Quando ho iniziato a guardare The Unaware Atelier Meister, confesso di essere partita con un misto di curiosità e cautela. Il motivo? Quel cliché che ormai conosciamo fin troppo bene: il protagonista scartato dal suo party perché considerato inutile, solo per rivelare poi di avere abilità incredibili. L’ho visto mille volte, in mille salse. Eppure qualcosa, nel modo in cui questa serie si presentava, mi ha attirata. E adesso, dopo aver divorato la prima stagione, posso dirlo con convinzione: questa non è la solita minestra riscaldata. L’anime ci catapulta nel mondo di Kurt Rockhans, un ragazzino di 15 anni che ha passato la sua vita come “zatsuyōgakari” – in pratica il tuttofare – per il celebre party di avventurieri chiamato Flaming Dragon Fang. Un ruolo umile, spesso invisibile, quello della persona che pulisce, ripara, organizza, cucina, si occupa di tutto ciò che i veri “eroi” non vogliono fare. E infatti, quando i membri del party decidono che vogliono qualcuno di “più utile”, Kurt viene cacciato senza troppi complimenti. Fin qui, tutto nella norma. Ma è proprio a partire da questo momento che The Unaware Atelier Meister inizia a giocare le sue carte migliori, allontanandosi dai soliti binari del fantasy e portandoci in territori più intimi, più delicati, e sì, anche più originali. Perché Kurt non è un guerriero segreto né un mago leggendario. È un artigiano. E non lo sa nemmeno.
Questa è forse la parte che mi ha colpito di più: il fatto che Kurt non sia consapevole delle sue capacità. Lui continua a pensarsi come un semplice tuttofare, abituato a servire in silenzio. È il mondo attorno a lui – e soprattutto Yulishia, la seconda grande protagonista della storia – che pian piano riconosce la sua genialità. Il suo modo di sistemare, costruire, progettare, creare artefatti magici con una naturalezza che lascia senza fiato, è qualcosa di incredibile. Ma lo è proprio perché viene mostrato senza arroganza, senza quella patina di “badass” tipica degli anime power fantasy. Qui l’eroismo passa per la pazienza, la precisione, la gentilezza.
La serie prende davvero il volo quando Kurt si ritrova coinvolto nell’apertura di un nuovo atelier magico in una città di frontiera, Valha City. All’apparenza, un modo per ricominciare. In realtà, un piano elaborato per proteggere Liselotte, la terza principessa del regno di Homuross, il cui ruolo politico è tutt’altro che secondario. Senza rendersene conto, Kurt finisce nel cuore di un intrigo internazionale, in mezzo a forze oscure che tramano per scatenare una guerra. Ma ancora una volta, ciò che colpisce non è tanto la grandezza della trama, quanto la sua gestione. Il tono dell’anime resta spesso leggero, quasi quotidiano, come se la minaccia incombente fosse un’ombra lontana, mentre noi ci innamoriamo della vita semplice e laboriosa del laboratorio.
Dal punto di vista tecnico, The Unaware Atelier Meister non è un colosso dell’animazione, ma sa dove puntare per colpire nel segno. Le animazioni sono fluide, i colori caldi e accoglienti, e i dettagli degli artefatti creati da Kurt sono una gioia per gli occhi di chi, come me, ama gli universi costruiti con cura artigianale. Le scene d’azione non sono il cuore della serie, e non devono esserlo. Quando arrivano, servono più a scuotere la narrazione che a definirla. È nei piccoli gesti, nei dialoghi, nei silenzi, che l’anime trova la sua vera forza.
I personaggi sono un altro punto forte. Yulishia è adorabile nella sua determinazione goffa e nel suo evidente innamoramento per Kurt, che lei cerca di nascondere con un misto di professionalità e dolcezza impacciata. Liselotte, con la sua posizione ambigua e il carisma regale, aggiunge profondità e mistero alla trama. Ma è Kurt a tenere tutto insieme, con la sua presenza silenziosa, la sua umiltà disarmante e quella crescita interiore che, episodio dopo episodio, ci fa sentire davvero parte del suo mondo.
Il comparto sonoro merita un’attenzione particolare. La sigla di apertura, “FACSTORY” dei MeseMoa., è un’esplosione di energia che contrasta in modo interessante con i toni riflessivi della serie. La ending, “Haru ni Kiete” dei LOT SPiRiTS, è invece una carezza malinconica, perfetta per chiudere ogni episodio con il cuore pieno di emozioni. E poi ci sono le musiche di sottofondo, sempre misurate, mai invadenti, ma capaci di accompagnare con delicatezza ogni momento significativo.
Non mi aspettavo di emozionarmi così per una serie che, a prima vista, sembrava solo l’ennesima variazione sul tema del “protagonista sottovalutato”. Ma The Unaware Atelier Meister ha qualcosa di raro: la capacità di raccontare la grande avventura della scoperta di sé, non attraverso la battaglia o il potere, ma attraverso il lavoro, la dedizione e la bontà d’animo. È una storia che parla di talento nascosto, di seconde possibilità, e del valore delle persone silenziose, quelle che costruiscono il mondo con pazienza mentre gli altri si prendono la gloria.
Se siete stanche delle solite trame urlate e volete un fantasy che parla anche al cuore, vi consiglio caldamente di recuperare questa prima stagione. E poi fatemi sapere cosa ne pensate. Vi è piaciuto Kurt? Avete tifato per Yulishia come ho fatto io? O magari vi siete lasciati intrigare dalle trame di corte e dalla figura enigmatica di Liselotte? Scrivetemi nei commenti, condividete l’articolo sui vostri social e, soprattutto, parliamone. Perché se c’è una cosa che questo anime ci insegna, è che anche le storie più tranquille sanno nascondere meraviglie. Basta solo saperle guardare con gli occhi giusti.
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