Quando a Venezia hanno inventato le prigioni

Tra le mete turistiche veneziane più gettonate c’è il solenne immobile delle Prigioni Nuove, primo esempio al mondo di una struttura dedicata esclusivamente alla detenzione – Quando e perché il governo della Serenissima ne ha deciso la costruzione – Vita migliorata per i detenuti.

Fino alla fine del Rinascimento ovunque i governi usavano adattare a carceri strutture nate per altri scopi e avrebbero continuato a farlo anche in periodi successivi. Un esempio per tutti, la Bastiglia di Parigi, nata tra il 1367 e il 1382 come fortezza per difendere le mura della città presso la porta Sant’Antonio, trasformata poi in prigione e abbattuta dal popolo parigino il 14 luglio 1789, era allora in minima parte utilizzata ancora come prigione. Valeva il duro principio che il colpevole espiasse la colpa nel modo più atroce, quando non sul patibolo. Le prigioni erano luoghi davvero infami dove i carcerati vivevano in condizioni disumane, in ambienti umidi, oscuri e con igiene azzerata. Difficilmente sopravvivevano fino alla scarcerazione, se mai fosse avvenuta.

Le prigioni di Palazzo Ducale

Venezia non aveva fatto eccezione con l’uso del piano terra e del mezzanino di Palazzo Ducale, cercando di recuperare tutti gli spazi disponibili, perfino i sottoscala. In certe gattabuie con spazi talmente esigui i reclusi facevano perfino fatica ad allungare le gambe o a tenersi dritti in piedi. Addirittura le cosiddette celle chiamate “Prigioni dei Signori Capi”, conosciute in seguito come “Pozzi”, avevano la triste fama di essere poste sotto il livello dell’acqua. Erano invece a pian terreno e probabilmente devono l’immeritata nomea all’accesso tramite una stretta e buia scaletta di sedici gradini. Alcune avevano finestre sul Rio di Palazzo, altre, dette “orbe”, erano buie e umide. Insieme a quelle dei “Piombi” nel sottotetto, dove, a causa dei questo materiale usato come copertura, si pativa il freddo in inverno e la peggiore canicola d’estate, erano destinate ad accogliere gli ospiti del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori di Stato, ma non tutte. Di sicuro lo erano due celle segrete dei Pozzi, dette “giardini”. Il secolo scorso, nella cella numero 10 dei Pozzi durante un restauro, sotto una coltre di calce malandata, saltarono fuori dei graffiti rappresentanti la Vergine con bambino attorniata da santi, un Cristo crocifisso e altro ancora. Si sono poi rivelati come affreschi opera di tale Riccardo Perucolo in carcere per ordine del Sant’Uffizio in quanto sospetto di eresia luterana. Li aveva dipinti per convincere i giudici della sua buona fede, ma, dopo varie peripezie, finirà sul rogo vent’anni dopo a Conegliano perché luterano lo era davvero. Dalle gattabuie dei Piombi e dei Pozzi non si poteva avere contatti con l’esterno, mentre le altre sotto la loggia del palazzo erano dotate di ampie finestre chiuse da sbarre e rivolte sulla pubblica piazza.

Trattamento dei carcerati

A parte le suddette celle dei Pozzi e dei Piombi, rispetto al resto del mondo, le carceri della Serenissima erano quasi un salotto. Ai detenuti era concesso intrattenersi liberamente con chi stava fuori, ricevere conforto morale e materiale, addirittura chiedere l’elemosina per pagare poi il conto dell’indesiderato soggiorno. Di tanta liberalità era rimasta memorabile una serenata di musici virtuosi offerta dai familiari a conforto di tale Antonio Grimani, detenuto in attesa di giudizio. Cronisti stranieri avevano annotato l’umanità delle prigioni veneziane dove i reclusi si dedicavano a lavoretti artigianali, giocavano a dadi o a scacchi, si intrattenevano con amici e parenti presso i cancelli, oppure… organizzavano piani di fuga, perché ogni prigione è pur sempre prigione. Anche da quelle di Palazzo Ducale non erano mancate le evasioni, a volte eclatanti, addirittura di massa con il popolo a tener la parte dei fuggiaschi. Manica larga anche in materia di esigenze sessuali, tolleranza che prevedeva addirittura lo sgombero di celle e corpi di guardia per consentire gli incontri dei prigionieri con mogli e amiche. Peraltro la reclusione era quasi promiscua.

