’auto-sacrificio era anch’esso molto comune; le persone offrivano spine di agave, colorate col proprio sangue e, come i re Maya, offrivano sangue dalla loro lingua, dai lobi delle orecchie o dal pene. Il sangue aveva un’importanza fondamentale nelle culture mesoamericane. Il Codice fiorentino afferma che in uno dei miti della creazione Quetzalcóatl (Serpente piumato) offrì sangue estratto da una ferita del suo pene per dare vita all’umanità. Esistono molti altri miti nei quali si parla di dei Nahua che offrono sangue per aiutare gli uomini. Gli Aztechi praticavano il salasso da tagli inferti con coltelli in ossidiana o con ossi appuntiti sulla propria carne, come ad esempio dai lobi delle orecchie, labbra, lingua, petto e polpacci. Era considerato un personale atto di devozione e penitenza verso gli dei. Le spine venivano messe in una palla di paglia chiamata zacatapayoli, poi posta in un adoratorio.

Ogni 52 anni si teneva una speciale cerimonia del Fuoco Nuovo. Tutti i fuochi venivano spenti, a mezzanotte si effettuava un sacrificio umano. Se il Sole sorgeva significava che i sacrifici fatti in quel ciclo erano stati sufficienti. Un fuoco veniva acceso sul corpo della vittima, e nuovi fuochi presi da questo venivano portati in ogni casa, città e villaggio. Cominciava allora una festa e la fine del mondo era stata posposta per un altro mezzo secolo. Gli Aztechi si considerarono i principali responsabili per fornire cibo agli dei. Questo gli garantì un nuovo senso di identità, da “popolo senza una faccia” come venivano chiamati dagli ostili popoli vicini, a popolo incaricato di garantire la sopravvivenza dell’universo. Per questo cominciarono a riferirsi a sé stessi come al “popolo del sole”.     

Scena di auto-sacrificio

Rituali messi in atto durante il sacrificio

Nella normale procedura, il sacrificio veniva svolto sulla cima del tempio, su terrazze a cielo aperto ( la connessione tra cielo è terra è sempre presente).] La vittima veniva tenuta ferma da quattro sacerdoti su una lastra in pietra, e il suo addome veniva tagliato da un quinto sacerdote con un coltello cerimoniale fatto di selce o di ossidiana. Il taglio veniva fatto nell’addome e oltrepassava il diaframma. Il sacerdote avrebbe estratto il cuore, ancora pulsante. Il cuore veniva poi posto in una scodella sorretta da una statua il Chac Mool (un modello di scultura con funzione di altare che riproduce una figura umana, adorna di gioielli, in posizione reclinata con la testa alzata e rivolta verso il lato destro, con un recipiente appoggiato sul ventre)  cui veniva offerta la vittima, e il corpo lanciato giù dalle scale del tempio. Le varie parti del corpo facevano una diversa fine: con le viscere nutrivano gli animali; la testa sanguinante era esibita sullo Tzompantli, (un tipo di intelaiatura in legno o in pietra usata per l’esposizione pubblica di teschi umani, di prigionieri di guerra o di vittime sacrificali).  Altri tipi di sacrifici umani, dedicati alle varie divinità, trattavano le vittime in maniera diversa. La vittima poteva essere colpita da una freccia (e il sangue che sgorgava rappresentava le fredde piogge di primavera), essere uccisa in un combattimento non equo, essere sacrificata al termine di una partita di tlachtli, il gioco della palla mesoamericana, essere arsa viva, essere scotennata dopo essere stata sacrificata (in onore a Xipe Totec, “Nostro Signore lo Scorticato”), o venire affogata.

Stima della portata dei sacrifici

Per la riconsacrazione del Templo Mayor di Tenochtitlán del 1487, gli Aztechi affermarono di aver sacrificato circa 80.400 prigionieri durante i quattro giorni di celebrazione, e quindi probabilmente si era trattato di un numero molto inferiore. Secondo Ross Hassing, autore di “Aztec Warfare”, furono sacrificate durante la festa tra le 10.000 e le 80.400 persone. Il limite superiore comporterebbe una media di 14 sacrifici al minuto per quattro giorni consecutivi. Quattro tavole furono sistemate in cima al tempio, in modo che le vittime potessero essere gettate su tutti i quattro lati del tempio. Nondimeno, secondo il codice Telleriano-Remensis, i vecchi Aztechi che parlarono con i missionari citavano un numero di vittime decisamente minore, circa 4.000 totali.

Non tutti i sacrifici venivano svolti nei templi di Tenochtitlan; alcuni erano fatti a Cerro del Peñón, un isoletta del lago di Texcoco. Secondo una fonte azteca, nel mese di Tlacaxipehualiztli (dal 22 febbraio al 13 marzo), 34 prigionieri di guerra venivano sacrificati a Xipe Totec. Più vittime erano offerte a Huitzilopochtli nel mese di Panquetzaliztli (dal 9 al 28 novembre) secondo il codice Ramírez. Questo dimostrerebbe una cifra compresa tra le 300 e le 600 vittime l’anno. La mancanza di prove archeologiche non permette di calcolare con esattezza la cifra reale. Ogni guerriero azteco avrebbe dovuto fornire almeno una vittima da sacrificare. Tutti i maschi venivano addestrati fin da piccoli a essere guerrieri, ma solo i pochi di loro che riuscivano a catturare prigionieri potevano entrare a far parte dell’élite dell’esercito. Coloro che non vi riuscivano diventavano macehualli, lavoratori.

Una delle descrizioni del conquistatore Hernán Cortés:

«Hanno un’orrida e abominevole usanze che gli meriterebbe di essere puniti e che per ora abbiamo visto solo in parte, ed è che, ogni volta che vogliono chiedere qualcosa agli idoli, per rendere più accettabile la loro richiesta agli dei, prendono molte ragazze e ragazzi e anche adulti, e in presenza di questi idoli aprono i loro toraci mentre sono ancora vivi estraendo i cuori e le interiora e bruciandoli davanti agli dei, offrendo il fumo come sacrificio. Alcuni di noi lo hanno visto, e dicono che sia stata la cosa più terribile che abbiano mai visto».

Per l’occidente non è stato di facile comprensione e quindi non ammissibili pratiche “così abominevoli “  ( viste dalla loro prospettiva ) di tale cultura. Come ben sappiamo ciò che non viene compreso fa sempre paura e la paura rivolta all’ignoranza porta alla distruzione.

Hernán Cortés

Possibili spiegazioni dei sacrifici umani in contesto Azteco sotto la visione occidentale

  • Motivi nutrizionali

Gli studiosi Michael Harner e Marvin Harris hanno ipotizzato che la motivazione che stava dietro ai sacrifici umani tra gli Aztechi fosse da ricercare nel cannibalismo a cui venivano sottoposte le vittime Mentre c’è unanime consenso sul fatto che gli Aztechi praticassero il sacrificio umano, manca consenso tra gli studiosi sul fatto che il cannibalismo fosse comune su tutto il territorio. L’antropologo Marvin Harris, autore di Cannibals and Kings, ha ripreso l’idea proposta da Harner, secondo cui la carne delle vittime faceva parte della dieta aristocratica come ricompensa, dato che la dieta azteca era povera di proteine. Questa ipotesi è stata rifiutata da Bernard Ortíz Montellano che, nei suoi studi su Salute, dieta e medicina tra gli Aztechi, dimostra che nonostante la dieta Azteca fosse carente di proteine animali, era ricca di quelle vegetali.

  • Motivi politici

Il sacrificio umano giocava un importante ruolo politico. I Mexica utilizzavano un sofisticato sistema psicologico per mantenere il proprio impero, con l’obbiettivo di instillare un senso di paura nei popoli vicini. I Mexica usavano i sacrifici umani come arma di terrore anche nei confronti dei conquistadores spagnoli, i cui morti venivano sacrificati e a volte scotennati, con le loro teste esposte nei tzompantli. Venivano invitati anche i capi delle città nemiche vicine, o obbligati nel caso di città tributarie, ad assistere alle cerimonie di Tenochtitlan. Il loro rifiuto sarebbe stato considerato un atto di mancato rispetto nei confronti dei Mexica.

  • Motivi psicologici

Per Lloyd deMause è importante il fatto che le vittime fossero investite di un profondo significato cosmologico. Secondo lui e una minoranza di studiosi che fanno parte di una scuola alternativa di pensiero, la “psicostoria”, i sacrifici umani, compresi quelli della Mesoamerica, rappresentavano una forma inconscia di risposta a traumi subiti da bambini. DeMause considera in particolare la pratica del sacrificio azteco come spostamento (è un processo operato dall’Io il cui scopo è quello di modificare il contesto reale di un ricordo rimosso (eventualmente con modificazioni radicali) per ridurne l’impatto negativo ansiogeno con la coscienza (Io).

Conclusioni

Grazie alle numerose ricerche e studi sul campo come studiosi, archeologi, antropologi ben esperti in materia sanno e come detto ad inizio articolo, i sacrifici umani erano uno degli elementi principali racchiusi nel contesto culturale e socio-religioso che faceva parte di questi popoli ed era fortemente impregnato in essi. Era parte integrante della vita di questa gente. Ed è qualcosa che va al di là di ogni logica comprensione occidentale. Va al di là della nostra visione perfetta nell’ improntare la nostra società e imporre questa finta perfezione anche in altri contesti e culture. Come se tutto quello che va al di là della visione occidentale e della religione Cristiana sia abominio da annientare. Forse, se non ce ne siamo resi conto queste culture, così come tante altre che con tutta la loro forza e caparbietà ancora oggi cercano di sopravvivere in questo mondo e di mantenere salde le loro radici millenarie, sono in totale connessione con l’universo molto più di noi. Hanno compreso molto prima quello che noi con tutta la nostra goliardia che va avanti nei secoli non riusciremo ad apprendere mai. Noi, ogni forma vivente su questo pianeta siamo un tutt’uno con l’universo e con tutti i cicli che ne fanno parte. Quindi, quando un’azione o una visione di pensiero è giusta? Quando è sbagliata?

Fonti:

  • Zeb Matos-Moctezuma, Vida y muerte en el Templo Mayor, Fondo de Cultura Económica, 1986.
  • Michael Harner, The Ecological Basis for Aztec Sacrifice, in American Ethnologist,, Vol. 4, No. 1,, 1977, pp. 117–135, DOI:10.1525/ae.1977.4.1.02a00070
  • Michael Graulich, El sacrificio humano en Mesoamérica, in Arqueología mexicana, XI, 63, 2003
  • Bernardino de Sahagún, Historia general de las cosas de la Nueva España, Ángel Ma. Garibay, Messico, Editorial Porrúa, 2006
  • Eduardo Matos-Moctezuma, Tenochtitlan, Fondo de Cultura Económica, 2006
  • Ross Hassig, El sacrificio y las guerras floridas, in Arqueología mexicana, XI, 2003
  • Bernal Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, J. M. Cohen, Penguin Classics, sesta ristampa (1973), Harmondsworth, Penguin Books, 1963 [1632], ISBN 0-14-044123-9, OCLC 162351797.
  • Robert W. Godwin, One Cosmos under God: The Unification of Matter, Life, Mind & Spirit, Saint Paul, Montana, Paragon House, 2004

La nascita dell’Universo tra Mito e Scienza

 “L’ ente e il non ente non erano ancora… la morte allora non v’era, ne esisteva alcunchè di immortale…Quell’unico tutto, respirava in calma per la sua propria forza, e fuori di lui null’altro v’era”
Dal Libro X dei Rigveda
 “La Terra si compose al centro in virtù del moto vorticoso; è questa la causa che tutti ripetono, in base a ciò che avviene nei liquidi e nell’aria; infatti i corpi più forti e più pesanti sono sempre trascinati verso il centro di un vortice“
Aristotele
   

Riguardo alcuni studi scientifici sull’origine della vita sembra non esservi posto per il mito che, come dice la parola stessa (mythos in greco, è un discorso o un racconto fantastico ). Per sua natura è antiscientifico. Comunque è interessante notare come le antiche culture e civiltà si siano interessate allo studio dell’origine dell’Universo e le risposte che vi hanno dato. In ogni civiltà, l’uomo, tramite il mito, aveva immaginato come il mondo e tutti gli esseri viventi abbiano avuto origine. I miti della creazione del mondo sono molti e vari, anche se culture distanti spazio-tempo possono avere miti simili. E la stessa indagine chela società del XXI secolo va perseguendo si può interpretare come continuazione di tale ricerca, di una spiegazione alla presenza dell’Universo e all’esistenza che l’uomo ha sempre tentato di darsi. L’uomo si è sempre posto domande sulla sua origine, su quella della Terra, dei fenomeni atmosferici ecc. Quando ancora non possedeva gli strumenti per rispondere in modo scientifico a questi interrogativi, inventò i miti, racconti fantastici che tentavano di dare una risposta a queste difficili domande. Molti popoli antichi hanno elaborato racconti che parlano della creazione del mondo, cercando così di spiegare, naturalmente sulla base del proprio livello culturale e della propria esperienza di vita, quell’evento straordinario e remoto che ha determinato la creazione dell’universo e dell’uomo. Questi racconti, detti miti cosmogonici (dalle parole greche kósmos = mondo, universo, e gonía = nascita, origine), pur appartenendo a popoli diversi, vissuti in epoche differenti e in luoghi geograficamente molto lontani, presentano parecchie somiglianze tra loro. In tutti infatti, il mondo prima della creazione appare come qualcosa di confuso, di indistinto, è Chaos, cioè disordine. Solo grazie all’intervento di una divinità diventa ordine, in cui ogni elemento e ogni essere vivente, compreso l’uomo, trovano una loro precisa collocazione e distinzione. Di seguito, ci interesseremo a dare qualche interpretazione che culture primitive sparse qui e lì sul pianeta, hanno dato alla presenza della Terra, della vita e del cielo; per non dilungarci troppo su queste antiche radici, tralasceremo questa volta i racconti inerenti alla Mesopotamia, all’Egitto e a quelli biblici, ci limiteremo invece, a un frammentario giro del mondo che, iniziando dall’America settentrionale e centrale, arriverà fino all’Europa del nord, per finire nel campo meno familiare della cultura del sol levante e della Nuova Zelanda.

