Il sacrificio umano in contesto precolombiano

I sacrifici umani erano un aspetto importante della cultura Mesoamericana. I conquistadores spagnoli che per primi ebbero contatti con il popolo Azteco (popolo residente a Tenochtitlán, oggi Città del Messico, (situata su un’isola del lago Texcoco) dicono nelle loro testimonianze che il sacrificio umano era largamente praticato in tutta la Mesoamerica.

Templo Mayor presso Tenochtitlan ( attuale città del Messico),nella seconda foto in primo piano Quetzalcoalt (serpente piumato ). scatto fotografico della sottoscritta

Il nome originale con cui gli Aztechi si indicavano è “Mexica” o “Tenochca”.  Mexica è tuttora il termine usato per definire i loro discendenti; il termine azteco è stato coniato molti secoli dopo dal geografo tedesco Alexander von Humboldt per distinguere queste popolazioni precolombiane dall’insieme dei Messicani moderni. A partire dalla fine degli anni 70’, gli scavi delle offerte rinvenute presso il Templo Mayor di Tenochtitlán, la Piramide della Luna di Teotihuacan e altri siti archeologici, hanno portato alla luce prove certe di sacrifici avvenuti tra i popoli mesoamericani.   

La Piramide della Luna presso Teotihuacan, scatto fotografico della sottoscritta

Sono state proposte varie interpretazioni della pratica azteca del sacrificio umano, teoria alquanto controversa, sia riguardo il significato religioso sia quello sociale. Da precisare, una teoria assolutamente screditata è quella secondo la quale la dieta mesoamericana era carente di proteine, e che il cannibalismo di vittime sacrificali era una componente necessaria della dieta del tempo. Buona parte degli studiosi mesoamericani, comunque, considera i sacrifici umani come parte della loro tradizione religiosa e socio-culturale.

Rimanendo in contesto Azteco, il primo sacrificio di cui si parla nelle fonti scritte fu lo scotennamento della figlia di re Achicometl di Culhuacan; questa storia fa parte della leggenda sulla fondazione di Tenochtitlán. Gli Aztechi sacrificavano le “vittime” durante ognuna delle loro 18 festività, una per ogni mese di 20 giorni. Fattore importante che va precisato, durante le così dette “Guerre fiorite”, dove si reclutavano vittime, per i sacrificati era un grande onore, poiché venendo immolati alla divinità Huitzilopochtli (colibrì del sud, dio della guerra e del sole), contribuivano al sorgere, al tramontare del sole e al rinnovo dei cicli.

I culti religiosi Nahua erano basati su una grande paura del fatto che l’universo potesse collassare dopo ogni ciclo, se gli dei non erano sufficientemente forti. Secondo Diego Durán, nel suo “Historia de las Indias de Nueva España e islas de la tierra firme”, le guerre dei fiori erano inizialmente un accordo tra le città della Triplice alleanza azteca, Tlaxcala e Huexotzingo a causa della carestia che colpì la Mesoamerica nel 1450. La cattura dei prigionieri vivi per i sacrifici era chiamata nextlaualli (“pagamento del debito agli dei”). Queste fonti, però, ne contraddicono altre, come ad esempio il Codice Chimalpahin, che cita alcune guerre fiorite avvenute prima della carestia e contro avversari diversi da quelli citati nell’accordo.

Dal momento che l’obbiettivo della guerra azteca era la cattura di possibili vittime, la tattica della battaglia era studiata soprattutto per ferire il nemico senza ucciderlo. Dopo la conquista delle città, gli abitanti non erano più considerati buoni per i sacrifici, ma solo per il pagamento delle tasse. Anche gli schiavi potevano essere usati nei sacrifici, ma solo se venivano considerati pigri ed erano stati venduti almeno tre volte.                                                                                                