I colpevoli dei delitti più gravi venivano rinchiusi nelle celle cosiddette “orbe”, oscure e isolate, e con incatenamento di mani o piedi ai ceppi nei casi di riconosciuta pericolosità. Riguardo, invece, per i debitori e per coloro che si presentavano spontaneamente a seguito dell’ordine di comparizione. Per un certo periodo era stata concessa ad alcuni la libertà di movimento all’interno dell’area marciana delimitata dai canali. Inevitabile che qualcuno ne avesse approfittato per diventare uccel di bosco, tanto che, verso la metà del ‘500, vigeva la licenza che chiunque potesse uccidere impunemente gli evasi.

Un caso oltre il tollerabile

Grazie al diarista Marin Sanudo (1466 – 1536) resteranno negli annali i banchetti dello scrivano Zuane Ferman, finito in cella per grosse truffe commesse nell’espletamento delle funzioni e che lo avevano letteralmente ricoperto d’oro, tanto da poter tranquillamente corrompere il capitano delle prigioni Giovanni Batochio. Costui lo lasciava uscire di notte e tornare con tutto il necessario per banchettare allegramente insieme a donne di moralità non impeccabile. Purtroppo la bella vita dietro le sbarre durò solo una manciata di giorni. Infatti la cosa era giunta alle orecchie delle autorità. A Marco Zambotto, che svolgeva le funzioni di “Missier Grande”, vale a dire una specie di collettore di tutte le informazioni raccolte dagli “zaffi”, cioè i confidenti della polizia, era stato ordinato di sorvegliare le porte delle prigioni durante la notte. Il mattino dopo furono arrestati il Ferman, il Batochio e due meritrici alle quali sarà inferta una dose di venti scudisciate sulla pubblica piazza. Al capitano sarà revocato il grado e mandato in esilio a Candia, cioè Creta, per cinque anni, mentre il Ferman aveva già la sua bella pena da scontare e senza bagordi.

La giustizia aiuta i reclusi

Notevole era lo sforzo per evitare il protrarsi di indebite carcerazioni, garantire solleciti processi e verificare la situazione giudiziaria dei detenuti. A vigilare sulle carceri e ascoltare le lagne dei reclusi erano chiamate svariate magistrature, gli onnipresenti Avogadori di Comun in primis, seguiti dai capi della Quarantia Criminal e dall’“avvocato de’ poveri prixoni”, un funzionario obbligato a visitare le carceri, comprese le celle di sestiere, dette “cameroti”, e curare le esigenze dei detenuti, raccoglierne le lagne e perorare i loro diritti davanti ai tribunali. Erano due che, con avvicendamento quadrimestrale, dovevano pure assistere i bisognosi di patrocinio l’uno presso la Quarantia e il secondo presso le altre magistrature che trattavano materia criminale. I tre capi del Consiglio dei Dieci vigilavano sulle celle dei Piombi e dei Pozzi.Durante i processi l’accusato, se non poteva permettersi un avvocato che a Venezia abbondavano, era assistito da un difensore d’ufficio, perché la difesa dell’imputato era intesa come cardine imprescindibile dell’ordinamento giudiziario, senza eccezioni.

Le lamentele dei guardiani

Alla lunga, tra affollamento in spazi ricavati alla meglio e pericolo d’incendi provocati da fuochi accesi dai detenuti per scaldarsi mettendo a rischio la soprastante sala del Maggior Consiglio, se non l’intero palazzo, la situazione era diventata insostenibile. Per lo più i sorveglianti, insieme alle suppliche perché fossero aumentati i loro miseri salari, lamentavano la fatica di svolgere il loro servizio in una struttura drammaticamente inadeguata, obbligati a sedare risse dove a volte ci scappava il morto, “tenir li rei in cepi” se pericolosi, scongiurare fughe e fornire la collaborazione agli interrogatori. Questa si espletava principalmente nel condurre l’accusato alla presenza dei giudici che, se non cantava con le buone, lo sottoponevano ai “tratti di corda”. Dopo alle guardie era imposto di aiutare i medici a “radrizar i brazi”, se mai fosse stato possibile porre rimedio alle conseguenze di quella devastante tortura. Questa prevedeva di legare i polsi del malcapitato dietro la schiena e issarlo con una fune pendente dal soffitto per poi lasciarlo piombare fin quasi a terra. Non ne potevano più.