 

Il Nord America:

Gli Hopi, che si considerano i primi abitatori dell’America, vivono nella regione Nord-Est dell’Arizona, in antichi villaggi. Il più noto, Oraibi, è considerato l’insediamento più a lungo abitato degli Stati Uniti. La parola Hopi significa “pace”. E’ una cultura ricca di folklore e di mitologia. Si considera un popolo eletto e nei loro racconti si narra di come finirà il mondo e gli Hopi sfuggiranno alla catastrofe. “Quello in cui viviamo attualmente è il quarto mondo, il primo era chiamato Tokpela ( lo spazio senza fine ), quando vi era un vuoto cosmico e la mente infinita  del Creatore. Da questo infinito si forgiò il “finito” con tutti gli elementi della natura, gli animali e infine l’uomo, cui vennero attribuiti diversi linguaggi in base alla differenza della razza. Era un mondo felice, dove l’armonia della vita era un tutt’uno con il creato. I mondi successivi, rappresentano un continuo decadimento da questa antica condizione: la graduale comparsa di sentimenti ostili tra gli uomini e tra gli uomini e gli animali, di distinzione tra una razza e l’altra, di sospetti e pregiudizi… porta il Creatore a salvare una razza eletta, perché immune da questi sentimenti e creare così un altro mondo. Il secondo e i successivi mondi non sono più puri come il primo, non esiste più il privilegio di vivere a contatto con la natura e con gli animali, l’uomo soggiace all’avidità e al desiderio di possedere sempre di più. Usa le sue capacità per inventare mezzi di distruzione, così guerra e corruzione distruggono sempre di più i rapporti umani e portano alla nascita del quarto mondo, (il mondo completo). Anche questo secondo la profezia degli Hopi è destinato a scomparire. Ci sarà una terza guerra mondiale. Solo la vita degli Hopi sarà salva dalla distruzione nucleare. Perché solo i materialisti cercheranno di costruirsi rifugi atomici, ma coloro che hanno la pace nel cuore sono già nel migliore rifugio r riprenderanno vita nel mondo successivo, a qualsiasi razza appartengano sentendosi fratelli “.

America Centrale:

I Quiché erano una delle popolazioni che, all’epoca della conquista spagnola, intorno al 1500 risiedevano nelle regioni a sud del Messico, dove oggi è il Guatemala. Il “Popol Vuh“ ci dà un quadro di quelle che erano le loro credenze religiose e cosmogoniche. Il manoscritto originale è andato perduto e quanto ci è giunto è una trascrizione del testo originale, con traduzione in spagnolo, fatta dal domenicano Padre Ximenez, intorno al 1700. “Anche qui al principio era tutto immobile e tutto taceva. Un gruppo di saggi, insieme al Dio Huracan (Il cuore del cielo), formò la Terra, in un attimo, tutti gli elementi della natura e gli animali. Al contrario del racconto precedente, qui i primi uomini, che erano di legno, erano malvagi e dovettero essere uccisi con violenza: è curioso come le scimmie, che siamo abituati a vedere come nostri progenitori, siano invece qui discendenti dall’uomo, o meglio da questa prima razza di fantocci di legno poi distrutta.  I nostri veri padri invece, furono formati da un impasto di mais bianco: quattro furono i primi uomini, e mentre dormivano, vennero deposte loro accanto quattro compagne. Direttamente da queste prime coppie ebbe origine la popolazione dei Quiché. Erano così perfetti questi antenati, che oltre ad essere saggi, avevano una vista che arrivava in ogni parte del mondo, conoscevano tutto, sia in cielo che in terra. Tanto che Huracan decise di appannare loro gli occhi e di diminuirne la sapienza, perché non fossero pari a chi li aveva creati.

L’intervento divino, presso i Quiché, deteriora quelle primitive qualità umane che, presso gli Hopi invece, erano gli uomini stessi a deteriorare, per il non accordarsi con la primitiva armonia dell’universo.

Le Terre Polari: (il Kalevala)

Il Kalevala è l’epica per eccellenza delle terre finlandesi. Rimasta in tradizione orale fino a circa un secolo e mezzo fa. L’atmosfera è totalmente diversa da quella delle opere precedentemente citate, poiché era completamente diversa la vita delle popolazioni da cui hanno preso vita i corrispettivi racconti. Qui, nel Nord Europa, il clima rigido, la neve, le betulle, le renne ecc… fanno da cornice agli eventi mitici. Qui il canto della creazione è volto tutto al femminile: La Vergine dell’aria (la più bella figlia della creazione) viveva solitaria negli spazi aerei, finchè non decise di calarsi nelle acque.  Tra le onde tempestose il mare risveglia in lei la vita, trasformandola nella “ Madre delle acque “.  Sulle sue ginocchia una folaga depone sei uova d’oro e una di metallo, che cadendo dal suo grembo generano la Terra ferma ( il nobile arco del cielo ).  Il sole dal tuorlo e la luna dall’albume, le stelle e le nuvole, le profondità del mare e le insidiose secche. Infine viene generato Vainamoinen, l’erore, che, arrivato su una terra desolata, la semina e la rende fertile. Oltre alla novità di una creazione femminile, che pure non dovrebbe apparire innaturale, considerando il ruolo materno, le acque vengono ad avere un ruolo predominante, il che non meraviglia, in una terra dove mare e laghi formano gran parte del paesaggio.

A volte si dice che Vainamoinen sia la fonte della creazione del mondo.Si dice che l’eroe del “Kalevala” sia il figlio di Ilmatar (uno spirito vergine dell’aria), occasionalmente chiamato anche Luonnotar (“Madre della natura”).
La terra del sol levante: (il Giappone)

Il “ Ko-gi-ki ” ( vecchie cose scritte ),  il più antico libro di storia e mitologia giapponese, terminato di scrivere nel 700 d.C., ci dà una rappresentazione delle idee religiose e della società del Giappone protostorico. Il primo libro tratta di mitologia, mentre nel secondo e nel terzo viene raccontata la storia dei primi trentatré imperatori giapponesi. “Al principio c’era il Caos. Il testo non è molto esplicito a tal proposito, ma il Nihonshoki, che tratta più o meno degli stessi argomenti ed è leggermente posteriore ci dà un resoconto più dettagliato. Prima che nascesse ogni cosa il Cielo e la Terra stavano insieme come in un uovo; il bianco (la parte più leggera) divenne il cielo, mentre il tuorlo, più pesante e scuro diventa la Terra. Tra Cielo e Terra, non ancora ben solidificata, nacquero tre dei, che apparvero come un getto di bambù, in seguito, di nuovo secondo il Ko-gi-ki, altri due e infine una serie che termina con Izanagi,e la sorella minore e sposa, Izanami, protagonisti delle successive vicende. Il Cielo è la residenza degli dei, un ponte celeste lo unisce alle località sottostanti: da questo ponte Izanaghi immerse una lancia nel mare e ne rimescolò le acque. Si andò a formare così la prima isola dove i due fratelli vi eressero un palazzo. Le isole del Giappone nascono dal matrimonio di Izanaghi e Izanami, che, successivamente, generarono il mare e tutti gli elementi della natura; infine il Dio del Fuoco, che, nascendo ustiona la madre portandola alla morte.  Da Izanaghi nacquero tanti altri dei, infine, durante la cerimonia di purificazione che è costretto a fare dopo essere sceso nel regno dei morti alla ricerca di Izanami, il Dio dà origine al Sole (grande divinità che splende in cielo, diretta antenata degli imperatori giapponesi, e alla Luna (luce splendente delle notti).  Nella mitologia giapponese, non vi sono spiegazioni o tentativi di spiegazione, che coinvolgono l’uomo; gli dei presiedono e danno origine a tutto, anche il baco da seta e i semi delle piante alimentari nascono per magia dal corpo di una delle figlie di Izanami. Eppure gli dei non sono del tutto creatori, poiché appaiono successivamente ad un primo organizzarsi del caos. E’ da qui, che essi stessi si originano”.

Izanami e Izanagi

 

L’emisfero del Sud: Il popolo dei Maori: (Nuova Zelanda)

La cosmogonia Maori è di un genere diciamo romantico: “all’inizio cielo e terra erano così fusi insieme che tra loro non vi era altro che tenebre. In quelle condizioni di buio assoluto niente poteva germogliare, sicchè il cielo fu spinto in alto e mantenuto là dalle punte degli alberi. Questo amore tra cielo e terra è un tratto comune ad altre mitologie: come ad esempio nell’Antico Egitto, si credeva che la separazione dei due innamorati Geb e Nut avesse dato origine alla Terra (maschile Geb) ed alla Via Lattea (femminile Nut).

In quanto al Cielo e alla Terra dei Maori, essi dicono che non si sono più ricongiunti, ma continuano a dimostrarsi il loro amore, l’uno piangendo lacrime di pioggia, l’altra inviando al cielo i profumi delle piante finalmente spuntate.  Anche qui troviamo la convinzione che la madre patria, la Nuova Zelanda, sia speciale: l’aveva pescata dal mare Mani, il quinto figlio della saggia Taranga che (rappresenta gli aspetti materni della terra e del cielo) e per tutte le popolazioni polinesiane è l’eroe portatore della cultura agli uomini.  Di una sola cosa Mani non fu capace, vincere la morte: c’era quasi riuscito, ma Tiwakawaka la cruelottola che in questa impresa accompagnava l’eroe insieme al pettirosso, al tordo e allo zigolo non riuscì a trattenere la sua gioia, e si mise a cinguettare risvegliando la morte, che potè così impadronirsi di Mani. Da questo insuccesso deriva il destino mortale dell’uomo.

La dea del cielo Nut e il dio della terra Geb erano un tempo uniti in un eterno abbraccio, l’uno era parte dell’altra. Essi erano fratelli, sposi e amanti. Quando vennero divisi dal Dio Shu ( aria ) era ormai troppo tardi: Nut era incinta del suo amato Geb. Assieme, i due generarono gli dei più famosi del pantheon egizi.

Riflettendo su quanto narrato che indicazioni possiamo dare a queste storie? Soprattutto quella dell’immutabilità di alcuni aspetti della natura umana: la curiosità, il voler dare una spiegazione all’ignoto, il desiderio di essere in qualche modo speciale e incorruttibile, perché ognuno di noi nel profondo ama sentirsi l’eletto, il prescelto! E la paura, la rassegnazione davanti alla morte; e, a volte, un tentativo di fratellanza universale. Questi temi dobbiamo tenerli ben presenti perché rispecchiano anche la società attuale in cui viviamo. La ricerca scientifica odierna è percorsa anche da questi antichi tratti, seppur al più delle volte costantemente velati.

Prototipo di Caos Cosmico

                             

Teorie Cosmogoniche in chiave scientifica:

Il problema dell’origine del sistema solare è legato a quello della vita nell’Universo, anche se a prima vista non se ne vede una correlazione, poiché se il processo di formazione dei pianeti dovesse risultare un evento estremamente improbabile, cadrebbero le probabilità di una diffusione cosmica della vita, cui mancherebbero i luoghi dove risiedere.  La vita ha bisogno di pianeti che orbitino a una certa distanza dalle stelle ( es: basti pensare alla temperatura del Sole di circa 6000°C, piante, animali, genere umano a tale temperatura non potrebbe sopravvivere). La vita che intendiamo noi, ha perciò bisogno di pianeti che orbitino a una certa distanza dalle stelle. 

L’universo da giovane

 

Il Filosofo Cartesio, nel 1644, propose per la prima volta qualcosa in cui si riconosce traccia di quanto ancora oggi ci viene ritenuto valido: un disco di gas e polveri, in rotazione da cui si sarebbero formati i pianeti. Un secolo dopo un altro filosofo, Kant, rielaborò le teorie di Cartesio, pubblicandole, anonime, nel libro “ Storia Naturale dell’Universo e Teoria dei Cieli”. Le stesse idee furono avanzate dal matematico Laplace, alla fine del ‘700, tanto che la teoria dell’ipotesi nebulare va sotto il nome di teoria Kant-Laplace.  Si supponeva che il disco ruotante di gas e polveri, già ipotizzato da Cartesio, e chiamato ora “ nebulosa originale “, si fosse progressivamente raffreddato e contratto. La nebulosa contraendosi, ruotava più velocemente, e si appiattiva, sempre per effetto della rotazione. (Si pensi a una ballerina che piroetta su sé stessa, a braccia aperte: quando le avvicina al busto, la velocità di rotazione aumenta). Nel piano di moto si vanno a formare degli anelli che si staccano poi dal resto della nebulosa, per effetto della forza centrifuga, formando così i pianeti, mentre la materia residua si concentra al centro formando il Sole. In tal modo, questo schema rendeva conto che le orbite dei pianeti intorno al Sole giacessero tutte più o meno sullo stesso piano e che i moti di rivoluzione dei pianeti intorno al sole avvenissero tutti nello stesso senso. Tuttavia, fu proprio la legge della quantità di moto a luogo che fece cadere lo schema di Kant-Laplace: il Sole, centrale, avrebbe dovuto ruotare molto più rapidamente di quel che non faccia per mantenere una chiara stabilità al tutto. Poiché si deve considerare che il momento della quantità di moto è il processo di tre fattori: M (massa del corpo rotante), D (la distanza dall’asse in cui il corpo ruota), V (velocità di rivoluzione intorno a quell’asse). Per il Sole, il prodotto MDV, pur essendo la massa molto grande, è piccolo, in base alla velocità di rotazione, rispetto al prodotto MDV dei pianeti, che hanno masse inferiori ma distanze e velocità più elevate. Ecco perché tutto questo risultò totalmente inspiegabile perché la conservazione del momento della quantità di moto della nebulosa primitiva rotante impone al Sole, come alla ballerina a braccia raccolte, una velocità maggiore.