La Pratica del Sacrificio Umano

Il sacrificio, come detto precedentemente, era un tema comune in tutte le culture mesoamericane. All’interno del mito azteco dei “Cinque soli “, tutti gli dei si autosacrificarono per permettere all’umanità di sopravvivere. Alcuni anni dopo la conquista del Messico da parte degli spagnoli, un gruppo di francescani si dovette confrontare con gli ultimi sacerdoti aztechi ai quali ordinarono, sotto minaccia di morte, di porre fine a questa pratica omicida.  I sacerdoti aztechi si difesero in questo modo: «La vita è opera degli dei; con il loro sacrificio ci diedero la vita […]. Essi forniscono il nostro sostentamento […] che nutre la vita»  (Henry B. Nicholson, Handbook of Middle American Indians). Quello a cui i sacerdoti aztechi si riferivano era che un grande sacrificio sempre in corso sostenesse l’universo. Tutto è tonacayotl: la “incarnazione spirituale” o “presenza corporea [sacrificale]” degli dei sulla terra. Tutto (terra, mais, luna, stelle e persone) nasce da corpi morti o sepolti, dita, sangue o teste degli dei sacrificati. L’umanità stessa è macehualli, “quelli meritevoli e riportati in vita tramite la penitenza”.  Un forte senso di indebitamento è collegato a questa visione del mondo. Infatti, il nextlahualli (pagamento del debito) era una metafora comune per riferirsi al sacrificio umano e, come disse anche il francescano Bernardino de Sahagún, si diceva che in un certo senso le vittime stessero “svolgendo il loro lavoro”. Sia Sahagún sia Toribio de Benavente (chiamato anche “Motolinía”) osservarono che gli Aztechi usavano  tutto come sacrificio. Anche l’elemento principale del sacrificio umano, le grandi piramidi che fungevano da tempio, erano colline offerte agli dei e ornate con la miglior arte azteca. L’auto-sacrificio era anch’esso molto comune; le persone offrivano spine di agave, colorate col proprio sangue e, come i re Maya, offrivano sangue dalla loro lingua, dai lobi delle orecchie o dal pene. Il sangue aveva un’importanza fondamentale nelle culture mesoamericane. Il Codice fiorentino afferma che in uno dei miti della creazione Quetzalcóatl (Serpente piumato) offrì sangue estratto da una ferita del suo pene per dare vita all’umanità. Esistono molti altri miti nei quali si parla di dei Nahua che offrono sangue per aiutare gli uomini. Gli Aztechi praticavano il salasso da tagli inferti con coltelli in ossidiana o con ossi appuntiti sulla propria carne, come ad esempio dai lobi delle orecchie, labbra, lingua, petto e polpacci. Era considerato un personale atto di devozione e penitenza verso gli dei. Le spine venivano messe in una palla di paglia chiamata zacatapayoli, poi posta in un adoratorio.

Ogni 52 anni si teneva una speciale cerimonia del Fuoco Nuovo. Tutti i fuochi venivano spenti, a mezzanotte si effettuava un sacrificio umano. Se il Sole sorgeva significava che i sacrifici fatti in quel ciclo erano stati sufficienti. Un fuoco veniva acceso sul corpo della vittima, e nuovi fuochi presi da questo venivano portati in ogni casa, città e villaggio. Cominciava allora una festa e la fine del mondo era stata posposta per un altro mezzo secolo. Gli Aztechi si considerarono i principali responsabili per fornire cibo agli dei. Questo gli garantì un nuovo senso di identità, da “popolo senza una faccia” come venivano chiamati dagli ostili popoli vicini, a popolo incaricato di garantire la sopravvivenza dell’universo. Per questo cominciarono a riferirsi a sé stessi come al “popolo del sole”.     

Scena di auto-sacrificio

Rituali messi in atto durante il sacrificio

Nella normale procedura, il sacrificio veniva svolto sulla cima del tempio, su terrazze a cielo aperto ( la connessione tra cielo è terra è sempre presente).] La vittima veniva tenuta ferma da quattro sacerdoti su una lastra in pietra, e il suo addome veniva tagliato da un quinto sacerdote con un coltello cerimoniale fatto di selce o di ossidiana. Il taglio veniva fatto nell’addome e oltrepassava il diaframma. Il sacerdote avrebbe estratto il cuore, ancora pulsante. Il cuore veniva poi posto in una scodella sorretta da una statua il Chac Mool (un modello di scultura con funzione di altare che riproduce una figura umana, adorna di gioielli, in posizione reclinata con la testa alzata e rivolta verso il lato destro, con un recipiente appoggiato sul ventre)  cui veniva offerta la vittima, e il corpo lanciato giù dalle scale del tempio. Le varie parti del corpo facevano una diversa fine: con le viscere nutrivano gli animali; la testa sanguinante era esibita sullo Tzompantli, (un tipo di intelaiatura in legno o in pietra usata per l’esposizione pubblica di teschi umani, di prigionieri di guerra o di vittime sacrificali).  Altri tipi di sacrifici umani, dedicati alle varie divinità, trattavano le vittime in maniera diversa. La vittima poteva essere colpita da una freccia (e il sangue che sgorgava rappresentava le fredde piogge di primavera), essere uccisa in un combattimento non equo, essere sacrificata al termine di una partita di tlachtli, il gioco della palla mesoamericana, essere arsa viva, essere scotennata dopo essere stata sacrificata (in onore a Xipe Totec, “Nostro Signore lo Scorticato”), o venire affogata.

