C’è un’immagine che mi ha trafitto il cuore mentre guardavo The Thing with Feathers, il nuovo film britannico con un intenso Benedict Cumberbatch: quella di un uomo che piega per l’ultima volta i vestiti della donna che ama, lasciando un appendiabiti vuoto come testimone silenzioso di una perdita impossibile da colmare. È solo un attimo, ma dice tutto. Dice del vuoto, del peso dell’assenza, del tentativo goffo e disperato di dare ordine al caos del lutto. E per chi, come me, ha amato Cumberbatch fin dai suoi Sherlockiani inizi, vedere la sua vulnerabilità così nuda e sincera è stata un’esperienza toccante, quasi personale.
Il film, tratto dal poetico e straziante romanzo Grief Is the Thing with Feathers di Max Porter, è diretto e adattato da Dylan Southern, e si è guadagnato una standing ovation alla sua prima al Sundance 2025 e poi a Berlino. Ma quello che lo rende davvero speciale, al di là dei festival e dei riconoscimenti, è il modo in cui ti prende per mano e ti trascina, senza chiedere permesso, dentro la voragine emotiva del lutto.
La trama è apparentemente semplice: un padre (interpretato magistralmente da Cumberbatch) e i suoi due figli piccoli cercano di sopravvivere alla perdita improvvisa della moglie e madre. Ma in questo universo narrativo il dolore non è solo un’emozione da interpretare. Il dolore ha piume. Il dolore ha artigli. Il dolore è un Corvo – personificato da Eric Lampaert e doppiato da un inquietante ma profondissimo David Thewlis – che si insinua nella vita della famiglia, a volte come un compagno saggio, a volte come un demone burlone, altre come un mostro implacabile.
Cumberbatch ha parlato apertamente, in conferenza stampa a Berlino, della mascolinità tossica e della necessità di ridare valore alla vulnerabilità maschile. “Essere aperti e in grado di imparare dalla tragedia, piuttosto che affrontarla con sempre più forza e sempre più rigidità, è un gesto di coraggio vero”, ha detto. E io non posso che applaudirlo. In un’epoca in cui ci si aspetta ancora che gli uomini ‘resistano’, piuttosto che ‘sopravvivano sentendo’, vedere un attore del suo calibro abbracciare una narrazione così delicata è una boccata d’aria fresca.
Il film è diviso in quattro capitoli, ognuno dei quali esplora un diverso punto di vista nella famiglia: non solo quello del padre, ma anche quello dei bambini, che non vengono mai trattati come comparse. Anzi, i piccoli Richard e Henry Boxall reggono la scena con una maturità disarmante, al punto che Cumberbatch stesso ha definito il loro lavoro “profondamente toccante”. Il dolore, qui, è democratico: ogni personaggio ha diritto alla sua sofferenza, al suo modo di affrontarla, al suo personale linguaggio per dirla.
Ed è proprio il linguaggio una delle chiavi di lettura più interessanti del film. Southern ha dichiarato che ciò che lo ha colpito del libro di Porter è stata proprio la capacità di dare parole a emozioni confuse, impalpabili, a quei gesti spezzati e silenzi assordanti che accompagnano un lutto. Non era semplice portare tutto questo sullo schermo, eppure il regista riesce nell’impresa mescolando il realismo più crudo con incursioni nel black fantasy, creando un’atmosfera sospesa tra il sogno e l’incubo, tra la poesia e l’orrore.
Il Corvo, in questo senso, è una creatura profondamente simbolica. È lo spettro della perdita, ma anche la voce interiore che ti strattona per ricordarti che sei ancora vivo. Nella scena finale – tenerissima e dolorosa – i bambini abbracciano il padre e il Corvo insieme. È un gesto potentissimo, quasi terapeutico: accettare il dolore, integrarlo, condividerlo, è l’unica via per superarlo.
Tecnicamente impeccabile, con una fotografia cupa e morbida al tempo stesso, The Thing with Feathers è un film che intrattiene e ferisce, che ti accarezza con una piuma e poi ti colpisce con l’impatto di una verità troppo spesso taciuta: che non c’è una maniera giusta per soffrire, ma c’è una maniera onesta per raccontarlo.
Cumberbatch, che produce il film con la sua SunnyMarch insieme a Film4 e Lobo Films, è l’anima di questo progetto. Il suo volto, segnato da una malinconia autentica, è lo specchio di ciò che The Thing with Feathers vuole dirci: che essere fragili non è una colpa, ma un atto di resistenza. E io, da donna nerd e irrimediabilmente fan di Benedict, non posso che dire: grazie. Grazie per averci mostrato che anche gli eroi possono piangere.
E voi, siete pronti a volare con questo Corvo? Avete già letto il libro di Max Porter o siete curiosi di vedere il film? Raccontatemi cosa ne pensate, condividete questo articolo sui vostri social, e fatemi sapere se anche per voi Benedict è riuscito, ancora una volta, a toccarvi il cuore.
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