Sopraggiungendo verso la metà dell’800, il fallimento dell’ipotesi Kant-Laplace fece volgere l’interesse degli astronomi verso altre teorie, che supponevano il passaggio ravvicinato di una stella per spiegare il distacco di una frazione della massa del Sole, ad opera dell’azione gravitazionale della stella. Il materiale solare, frantumato, sarebbe rimasto in orbita intorno al Sole e attraverso successive collisioni avrebbe finito per aggregarsi e formare i pianeti.

Il sistema solare con pianeti annessi – Rotazione ballerina

 Le teorie recenti, invece, mantengono l’idea di una nebulosa primordiale di gas e polvere in rotazione. Tutto ciò viene spiegato con l’azione frenante del campo magnetico  (immaginato come fili elastici che collegano la parte centrale della nebulosa dove si forma il Sole, al materiale periferico) che pervaderebbe la nebulosa primitiva, la rotazione della quale provocherebbe un distendersi e avvolgersi a spirale con azione frenante del Sole. A tal proposito, però, si è molto lontani ad un accordo generale sui processi che hanno condotto al nostro sistema planetario, tanto che la Cosmogonia ( la scienza che studia i sistemi celesti e in particolare il sistema Solare ) è ricca di problemi ancora aperti nonostante i grandi progressi scientifici e l’abbondanza di osservazioni a disposizione. Potremmo ora soffermarci brevemente su un altro aspetto del nostro sistema planetario: la differente composizione chimica dei pianeti. Quelli più vicini al Sole, detti terrestri, includendovi Mercurio, Venere, Marte e la Terra: i quali hanno densità elevate e sono costituiti di rocce ad alto contenuto di ferro, poveri di idrogeno e di elio. Quelli più esterni Giove, Saturno, Urano e Nettuno: poveri di ferro, silicio e magnesio (elementi abbondanti nei pianeti terrestri) ma ricchi di carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno e elio. A distanze maggiori dell’orbita di Giove, si vanno a condensare gli elementi più leggeri, solidi a temperature inferiori, mentre l’abbondanza di elio in Giove e Saturno va attribuito alla loro grande massa, capace di esercitare un’azione gravitazionale tanto forte da trattenerli, rispecchiando quindi analogamente al Sole, la nebulosa chimica della composizione originaria.

Vanno infine ricordati i componenti minori del sistema solare: innanzitutto la famiglia delle comete.  Tradizionalmente le comete sono composte di ghiacci e materiali rocciosi, vengono paragonate a palle di neve sporche quando si avvicinano al Sole, l’azione del calore e del vento solare provoca la formazione e l’allontanamento dei gas cometari che, insieme alle particelle di polvere vanno a formare la chioma e la caratteristica coda.

Lo spazio tra Giove e Marte è occupato da un’altra famosa famiglia, quella degli asteroidi, che non raggiunsero mai dimensioni planetarie a causa degli effetti perturbativi di Giove, rallentando con il suo moto i processi di aggregazione, impedendo la formazione di grandi masse. Parte delle meteoriti che giungono sulla Terra, non sono altro che il risultato della frammentazione di asteroidi a seguito di collisioni. Altre invece, sembrano non essere altro che parte della nebulosa primordiale prima che si formasse il Sole. Prima dell’era spaziale, le meteoriti erano l’unico materiale extraterrestre direttamente analizzabile, e sono tuttora il più economico.

Cometa e Meteorite
Origini dell’Universo: il Big Bang

Per scrivere la storia dell’Universo e della Terra, gli astrofisici hanno osservato i pianeti e le stelle. Hanno così scoperto che le galassie si stanno allontanando le une dalle altre a grande velocità. Questo fenomeno è chiamato “fuga delle galassie”. La Galassia è l’insieme di miliardi di stelle e corpi celesti. Nell’Universo ce ne sono un numero infinito. La nostra galassia, quella cioè a cui appartiene la Terra, si chiama “Via Lattea”. Da questa osservazione hanno ipotizzato che, in passato, le galassie fossero molto più vicine e che, circa 13 miliardi di anni fa, tutta la materia dell’Universo fosse concentrata in un punto. Questa materia era costituita da particelle vicinissime tra loro. Questa eccessiva vicinanza, a un certo punto, determinò una grande esplosione. Gli astrofisici chiamano questa esplosione BIG BANG. Nel momento del Big Bang, si formò una nebbia molto densa, formata da gas e polveri incandescenti, che, poi, piano piano, cominciò a espandersi, dando origine all’Universo.

La Terra:

Molto lentamente, gas e polveri che ruotavano intorno al Sole condensarono e formarono i pianeti del Sistema Solare. Tra essi, anche la nostra Terra. All’inizio, la Terra era una massa incandescente. Nel corso di centinaia di migliaia di anni, la Terra cominciò a raffreddarsi e a diventare solida. Si formò quindi la crosta terrestre. Invece il materiale incandescente che si trovava sotto questa crosta uscì dalle spaccature, formando i vulcani. Per milioni di anni, terremoti ed eruzioni vulcaniche hanno fatto fuoriuscire dalla crosta terrestre magma incandescente e grandi quantità di vapore, che davano luogo a piogge torrenziali. Al di sopra della Terra aleggiava uno spesso strato di vapore acqueo. Si formarono gigantesche nuvole, che riversarono sul nostro pianeta enormi quantità di pioggia. Nacquero così gli Oceani.  Poco a poco, dagli oceani emersero le terre primordiali, tutte unite a formare un unico grande continente, chiamato PANGEA. La Pangea si ruppe in grandissimi blocchi, i CONTINENTI, che iniziarono ad allontanarsi tra loro. Poco alla volta, i continenti assunsero la forma che hanno oggi. Il movimento dei continenti continua ancora oggi. Il fenomeno si chiama DERIVA DEI CONTINENTI.

 

Fonti:

 

 – Biblioteca Astronomica, La Vita nel Cosmo, Roma, Armando Curcio, 1984/85.

– Eirik Newth : Breve storia della scienza, Salani editore, 2010

– Margherita Hack, Massimo Ramella : Stelle, pianeti e galassie. Viaggio nella storia dell’astronomia dall’antichità ad oggi. Editoriale scienza, 2018

– Rosetta Zordan : la voce narrante. Il mito e l’epica. Fabbri editore, 2012

– https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27universo

 

Il Make-up nell’Antico Egitto… come farsi bella nell’antichità

In ogni epoca ed in ogni parte del mondo, ogni cultura ha utilizzato svariati metodi per far risaltare il proprio corpo, ai fini religiosi, culturali o semplicemente estetici; infatti, ad esempio, le acconciature dei capelli, i tatuaggi sulla pelle, le orecchie forate, i gioielli e l’abbigliamento possono essere interpretati come messaggi che l’essere umano invia verso l’esterno per esprimersi, come anche determinare l’appartenenza a un certo tipo di status e contesto socio-culturale. Il trucco è sempre stato ritenuto un messo importante di comunicazione, nell’antichità era usato per mettere in contatto l’essere umano con la divinità, non a caso in quasi tutte le danze sacre i danzatori prestavano molta cura ed attenzione al trucco.

scena di danza sacra

IL TRUCCO NELL’ANTICO EGITTO:

Il trucco, come si può vedere ancora oggi dai meravigliosi decori che affrescano i siti archeologici, era già noto ai tempi dell’antico Egitto, dove Faraoni e Regine erano soliti decorare il proprio viso esaltando la propria bellezza. La donna egiziana aveva una carnagione più chiara dell’uomo, preferiva quindi cosmetici che esaltassero questa differenza, come il talak, un talco a base di farina di fave e gesso in polvere che conferiva all’incarnato dei riflessi dorati (un antenato della nostra cipria).

Questi prodotti venivano stesi sul volto tramite batuffoli di peli di agnello. Per le carnagioni più scure esistevano anche dei prodotti pastosi, simili al fondotinta, a base di miele e polveri di alabastro. L’applicazione dei cosmetici, era preceduta da una base protettiva per la pelle di unguenti che facilitassero l’applicazione delle polveri cosmetiche. Se avevano una base grassa, per coprire odori non molto gradevoli, gli unguenti venivano aromatizzati con essenze floreali. Nella colonna delle offerte del Museo di Leida, sono elencate più di cento sostanze cosmetiche e aromatiche usate nelle pratiche di bellezza. Le numerose raffigurazioni del Dio Bes (divinità protettrice da malocchio e dalle forze del male, dio della casa, dio della musica, guaritore e protettore del sonno, della fertilità e del matrimonio, patrono dei trattamenti cosmetici) ed il suo culto ampiamente diffuso, sono la testimonianza dell’amore che questo popolo aveva per la bellezza espressa con eleganza ed estrema raffinatezza in tutte le manifestazioni dell’arte.

Cosmetici o veleni?

Inconsapevolmente, tutta questa cura estetica per alcuni aspetti era un vero veleno. le sostanze usate per truccarsi, e in particolare il piombo, sono molto tossiche! Era altissimo infatti il rischio di irritazioni, infiammazioni cutanee. Benché il tipico tratto nero con cui gli antichi egizi si truccavano gli occhi contenesse piombo, una sostanza molto tossica, i medici ne hanno esaltato le virtù curative. Questa contraddizione ha suscitato l’interesse di un gruppo di ricercatori. Il team di esperti ha verificato che il piombo, in quantità molto ridotte, non è nocivo, anzi, stimola la produzione della molecola del monossido d’azoto che attiva il sistema immunitario. Quindi, pare che il trucco degli antichi egizi possedesse effetti curativi e costituisse un meccanismo di difesa verso gli agenti patogeni esterni.

Papiro di Ebers, estratti di medicina

Curiosità: Il papiro Ebers (ca. 1550 a.C.) riporta la ricetta di un cosmetico fatto con profumi impastati con polvere di corno e sangue di lucertola.

GLI OCCHI:

Sin dall’Antico Regno (2686 AC- 2134 AC), gli occhi venivano marcati nei contorni. La bordatura si allungava fino alle tempie e comprendeva anche le sopracciglia. Inizialmente veniva utilizzata la malachite (un minerale di rame) successivamente sostituita dal kohl. Quest’ultimo era composto da più pigmenti, che potevano essere mischiati per restituire tonalità tendenti al nero, al verde o al grigio. Ossido di manganese, ocra bruna sono solo alcuni degli ingredienti: una volta polverizzati venivano amalgamati con una sostanza oleosa. Il trucco, una volta steso, poteva essere fissato grazie a della linfa di sicomoro. Le madri applicavano il khol per gli occhi ai loro bambini appena nati per prevenire le malattie e scongiurare le maledizioni.

 

Il significato della bordatura dell’occhio era collegata al Dio Horus, (il Dio falco), animale dall’occhio bordato di nero. Secondo la leggenda, tale pratica serviva “per ridonare la vista ad Horus”, rimasto cieco di un occhio nella battaglia contro Seth, per il trono dell’Egitto. Egli simboleggiava salute, integrità e salvezza. Tutti portavano al tempio del Dio oli, unguenti e cosmetici per ridonargli forza. Come detto precedentemente, le misture che usavano non erano solo a fini estetici, ma avevano anche un potere curativo ed igienizzante, e data la loro fissazione per l’igiene, che era collegata alla purezza dello spirito, nelle case furono costruiti anche servizi igienici. Il trucco degli occhi veniva steso partendo dalla coda delle sopracciglia fino ai lobi delle orecchie donando uno sguardo magnetico a donne, uomini e bambini. I colori che venivano utilizzati più spesso erano il verde e il nero.

Occhio di Horus                                                                                                             

Riguardo gli ombretti, le donne egiziane avevano a disposizione una quantità di colori da scegliere:

  • verde, ricavato dalla malachite (un minerale di ossido di rame di colore verde chiaro);
  • rosso, ricavato dal cinabro o cinnabrite (un minerale dall’aspetto rossiccio costituito da solfuro di mercurio);
  • arancio e giallo, derivati dall’ ocra e dallo zafferano;
  • viola e azzurro, ottenuti dal manganese e sai sali del rame;
  • marrone e bianco, ricavati dall’argilla e dalla biacca (per quest’ultima, si intende generico di sostanze coloranti bianche costituite da carbonato basico di piombo).

