Vuoto d’aria di Clémentine Haenel

Arriva dalla Francia un esordio affilato ed estremamente disturbante. In libreria dal 28 settembre “Vuoto d’aria” un racconto di Clémentine Haenel tanto nero quanto sbalorditivo in cui, attraverso uno stile elegante e sulfureogelido e diabolicoimpudico e poetico, Clémentine Haenel traccia il profilo di una donna tesa all’autodistruzione in una Parigi indifferente e degradata. Vuoto d’aria, edito da Gallimard, è il primo romanzo dell’autrice nata nel quartiere Pigalle di Parigi, nel 1992.

“La notte, mi apro. Mi svelo; mi spoglio. Possono rotolarmi sopra. Tutti, o quasi, hanno almeno una possibilità di passare sul mio corpo. Non mi rispetto: è questo che dicono. Mi scivola addosso. Non che non lo pensi, ma non riesco a fare altroA quanto pare dovrei essere più selettiva, esigente, qualità che nessuno mi ha dato. Io: me ne frego, la notte ho bisogno che un corpo mi investa. A volte non lo voglio davvero, ma succede.”

Vuoto d’aria è un romanzo dallo stile misurato, dove dettagli cupi emergono senza mai scadere nella volgarità, ma anzi superandola, quasi raffreddandola, grazie a uno stile della massima eleganza e precisione e alla voce alienata e vorticosa della protagonista. Una voce senza dubbio generazionalevagabonda, moderna, che tenta di trovare a tutti i costi il proprio posto nel mondo, e lo fa tramite la più radicale delle perdizioni.

Parigi, la protagonista – una ragazza di una ventina d’anni con estemporanei impulsi omicidiappassionata di storie macabre e di Marguerite Duras –, vive una relazione sentimentale caotica con un musicista sposato. Quando la loro storia finisce, lei sprofonda in una spirale distruttrice: tenta il suicidio e viene ricoverata in un reparto psichiatrico, cambia diverse città e si ritrova a muoversi e a sbandare tra le vie di New York e Londra.

Vuoto d’aria è il racconto di un’eroina alla deriva, una donna che perde terreno dinnanzi alla violenza degli uomini che incontra e all’indifferenza delle città in cui si ritrova ad abitare; ma anche della speranza che ritorna, abbagliante, come il sole del Nord. In questo romanzo dallo stile minimale e coinvolgente, caratterizzato da una grande ricercatezza, Clémentine Haenel traccia il profilo senza filtri di una donna tesa all’autodistruzione: un pellegrinaggio che somiglia a una discesa infernale e insieme a una cieca ricerca di serenità.

Clémentine Haenel è nata nel quartiere Pigalle di Parigi, nel 1992. Insegna in una scuola elementare nei pressi della Gare du Nord. A soli 25 anni, ha pubblicato il suo primo romanzo, Vuoto d’aria, per Gallimard.

Il teatro e il suo doppio

Si può sicuramente affermare che Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud è il libro che ha cambiato il teatro del ’900. Pubblicato da Gallimard nel 1938, raccoglie i saggi sul teatro più significativi di Artaud. Questa nuova e seconda traduzione italiana, curata da Giuseppe Rocca, intende suggerire la riapertura di una riflessione sull’opera artaudiana, a mezzo secolo dall’altra edizione einaudiana.

Quando fu pubblicato, nel 1968, Il teatro e il suo doppio divise profondamente il teatro italiano affascinando coloro che pensavano ad un teatro differente da quello “tradizionale”, cui erano abituati gli spettatori. Chi cercava un teatro capace di trasmettere un’esperienza “vitale”, cioè che coinvolgesse attori e spettatori, vide nell’opera di Artaud la risposta a questa esigenza.

L’originalità di Artaud è consistita nella sua idea di sovvertimento della funzione del teatro come imitazione (il doppio)

della realtà, ma di diventare esso stesso vita, per stravolgere l’ordine sociale e morale, soffocato dalla civiltà borghese. Il teatro come la peste che spargendosi potesse creare un universo nuovo nel quale l’esperienza umana fosse centrale, dilatata ed esaltata proprio perché il teatro ha il potere di ristabilire, secondo la sua visione, una relazione autentica tra gli uomini.

Artaud concepiva la recitazione e, in genere, l’attività teatrale, come rapporto diretto da attore a pubblico, tale da suscitare emozioni reciproche molto profonde e reali, senza la mediazione della letteratura o del teatro convenzionale. Nei lavori di Peter Brook, del Living Theatre, Eugenio Barba, Pina Bausch e molti altri artisti sono presenti suggestioni e ispirazioni artaudiane.

Come scrive Giuseppe Rocca, il curatore di questa edizione,

spesso però chi ha agito nel nome di Artaud ne conosceva solo qualche massima. «E poche parole d’ordine sono bastate, per esempio, a provocare nel DNA teatrale una vera mutazione genetica: l’atto performativo (recitazione o lettura registica di un dramma) è, di fatto, passato da attività di secondo livello (interpretazione del testo) ad azione di primo livello (creazione scenica). […] Una nuova traduzione è occasione, dunque, per porci qualche domanda.

Artaud distruttore del testo? Può mai esserlo uno che lascia 26 volumi di scritti? Cos’è il rito, tanto sognato da Artaud, se non proprio quella “ripetizione” e quella “fissità” da lui tanto negate? È veramente applicabile in teatro quello che Artaud ha scritto sul teatro? Se cinquant’anni di teatro italiano sono stati influenzati da questo libro vuol dire che esso può avere effetti pratici».

Come postfazione al testo abbiamo pubblicato l’intervento di Giuliano Zincone, grande firma del Corriere della sera, al primo convegno su Artaud nel 1966. Zincone, laureatosi a 23 anni con una tesi di 600 pagine su Artaud, nel suo originale e controcorrente intervento metteva in guardia i protagonisti del mondo teatrale dal fare di Artaud un totem della nuova teatralità d’avanguardia, per evitare che una superficiale e irresponsabile interpretazione di un protagonista assoluto del rinnovamento del teatro del ’900 potesse fornire (come fornì) l’alibi per infinite dilettantesche manifestazioni di pseudo-avanguardia.

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