Stima della portata dei sacrifici

Per la riconsacrazione del Templo Mayor di Tenochtitlán del 1487, gli Aztechi affermarono di aver sacrificato circa 80.400 prigionieri durante i quattro giorni di celebrazione, e quindi probabilmente si era trattato di un numero molto inferiore. Secondo Ross Hassing, autore di “Aztec Warfare”, furono sacrificate durante la festa tra le 10.000 e le 80.400 persone. Il limite superiore comporterebbe una media di 14 sacrifici al minuto per quattro giorni consecutivi. Quattro tavole furono sistemate in cima al tempio, in modo che le vittime potessero essere gettate su tutti i quattro lati del tempio. Nondimeno, secondo il codice Telleriano-Remensis, i vecchi Aztechi che parlarono con i missionari citavano un numero di vittime decisamente minore, circa 4.000 totali.

Non tutti i sacrifici venivano svolti nei templi di Tenochtitlan; alcuni erano fatti a Cerro del Peñón, un isoletta del lago di Texcoco. Secondo una fonte azteca, nel mese di Tlacaxipehualiztli (dal 22 febbraio al 13 marzo), 34 prigionieri di guerra venivano sacrificati a Xipe Totec. Più vittime erano offerte a Huitzilopochtli nel mese di Panquetzaliztli (dal 9 al 28 novembre) secondo il codice Ramírez. Questo dimostrerebbe una cifra compresa tra le 300 e le 600 vittime l’anno. La mancanza di prove archeologiche non permette di calcolare con esattezza la cifra reale. Ogni guerriero azteco avrebbe dovuto fornire almeno una vittima da sacrificare. Tutti i maschi venivano addestrati fin da piccoli a essere guerrieri, ma solo i pochi di loro che riuscivano a catturare prigionieri potevano entrare a far parte dell’élite dell’esercito. Coloro che non vi riuscivano diventavano macehualli, lavoratori.

Una delle descrizioni del conquistatore Hernán Cortés:

«Hanno un’orrida e abominevole usanze che gli meriterebbe di essere puniti e che per ora abbiamo visto solo in parte, ed è che, ogni volta che vogliono chiedere qualcosa agli idoli, per rendere più accettabile la loro richiesta agli dei, prendono molte ragazze e ragazzi e anche adulti, e in presenza di questi idoli aprono i loro toraci mentre sono ancora vivi estraendo i cuori e le interiora e bruciandoli davanti agli dei, offrendo il fumo come sacrificio. Alcuni di noi lo hanno visto, e dicono che sia stata la cosa più terribile che abbiano mai visto».

Per l’occidente non è stato di facile comprensione e quindi non ammissibili pratiche “così abominevoli “  ( viste dalla loro prospettiva ) di tale cultura. Come ben sappiamo ciò che non viene compreso fa sempre paura e la paura rivolta all’ignoranza porta alla distruzione.

Hernán Cortés

Possibili spiegazioni dei sacrifici umani in contesto Azteco sotto la visione occidentale

  • Motivi nutrizionali

Gli studiosi Michael Harner e Marvin Harris hanno ipotizzato che la motivazione che stava dietro ai sacrifici umani tra gli Aztechi fosse da ricercare nel cannibalismo a cui venivano sottoposte le vittime Mentre c’è unanime consenso sul fatto che gli Aztechi praticassero il sacrificio umano, manca consenso tra gli studiosi sul fatto che il cannibalismo fosse comune su tutto il territorio. L’antropologo Marvin Harris, autore di Cannibals and Kings, ha ripreso l’idea proposta da Harner, secondo cui la carne delle vittime faceva parte della dieta aristocratica come ricompensa, dato che la dieta azteca era povera di proteine. Questa ipotesi è stata rifiutata da Bernard Ortíz Montellano che, nei suoi studi su Salute, dieta e medicina tra gli Aztechi, dimostra che nonostante la dieta Azteca fosse carente di proteine animali, era ricca di quelle vegetali.

