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La Torre dei Conti: la ferita di Roma fra pietra, memoria e modernità

A Roma, dove i Fori Imperiali dialogano ancora con il tempo, un suono secco ha interrotto il brusio eterno della città. Il 3 novembre 2025, la Torre dei Conti — una delle più antiche e imponenti torri medievali di Roma — è crollata in parte durante un intervento di restauro. Nelle macerie è rimasto intrappolato per undici ore Octay Stroici, 66 anni, l’ultimo dei quattro operai coinvolti nel disastro. Non ce l’ha fatta. L’area è stata immediatamente sequestrata: si indaga per disastro colposo. Ma la notizia, pur tragica, ha riacceso i riflettori su un simbolo dimenticato della città, su un frammento di potere e di pietra che da secoli veglia su Roma, fra gloria e abbandono.

Un gigante ferito fra i Fori e la modernità

La Torre dei Conti sorge in Largo Corrado Ricci, nel rione Monti, alla confluenza tra via Cavour e via dei Fori Imperiali. È un luogo quasi sospeso, dove l’antico e il moderno si sfiorano senza mai fondersi davvero. Eretta originariamente nel IX secolo e poi ampliata intorno al 1203 per volere di Papa Innocenzo III, appartenente alla potente famiglia dei Conti di Segni, la torre era concepita come una dichiarazione di forza e supremazia. Con i suoi cinquanta metri d’altezza originali — un colosso di mattoni e tufo su basamento di travertino — dominava la Roma medievale come un faro di potere feudale, tanto che il Petrarca la definì “Turris illa toto orbe unica”.

Col passare dei secoli, la torre ha vissuto le metamorfosi della città: terremoti, saccheggi, ricostruzioni e isolamenti urbanistici. Nel Seicento le furono aggiunti i grandi contrafforti in travertino che ancora oggi la sostengono, mentre nel Novecento — con gli sventramenti fascisti che aprirono via dei Fori Imperiali — venne tagliata fuori dal tessuto urbano, lasciata sola, quasi un relitto di un Medioevo spogliato della sua funzione. Benito Mussolini la donò nel 1937 alla Federazione nazionale Arditi d’Italia, che la trasformò in mausoleo per il generale Alessandro Parisi. Dopo la guerra, ospitò uffici pubblici fino al 2006, quando venne definitivamente chiusa e dimenticata.

Dall’abbandono al cantiere del PNRR

Quando il crollo è avvenuto, la torre era al centro di un ambizioso progetto di riqualificazione finanziato con 6,9 milioni di euro provenienti dai fondi “Caput Mundi” del PNRR. Il piano, avviato nel 2022, prevedeva non solo la messa in sicurezza e il restauro architettonico, ma anche la rifunzionalizzazione della struttura in un centro culturale dedicato ai Fori Imperiali. Dopo quasi vent’anni di abbandono e degrado — l’interno fatiscente, l’esterno aggredito da piante infestanti — si voleva restituire al monumento una nuova vita. Un simbolo di rinascita, insomma. Ma come spesso accade nella città eterna, la memoria ha un peso, e le sue pietre si ribellano al bisturi della modernità.

Due crolli, alle 11:30 e alle 12:50, hanno fatto precipitare porzioni di muratura e impalcature. Tre operai sono rimasti feriti, uno ha perso la vita. Un evento che ha scosso la città e sollevato interrogativi pesanti sullo stato di conservazione del patrimonio e sulla sicurezza nei cantieri storici. Perché Roma, in fondo, è una città che convive da sempre con la fragilità delle sue fondamenta, e ogni restauro è un dialogo rischioso tra passato e presente.

La torre e la città: un legame spezzato (ma non morto)

Chi attraversa oggi Largo Corrado Ricci sente una strana vertigine: la Torre dei Conti, ferita e ingabbiata, sembra respirare a fatica. Eppure, la sua storia non è solo quella di un rudere da restaurare, ma di un simbolo che racchiude secoli di trasformazioni urbane e politiche. La sua collocazione — tra il Colosseo e Piazza Venezia — la rende una specie di spartiacque fisico e temporale. Da un lato i resti dell’Impero, dall’altro la Roma moderna dei ministeri e dei turisti. In mezzo, la pietra che scricchiola: la memoria materiale di una città che non smette mai di cambiare pelle.

Nel suo isolamento, la Torre dei Conti ha sempre rappresentato l’idea stessa della “resistenza del tempo”. È un monolite che guarda il mondo scorrere, come un guardiano dimenticato. Ma il suo recente crollo ci obbliga a riflettere su qualcosa di più profondo: la nostra idea di eternità. Quella Roma che amiamo chiamare “eterna” vive in realtà su un equilibrio precario, tra incuria e nostalgia, tra i fondi del PNRR e le radici del tufo. Ogni crepa racconta una battaglia, ogni restauro è una scommessa contro l’oblio.

Fra storia e futuro: l’eterna precarietà di Roma

La torre nacque per essere un simbolo di potere, e oggi ne è rimasto solo il simbolo della fragilità. Nei secoli, le sue pietre hanno resistito a terremoti, guerre e demolizioni urbanistiche, ma la mano dell’uomo moderno sembra averla ferita più di tutto il resto. Eppure, paradossalmente, proprio questa ferita la riporta al centro del dibattito culturale romano. La Sovrintendenza Capitolina ha annunciato verifiche su tutti i cantieri del programma “Caput Mundi”, mentre storici e architetti chiedono una revisione dei protocolli di intervento sui monumenti.

Nel frattempo, i romani — e chi ama Roma come un organismo vivente — guardano quella torre mutilata come si guarda un vecchio eroe caduto: con rispetto, rabbia e un pizzico di malinconia. Forse il modo migliore per onorare la memoria di Octay Stroici e di tutti coloro che lavorano per ridare vita alla storia è proprio questo: imparare che la bellezza di Roma non è l’immobilità, ma la sua continua, fragile rinascita.

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