Le polveri erano conservate in tavolozze di avorio, venivano miscelate con grassi e resine prima di essere applicate sulle palpebre. Gli antichi Egizi creavano il trucco degli occhi con due tipi di minerali. L’ “udju” ad esempio, era il trucco degli occhi verdi a base di malachite verde. Gli occhi erano considerati la massima espressività dell’anima.

LE LABBRA:

Le guance e labbra venivano truccate solamente dalle donne. Di questi prodotti, ne abbiamo testimonianza grazie ai numerosi corredi funebri rinvenuti nelle tombe durante gli scavi archeologici. Il rosso poteva essere sostituito da limonite o ematite (la limonite e l’ematite sono ossidi idrati di ferro, si differenziano solo dal loro colore giallo e rosso) Per quanto riguarda il rossetto, veniva utilizzato un trito di insetti essiccati, amalgamato con cera d’api o altre resine gommose. La regina Cleopatra (70/69 a.C. – Alessandria d’Egitto, 12 agosto 30 a.C.), utilizzava coleotteri e formiche rosse, ricetta che ci ha tramandato nella sua opera: Cleopatra Gynaeciarum Libri.

 

I CAPELLI:

Gli antichi Egizi utilizzavano i cosmetici anche per colorare i capelli e le unghie. Usavano una forma di henné che è una tintura derivata dall’arbusto henné, originario dell’Africa.Essiccavano e macinavano le foglie e i germogli della pianta dell’henné. La polvere poi veniva aggiunta al grasso, l’olio o l’acqua per formare una pasta che poteva essere applicata ai capelli ma anche alle unghie per ottenere una tinta gialla o arancione. Gli antichi Egizi utilizzavano anche fare tatuaggi all’henné. ( es. sulle mani e avambraccio). Gli uomini, ma anche le donne, tendevano a rasarsi la testa e le sopracciglia per poi indossare delle parrucche di capelli umani intrecciati. Le donne preferivano tagli corti o una capigliatura raccolta che donasse loro un aspetto regale.

LE MANI:

La manicure era l’unica a differenziarsi fra i ceti sociali: i toni forti del rosso erano utilizzati dalle classi superiori, mentre le donne del popolo utilizzavano i toni aranciati. La regina Nefertiti (1370 a.C. circa – Amarna, 1330 a.C. circa) amava il rosso rubino, mentre Cleopatra il bordeaux.

Nefertiti “la bella che viene” (Ägyptisches Museum, Berlino)

L’ingegno egiziano prevedeva anche una sorta di “invenzione” una crema scrub per l’epidermide, realizzata con carbonato di sodio, miele e sale marino, ottima per ammorbidire e levigare la pelle del corpo. Le donne egiziane erano anche molto attente alle rughe, per stendere la pelle e ringiovanirla, venivano creati unguenti appositi, in grado di distendere le cellule epidermiche con sostanze assolutamente naturali.

prototipi di hennè ( qui siamo in contesto indiano ma il modus operandi è molto simile a quello Egizio)

I PROFUMI:

 Nell’Antico Egitto il profumo era molto usato, sia da uomini che da donne, per crearlo venivano usati unguenti specifici ed oli profumati, estratti direttamente dalle piante e dai frutti, come la Loce della moringa. utti i riti di bellezza egiziani erano usati anche nelle cerimonie religiose, durante i quali si teneva molto alla cura personale estetica.

sempre contesto indiano, ma modus operandi simile

 

Fonti:

Lajja Gauri: la Dea senza forma

In collaborazione con la mia collega Valentina Monsurrocco, dell’Università l’Orientale di Napoli, abbiamo voluto porre particolare attenzione riguardo la figura della dea senza forma, venerata in grotte naturali nel sito di Kashmir Smast in Pakistan.  Il sito di Kashmir Smast, è uno dei siti archeologici più importanti dell’area del Gandhara, situato a circa 50 km a nord-est di Mardan. Un ricco territorio montuoso contraddistinto da un insieme di grotte naturali, dove in passato, al di sotto di quest’ultime, sgorgavano ruscelli stagionali che si riempivano durante la stagione delle piogge. Questo sito, o meglio, la grotta del Kashmir, così viene denominato dalla gente del posto, è menzionata in molti testi letterari e religiosi. Più di due iscrizioni si riferiscono a una montagna chiamata Sri Minja e Dio Bhima o Shiva, la divinità principale che risiede nella grotta Maha-guha di questa montagna. Gli studiosi sono propensi nell’identificare questo luogo sacro con il sito di Kashmir Smast.  Il pellegrino cinese Xuangzang, visitando la regione del Gandhara nell’VII sec. d.C., descrive questo luogo come l’importante centro di culto della dea indù Bhima Devi, conosciuta anche con il nome di Lajja Gauri. La grotta di Kashmir era meta di pellegrinaggio, importante per venerare la moglie del dio Shiva.

Gola montuosa in Baluchistan

Il tempio rupestre di Hinglaj Mata si trova in una stretta gola nella remota zona collinare di Lyari Tehsil nel Baluchistan. Negli ultimi decenni il luogo ha guadagnato una crescente popolarità ed è diventato un punto di riferimento unificante per le numerose comunità indù del Pakistan. l tempio si trova in una piccola grotta naturale, dove non è presente l’immagine rappresentativa della dea ma vi è una piccola pietra venerata come Hinglaj Mata (la madre Hinglaj). La pietra è coperta di sindur, ovvero un impasto tradizionale realizzato con una polvere cosmetica di color vermiglione (tonalità che va dal rosso al rosso arancione). Si ritiene che l’Hinglaj Mata sia una divinità molto potente, tra le più venerate nella tradizione indù. La leggenda narra che dopo che la dea Sati si suicidò gettandosi nel fuoco, il suo marito afflitto Shiva inizia vagare nell’universo; aggrappato al suo cadavere. Il Signore Vishnu ha poi smembrato il cadavere in 52 pezzi, e si dice che la testa del Sati sia caduta a Hinglaj. Gli indù sostengono che la testa della dea non è artificiale, ma ha mantenuto la sua forma originale per tutti questi secoli. Si racconta un’altra storia di questo sito, riguarda l’area governata da un sovrano crudele, Hingol. Il popolo pregava la dea di liberarli dagli spasimi della sua tirannia e la dea obbedì. Prima di uccidere Hingol, però, si dice che gli abbia esaudito il suo ultimo desiderio: quello dell’area che prende il suo nome.

Lo yatra si svolge durante la primavera, quando i pellegrini arrivano a Hinglaj completano una serie di rituali, come scalare i vulcani di fango Chandragup e Khandewari. I devoti lanciano noci di cocco nei crateri del vulcano di fango Chandragup per esprimere desideri e ringraziare gli dei per aver risposto alle loro preghiere. Alcuni spargono petali di rosa, altri dipingono i loro corpi e volti con l’argilla. I pellegrini poi fanno un bagno rituale nel fiume sacro Hingol prima di avvicinarsi finalmente al santuario che segna il luogo di riposo della dea. Quest’area così come la regione del Gandhara, essendo situata all’incrocio di altre regioni, era un importante centro commerciale. Infatti commercianti provenienti da diverse parti dell’India, Cina, Asia centrale, hanno visitato questo luogo per fini commerciali. Divenendo una regione cosmopolita, adottando non solo gli stili artistici delle regioni vicine, estese la sua accoglienza a persone provenienti da varie regioni che si stabilirono in questa zona. Fu nella prima metà del XIX secolo che il sito fu visitato da alcuni esploratori europei che fecero ricerche preliminari sul sito.  Il sito era contraddistinto inoltre da bacini d’acqua pura. Nel mondo indiano l’uso rituale dell’acqua, in relazione al culto delle icone, è un atto di fondamentale importanza. Infatti alla dea è legato il concetto di nascita e ri-nascita spirituale. L’acqua è ciò che dà vita. Pur non essendo l’elemento che crea la vita, è però quello che la mantiene, è quello più adatto ad accoglierla, nonché il suo alimento. Infatti in essa avviene la gestazione dell’uomo. E dall’acqua nasce anche il loto, la pianta simbolicamente più significata della rinascita spirituale. L’acqua è rigeneratrice, l’immersione in questo elemento rende  vivi “di nuovo”. Quando ci si immerge completamente nell’acqua si riemerge, si rinasce con il corpo e l’anima. Questo percorso, come la vita, non è facile. Infatti la grotta del Kashmir non è facilmente accessibile a causa del passaggio ripido e stretto, così come il canale del parto è stretto e pericoloso.

L’antica dea madre indiana riporta alla mente una figura femminile con fianchi e seni prominenti, oppure nell’atto di tenere un bambino in grembo posto al suo fianco. Questa tipologia rappresenta la parte benefica della Dea Madre. Ma, ve ne è un’altra, menzionata su alcuni sigilli del Gandhara, una divinità temibile e terrifica. Il suo nome, inscritto in brahmi, è Bhima, cioè la “Timorosa”. Questo nome è anche inscritto su diversi vasi di offerta rituale e su varie donazioni, tutti oggetti presenti presso il sito di Kashmir Smast. Quando Bhima rappresenta la parte benefica della sua persona, è invocata per la protezione dei bambini e del parto; quando invece assume aspetti negativi è rivolta all’irresponsabilità dei genitori e ai bambini ribelli. Sulla base della paleografia delle loro iscrizioni tutti i sigilli sono datati tra il II/III-V/VI sec. d.C.. Un sigillo quadrato in bronzo e un rotondo in argilla datati al IV-VI sec. d.C. In entrambi gli esempi non c’è alcun tentativo di umanizzare la figura femminile; lei è un essere astratto, priva di braccia, la testa è contrassegnata da un punto e il seno con altri due punti formano un triangolo, le gambe sono piegate e divaricate. La figura maschile rappresentata in entrambi i casi, si muove come se stesse saltando.

L’astrazione della figura della dea nella postura connessa al parto sui sigilli di Kashmir Smast non dovrebbe essere Bhima stessa, ma un ideogramma che si rifà a un potere controllato da Bhima o a un potere che risiede in un punto che Bhima può toccare. Quel potere, secondo gli studiosi, è la ri-nascita. Sulla base di questo ragionamento, la figura maschile che nelle rappresentazioni è nell’atto di saltare, il maschio è probabilmente un reale. L’uomo/reale che salta sta ad indicare colui che si dirige al sito di bhima sthana per eseguire il rituale Hiiranyagarbha.

Rappresentazione dell’uomo con il bastone in mano nell’atto di saltare

La possibilità che la figura presente sui sigilli di Kashmir Smast con parti del corpo mancanti potrebbe essere di tipologia tantrica non è ovvio. Lo studioso Sircar teorizzò, dalle informazioni di Xuanzang, che il luogo visitato dal pellegrino cinese era un antico yoni kuna, ovvero un contenitore pieno d’acqua, sagomato come un grembo materno. Anche un paio di colline o picchi a forma di seni femminili potrebbero essere collegati come luogo della dea. L’acqua che sgorga dalle sorgenti di queste colline potrebbe essere connessa al latte della dea. Tutto ciò potrebbe essere anche considerato come svayambhu murti della dea.

Infatti, al di fuori della grande grotta c’era un’ enorme serbatoio d’acqua, e ad est di questo tracce di una sorgente. La forma naturale di Bhima potrebbe quindi essere composta da “seni” montuosi attraverso i quali scorreva acqua/latte in un grande serbatoio/utero. La presenza di questi elementi naturali che costituiscono lo svayambhu murti di Bhima potrebbe aver impregnato il suo culto in questo luogo del Gandhara: i pellegrini, avendo notato i suoi aspetti geofisicamente di buon auspicio, l’avrebbe promosso come luogo sacro.

Svayambhu murti

 Il nome “Gauri” appare, in particolare, nel capitolo V e XI del Devi Mahatmaya dedicato alla dea Durga. “Lajja” significa vergogna, riferendosi alla sessuale iconografia della dea, nuda e gambe divaricate.  Questo nome indiano che associa “Lajja” alla vergogna, con “Gauri”, dea, non ha un significato speciale né storico.  Qualunque siano le origini di Lajja Gauri, lei è chiaramente una dea di buon auspicio. Tutto in lei suggerisce vita, creatività e abbondanza. Le sue immagini sono quasi sempre associate a sorgenti, cascate e altre fonti di acqua corrente, simboli vividi di sostentamento vitale.  La testa di Lajja Gauri è solitamente un fiore di loto, un simbolo estremamente potente ed elementare del benessere sia materiale che spirituale.  Le sue immagini sono praticamente sempre prone nella sua caratteristica postura uttnapad, come se sorgesse dalla terra stessa, una manifestazione dello Yoni primordiale da cui scaturisce tutta la vita.  Questa Devi è vista come Madre dell’Universo, come la forza vivificante della Natura, in una dimostrazione audace e senza compromessi del Principio Femminile Divino. Lo studioso David Kinsley, ha osservato che la mancanza di testa di Lajja Gauri ha lo scopo di concentrare l’attenzione del suo devoto lontano dalle sue personalità individuali e sulla sua funzione cosmogonica come fonte di tutto ciò.

In uno dei sigilli rinvenuti Lajja Gauri in una forma umana è raffigurata su un piedistallo a forma di linga in sostituzione del tridente simbolo comunemente raffigurato sui sigilli di Lajja Gauri. Il Linga ( attributo sessuale) e il tridente (Trisula) sono gli emblemi iconografici principali della divinità indù Shiva.