  • Motivi politici

Il sacrificio umano giocava un importante ruolo politico. I Mexica utilizzavano un sofisticato sistema psicologico per mantenere il proprio impero, con l’obbiettivo di instillare un senso di paura nei popoli vicini. I Mexica usavano i sacrifici umani come arma di terrore anche nei confronti dei conquistadores spagnoli, i cui morti venivano sacrificati e a volte scotennati, con le loro teste esposte nei tzompantli. Venivano invitati anche i capi delle città nemiche vicine, o obbligati nel caso di città tributarie, ad assistere alle cerimonie di Tenochtitlan. Il loro rifiuto sarebbe stato considerato un atto di mancato rispetto nei confronti dei Mexica.

  • Motivi psicologici

Per Lloyd deMause è importante il fatto che le vittime fossero investite di un profondo significato cosmologico. Secondo lui e una minoranza di studiosi che fanno parte di una scuola alternativa di pensiero, la “psicostoria”, i sacrifici umani, compresi quelli della Mesoamerica, rappresentavano una forma inconscia di risposta a traumi subiti da bambini. DeMause considera in particolare la pratica del sacrificio azteco come spostamento (è un processo operato dall’Io il cui scopo è quello di modificare il contesto reale di un ricordo rimosso (eventualmente con modificazioni radicali) per ridurne l’impatto negativo ansiogeno con la coscienza (Io).

Conclusioni

Grazie alle numerose ricerche e studi sul campo come studiosi, archeologi, antropologi ben esperti in materia sanno e come detto ad inizio articolo, i sacrifici umani erano uno degli elementi principali racchiusi nel contesto culturale e socio-religioso che faceva parte di questi popoli ed era fortemente impregnato in essi. Era parte integrante della vita di questa gente. Ed è qualcosa che va al di là di ogni logica comprensione occidentale. Va al di là della nostra visione perfetta nell’ improntare la nostra società e imporre questa finta perfezione anche in altri contesti e culture. Come se tutto quello che va al di là della visione occidentale e della religione Cristiana sia abominio da annientare. Forse, se non ce ne siamo resi conto queste culture, così come tante altre che con tutta la loro forza e caparbietà ancora oggi cercano di sopravvivere in questo mondo e di mantenere salde le loro radici millenarie, sono in totale connessione con l’universo molto più di noi. Hanno compreso molto prima quello che noi con tutta la nostra goliardia che va avanti nei secoli non riusciremo ad apprendere mai. Noi, ogni forma vivente su questo pianeta siamo un tutt’uno con l’universo e con tutti i cicli che ne fanno parte. Quindi, quando un’azione o una visione di pensiero è giusta? Quando è sbagliata?

Fonti:

  • Zeb Matos-Moctezuma, Vida y muerte en el Templo Mayor, Fondo de Cultura Económica, 1986.
  • Michael Harner, The Ecological Basis for Aztec Sacrifice, in American Ethnologist,, Vol. 4, No. 1,, 1977, pp. 117–135, DOI:10.1525/ae.1977.4.1.02a00070
  • Michael Graulich, El sacrificio humano en Mesoamérica, in Arqueología mexicana, XI, 63, 2003
  • Bernardino de Sahagún, Historia general de las cosas de la Nueva España, Ángel Ma. Garibay, Messico, Editorial Porrúa, 2006
  • Eduardo Matos-Moctezuma, Tenochtitlan, Fondo de Cultura Económica, 2006
  • Ross Hassig, El sacrificio y las guerras floridas, in Arqueología mexicana, XI, 2003
  • Bernal Díaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, J. M. Cohen, Penguin Classics, sesta ristampa (1973), Harmondsworth, Penguin Books, 1963 [1632], ISBN 0-14-044123-9, OCLC 162351797.
  • Robert W. Godwin, One Cosmos under God: The Unification of Matter, Life, Mind & Spirit, Saint Paul, Montana, Paragon House, 2004

L’evangelizzazione: Doppia faccia della stessa moneta

 “Quando sono arrivati qui i bianchi, avevano con loro soltanto la Bibbia, mentre noi avevamo le nostre terre. Ci hanno insegnato a pregare, con gli occhi chiusi: quando li abbiamo riaperti i bianchi avevano le nostre terre e noi avevamo la Bibbia”.