Il progetto delle Prigioni Nuove

Riconosciuta la improrogabilità della situazione, si era deciso per un intervento drastico e risolutivo con la costruzione del nuovo carcere in un’area attigua a Palazzo Ducale e divisa da questo dall’omonimo rio. La prima delibera del Consiglio dei X risale al marzo del 1563 e prevedeva una struttura mono funzionale, cioè adibita a solo scopo detentivo come mai nessuno al mondo aveva pensato prima. Tempo massimo concesso “non più tardi del 1610”, ma i tempi sforeranno di qualche anno.
Nella progettazione e costruzione ci metteranno le mani parecchi architetti: Antonio da Ponte il primo insieme a Zamaria dai Piombi, poi Tommaso e Antonio Contin, autore del cosiddetto “Ponte dei Sospiri” che collega il nuovo blocco detentivo con Palazzo Ducale, e infine Bartolomeo Manopola. Ne verrà fuori un edificio dalle forme austere e solenni affacciato sulla Riva degli Schiavoni, con un profondo porticato a piano terra e ampie finestroni al primo piano dove saranno alloggiati in una apposita stanza I Signori di Notte, magistrati e insieme capi della polizia ai quali era stato affidato l’ordine pubblico in città e altro ancora.
Il proposito iniziale di migliorare la vita dei detenuti con celle più grandi, bene areate e illuminate, sarà realizzato quasi per intero, salvo alcune sezioni dell’edificio, come i gruppi di celle disposti verso l’interno. Particolarmente critica la vivibilità dei settori con un corridoio di ronda lungo i quattro lati. Ogni cella era rivestita con tavole di legno di larice incrociate e inchiodate fittamente alle pareti, sul pavimento e sulla volta.

Trasferimento dei detenuti

Il cantiere andrà avanti fino al 1614 con la realizzazione del cosiddetto “Ponte dei Sospiri”, denominazione che non si riferisce ai sospiri degli innamorati che oggi lo fotografano dal Ponte della Paglia, come qualcuno potrebbe pensare. Erano invece quelli dei detenuti che andavano verso il giudizio e tornavano poi in cella per scontare la pena. Infatti il ponte è diviso in due corridoi dai quali i poveracci potevano dare un’occhiata all’esterno, al Rio di Palazzo da un lato e dall’altro al Ponte della Paglia che separa i sestieri San Marco e Castello dove sorgono le Prigioni Nuove. Già a lavori in corso si attiveranno progressivamente le celle disponibili. Cosicché alla fine del 1601 la maggior parte dei detenuti risultavano “accomodati” nelle prigioni “Nuovissime”; nel 1603 i carcerati che si trovavano ancora a Palazzo Ducale erano stati tutti spostati e gli spazi liberati destinati ad altri uffici. Erano rimasti in funzione Piombi, Pozzi e una cella al piano dell’armeria, detta “Torresella”, perché alle celle i carcerati avevano dato i nomi più curiosi e pittoreschi: “Liona”, “Fresca Zoia”, “Armamento” e così via, nomi che si erano portati dietro alle Prigioni Nuove. Le Prigioni Nuove, che a lavori ultimati conteranno ben 400 posti, resteranno in funzione fino al 1919, sopravvivendo alla Serenissima, alle dominazioni francese e austriaca e a un pezzo del Regno d’Italia.

 di Gustavo Vitali

 

Poveglia. Il mistero dell’isola infestata

Poveglia, l’iconica isola veneziana, è un luogo meraviglioso che nasconde una storia misteriosa che affascina non solo i cacciatori di fantasmi e gli amanti del sovrannaturale, ma anche chiunque sia incuriosito dalla sua leggenda oscura. Situata di fronte a Malamocco, nel sud della laguna di Venezia, questa isola è particolarmente affascinante per la sua fama di essere uno dei luoghi più infestati al mondo.

Un tempo, Poveglia era un fiorente centro abitato e densamente popolato. Tuttavia, nel XIV secolo, durante la guerra di Chioggia, subì una completa devastazione e divenne un avamposto militare, portando la sua popolazione a ridursi a poche decine di abitanti. Fu solo nel XVIII secolo che la sua storia sinistra ebbe inizio: designata come luogo di quarantena per uomini e merci, Poveglia divenne anche un lazzaretto per i malati di peste. I corpi dei malati venivano bruciati e sepolti sull’isola stessa, gettando le basi per le leggende e i racconti inquietanti sui fantasmi delle vittime di quella terribile epidemia.

