Quando un regista come Julian Schnabel arriva al Lido con un progetto che ha inseguito per quindici anni, la curiosità diventa febbre. In the Hand of Dante, presentato fuori concorso alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è molto più di un semplice film: è un’opera-mondo, un flusso che ingloba Dante Alighieri, la mafia newyorkese, il dolore creativo, le ossessioni letterarie e un cast che definire stellare è riduttivo. Schnabel lo ha descritto come “tragico e folle come la vita”, e basta questa dichiarazione per capire il tono del viaggio.
La storia prende vita da un manoscritto perduto della Divina Commedia, custodito per secoli nella Biblioteca Vaticana e improvvisamente piombato nel ventre oscuro di New York. Qui passa dalle mani di un boss mafioso a quelle di Nick Tosches, lo scrittore che nel romanzo originale si mette in scena e che nel film ha il volto intenso di Oscar Isaac. Ed è proprio Isaac a farsi carico del gioco più ambizioso: interpretare sia Tosches che lo stesso Dante Alighieri, in un continuo rimbalzo tra presente e passato. Da una parte c’è lo scrittore coinvolto in una spirale di violenza e tradimenti, dall’altra il poeta alle prese con il proprio blocco creativo, i tormenti politici e le visioni che lo condurranno fino al cuore della Commedia.
Il film è costruito come una discesa agli Inferi che alterna mafiosi a Caronte, sicari a demoni, vicoli di Brooklyn a corridoi medievali. È un noir che si traveste da poema epico, un thriller letterario che flirta con la filosofia e la leggenda. Schnabel non si limita a citare Dante: lo reinventa, lo piega a un presente in cui l’arte è ancora un’arma di salvezza.
Il cast è una di quelle combinazioni che sembrano nate in un universo parallelo dove i fan di cinema hanno potere decisionale. Accanto a Isaac troviamo Gal Gadot come Giulietta/Gemma Donati, Gerard Butler nei panni del brutale Papa Bonifacio, John Malkovich nel glaciale ruolo di Joe Black, Sabrina Impacciatore come la dottoressa Pulice, Franco Nero nei panni del misterioso Don Lecco, Benjamin Clementine in versione Mefistofele enigmatico, e Martin Scorsese, che oltre a produrre veste i panni del mentore Isaiah, con un ruolo scritto quasi come un’eco della sua stessa vita. E non è finita: Jason Momoa, Al Pacino, Lorenzo Zurzolo, Claudio Santamaria e Guido Caprino completano un mosaico che oscilla tra Hollywood e il grande cinema europeo.
Un film così non nasce dall’oggi al domani. L’idea risale al 2008, quando Johnny Depp acquisì i diritti del romanzo di Nick Tosches con l’intenzione di produrlo e interpretarlo. Per anni il progetto rimase sospeso tra voci e annunci, finché Schnabel non ne prese le redini, portando sul set un team di attori che ha trovato la strada solo nel 2023, durante gli scioperi di Hollywood, grazie a un accordo speciale con il sindacato SAG-AFTRA. Girato tra location italiane e metropoli americane, In the Hand of Dante si presenta come un’opera visivamente potente, sospesa tra la pittura raffinata di Schnabel e la crudezza di un noir senza sconti.
Ma un film così ambizioso non poteva non dividere. Già a Venezia le opinioni sono state contrastanti. Alcuni spettatori lo hanno accolto come un esperimento visionario, altri lo hanno definito un guazzabuglio ipertrofico, un flusso di citazioni e immagini che rischia di perdersi nel proprio labirinto. C’è chi ha riso in sala durante scene che avrebbero dovuto suscitare pathos, e chi invece è rimasto incantato dall’azzardo di Schnabel. Lui, dal canto suo, ha difeso le scelte del casting e ha ribadito che il suo film non è un trattato sulla Divina Commedia, ma un’opera che ci spinge a restare nel presente, proprio come i quadri di Caravaggio che trasformano la morte in eternità visiva.
Il paradosso è che, proprio grazie a queste spaccature, In the Hand of Dante sembra destinato a diventare un instant cult. Non tanto per il suo successo narrativo, quanto per la sua natura di esperimento folle, di oggetto cinematografico che si prende terribilmente sul serio e finisce, forse involontariamente, per sfiorare la parodia. È il tipo di film che i cinefili nerd si costringeranno a vedere e rivedere, per poi discuterne per ore tra una birra e una convention, chiedendosi se Schnabel abbia davvero trovato un varco tra Inferno e Paradiso o se si sia perso in un limbo di eccessi.
Alla fine, la domanda che resta sospesa è semplice e abissale: può davvero l’arte salvarci dalla caduta? Schnabel sembra rispondere di sì, ma la sua risposta non è mai rassicurante, perché ci ricorda che l’Inferno può nascondersi dietro l’angolo, tra un vicolo di Brooklyn e un’aula del potere fiorentino. E allora la salvezza non è una meta, ma il viaggio stesso.
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