Jomo Kenyatta

Il processo di colonizzazione è l’espansione di una nazione su territori e popoli all’esterno dei suoi confini, spesso per facilitare il dominio economico sulle risorse, il lavoro e il commercio di questi ultimi.  Il termine indica anche il dominio coloniale mantenuto da diversi Stati europei su altri territori extraeuropei lungo l’età moderna; indicando il corrispettivo periodo storico, cominciato nel XVI secolo, contemporaneamente alle esplorazioni geografiche europee, assumendo nel XIX secolo il termine di imperialismo, e formalmente conclusosi nella seconda metà del XX secolo, con la vittoria dei movimenti anti-coloniali. Infine, ma non per ultimo, il termine indica anche l’insieme di convinzioni usate per legittimare o promuovere questo sistema, in particolare il credo che “i valori etici e culturali dei colonizzatori siano superiori a quelli dei colonizzati “.

Ribaltando però la tesi convenzionale che data la diffusione planetaria della storia europea a partire dal XIX secolo, Serge Gruzinski ( storico francese, si interessa alla colonizzazione dell’America e dell’Asia, in particolare alle esperienze coloniali come luogo di meticciato e di nascita di spazi ibridi) ne anticipa l’inizio al Cinquecento.Gli europei del 1500 cessano finalmente di essere confinati entro i paesaggi tradizionali nei quali hanno vissuto per secoli per cominciare a recarsi altrove. I contatti con tantissime altre civiltà li sconcertano, sollecitandoli allo stesso tempo a interrogarsi sui mezzi tramite cui assicurarsi un’espansione commerciale e l’autorità politica e religiosa in queste nuove terre.  Più precisamente, in terre come il Messico e l’America Iberica, dove i conquistadores colonizzano le società native e vi introducono il nostro modo di scrivere e la storia. Pur essendo funzionale alla costruzione di un sistema di dominio e all’affermazione dell’eurocentrismo storiografico, “ La Machine à remonter le temps “ ( la macchina del tempo )  si mette in moto in Messico agendo in un contesto estremamente frastagliato sul piano etnico, linguistico e culturale. Un contesto di cui l’autore, Gruzinski, ci restituisce l’articolazione attraverso un affascinante archivio fatto di codici pittografici coloniali, testi in azteco e opere in spagnolo rimaste per secoli al di fuori della circolazione a stampa. Tramite questa via riaffiora alla superficie anche il contributo offerto da indigeni e meticci all’ampliamento degli orizzonti spaziali e antropologici della coscienza storica europea.

A partire dalla corona di Castiglia e da Carlo V, a seguire la corona Inglese, vogliono conoscere tutto riguardo i nuovi popoli, tutto ciò per determinati motivi: sfruttare più efficacemente la manodopera indigena, conoscere i meccanismi del tributo indigeno, ecc. partendo da questi quesiti si arriva ad interrogarsi riguardo il passato degli indiani della Nuova Spagna.  Ha così inizio la cattura delle memorie. Da tale ridimensionamento planetario deriva la necessità di opporre costantemente il moderno all’antico. Lo storicismo impone un suo modo di considerare il tempo lineare e il passato locale, partendo dall’assunto che una società è articolata in una serie di categorie prestabilite.  In tale prospettiva il sociale, il politico, il religioso, il culturale si configurano tutti come storicamente determinati.