Ma la macabra storia dell’isola non si fermò qui. Tra il 1922 e il 1946, venne costruita una struttura che ancora oggi suscita dibattiti riguardo al suo scopo. Secondo alcuni documenti storici, si trattava di una casa di riposo per anziani, ma molti indizi conducono a pensare che fosse in realtà un ospedale psichiatrico. Una scritta che recita “reparto psichiatria” su una delle pietre delle rovine dell’isola sembra confermare questa teoria.

La leggenda narra che all’interno dell’ospedale psichiatrico fossero inflitte terribili torture agli ospiti.

Uno dei racconti più inquietanti riguarda il responsabile del reparto di psichiatria, che dopo aver condotto brutali esperimenti sui pazienti impazzì a causa degli spiriti di Poveglia. Si dice che l’uomo si gettò dal campanile dell’antica pieve di San Vitale, ma invece di morire per l’impatto al suolo, fu soffocato da una misteriosa nebbia che si alzò dal terreno.

Nel 1968, l’isola passò alla demania. Nonostante sia vietato al pubblico, negli ultimi decenni alcuni visitatori curiosi hanno avuto l’opportunità di esplorare l’isola e affermano di aver visto le anime degli ospiti vagare per i corridoi desolati e di aver udito voci e lamenti provenire dalle stanze dell’edificio. Nel 2016, un gruppo di turisti americani decise di esplorare l’isola di notte. Terrorizzati da ciò che hanno visto e udito, furono fortunatamente salvati dai Vigili del fuoco, grazie all’attenzione richiamata da una barca di passaggio.

Nonostante sia difficile accedere all’isola, poiché è vietata ai turisti e priva di abitanti, è possibile richiedere le apposite autorizzazioni al comune di Venezia con almeno 10 mesi di anticipo o affidarsi a imbarcazioni private per visitare Poveglia. Questo luogo maledetto, con la sua storia macabra e misteriosa, continua a suscitare curiosità e fascino tra coloro che sono disposti a scoprire il suo oscuro passato.

Cavallino Comics 2015: Contest

 

Dal 29 maggio al 7 giugno, a Cavallino Treporti, un’oasi naturale nella laguna di Venezia,  si svolgerà il Secondo Concorso per Fumettisti “CAVALLINO COMICS 2015” organizzato dall’Associazione Culturale Editoriale Unicorn con il patrocinio della regione Veneto e di altre prestigiose istituzioni.  L’iscrizione è gratuita.

Questo concorso è organizzato dall’Associazione Culturale Letteraria Editoriale Unicorn, con il patrocinio del Comune di Cavallino Treporti e della Regione Veneto.  Quest’anno il padrino del concorso è il fumettista e scrittore Stefano Babini, vincitore del 16° Romics d’oro come miglior disegnatore del 2014, che presenterà anche i suoi lavori e i suoi libri.   Il tema è libero, è dovrà essere presentato su un massimo di 3 tavole, per le realizzazioni individuali, e di 6 tavole, per le realizzazioni collettive. Una pre-giuria composta dal Presidente dell’Associazione (Arch. Giacomo Rigutto) e da personalità qualificate, effettuerà una prima selezione dei lavori inviati. Tra questi, saranno selezionati i migliori fumetti, che saranno esposti alla mostra e tra i quali saranno proclamati i vincitori. Le procedure di iscrizione resteranno aperte fino al 10 maggio 2015 e farà fede la data del timbro postale.    

Questo è il link con i dettagli dell’evento al quale partecipa in qualità di padrino il fumettista Stefano Babini:

http://www.cavallinocomics.it/edizione2015/edizione2015.html

E’ previsto anche un concorso per il miglior manifesto “cosplay contest”.  I disegni saranno esposti accanto alle tavole dei fumetti e verranno votati durante la manifestazione di Domenica 7 Giugno 2015. L’illustrazione vincitrice diventerà il manifesto ufficiale 2016 e riceverà un premio di 200,00 Euro. Le tavole possono essere inviate presso la sede di EDITORIALE UNICORN, via del fornaio 7 – 30013 Cavallino Treporti – Ve – Italy o per email a : info@cavallinocomics.it

http://www.cavallinocomics.it/edizione2015/cosplay2015.html

Massimo Medoro

per l’Associazione Culturale Editoriale Unicorn

www.unicorn.it

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