In conclusione, sebbene la disposizione delle figure e dei simboli non mostrino uniformità, la figura di Lajja Gauri se mostrata in forma umana o raffigurata con un simbolo, è sempre presente. Ma dall’altra parte, anche Shiva è sempre presente sul sigillo, seppur in modo simbolico ( tridente )  viene mostrato insieme alla figura di Lajja Gauri. Quale relazione esatta entrambi potrebbero avere è difficile da sapere, ma una cosa è certa che la loro associazione va ben oltre la semplice rappresentazione di due divinità, potrebbero essere infatti legate da una relazione intima. I sigilli finora registrati dal Kashmir dimostrano che Lajja Gauri è sempre raffigurata ed è considerata come una delle figure principali. È difficile sapere tutti questi simboli o altre figure rappresentate quale associazione abbiano con la dea ma alla luce di altri rinvenimenti dal sito si potrebbe presumere che questi simboli possano avere affiliazioni dirette con la fede Shivaita o Visnuita.

I tre simboli o figure che accompagnano Lajja Gauri sono un tridente (trisula), un vaso (purna ghata) e una figura danzante. Il tridente è identificato come simbologia di Shiva, il vaso o il purnaghata è identificato con Brahma, oppure può essere usato come simbolo di rappresentazione di Shiva come Kamandalu ( un vaso d’acqua oblungo, usato anche nell’iconografia indù, nella rappresentazione di divinità legate all’ascetismo o all’acqua) o come vaso dell’abbondanza che simboleggia Lajja Gauri. La figura danzante potrebbe stare a rappresentare la danza di Shiva o molto probabilmente Visnu, Narasimha o Varaha ( due avatar di Visnù).

In conclusione, prendendo in riferimento gli studi di Bolon, potremmo affermare che una forma completamente antropomorfizzata di Lajja Gauri, probabilmente è avvenuta dal 500 d.C. In seguito alle maestranze che visitavano Kashmir Smast per fini commerciali o di pellegrinaggio questa figura si è evoluta sempre più. Bhima e Lajja Gauri sono due facce della stessa medaglia, nonché la semplice controparte femminile, di Shiva.

Fonti:

Chiara Vantaggio e Valentina Monurrocco

L’evangelizzazione: Doppia faccia della stessa moneta

 “Quando sono arrivati qui i bianchi, avevano con loro soltanto la Bibbia, mentre noi avevamo le nostre terre. Ci hanno insegnato a pregare, con gli occhi chiusi: quando li abbiamo riaperti i bianchi avevano le nostre terre e noi avevamo la Bibbia”.

Jomo Kenyatta

Il processo di colonizzazione è l’espansione di una nazione su territori e popoli all’esterno dei suoi confini, spesso per facilitare il dominio economico sulle risorse, il lavoro e il commercio di questi ultimi.  Il termine indica anche il dominio coloniale mantenuto da diversi Stati europei su altri territori extraeuropei lungo l’età moderna; indicando il corrispettivo periodo storico, cominciato nel XVI secolo, contemporaneamente alle esplorazioni geografiche europee, assumendo nel XIX secolo il termine di imperialismo, e formalmente conclusosi nella seconda metà del XX secolo, con la vittoria dei movimenti anti-coloniali. Infine, ma non per ultimo, il termine indica anche l’insieme di convinzioni usate per legittimare o promuovere questo sistema, in particolare il credo che “i valori etici e culturali dei colonizzatori siano superiori a quelli dei colonizzati “.

Ribaltando però la tesi convenzionale che data la diffusione planetaria della storia europea a partire dal XIX secolo, Serge Gruzinski ( storico francese, si interessa alla colonizzazione dell’America e dell’Asia, in particolare alle esperienze coloniali come luogo di meticciato e di nascita di spazi ibridi) ne anticipa l’inizio al Cinquecento.Gli europei del 1500 cessano finalmente di essere confinati entro i paesaggi tradizionali nei quali hanno vissuto per secoli per cominciare a recarsi altrove. I contatti con tantissime altre civiltà li sconcertano, sollecitandoli allo stesso tempo a interrogarsi sui mezzi tramite cui assicurarsi un’espansione commerciale e l’autorità politica e religiosa in queste nuove terre.  Più precisamente, in terre come il Messico e l’America Iberica, dove i conquistadores colonizzano le società native e vi introducono il nostro modo di scrivere e la storia. Pur essendo funzionale alla costruzione di un sistema di dominio e all’affermazione dell’eurocentrismo storiografico, “ La Machine à remonter le temps “ ( la macchina del tempo )  si mette in moto in Messico agendo in un contesto estremamente frastagliato sul piano etnico, linguistico e culturale. Un contesto di cui l’autore, Gruzinski, ci restituisce l’articolazione attraverso un affascinante archivio fatto di codici pittografici coloniali, testi in azteco e opere in spagnolo rimaste per secoli al di fuori della circolazione a stampa. Tramite questa via riaffiora alla superficie anche il contributo offerto da indigeni e meticci all’ampliamento degli orizzonti spaziali e antropologici della coscienza storica europea.

A partire dalla corona di Castiglia e da Carlo V, a seguire la corona Inglese, vogliono conoscere tutto riguardo i nuovi popoli, tutto ciò per determinati motivi: sfruttare più efficacemente la manodopera indigena, conoscere i meccanismi del tributo indigeno, ecc. partendo da questi quesiti si arriva ad interrogarsi riguardo il passato degli indiani della Nuova Spagna.  Ha così inizio la cattura delle memorie. Da tale ridimensionamento planetario deriva la necessità di opporre costantemente il moderno all’antico. Lo storicismo impone un suo modo di considerare il tempo lineare e il passato locale, partendo dall’assunto che una società è articolata in una serie di categorie prestabilite.  In tale prospettiva il sociale, il politico, il religioso, il culturale si configurano tutti come storicamente determinati.

Questi popoli vengono visti come “barbari “. Il motore dello sviluppo storico rimane monopolio e collante dell’Europa moderna.  I criteri che per noi definiscono il concetto di storia sono esclusivamente eurocentrici, il che implica che tutte le società locali sono giudicate in base a criteri occidentali, la conquista, la colonizzazione e la mondializzazione; configurandosi come anni zero in cui precedentemente regnava la preistoria. La storicizzazione vera e propria ha inizio in Messico durante tutto il 1500. Meticci, spagnoli e indigeni cercano di scrivere la storia tenendo presente che: la storia della salvezza è la chiave esplicativa del destino dell’uomo e della società, e che questa storia risulta l’unico mezzo per acquisire la conoscenza empirica di ciò che è umano e la comprensione degli esseri umani presuppone una conoscenza storica.La prima ondata di evangelizzazione francescana favorisce queste iniziative: ad esempio, potremmo citare Toribio de Benavente, detto Motolinìa (missionario francescano spagnolo, ricordato in Messico come uno dei più grandi evangelisti.). I suoi scritti rappresentano il preludio americano del processo di storicizzazione che finirà per diffondersi in tutto il mondo. Nel 1936, viene aperto un collegio a Tlatelolco per istruire le elitè indigene, poiché si avverte la necessità di consolidare la presenza spagnola stabilendo un legame con l’epoca precedente.

Tramite il resoconto degli anziani e grazie alla presenza di aiutanti che gli danno una mano a decifrare quello che dicono gli indigeni nelle loro pitture e nelle pitture miste a comenti scritti,  Motolinia costruisce i capitoli di  “la Historia e i Memoriales“. Motolinia, vede in ogni avvenimento il sigillo della volontà divina. Presso il convento di Huejotzinco, nei pressi di Tlaxcala, il francescano aiuta i nativi a combattere gli abusi e le atrocità commesse da Nuño Beltrán de Guzmán (esploratore spagnolo, amministratore coloniale della Nuova Spagna. Vendette migliaia di indigeni fatti prigionieri nelle isole dei Caraibi). Anche se Motolinia protegge gli indiani dagli abusi di Guzmán, non condivide le opinioni del domenicano Bartolomé de Las Casas (vescovo cattolico spagnolo impegnato nella difesa dei nativi americani), il quale vede nella conquista e nella sottomissione degli indiani un crimine contrario alla moralità cristiana. Motolinia è convinto che Dio avrebbe protetto gli indiani una volta convertiti, e che l’opera missionaria è quindi più importante della lotta al sistema delle encomienda. Per questo motivo continua a difendere la conquista, le encomienda e l’evangelizzazione.

Bernardino de Sahagún  ( importante missionario francescano spagnolo ) scrive in trilingue nahuatl-spagnolo e latino il famoso “Codice Fiorentino”  conservato  a Firenze.  Sostenendo che questa opera missionaria si configura come opera distruttiva e come tanti altri cerca di investigare per divulgare questa gravità il più possibile.  na chiara constatazione è il fatto che parte dell’organizzazione religiosa  è connessa con la macchina bellica degli amerindiani.  Ad es. il cannibalismo è uno degli elementi usati per dire che la civiltà amerindiana era imperfetta a causa di queste attività inumane. Il cannibalismo è stato visto secondo William Arens ( Antropologo culturale) da molte popolazioni del mondo come vizio da condannare, imputare, senza però vedere  i fatti reali a esso connessi. L’azione bellica è uno strumento importante per la colonizzazione.

Lo stesso Hernán Cortés ad esempio non è solo un marinaio ma anche un guerriero, così come molti missionari erano uomini d’arme.  Durante lo scontro fisico tra Cortez e Aztechi, gli spagnoli hanno la meglio perché tutto quello che posseggono è un apparato di morte. Tale scontro con successiva invasione e colonizzazione ridusse a zero decimando intere popolazioni, villaggi e città- stato dell’America latina. Tutto quello che è “non cristiano”, “blasfemo” è stato distrutto e raso al suolo. Un chiaro esempio lo abbiamo con l’antica Tenochtitlan, capitale dell’impero azteco, attuale Città del Messico.  Lo zocalo ( piazza cittadina) con i suoi meravigliosi monumenti è stato completamente raso al suolo.  Come il meraviglioso Templo Mayor dedicato alle duplici divinità Tlaloc, dio della pioggia e Huitzilopochtli, dio della guerra, è stato soppiantato dalla cattedrale cristiana e delle sue vestigia ne rimangono che meri resti.

Le popolazioni native sono state violate non solo del loro corpo fisico, ma recise anche in qualcosa di più profondo poiché private di tutto, della loro storia, della loro religione, della loro cultura, delle loro origini…della loro stessa identità e libertà di individuo.  

Bartolomé de Las Casas ( vescovo e cattolico spagnolo) è stato il primo ecclesiastico a prendere gli ordini sacri nel Nuovo Mondo, divenne Domenicano. Grazie alla sua attività di denuncia del sistema di sfruttamento degli indios vengono compilate le “Leggi nuove” ratificate da Carlo V, grazie alle quali vengono abolite le encomiendas (strutture organizzative agricole fondate su un sistema schiavistico-feudale, principale causa dello sfruttamento dei nativi). De Victoria, invece riesce a giustificare l’opera di colonizzazione accertando che gli amerindiani  sono come i “ bambini” che devono crescere ed essere educati e guidati per un adeguato sviluppo.  Dal punto di vista bellico si riconosce il fatto che con questo modus operandi si possono muovere guerre giuste come “opera civilizzatoria”, cioè : civilizzazione delle anime, sfruttamento delle risorse e sfruttamento economico.  I  protagonisti indiscussi  della colonizzazione furono i Gesuiti, appoggiati dal Papato e dalle forze imperiali. Un ingranaggio così potente doveva avere sudditi obbedienti e fedeli alla legge della corona. Questi personaggi sono reali, coloni e missionari. Sono soprattutto le Americhe, che nel secolo XVI vengono dominate territorialmente da due regni cristiani, quello spagnolo e quello portoghese, l’obiettivo principale era l’evangelizzazione e la fondazione di una vera e propria colonia gesuita.

L’ordine entra tardivamente in America, (nel 1549, in Brasile). I Gesuiti iniziarono la loro opera di evangelizzazione in Florida, successivamente si spostarono in California (quest’ultima ritenuta barbara e pericolosa ). Proprio in area amerindiana la forza della coercizione inizia ad essere più presente, proprio perché si immaginava un doppio canale: quello del convincimento/educazione; se il mezzo educativo non bastava si passava alla violenza. Queste missioni vengono inviate per lo più  in chiave sperimentale, poiché non sono assolutamente preparati a quello che dovranno affrontare. Per capire il perché di questo ordine, bisogna capire che il mondo missionario giunto nelle Americhe guarda prettamente agli ordini di strada ( minori ) quelli mendicanti attivi già  dal 1300.  L’ordine infatti, nasce con la precisa consapevolezza che si deve parlare a un mondo rurale, come quello del  popolo da evangelizzare: lingue diverse e volgari.