Questi popoli vengono visti come “barbari “. Il motore dello sviluppo storico rimane monopolio e collante dell’Europa moderna.  I criteri che per noi definiscono il concetto di storia sono esclusivamente eurocentrici, il che implica che tutte le società locali sono giudicate in base a criteri occidentali, la conquista, la colonizzazione e la mondializzazione; configurandosi come anni zero in cui precedentemente regnava la preistoria. La storicizzazione vera e propria ha inizio in Messico durante tutto il 1500. Meticci, spagnoli e indigeni cercano di scrivere la storia tenendo presente che: la storia della salvezza è la chiave esplicativa del destino dell’uomo e della società, e che questa storia risulta l’unico mezzo per acquisire la conoscenza empirica di ciò che è umano e la comprensione degli esseri umani presuppone una conoscenza storica.La prima ondata di evangelizzazione francescana favorisce queste iniziative: ad esempio, potremmo citare Toribio de Benavente, detto Motolinìa (missionario francescano spagnolo, ricordato in Messico come uno dei più grandi evangelisti.). I suoi scritti rappresentano il preludio americano del processo di storicizzazione che finirà per diffondersi in tutto il mondo. Nel 1936, viene aperto un collegio a Tlatelolco per istruire le elitè indigene, poiché si avverte la necessità di consolidare la presenza spagnola stabilendo un legame con l’epoca precedente.

Tramite il resoconto degli anziani e grazie alla presenza di aiutanti che gli danno una mano a decifrare quello che dicono gli indigeni nelle loro pitture e nelle pitture miste a comenti scritti,  Motolinia costruisce i capitoli di  “la Historia e i Memoriales“. Motolinia, vede in ogni avvenimento il sigillo della volontà divina. Presso il convento di Huejotzinco, nei pressi di Tlaxcala, il francescano aiuta i nativi a combattere gli abusi e le atrocità commesse da Nuño Beltrán de Guzmán (esploratore spagnolo, amministratore coloniale della Nuova Spagna. Vendette migliaia di indigeni fatti prigionieri nelle isole dei Caraibi). Anche se Motolinia protegge gli indiani dagli abusi di Guzmán, non condivide le opinioni del domenicano Bartolomé de Las Casas (vescovo cattolico spagnolo impegnato nella difesa dei nativi americani), il quale vede nella conquista e nella sottomissione degli indiani un crimine contrario alla moralità cristiana. Motolinia è convinto che Dio avrebbe protetto gli indiani una volta convertiti, e che l’opera missionaria è quindi più importante della lotta al sistema delle encomienda. Per questo motivo continua a difendere la conquista, le encomienda e l’evangelizzazione.

Bernardino de Sahagún  ( importante missionario francescano spagnolo ) scrive in trilingue nahuatl-spagnolo e latino il famoso “Codice Fiorentino”  conservato  a Firenze.  Sostenendo che questa opera missionaria si configura come opera distruttiva e come tanti altri cerca di investigare per divulgare questa gravità il più possibile.  na chiara constatazione è il fatto che parte dell’organizzazione religiosa  è connessa con la macchina bellica degli amerindiani.  Ad es. il cannibalismo è uno degli elementi usati per dire che la civiltà amerindiana era imperfetta a causa di queste attività inumane. Il cannibalismo è stato visto secondo William Arens ( Antropologo culturale) da molte popolazioni del mondo come vizio da condannare, imputare, senza però vedere  i fatti reali a esso connessi. L’azione bellica è uno strumento importante per la colonizzazione.

Lo stesso Hernán Cortés ad esempio non è solo un marinaio ma anche un guerriero, così come molti missionari erano uomini d’arme.  Durante lo scontro fisico tra Cortez e Aztechi, gli spagnoli hanno la meglio perché tutto quello che posseggono è un apparato di morte. Tale scontro con successiva invasione e colonizzazione ridusse a zero decimando intere popolazioni, villaggi e città- stato dell’America latina. Tutto quello che è “non cristiano”, “blasfemo” è stato distrutto e raso al suolo. Un chiaro esempio lo abbiamo con l’antica Tenochtitlan, capitale dell’impero azteco, attuale Città del Messico.  Lo zocalo ( piazza cittadina) con i suoi meravigliosi monumenti è stato completamente raso al suolo.  Come il meraviglioso Templo Mayor dedicato alle duplici divinità Tlaloc, dio della pioggia e Huitzilopochtli, dio della guerra, è stato soppiantato dalla cattedrale cristiana e delle sue vestigia ne rimangono che meri resti.

Le popolazioni native sono state violate non solo del loro corpo fisico, ma recise anche in qualcosa di più profondo poiché private di tutto, della loro storia, della loro religione, della loro cultura, delle loro origini…della loro stessa identità e libertà di individuo.  

