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Wolf’s Rain: il canto malinconico dei lupi nel gelo dell’apocalisse

Nel gelido e affascinante panorama degli anime post-apocalittici, Wolf’s Rain si staglia come un’opera rara, quasi mitologica. Siamo nel 2003, lo studio Bones — già responsabile di Fullmetal Alchemist — decide di scommettere su una serie che sfida i canoni, rifugge la frenesia tipica del genere e preferisce sussurrare piuttosto che urlare. Nasce così un viaggio tra neve, silenzio e malinconia, accompagnato dalle musiche eteree di Yoko Kanno, che rendono ogni scena un piccolo pezzo di poesia visiva. Wolf’s Rain è composto da 26 episodi, seguiti da quattro OAV pubblicati tra gennaio e febbraio del 2004, che chiudono il cerchio con un finale da brividi. Ma ridurre questa serie a una manciata di numeri sarebbe come descrivere il Paradiso con un codice postale. Perché Wolf’s Rain è, prima di tutto, un’esperienza. Un pellegrinaggio tra rovine innevate, alla ricerca di qualcosa che assomigli alla salvezza, o forse solo alla verità su se stessi.

La storia si svolge in un futuro remoto e glaciale, dove la civiltà umana è ormai al tramonto. I lupi, creduti estinti da secoli, esistono ancora — nascosti agli occhi dell’uomo grazie a un’illusione che permette loro di assumere sembianze umane. Ma questa magia non è libertà: è una maschera, una prigione. Un inganno necessario per sopravvivere in un mondo che ha dimenticato la natura e ha ucciso la poesia.

Kiba, lupo bianco e spirito ribelle, arriva nella decadente Freeze City. È guidato solo dall’istinto e dal richiamo del Rakuen, il leggendario Paradiso. Qui incontra altri tre lupi: Hige, ironico e disilluso; Tsume, duro e solitario; Toboe, il più giovane, sensibile e affamato di affetto. Insieme, inseguono un sogno: trovare Cheza, la ragazza nata dai Fiori della Luna, l’unica chiave in grado di aprire le porte del Paradiso.

Ma Wolf’s Rain non è un road anime fantasy qualsiasi. Non c’è un grande cattivo da sconfiggere, né un eroe perfetto da seguire. Ogni personaggio è una ferita aperta, un frammento spezzato in cerca di significato. E Cheza stessa — delicata, quasi irreale — è una creatura sospesa tra natura e artificio, prigioniera di un’esistenza che non ha scelto.

L’anime si prende il suo tempo. Scorre lento, contemplativo, come un fiume che si insinua tra rovine innevate e città in rovina. I momenti d’azione esistono, ma sono rari e sempre carichi di emotività. La vera forza della serie è il non detto: i silenzi, gli sguardi, i paesaggi che raccontano più delle parole. E poi c’è la musica. Yoko Kanno, con brani come Gravity e Heaven’s Not Enough, riesce a cristallizzare le emozioni in note. Le sue melodie non accompagnano solo le immagini — le completano, le elevano, le fanno vibrare nell’anima.

Il finale, racchiuso negli OAV, è uno dei più discussi e struggenti mai visti in un anime. Non consola, non spiega tutto, ma è fedele al cuore stesso della serie. Perché il Rakuen non è un luogo fisico. È un’idea, forse un’illusione. È la speranza che ci sia qualcosa di meglio, oltre il dolore, oltre l’illusione. E forse, alla fine, è questo che conta davvero. Anche in Italia Wolf’s Rain ha lasciato il segno. È arrivato su MTV, all’interno dell’indimenticabile Anime Night, tra il 2004 e il 2005, seppur con un doppiaggio censurato. Gli OAV sono sbarcati un po’ dopo, nell’estate del 2006. Per chi volesse possederlo, esistono anche edizioni DVD curate da Shin Vision, con un doppiaggio rivisitato.

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