Durante le missioni i Gesuiti compilano diari per poi consegnarli ai gendarmi e alla corona stessa. Fanno rapporto delle proprie esperienze, osservando e traducendo su pagina ciò che avviene, trascrivendo le proprie considerazioni da trasmettere poi ai propri confratelli. Molte delle lettere (di giovani 16-18 anni ) descrivono come  entrando nell’ordine la salvezza fosse dietro l’angolo, descrivono delle loro intraprendenti e avventurose missioni da “guerrieri” in  terre misteriose e incontaminate. Il loro doveva essere un messaggio cosmopolita, trasmettendo un forte senso di mistero e avventura. Questi missionari sono un chiaro strumento di colonizzazione.  L’atto eroico del viaggio ha a che fare con l’atto eroico dell’apprendimento di usi e costumi altrui.  Importante, in particolar modo l’apprendimento della lingua natia vista come veicolo di comprensione e conoscenza dell’altro.   Una delle prime opere comparative è quella di Jose de Acosta (gesuita spagnolo, II metà del 500).  Il suo grande interrogativo è “da dove vengono gli Amerindiani?”. Nel testo “Historia natural y molar de las Indias” crede che gli amerindiani provengano dall’Asia.    Il gesuita dice che i missionari devono comprendere gli indiani dall’interno, nel loro vissuto e non come ottica comparativa tra razze; e solo l’esperienza e l’approccio con certe realtà può rivelarne la vera essenza. Egli tende a comparare le popolazioni asiatiche a quelle latino-greche per la loro raffinatezza e cultura. Per lui lo studio e comprensione sono le basi per entrare in stretto contatto con la storia e la cultura locale.  Il gesuita, definisce “civiltà altre” quelle realtà che se pur complesse sono macchiate dal peccato della loro ignoranza dalla fede cristiana. All’interno di queste civiltà impure pone anche popoli del continente indiano, esseri civili ma preda di istinti non domati.  Al culmine di questa scala vengono poste le popolazioni del Giappone e della Cina. Pensando che questi ultimi siano facili da evangelizzare poiché popoli molto raffinati e curati sia nel quotidiano, che nell’espressione sociale, nel contesto filosofico e astratto. La loro razionalità avrebbe constatato la superiorità o il senso profondo della fede cattolica portandoli docilmente a farsi convertire al cristianesimo, ampliando così la schiera dei popoli civili consegnati tramite la fede cristiana al regno di Dio.

I Gesuiti, si muovono con astuzia, evangelizzando, ma rispettando, anzi valorizzando le lingue e la cultura locale, e soprattutto dominando economicamente gli immensi territori posti sotto il loro controllo. Amministrano con ottima organizzazione le loro immense proprietà agricole producendo: mais, ortaggi, vino, cioccolato, tabacco, vetro, e altri beni che esportano con successo in Europa.  Quella dei Gesuiti potrebbe essere vista come una delle prime multinazionali. Il credo religioso cattolico invade ogni cosa (dalla religione, alla famiglia, al senso del peccato, alla vita dopo la morte). Solamente dopo il 4 luglio 1776, con l’indipendenza degli stati americani, vengono cacciati gli ordini religiosi percepiti con forte legame con la corona europea.   I Gesuiti però non si sciolgono. La maggioranza di essi ripiegano in Russia dove poi si riorganizzarono.  Nell’800, una grande processo di evangelizzazione seppur con processi diversi avviene anche in Africa, India e Cina. Matteo Ricci (gesuita), in Cina ha l’onore di essere introdotto al cospetto del celeste imperatore. Secondo Ricci l’amore per gli antenati da parte dei cinesi viene visto come un rito molto importante e civile accomodato alla logica cristiana, così come il cerimoniale del tè giapponese accomodabile all’interno delle liturgie cattoliche e quindi rispettabile in quanto tale.   Un modo proficuo per allargare la religione a più confini.  Alessandro Valignano (gesuita), ammira l’educazione dei bambini cino-giapponesi, da subito educati e obbedienti a differenza dei bambini occidentali (caucasici da come veniamo definiti dai Giapponesi). Nel continente asiatico il messaggio cristiano viene percepito dagli interlocutori come messaggio eretico. Il Giappone riesce a liberarsi dall’ evangelizzazione agli inizi del ‘900, tramite un processo politico di isolamento molto importante, il potere del convincimento con loro non fu così efficace.

Quali furono, dunque, le conseguenze generali del colonialismo sui territori dipendenti alla fine del periodo coloniale? La colonizzazione nasce dalla falsità e dalla disonestà e genera due conseguenze deleterie: il colonialismo e il razzismo. La presunta superiorità razziale del bianco è la giustificazione “morale” che l’Europa per secoli ha addotto nel depredare le risorse di interi paesi, nell’abbattere civiltà millenarie, nel brutalizzare i “diversi” in un’opera spietata di oggettificazione delle persone. L’Occidente è il grave responsabile di tale scempio. Il colonialismo è pericoloso perché porta alla disumanizzazione del colonizzatore, che vede nell’ altro non la persona, ma la bestia da torturare, da opprimere, da degradare. Se si vuole fermare la decadenza del vecchio continente è necessaria una rivoluzione che guardi in modo nuovo i colonizzati, riconoscendo e rispettando finalmente il loro diritto di nazionalità, di individui liberi con i loro usi, costumi, religioni e visione del mondo.   Infondo quale società è giusta e quale è sbagliata”, quali usi e costumi sono più consoni di altri, qual’ è il credo giusto da seguire e quello da distruggere… non possiamo di certo noi popolo bianco arrogarci questo diritto, diritto che non ci appartiene. La domanda che ci dovrebbe sorgere più ovvia è: chi è più barbaro l’autoctono o il colonizzatore?

Fonti:

– Alberto Caturelli, “Il Nuovo Mondo riscoperto”, pubblicato in Italia dalle Edizioni Ares (1992).

L’ Europa e l’evangelizzazione del nuovo mondo, L. Vaccaro (Curatore), 1995. 

– La ciudad de México : una historia / Serge Gruzinski ; traducción de Paula López Caballero. Fondo de Cultura Económica / 978-968-16-7284-3.

– La máquina del tiempo. Cuando Europa comenzó a escribir la historia del mundo. Gruzinski, Serge, ISBN: 9786071670939 | Clave FCE: 003825L                                                                            

 

 

 

Chiara Vantaggio

Il Potere dei Cibi e i Cibi del Potere

Prendendo spunto da un seminario che seguii durante il corso di Antropologia Culturale, ho pensato di fare un piccolo approfondimento personale. A tal proposito ho potuto constatare che nel panorama teorico delle scienze sociali, della sociologia, e dell’antropologia l’alimentazione è stata spesso trascurata perché considerata come un fenomeno prettamente biologico.

Tuttavia, è a partire dagli anni Settanta, in seguito alle prime riflessioni antropologiche, anche la sociologia inizia ad occuparsi a pieno titolo di cibo ed alimentazione, considerando questi ultimi come fatti sociali,  come insiemi di rappresentazioni della società. Col tempo, ci si è resi conto che il cibo è un elemento socialmente costruito: è la società a creare la dieta degli individui; è sempre la società che ne stabilisce i rituali in cucina; è ancora la società a fondare quella coscienza culinaria e domestica che rende la tavola la vera protagonista della vita degli individui. Cosicché, l’alimentazione da fatto puramente biologico diviene e si realizza come prodotto culturale di una data società.

L’incontro tra scienze sociali e alimentazione avviene alla fine dell’Ottocento, per merito dell’antropologia culturale, che associa il cibo a una dimensione culturale e simbolica. Friedrich Engels analizza le condizioni delle classi operaie, con la conseguenza di una insufficienza rispetto al soddisfacimento dei bisogni alimentari primari, che invece dovrebbero essere garantiti dallo Stato.

Émile Durkheim, padre fondatore della scienza sociologica, analizza il cibo, connettendolo con il fenomeno religioso. La religione, infatti, secondo Durkheim altro non è che la trasfigurazione della società, la cui essenza sta nella divisione del mondo in fenomeni sacri e profani: all’interno dei fenomeni sacri, i riti rappresentano le regole di condotta che prescrivono all’uomo come comportarsi. La partecipazione ad un rito collettivo, come un pasto mistico, incentiva il senso di identificazione degli individui alla propria comunità di appartenenza poiché il cibo è qui considerato come strumento di purificazione e rito di passaggio.  Questo possiamo constatarlo tra le culture presenti in varie parti del mondo: dall’America, all’Asia, all’Africa fino alle remote terre Australiane e Polinesiane.  Riti che sopravvivono ancora adesso.

Il “Potere Coloniale “ è stata una delle dimensioni utilizzate come strumento di forza e cambiamento minando le certezze storiche delle popolazioni investite;  è  uno strumento subliminale che condiziona la quotidianità di una popolazione senza che questa se ne renda conto. Gli spagnoli, ad esempio, fino al tardo 700 non hanno integrato nella loro dieta cibi come il mais, cereali, legumi, pomodori… non capivano quanto fossero prodotti nutrienti, prodotti di grande sussistenza per i popoli dell’America Latina. Soprattutto il Mais simbolo identitario per eccellenza.  Questo importantissimo alimento ha assunto un enorme valore socio-culturale e religioso.

La riscoperta di un cibo che vuole ricollocarsi al centro del potere del Messico contro la storia coloniale, influenzando e condizionando il comportamento di ogni individuo. Altro alimento di particolare importanza per la sua rivendicazione fu il frutto del Cacao, alimento molto prezioso e ricco di grassi. La fava del cacao si diffuse anche come “ moneta “ commerciale.    Assumendo così grande rilevanza sia nell’assetto alimentare che economico. I coloni, da controparte, volevano imporre a queste popolazioni la produzione di frumento, perché secondo loro era l’alimento dei popoli coraggiosi e quindi l’alimento che dette agli europei una forza coloniale così preponderante. Il Riso degli asiatici, invece, agli occhi degli occidentali era visto come alimento debolissimo che rendeva queste popolazioni “schiavi” (deboli).

La relazione tra istinto e controllo sociale, subisce una metamorfosi continua: una volta che i comportamenti civili sono stati socialmente approvati, essi vengono trasmessi nella socializzazione dei nuovi nati come ovvi. Il semplice stare a tavola comporta il seguire delle regole ben precise, delle abitudini che sono diventate, col trascorrere del tempo e con il perfezionamento del processo di “civilizzazione”, veri e propri modelli culturali ( in alcune culture ,Musulmana ad esempio, è  il capofamiglia a dare il via alla consumazione del pasto ).

Fattore importante da non dimenticare, quando parliamo di cibo, dobbiamo rivolgere il nostro sguardo al passato, al presente e al futuro che ci aspetta. La storia ci insegna che il cibo non è solo nutrimento per la mera sopravvivenza ma anche potere, lotta e affermazione. Basti pensare alle sofferenze delle popolazioni più povere con status di forte malnutrizione e allo sfarzo in cui quelle più ricche hanno vissuto, nel corso dei secoli, generando il più delle volte spreco di cibo.

Il nutrimento come atto naturale inizia proprio con l’allattamento: qui non va dimenticata la complessa relazione tra donna e cibo. La mamma che nutre il figlio, che cucina per la famiglia, che partecipa ai digiuni religiosi, che lavora nei campi e a casa… Nel tempo la donna è stata considerata in tanti modi diversi: madre, moglie, santa, strega, guaritrice, assassina, seduttrice ecc. Una relazione, quella fra le donne e il cibo, che a tutti pare scontata e che invece è stata ed è ancora molto più significativa e complessa di quello che si pensa. Tra istinti primigeni, volontà di affermazione e razioni alle imposizioni sociali, le donne hanno sempre lottato per ottenere un ruolo autonomo nella società. Il cibo è proprio parte di questo.  Il rapporto delle donne con il cibo è “frutto di una costruzione culturale”. Per secoli il focolare domestico è stato l’unico luogo della casa in cui la donna avesse piena libertà di azione. È anche attraverso il cibo che le donne sono pervenute a una definizione dell’identità di genere, sebbene in molti casi come esito di condizionamenti maschili più che di scelte naturali.

A tal proposito possiamo allacciarci al concetto di “sessismo”, come processo discriminatorio sulla base di appartenenza a un genere che comporta prevaricazione e sfruttamento di un genere sull’altro. Le pratiche e le abitudini alimentari ci mostrano una differenza tra generi: alcuni cibi sono considerati più maschili (carne) altri più femminili (vegetali). In alcune culture ad esempio, se le donne mangiano cibi maschili perdono il flusso mestruale, viceversa si perde la virilità. A volte però, di nascosto, l’uno tende a mangiare il cibo dell’altro per assimilare comunque il reciproco potere.

L’antropologo Michael Herzfeld negli anni 80 effettua una ricerca a Creta. Tramite la sua ricerca si evince che la carne è il piatto principale del pasto. Ampia visione di subordinazione della donna da parte dell’uomo, una chiara affermazione di un patriarcato che continua a sopravvivere tenendo ben salde le sue radici. Le donne e gli uomini devono mangiare alimenti diversi per via della loro “diversità “ .  Associare l’alimento vegetale alle donne è simbolo di passività ( es.nei rapporti sessuali oppure  nell’atto di condurre una vita passiva improntata, schematica e organizzata ). Secondo tale concezione mentale se un uomo tende a mangiare vegetali lo porta di conseguenza a diventare un essere passivo come una donna.  La liberazione delle donne quindi si può ottenere solo con la liberazione della natura stessa e viceversa.  Poiché vi sono collegamenti costruiti e radicanti nel tempo tra le due parti.  La liberazione dalla “caccia”, dal dominio maschile si ha solo unendo le forze urlando a gran voce i propri diritti.

