Se c’è una sigla che ha fatto ballare generazioni davanti alla TV con un sorriso stampato in faccia e una voglia matta di indossare un giubbotto di pelle, quella è senza dubbio quella di Happy Days. Il 15 gennaio 1974, negli Stati Uniti, debuttava il primo episodio di quella che sarebbe diventata una delle sitcom più amate e riconoscibili della storia della televisione americana (arrivata in Italia qualche anno dopo, nel dicembre del 1977). Ebbene sì: lo scorso anno Happy Days ha compiuto cinquant’anni. Cinque decenni. Mezzo secolo di risate, ciuffi impomatati e jukebox che si accendono con un colpo di gomito. E non sembra invecchiata di un giorno.
In un’epoca in cui il mondo, e in particolare gli Stati Uniti, era attraversato da crisi economiche e tensioni politiche – basti pensare alla guerra del Vietnam e all’inflazione galoppante – Happy Days ha offerto al pubblico americano un rifugio rassicurante e pieno di buoni sentimenti. Garry Marshall, mente creativa dietro alla serie, aveva intuito che gli spettatori avevano bisogno di un ritorno alle origini, a un’America più semplice, ottimista, quella degli anni ’50, fatta di famiglie unite, scuole di quartiere, milkshake e balli scolastici. Così nacque il mondo dei Cunningham, dove anche un teppista in giubbotto di pelle poteva diventare l’eroe della porta accanto.
Tra le facce che ci hanno fatto compagnia per anni ci sono quelle di Ron Howard (Richie), Erin Moran (Joanie), Tom Bosley (Howard Cunningham), Marion Ross (Marion), Anson Williams (Potsie), Don Most (Ralph Malph) e ovviamente lui, l’icona delle icone, il mitico Arthur Fonzarelli, alias Fonzie, interpretato da Henry Winkler. Fonzie è diventato ben più di un personaggio: è entrato nell’immaginario collettivo come simbolo di carisma e ribellione cool, con quel suo pollice alzato e la capacità di aggiustare qualsiasi cosa – dai cuori spezzati ai juke-box – solo con una posa. E pensare che Fonzie all’inizio doveva essere un personaggio secondario. Ma il pubblico lo ha amato così tanto che ha finito per rubare la scena a tutti, diventando il vero motore dello show. Perfino la narrazione della serie si è gradualmente spostata su di lui, facendolo diventare l’anima – e il cuore ribelle – di Happy Days.
Ma perché, con tutto questo amore e nostalgia, Happy Days non ha mai avuto un reboot? Una risposta chiara e inequivocabile l’ha data proprio Ron Howard, oggi regista di successo (recentemente con Eden), intervistato da PEOPLE. Howard ha affermato che, per quanto il pubblico sia ancora affezionato allo show, non ha alcun senso riproporlo oggi: “Era già nostalgia quando è stato realizzato”, ha dichiarato. E ha perfettamente ragione. Happy Days non era solo ambientato negli anni ’50: era un sogno ad occhi aperti di quegli anni, già idealizzati nel pieno dei caotici anni ’70. Un reboot moderno rischierebbe solo di snaturare la magia originale, trasformando una dolce reminiscenza in un’operazione commerciale senz’anima.
Eppure, è incredibile notare quanto Happy Days continui a vivere nella cultura pop. Le sue repliche sono andate avanti per anni, e anche oggi è facile imbattersi in una maratona nostalgica in TV o su qualche piattaforma di streaming. La serie ha dato origine a ben tre spin-off: Laverne & Shirley, Mork & Mindy (con un giovane e geniale Robin Williams nel ruolo dell’alieno Mork, apparso per la prima volta proprio in un episodio di Happy Days) e Joanie Loves Chachi, dedicato alla relazione tra Joanie e il cugino di Fonzie, Chachi Arcola.
E a proposito di personaggi indimenticabili: Richie Cunningham, interpretato dal giovane Ron Howard, era il classico bravo ragazzo americano, un po’ nerd ante-litteram, sempre in cerca di ragazze e avventure con i suoi amici pivelli Potsie e Ralph. Poi c’era Howard Cunningham, il padre, la voce della ragione, sempre pronto con un consiglio paterno e un senso dell’onore d’altri tempi. Marion, la madre casalinga per eccellenza, dolce ma con un caratterino niente male. E Joanie, la sorellina curiosa e intraprendente che, da semplice spalla comica, ha conquistato il suo spazio diventando protagonista di uno spin-off tutto suo.
E poi c’era lui, il mitico locale Arnold’s, epicentro della vita sociale dei ragazzi di Milwaukee, con i suoi milkshake, le serate danzanti e i concertini della band capitanata da Potsie (alla voce) e Richie (al sax). A gestirlo prima c’era il signor Arnold, interpretato da Pat Morita (che molti ricorderanno anche come il maestro Miyagi di Karate Kid), poi sostituito da Alfred Delvecchio, figura paterna a sua volta per i giovani protagonisti.
Un altro elemento curioso è il ruolo fondamentale dell’automobile all’interno della serie. Negli anni ’50, l’auto era uno status symbol irrinunciabile, e anche in Happy Days assume un valore quasi totemico. Dalla cabrio gialla con le fiamme di Ralph alla DeSoto di papà Cunningham, truccata da Fonzie per correre come un missile, fino alla decapottabile rossa di Richie, ogni veicolo raccontava qualcosa del suo proprietario, del suo status e della sua personalità.
Ah, e non dimentichiamoci del fratello maggiore scomparso! Sì, perché nelle prime due stagioni Richie aveva un fratello più grande, Chuck Cunningham, che giocava a basket. Poi, puff! Sparito nel nulla, senza una parola, senza una spiegazione. Un mistero da X-Files in pieno stile sitcom anni ’70.
Insomma, Happy Days non è stata solo una serie TV: è stata un fenomeno culturale, un rifugio, una macchina del tempo. Ha parlato di amicizia, amore, famiglia, scuola, sogni, fallimenti e successi, il tutto con una leggerezza che oggi sembra quasi impossibile da replicare. E forse è proprio per questo che non ci sarà mai un reboot. Perché certe magie succedono una volta sola. E vanno custodite così, come una vecchia fotografia ingiallita dal tempo, ma sempre capace di farci sorridere.
E voi, che ricordi avete di Happy Days? Vi rivedevate più in Richie o in Fonzie? Condividevate il panino da Arnold’s o preferivate suonare con la band? Raccontatecelo nei commenti o condividete questo articolo con chi, come voi, ha ancora il cuore un po’ anni ’50. Ehi!
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