Bartolomé de Las Casas ( vescovo e cattolico spagnolo) è stato il primo ecclesiastico a prendere gli ordini sacri nel Nuovo Mondo, divenne Domenicano. Grazie alla sua attività di denuncia del sistema di sfruttamento degli indios vengono compilate le “Leggi nuove” ratificate da Carlo V, grazie alle quali vengono abolite le encomiendas (strutture organizzative agricole fondate su un sistema schiavistico-feudale, principale causa dello sfruttamento dei nativi). De Victoria, invece riesce a giustificare l’opera di colonizzazione accertando che gli amerindiani  sono come i “ bambini” che devono crescere ed essere educati e guidati per un adeguato sviluppo.  Dal punto di vista bellico si riconosce il fatto che con questo modus operandi si possono muovere guerre giuste come “opera civilizzatoria”, cioè : civilizzazione delle anime, sfruttamento delle risorse e sfruttamento economico.  I  protagonisti indiscussi  della colonizzazione furono i Gesuiti, appoggiati dal Papato e dalle forze imperiali. Un ingranaggio così potente doveva avere sudditi obbedienti e fedeli alla legge della corona. Questi personaggi sono reali, coloni e missionari. Sono soprattutto le Americhe, che nel secolo XVI vengono dominate territorialmente da due regni cristiani, quello spagnolo e quello portoghese, l’obiettivo principale era l’evangelizzazione e la fondazione di una vera e propria colonia gesuita.

L’ordine entra tardivamente in America, (nel 1549, in Brasile). I Gesuiti iniziarono la loro opera di evangelizzazione in Florida, successivamente si spostarono in California (quest’ultima ritenuta barbara e pericolosa ). Proprio in area amerindiana la forza della coercizione inizia ad essere più presente, proprio perché si immaginava un doppio canale: quello del convincimento/educazione; se il mezzo educativo non bastava si passava alla violenza. Queste missioni vengono inviate per lo più  in chiave sperimentale, poiché non sono assolutamente preparati a quello che dovranno affrontare. Per capire il perché di questo ordine, bisogna capire che il mondo missionario giunto nelle Americhe guarda prettamente agli ordini di strada ( minori ) quelli mendicanti attivi già  dal 1300.  L’ordine infatti, nasce con la precisa consapevolezza che si deve parlare a un mondo rurale, come quello del  popolo da evangelizzare: lingue diverse e volgari.

Durante le missioni i Gesuiti compilano diari per poi consegnarli ai gendarmi e alla corona stessa. Fanno rapporto delle proprie esperienze, osservando e traducendo su pagina ciò che avviene, trascrivendo le proprie considerazioni da trasmettere poi ai propri confratelli. Molte delle lettere (di giovani 16-18 anni ) descrivono come  entrando nell’ordine la salvezza fosse dietro l’angolo, descrivono delle loro intraprendenti e avventurose missioni da “guerrieri” in  terre misteriose e incontaminate. Il loro doveva essere un messaggio cosmopolita, trasmettendo un forte senso di mistero e avventura. Questi missionari sono un chiaro strumento di colonizzazione.  L’atto eroico del viaggio ha a che fare con l’atto eroico dell’apprendimento di usi e costumi altrui.  Importante, in particolar modo l’apprendimento della lingua natia vista come veicolo di comprensione e conoscenza dell’altro.   Una delle prime opere comparative è quella di Jose de Acosta (gesuita spagnolo, II metà del 500).  Il suo grande interrogativo è “da dove vengono gli Amerindiani?”. Nel testo “Historia natural y molar de las Indias” crede che gli amerindiani provengano dall’Asia.    Il gesuita dice che i missionari devono comprendere gli indiani dall’interno, nel loro vissuto e non come ottica comparativa tra razze; e solo l’esperienza e l’approccio con certe realtà può rivelarne la vera essenza. Egli tende a comparare le popolazioni asiatiche a quelle latino-greche per la loro raffinatezza e cultura. Per lui lo studio e comprensione sono le basi per entrare in stretto contatto con la storia e la cultura locale.  Il gesuita, definisce “civiltà altre” quelle realtà che se pur complesse sono macchiate dal peccato della loro ignoranza dalla fede cristiana. All’interno di queste civiltà impure pone anche popoli del continente indiano, esseri civili ma preda di istinti non domati.  Al culmine di questa scala vengono poste le popolazioni del Giappone e della Cina. Pensando che questi ultimi siano facili da evangelizzare poiché popoli molto raffinati e curati sia nel quotidiano, che nell’espressione sociale, nel contesto filosofico e astratto. La loro razionalità avrebbe constatato la superiorità o il senso profondo della fede cattolica portandoli docilmente a farsi convertire al cristianesimo, ampliando così la schiera dei popoli civili consegnati tramite la fede cristiana al regno di Dio.