Ogni secolo ha la sua spada di Damocle, al giorno d’oggi purtroppo la parità a tavola faticosamente raggiunta dalle donne dopo secoli di privazioni e restrizioni, sembra minacciata dall’affermarsi di modelli estetici che esigono magrezza ed estrema moderazione nel mangiare, al limite del digiuno totale. Sono sempre più diffuse, soprattutto tra le giovanissime, le patologie legate al rifiuto o al desiderio compulsivo di cibo, cioè l’anoressia e la bulimia.  L’importante studioso Claude Fischler, il quale inaugura i moderni studi di sociologia dell’alimentazione. Nell’opera “L’onnivoro” egli elabora il neologismo gastro-anomia, col quale va ad indicare l’esistenza, nella modernità, di una gastronomia priva di regole e allo stesso tempo soggetta ad enormi contraddizioni. Tali contraddizioni generano confusione e ansia anche per il consumatore stesso. Negli ultimi anni ha preso piede in forte aumento lo stile alimentare del vegetarianismo. Termini come: “vegetarianismo” e “vegetariano” risalgono al 1847, con la prima associazione vegetariana, la britannica “Vegetarian Society “. Questo stile alimentare consiste nel seguire una dieta a base di alimenti di origine vegetale con diverse modalità a seconda che vengano ammessi o esclusi latticini, uova e miele. Si tratta di un’ideologia in continua crescita: ogni giorno sempre più persone decidono di diventare vegetariane. È quanto sostiene un sondaggio condotto dal VRG (Vegetarian Resource Group) secondo le cui stime già nel 2006 il 6,7% della popolazione mondiale era vegetariana La scelta per questa dieta è legata alla salute, la filosofia di vita, rispetto per gli animali, tutela ambiente. Complessivamente per le donne la questione ambientale ha tre volte rilevanza rispetto agli uomini.  La dieta vegetariana è legata al mangiar leggero: salute e magrezza. Le donne, a tal proposito, sembrano ben associate come se fossero più compassionevoli alla sofferenza.

Se parliamo di vegetarianismo e Veganismo non possiamo non prendere in considerazione il concetto della McDonaldizzazione della società. Sintetizzando tale approccio teorico, si può affermare che questa altre multinazionali inerenti ( Burger King, KFC, Old Wild West, Jollibee ) costituiscono un processo profondo e inarrestabile, reso possibile dal rispetto di alcuni requisiti specificatamente capitalistici. Diventando il “cibo delle masse”. Puntando su un cheap prizes alla portata di tutti. Ci troviamo davanti a una psicologia di marketing spicciola ma allo stesso tempo molto ingegnosa.  George Ritzer, ad esempio, sottolinea come l’hamburger rappresenti il miglior esempio di standardizzazione e omologazione sociale: dimensione e peso sono uguali in tutti i paesi del mondo, la confezione è uniforme e le modalità di consumo sono preordinate. Dal punto di vista della teoria sociologica del cibo e dell’alimentazione, questo approccio sottolinea la progressiva contaminazione e ibridazione di culture differenti all’interno dell’intero globo terrestre.

Per chiudere il cerchio, in base agli argomenti sopracitati ( Vegetarianismo e MCDonalizzazione) possiamo in qualche modo  allacciarci all’ “Alimentazione Sostenibile“:  un tipo di alimentazione che cerca di avere il minor impatto negativo possibile sull’ambiente. Si basa sull’idea che noi, singoli consumatori, possiamo ridurre in modo drastico la nostra impronta ecologica in base a cosa decidiamo di mettere nel nostro piatto.  L’industria agroalimentare è la prima al mondo per lo sfruttamento delle risorse del pianeta. Il 50% del suolo e il 70% delle risorse idriche globali vengono utilizzati per produrre il cibo che mangiamo. Questo significa che la nostra alimentazione ha un altissimo impatto sul pianeta.

Il cibo influisce su:

  • Emissione di gas serra
  • Inquinamento del suolo (fertilizzanti, pesticidi ecc..)
  • Disboscamento eccessivo e illegale di foreste e zone pluviali ( il 70% della deforestazione dell’Amazzonia è stato effettuato per fare spazio ai nuovi allevamenti di bovini e alle monocolture destinata a diventare mangime per il bestiame)
  • Perdita di biodiversità.
  • Pandemie (ovvero le malattie che arrivano dagli animali, chiamate “zoonosi”)
  • La fame nel mondo (al momento solo il 60% del cibo coltivato è destinato alle persone, il resto è utilizzato per nutrire il bestiame.)

In conclusione, possiamo dire che il cibo è considerato come importante strumento per lo sviluppo locale e sociale: dopo aver visto il proprio ruolo essere orientato alla globalità, nello scenario attuale ritorna ad essere espressione della località. In questo quadro, i prodotti locali e i marchi ad essi associati (IGP, DOP, etc.), non solo rappresentano l’identità di un determinato territorio, ma celano dietro la loro valenza anche l’identità e la cultura di un popolo. Anche dal punto di vista teorico, si sta sviluppando un nuovo approccio, dando uno sguardo attento al ruolo del territorio e alle specificità delle situazioni come fattore attivo nella generazione dei fenomeni sociali connessi alla tematica del cibo. Ed è proprio attorno al cibo e all’alimentazione che si sviluppa, nel contesto post-moderno, anche il cosiddetto turismo culinario, il quale comporta anche la nascita di nuove attività turistiche e ricettive, con percorsi enogastronomici dedicati. Questi recenti sviluppi, s connessi con la tematica del cibo e dell’alimentazione, possono comportare nuovi ed interessanti punti di vista su cui siamo chiamati a riflettere, spunti da cui partire per scoprire inedite declinazioni del mondo contemporaneo. Perché il cibo è lo specchio riflesso della nostra società.

NB( immagini prese dal web )

Hatshepsut, amata da Amon, prima tra le Nobili Dame

Hatshepsut  (1513/1507 a.C. circa – 1458 a.C), sepolta nel sito KV20 (poi traslata nella KV60?) nella Valle dei Re, è stata una regina egizia, quinta sovrana della XVIII dinastia. Il suo nome significa letteralmente “Amata da Amon – Prima tra le Nobili Dame”.

Fu la seconda donna a detenere il titolo di faraone. Fu incoronata nel 1478 a.C. e regnò ufficialmente al fianco di Thutmose III, di cui era zia e matrigna. In precedenza, Hatshepsut era stata la “Grande sposa reale”, cioè moglie principale e regina consorte, di Thutmose II, padre di Thutmose III. È generalmente considerata dagli studiosi come uno dei migliori faraoni della storia egizia, avendo inoltre regnato molto più a lungo di ogni donna appartenente a tutte le altre dinastie native dell’Egitto.

«La prima grande donna della storia di cui noi abbiamo notizia.»

(James Henry Breasted )

Hatshepsut e Thutmose II ebbero una figlia di nome Neferura.  Thutmose II ebbe il futuro Thutmose III (1479 /1458  – 1425 a.C.) da una sposa secondaria di nome Iside.

Statua calcarea di Hatshepsut. Metropolitan Museum of Art, New York

Su numerosi monumenti il suo nomen compare in forme distinte: scrivendolo nella sua interezza, volgendolo però al maschile (Hatshepsu/Hashepsu ). È quindi ben comprensibile la sorpresa degli archeologi che scoprirono l’esistenza di questo faraone-donna presentato come uomo nelle sculture e nei rilievi. Probabilmente la sovrana sfruttò tali cambiamenti di sesso per aumentare il proprio carattere divino e concentrare nella propria persona il concetto di dualità, estremamente importante nella mentalità egizia.

Hatshepsut va annoverata fra i costruttori più prolifici della storia egizia, avendo ordinato la creazione di centinaia di edifici fra l’Alto e il Basso Egitto. Inoltre durante il regno della sovrana si ebbe una produzione statuaria particolarmente ricca.  Hatshepsut eresse anche due obelischi gemelli, i più alti della loro epoca, all’entrata del Tempio di Karnak, dopo il quarto pilone; uno dei due è ancora in piedi ed è il più alto obelisco conservatosi in Egitto (con i suoi 29,26 m. è il secondo più alto nel mondo dopo quello “lateranense” di Roma), mentre l’altro si è spezzato in due parti ed è crollato. Noto come “Obelisco incompiuto di Assuan”, si è dimostrato utile per comprendere la tecnica utilizzata per la creazione degli antichi obelischi.

Il capolavoro di Hatshepsut fu il suo tempio funerario, che eresse in un complesso a Deir el-Bahari. Il disegno fu progettato e arricchito dall’architetto Senenmut, primo consigliere e braccio destro della regina. Si trova sulla riva occidentale del Nilo, di fronte a Tebe e all’ingresso della Valle dei Re, scelta da tutti i successivi faraoni del Nuovo Regno per le proprie sepolture, emulando in qualche modo la scelta di Hatshepsut. Il punto focale del complesso era il Djeser Djeseru, cioè “Santo dei santi”, un colonnato la cui perfetta armonia anticipa di quasi un millennio il Partenone di Atene.  Composto da una serie di terrazze che un tempo ospitavano giardini lussureggianti, ricavate sul fianco della scarpata rocciosa che delimita la valle del Nilo e che incombe a strapiombo su tutto il complesso. Il tempio funerario è dedicato alla divinità solare Amon-Ra. È considerato uno degli “incomparabili monumenti dell’antico Egitto”. Il tempio fu il luogo in cui il 17 novembre 1997 avvenne il massacro di 62 persone, soprattutto turisti, per mano di estremisti islamici.

La terrazza superiore è costituita da un portico con 24 statue osiriache della regina (Hatshepsut viene in questo caso ritratta come un uomo) e dall’entrata al santuario principale.

Su una delle pareti di una delle cappelle della terrazza superiore,  un uomo si è fatto rappresentare in ginocchio, in atto d’adorazione. Il suo nome: Senenmut. E’ il geniale architetto che ha progettato il tempio di Deir el Bahari.  Di origini modeste, Incaricato della gestione di una parte del grande tempio di Karnak, secondo profeta di Amon, fu anche precettore della principessa ereditaria. Alcune statue lo mostrano mentre tiene avvolta nel suo mantello la figlia della regina.

Anche se statue ed ornamenti sono stati rubati o distrutti, sappiamo che la struttura un tempo conteneva due statue di Osiride, un viale costellato di sfingi e molte altre sculture della regina in pose diverse: in piedi, seduta o in ginocchio. Molti di questi ritratti furono distrutti per ordine del figliastro Thutmose III dopo la sua morte.

Senenmut e Neferura, British Museum

Uno dei momenti più famosi della propaganda di Hatshepsut è il mito sulla sua nascita:

Questo momento così particolare e stato fatto raffigurare dalla sovrana in un ampio ciclo iconografico sulle pareti del Tempio, per giustificare i propri diritti al trono: la composizione delle immagini e dei testi di tale mito avrebbero evocato la consacrazione con la quale il dio Amon, protettore della dinastia, indicato come vero padre di Hatshepsut, l’avrebbe designata a regnare. La narrazione del mistico concepimento e della nascita divina della sovrana si svolge come lo scenario di un dramma suddiviso fra terra e cielo.

La nascita di Hatshepsut è descritta in modo puramente simbolico.

Khnum e Heket intenti a plasmare e dare vita a un nuovo essere umano, in rilievo nel Tempio di Dendera.

Questa iconografia, più tarda, ricalca abbastanza fedelmente la scena corrispondente del Tempio di Hatshepsut (dove, però, le figure sul tornio sono due: il corpo e l’anima della futura sovrana). Quando iniziò la “ damnatio memoriae”  su Hatshepsut , da parte del figliastro Thutmosi III,  le immagini e le iscrizioni che riguardavano il nome della regina furono distrutte. Il movente del faraone potrebbe essere stata l’incertezza del proprio diritto a regnare, in quanto figlio di una sposa secondaria e non della “ sposa regale “. Inoltre, non è mai stato accettato il fatto che una donna di arrogasse il diritto di prendere le redini al pari di un uomo.

Horus e Thot purificano Hatshepsut (la sagoma è stata cesellata), Karnak
A sinistra, i nomi di Hatshepsut raschiati e cancellati, a destra, invece, quelli di Thutmose III lasciati intatti, al di sotto del Disco solare alato

Fonti:

  • http://www.ancient-egypt.org/index.html
  • La civiltà egizia, Alan Gardiner, Einaudi, Torino, 1997
  • Hatshepsut. in Le signore dei signori della storia, Giorgio Leonardi, a cura di A. Laserra, Milano, FrancoAngeli, 2013
  • Hatshepsut, L’unica donna che fu Faraone,  Joyce Tyldesley
  • KARNAK E LUXOR, A.Roccati, Deagostini, 1981

 

 

Antropologia della Schiavitù

“Finchè l’uomo sfrutterà l’uomo, finchè l’umanità sarà divisa tra padroni e servi, non ci sarà nè normalità, nè pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui.”

Pierpaolo Pasolini

Essere schiavo… sentirsi schiavo… essere definito schiavo… Cosa potremmo fare invece NOI per ribaltare questo stereotipo? Se riflettessimo allo specchio questo insidioso e dispotico termine socio-culturale comproveremmo che non può riflettere nulla di positivo.  Il non essere schiavo, il non sentirsi schiavo, essere parte di qualcosa con il quale condividere la nostra vita, comporterebbe a tutti qui quei fattori di unione e solidarietà tra le genti: uguaglianza, parità dei sessi… diritti, per i quali ancora adesso in molte parti del mondo si sta lottando con tenacia e caparbietà. Le stesse donne, vittime ancora oggi di un sistema patriarcale ben radicato, hanno iniziato a ribellarsi e urlare a gran voce.

