C’erano una volta il Dottore e il suo TARDIS. Ma nel 2006, Russell T. Davies decise di aprire una porta diversa nel tempo e nello spazio: una porta che non conduceva verso mondi lontani, ma verso l’oscurità nascosta sotto la superficie del nostro. Da quella porta nacque Torchwood, lo spin-off più audace, provocatorio e umano dell’universo di Doctor Who. Una serie che, con il suo equilibrio perfetto tra fantascienza e dramma, tra mistero e ironia britannica, ha saputo conquistare un pubblico adulto senza rinnegare le proprie radici geek.
Un’anomalia nel tempo (e nella TV)
Quando debuttò sulla BBC il 22 ottobre 2006, Torchwood fu un esperimento quasi rivoluzionario. Davies, reduce dal successo della rinascita di Doctor Who, volle creare un prodotto che potesse parlare a un pubblico cresciuto con il Dottore ma ormai pronto a qualcosa di più maturo. Ecco allora un universo parallelo di alieni, complotti e dilemmi morali ambientato nel cuore di Cardiff, sotto la superficie di una realtà solo in apparenza normale. Il titolo stesso — un anagramma di Doctor Who — era una dichiarazione d’intenti. Dove il Dottore portava speranza, Torchwood portava ombre. Dove Doctor Who mostrava la meraviglia del cosmo, Torchwood rivelava le crepe della Terra. E al centro di tutto c’era lui: il Capitano Jack Harkness, interpretato da John Barrowman, un ex agente del tempo immortale, carismatico e tormentato, capace di attraversare secoli e generi con un sorriso disarmante e una pistola futuristica.
La squadra di Cardiff
Jack non era solo. Accanto a lui operava il team del Torchwood Three, un’unità d’élite incaricata di indagare su ogni anomalia extraterrestre nel Regno Unito. C’era Gwen Cooper (Eve Myles), l’ex poliziotta dal cuore grande e dalla morale ferrea, che diventava il punto di vista umano dentro un mondo di mostri e segreti. Poi Owen Harper (Burn Gorman), il medico cinico e geniale; Toshiko Sato (Naoko Mori), la mente tecnologica dal cuore fragile; e Ianto Jones (Gareth David-Lloyd), il “custode” del quartier generale, forse il personaggio più sottovalutato ma anche uno dei più amati dai fan.
Cardiff stessa divenne protagonista. Le sue strade, il porto, l’iconico Millennium Centre: luoghi reali che, nel racconto di Davies, diventavano portali verso altri mondi. Ogni episodio era una finestra sull’ignoto — e su ciò che significa essere umani di fronte all’ignoto.
Dai “mostri della settimana” al dolore dell’universo
Le prime due stagioni seguirono la formula classica del “mostro della settimana”, mescolando azione e ironia in pieno stile britannico. Ma già allora la serie mostrava un’anima differente: Torchwood parlava di sesso, morte, solitudine e potere con una libertà che Doctor Who non avrebbe mai potuto permettersi nel suo tono family-friendly. Gli alieni erano spesso metafore di traumi, desideri e paure umane.
Il salto di qualità arrivò con “Children of Earth” (2009), miniserie in cinque parti che fece storia. In un crescendo di tensione quasi shakespeariano, il mondo intero si trovava in balia di una razza aliena — i terrificanti 456 — che comunicava attraverso i bambini e chiedeva, senza mezzi termini, un sacrificio umano di massa. L’orrore non stava solo negli alieni, ma nelle reazioni dei governi, nelle scelte morali dei protagonisti. Il finale, con il sacrificio del nipote di Jack, è ancora oggi uno dei momenti più duri e memorabili della televisione britannica. Una catarsi sci-fi che lasciò il pubblico in lacrime e in silenzio.
“Miracle Day”: l’ultimo canto
La quarta stagione, “Miracle Day” (2011), spostò l’azione negli Stati Uniti, fondendo il tono british con la spettacolarità americana. Improvvisamente, nessuno sul pianeta moriva più. La morte era sparita, ma non la sofferenza. Un’idea geniale e inquietante che ribaltava la natura stessa di Jack, ora diventato l’unico essere mortale in un mondo di immortali. Tra cospirazioni globali, nuovi alleati (come Rex Matheson della CIA) e un tono più politico, Miracle Day chiuse — per ora — la parabola della serie, lasciando aperte mille domande.
L’eredità di Torchwood
Più di dieci anni dopo, Torchwood resta un unicum. Non era solo uno spin-off: era un manifesto. Un modo per dire che la fantascienza poteva parlare di etica, di amore queer, di traumi, di perdita, di umanità. Ha anticipato temi che oggi sono centrali nella cultura pop, dal gender fluidity alle riflessioni sul potere tecnologico. E lo ha fatto con una scrittura che alternava ironia e tragedia, con quella tipica malinconia british che trasforma anche l’apocalisse in una tazza di tè versata con dignità.
Il futuro della serie rimane incerto. Russell T. Davies, tornato ora a guidare Doctor Who, ha più volte accennato alla volontà di espandere di nuovo quell’universo narrativo. I fan sperano che, in un’epoca in cui il multiverso domina tutto, anche Torchwood possa riaccendere la sua fiamma sotto la pioggia di Cardiff.
Una fiaccola che non si spegne
Perché Torchwood non è mai stata solo una serie. È stata un laboratorio emotivo, un esperimento di televisione adulta nel cuore di un franchise nato per bambini. È stata, come direbbe il Capitano Jack, una storia di amore e sopravvivenza. E finché ci sarà qualcuno che guarderà le stelle chiedendosi cosa si nasconda oltre la Rift di Cardiff, la fiaccola di Torchwood continuerà a brillare.











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