I Gesuiti, si muovono con astuzia, evangelizzando, ma rispettando, anzi valorizzando le lingue e la cultura locale, e soprattutto dominando economicamente gli immensi territori posti sotto il loro controllo. Amministrano con ottima organizzazione le loro immense proprietà agricole producendo: mais, ortaggi, vino, cioccolato, tabacco, vetro, e altri beni che esportano con successo in Europa.  Quella dei Gesuiti potrebbe essere vista come una delle prime multinazionali. Il credo religioso cattolico invade ogni cosa (dalla religione, alla famiglia, al senso del peccato, alla vita dopo la morte). Solamente dopo il 4 luglio 1776, con l’indipendenza degli stati americani, vengono cacciati gli ordini religiosi percepiti con forte legame con la corona europea.   I Gesuiti però non si sciolgono. La maggioranza di essi ripiegano in Russia dove poi si riorganizzarono.  Nell’800, una grande processo di evangelizzazione seppur con processi diversi avviene anche in Africa, India e Cina. Matteo Ricci (gesuita), in Cina ha l’onore di essere introdotto al cospetto del celeste imperatore. Secondo Ricci l’amore per gli antenati da parte dei cinesi viene visto come un rito molto importante e civile accomodato alla logica cristiana, così come il cerimoniale del tè giapponese accomodabile all’interno delle liturgie cattoliche e quindi rispettabile in quanto tale.   Un modo proficuo per allargare la religione a più confini.  Alessandro Valignano (gesuita), ammira l’educazione dei bambini cino-giapponesi, da subito educati e obbedienti a differenza dei bambini occidentali (caucasici da come veniamo definiti dai Giapponesi). Nel continente asiatico il messaggio cristiano viene percepito dagli interlocutori come messaggio eretico. Il Giappone riesce a liberarsi dall’ evangelizzazione agli inizi del ‘900, tramite un processo politico di isolamento molto importante, il potere del convincimento con loro non fu così efficace.

Quali furono, dunque, le conseguenze generali del colonialismo sui territori dipendenti alla fine del periodo coloniale? La colonizzazione nasce dalla falsità e dalla disonestà e genera due conseguenze deleterie: il colonialismo e il razzismo. La presunta superiorità razziale del bianco è la giustificazione “morale” che l’Europa per secoli ha addotto nel depredare le risorse di interi paesi, nell’abbattere civiltà millenarie, nel brutalizzare i “diversi” in un’opera spietata di oggettificazione delle persone. L’Occidente è il grave responsabile di tale scempio. Il colonialismo è pericoloso perché porta alla disumanizzazione del colonizzatore, che vede nell’ altro non la persona, ma la bestia da torturare, da opprimere, da degradare. Se si vuole fermare la decadenza del vecchio continente è necessaria una rivoluzione che guardi in modo nuovo i colonizzati, riconoscendo e rispettando finalmente il loro diritto di nazionalità, di individui liberi con i loro usi, costumi, religioni e visione del mondo.   Infondo quale società è giusta e quale è sbagliata”, quali usi e costumi sono più consoni di altri, qual’ è il credo giusto da seguire e quello da distruggere… non possiamo di certo noi popolo bianco arrogarci questo diritto, diritto che non ci appartiene. La domanda che ci dovrebbe sorgere più ovvia è: chi è più barbaro l’autoctono o il colonizzatore?

Fonti:

– Alberto Caturelli, “Il Nuovo Mondo riscoperto”, pubblicato in Italia dalle Edizioni Ares (1992).

L’ Europa e l’evangelizzazione del nuovo mondo, L. Vaccaro (Curatore), 1995. 

– La ciudad de México : una historia / Serge Gruzinski ; traducción de Paula López Caballero. Fondo de Cultura Económica / 978-968-16-7284-3.

– La máquina del tiempo. Cuando Europa comenzó a escribir la historia del mundo. Gruzinski, Serge, ISBN: 9786071670939 | Clave FCE: 003825L                                                                            

 

 

 

Chiara Vantaggio

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