“Quanto più libere saranno le donne, tanto più lo saranno gli uomini. Perché chi rende schiavo è a sua volta schiavo.“ 

Louise Nevilson

Finchè ci sarà Schiavitù ci sarà sempre un progressivo annientamento di libertà dei diritti umani. Per molti secoli e ancora oggi se pure in modo velato, la schiavitù è sempre stato un concetto di “desocializzazione”. Lo schiavo non può, non ha il diritto di fondare una società, non ha la possibilità di avere un legame, un’appartenenza a qualcosa, a qualcuno. Gli schiavi sono emeri embrioni di un frutto senza la possibilità di maturare, di fondare radici, di riprodursi. Su cosa ruota la vita e il perché dello stare insieme? È il sistema di parentela, quel costrutto umano che regola la vita del nascituro tra dominazioni e regole, dove gira tutto e dove si costruisce la propria esistenza. In Africa, ad esempio, il rapporto parentale avviene all’interno di regni con struttura sociale molto complessa, l’appartenenza ad un gruppo è associato anche al corrispettivo culto degli antenati e continua cura verso chi non c’è più. Qui la fondazione di un lignaggio è un elemento importantissimo poiché è la base di tutto. L’appartenenza a un nucleo familiare prevede anche l’accesso o meno ai mezzi di sussistenza. Gli anziani hanno il ruolo della distribuzione di sementi in base ai rapporti parentali, in tal modo possono controllare i giovani, i quali, ricevono mezzi di produzione per la loro futura emancipazione.

Secondo l’antropologo Meillassoux, Il sistema di “spersonalizzazione” è stato molto sfruttato dal fenomeno del colonialismo (Africa, America), portando l’individuo ad essere solamente uno strumento di lavoro, senza riconoscersi più in se stesso, negli altri e nella società per la quale si è sottoposti a schiavitù. Si sviluppa una vera e propria crisi di identità. Non ci si può amalgamare con la società in questione, impossibile sentirsi parte di essa. Si insidia all’interno dell’individuo schiavizzato un forte senso di isolamento e di smarrimento identitario. Allacciandoci al concetto di “spersonalizzazione”, potremmo citare il caso di Cudjo Lewis,  riportato nell’opera “Barraccon l’ultimo schiavo” di  Zora Neale Hurston del 1931(una tra le scrittrici afroamericane più influenti nel panorama statunitense del ventesimo secolo).   E’ la storia dell’ultimo africano arrivato dall’Africa, raccontata da lui stesso. Grazie a questo esposto così personale e intimo, da un lato si ha la possibilità di entrare in un pezzo di storia lontanissima nei tempi, dall’altro viene portata alla luce anche tanta attualità. Cudjo, nel suo racconto, con grande sofferenza spiega come fosse pienamente cosciente che uno degli aspetti al quale doveva rinunciare era quello della sua persona, della sua storia e del suo nome. Dal racconto di questo ex schiavo la scrittrice ricava un libro, Barraccon, che sarà pubblicato solo nel 2018, poiché negli anni ’30 del secolo scorso nessun editore vuole pubblicare un libro-intervista di questo tipo e così sarà per altri 80 anni.  La Hurston, quando trascrive i racconti di Cudjo, usa il suo linguaggio: un inglese “dialettale” parlato dalla popolazione di colore. L’editore rifiuta il lavoro, chiedendo che sia riscritto in un inglese corretto. Hurston non accetta e non vedrà mai la pubblicazione della sua opera, la quale  avverrà solo pochi anni fa nel 2018.

Riguardo il concetto di schiavitù, potremmo citare anche le così dette leggi “ Jim Crow “ ( Il nome Jim Crow potrebbe  essere stato creato dall’attore Thomas D. Rice che, verso la metà del XIX secolo, interpretò uno schiavo chiamato Jim Crow dipingendosi la faccia di nero).   Furono delle leggi locali dei singoli Stati degli Stati Uniti d’America emanate tra il 1877 e il 1964. Servirono a mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, istituendo uno status definito di ” separati ma uguali ” per i neri americani e per gli appartenenti a gruppi razziali diversi dai bianchi. Le leggi Jim Crow furono una delle cause principali per la grande migrazione afroamericana della prima metà del XX secolo dal sud verso il nord.

In conclusione, quando noi sentiamo la parola schiavitù, l’immagine che viene alla mente è legata alla storia, a qualcosa di distante, di “antico”. In verità, questa triste realtà non è mai finita. La schiavitù continua ancora oggi! Anche se offuscata dall’omertà, dall’ignoranza, dalla povertà, dall’arretratezza dei sistemi giuridici… Questa triste realtà, non riguarda solo i milioni di uomini, donne e bambini in tutto il mondo costretti a vivere in situazioni abominevoli. La schiavitù non è solo delle donne dell’Est, trascinate nella prostituzione, bambini che sono venduti e comprati da un paese all’altro dell’Africa occidentale, e uomini che sono costretti a lavorare come schiavi nei latifondi agricoli brasiliani…  La schiavitù colpisce anche noi. La schiavitù contemporanea prende molte forme, non vi è alcuna distinzione. E’ il sistema subdolo di cui tutti noi facciamo parte, è parte integrante della nostra quotidianità riflettiamo un attimo, possiamo notare che ci sono tante forme di schiavitù.  Ogni cosa che compriamo, dagli alimenti, all’abbigliamento, all’ elettronica, si nasconde uno sfruttamento enorme.  E’ quanto emerge da un’indagine condotta dalle organizzazione No profit slavery footprint, attivo da qualche anno negli Usa. Il questionario, ha studiato le modalità di produzione di circa 400 articoli di consumo diffusi nei paesi occidentali ed è giunto alla conclusione che un esercito di circa trenta milioni di schiavi, tanti quelli stimati oggi al mondo hanno contribuito a fabbricare ogni cosa che potete trovare… “La schiavitù è ovunque”. In un certo senso, si possono far rientrare nella definizione di schiavitù anche i lavori sottopagati o svolti in condizioni ambientali inadeguate. La Schiavitù è anche il farci manipolare da questo sistema corrotto che grava sulle vite di ognuno di noi, dal quale costantemente ci facciamo influenzare nei modi di pensare, di agire, di approcciarci con il prossimo. La schiavitù è sempre stata e continua ad essere la più squallida forma di sfruttamento dell’uomo sull’ uomo.

“Nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma tutti siamo nati per essere fratelli.”,

Nelson Mandela.

La deformazione cranica volontaria

La deformazione cranica volontaria era praticata in diverse culture distinte tra loro sia dal punto di vista geografico che da quello cronologico. Riscontrabile ancora adesso in alcune aree (ad esempio Vanuatu, nel Pacifico meridionale). Deformazioni o modificazioni craniche artificiali, appiattimento del capo o legatura del capo sono forme di alterazione del corpo in cui il cranio di un essere umano è deformato intenzionalmente. Di regola la procedura è praticata sui lattanti dato che il cranio a quell’età è più plasmabile. Nei casi tipici la fasciatura del capo comincia circa un mese dopo la nascita e continua per circa sei mesi.

La più antica segnalazione scritta di deformazione cranica è dovuta ad Ippocrate nel 400 AC e riguarda i Macrocefali (o Grosse Teste), così denominati per la loro pratica di deformare il cranio. Uomini con scheletri con questi caratteri sono rappresentati in varie sculture e fregi di quel periodo a noi pervenuti.

  • In America i Maya, gli Inca ed alcune tribù del Nativi Nordamericani facevano molta pratica di tale  costume.
  • In Africa,  i Mangbetu, furono notati dagli esploratori europei a causa delle loro teste allungate. Tradizionalmente il capo dei bambini era avvolto strettamente con dei tessuti allo scopo di conferire loro l’aspetto caratteristico.
  • In Europa l’abitudine di schiacciare il capo dei bambini, sebbene tendesse a svanire nel tempo, era ancora esistente nel XX secolo in Francia ed era riscontrabile anche in forme isolate nella Russia Occidentale, nel Caucaso e in Scandinavia.

Le ragioni per le quali il capo veniva modellato variavano nel tempo: da motivi estetici a teorie pseudoscientifiche circa la capacità del cervello di trattenere certi tipi di pensieri a seconda della sua forma.

Nella regione di Toulouse (Francia) queste deformazioni craniche persistettero fino agli inizi del XX secolo; tuttavia più che essere prodotte intenzionalmente, sembra fossero il risultato non voluto di un’antica pratica medica comune tra i contadini francesi nota come “ bandeau“,  con la quale la testa del bambino era avvolta strettamente allo scopo di proteggerlo da urti ed incidenti subito dopo la nascita.

Dipinto di Paul Kane che mostra un bambino Chinookan
mentre gli viene appiattito il capo e un adulto che attua il processo

                                           

Non esiste una classificazione ampiamente accettata riguardo i sistemi di deformazione cranica, una teoria moderna è che la deformazione cranica era praticata probabilmente per manifestare l’appartenenza ad un gruppo o per dimostrare uno stato sociale. Tali motivazioni possono aver giocato un ruolo cruciale nella società Maya, con l’obiettivo di creare una forma del cranio che fosse esteticamente più piacevole e associata a specifici attributi culturali. Per esempio si ritiene che una persona con la testa allungata sia più intelligente, di stato più elevato e più vicina al mondo degli spiriti.

Storicamente ci sono state numerose teorie riguardo le motivazioni di queste pratiche.  È stata anche considerata l’ipotesi che la pratica della deformazione cranica abbia tratto origine dal tentativo di imitare quei gruppi della popolazione in cui la forma allungata del capo era una condizione naturale. I crani di alcuni antichi Egizi sono tra quelli identificati come naturalmente allungati e la “macrocefalia può essere una caratteristica familiare. Come esempio possiamo menzionare alcuni feti rinvenuti con cranio allungato.

L’usanza, connessa alla regalità e alla sacralità, è rimasta viva per millenni. Era ancora praticata da numerose popolazioni stanziate a est del Mar Nero in epoca tardo-imperiale e all’inizio del Medioevo,  come tra gli Unni. La pratica è diffusa anche oggi presso alcune comunità tribali, ne abbiamo per esempio testimonianze in Congo.

Infine, alcuni studiosi guardano alle rappresentazioni delle divinità neolitiche della fertilità, quindi la pratica rimanderebbe a una simbologia fallica. Infine, c’è chi le ritiene ispirate alle figure immateriali che popolavano le visioni degli antichi sciamani, le stesse che poi sono state raffigurate in tantissime pitture rupestri sparse per il mondo.

 

In alto a sinistra: un cranio allungato proveniente da Paracas, Perù.
In alto a destra: testa femminile con il cranio allungato di una delle figlie del faraone egiziano Akhenaton.
In basso a sinistra: due giovani schiave del Congo il cui cranio è stato allungato mediante la fasciatura in giovane età (1.900-1.915 d.C. circa).
In basso a destra: cranio allungato

Fonti:

Thor e Loki, due figure mitologiche a confronto

Thor, il dio dei fulmini, e Loki, dio dell’inganno, sono fra le più importanti divinità del pantheon mitologico nordico. In tutti i film dell’universo Marvel i due fratelli si combattono per il predominio su Asgard. Per il grande pubblico queste due divinità sono fratelli, in realtà non è così. I due sono compagni di avventure e non fratellastri. Insieme hanno combattuto molte battaglie contro i giganti di ghiaccio, fino all’arrivo del Ragnarök.

“Thor è un dio della stirpe degli Asi amato e venerato, tanto che la sua figura, che in epoca pagana rivaleggiava per la supremazia con Odino, fu in seguito tenacemente opposta al “Cristo”, il nuovo dio proveniente da sud“.

Il figlio di Odino dalla barba e capelli rossi era il dio degli uomini. Conosciuto come il protettore dell’umanità dai giganti e dalle bestie infernali partorite da Loki l’ingannatore; Thor era anche il dio della Sippe, ovvero la famiglia.

La figura di Loki della trasposizione cinematografica non è tanto lontana dalla verità. Per quanto infatti la funzione di Loki sia quella di portare l’Apocalisse il giorno del Ragnarok, spesso è compagno di Odino e Thor e li aiuta a superare diverse difficoltà. Loki è, per questo, il dio dell’inganno, delle macchinazioni e dei sotterfugi. Egli non è la personificazione del Male, per come possiamo intenderla noi, quanto piuttosto il Male necessario. Anche il suo ruolo nel Ragnarok, come padre dei mostri e comandante degli eserciti infernali, è funzionale alla ciclicità del Cosmo. L’etimologia di Loki è legata al fuoco, alla fiamma. Esso è segno di civiltà, ma anche di distruzione. Il suo ruolo di dio civilizzatore si interrompe quando Loki viene identificato anche con i Giganti. Questi sono la personificazione stessa del Caos, di Ginnungagap, la Voragine originaria della mitologia Scandinava dell’Edda poetica. Loki è padre di Midgardsorm, il serpente abissale, ma anche di Fenrir, il lupo che divorerà la luna e ucciderà Odino e di Hel, la dea degli inferi. Nella mitologia norrena Loki compie un peccato così grande da ricevere una delle peggiori punizioni. Egli è la causa della morte di Baldr, il dio Solare, figlio di Odino e il più amato di tutti gli dèi. Catturato dagli dèi, Loki verrà portato in una buia grotta. Qui uno dei suoi due figli, Vali, viene trasformato in lupo affinché divorasse il fratello Narvi di fronte agli occhi del padre. Le interiora del povero Narvi vennero usate come catene per legare Loki ad una roccia. Un serpente venne incaricato di far gocciolare sul viso di Loki il suo veleno, goccia dopo goccia. Il supplizio terminerà quando, il giorno del Ragnarok, riuscirà a liberarsi dalle catene e porterà la distruzione sulla terra.

 

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