Ci sono anime che ti travolgono con l’azione, altri che ti emozionano con le storie d’amore, poi ci sono quelli che ti confondono, ti fanno sentire piccola, smarrita, eppure piena di domande. “Tenshi no Tamago”, per me, è sempre stato questo: non un semplice film d’animazione, ma un’esperienza esistenziale, un’incursione nell’inconscio, un’opera che non guarda allo spettatore per piacergli, ma per turbarlo dolcemente, come un sussurro che rimane nella mente molto dopo la fine. E finalmente, dopo quasi quarant’anni di attesa, arriva anche in Italia grazie a Lucky Red, che ha annunciato una proiezione evento di questa perla nascosta del cinema giapponese durante le Giornate del Cinema di Riccione. Quando ho letto la notizia, lo ammetto, ho provato un brivido. Perché questa non è solo una nuova uscita: è una rivelazione.
Chi conosce Mamoru Oshii probabilmente lo associa subito a “Ghost in the Shell”, il film che ha ridefinito la fantascienza cyberpunk e ha influenzato il cinema mondiale. Ma molto prima di Major Kusanagi e delle riflessioni sull’identità digitale, c’è stato questo piccolo miracolo animato chiamato “Tenshi no Tamago” (o “Angel’s Egg” nella sua traduzione internazionale), concepito nel 1985 da un giovane Oshii in un momento cruciale della sua carriera e della sua vita personale. Non tutti sanno, infatti, che questo film nacque in seguito a una profonda crisi spirituale del regista, che stava attraversando un periodo di forti dubbi religiosi. È forse per questo che l’opera è così rarefatta, così muta, così misteriosamente carica di simbolismi.
“Tenshi no Tamago” è, se vogliamo, l’opposto del cinema narrativo classico. Non c’è una trama nel senso convenzionale del termine. Ci sono una bambina silenziosa che protegge un grande uovo, un ragazzo armato di un fucile a forma di croce, un mondo desolato e cupo, architetture gotiche impossibili, ombre e statue ovunque, e un oceano che circonda tutto, come se la realtà stessa fosse naufragata. Ma in tutto questo silenzio, in tutta questa lentezza, accade qualcosa di magico: lo spettatore viene risucchiato in un sogno a occhi aperti, in un tempo sospeso che non obbedisce alla logica ma alla sensazione.
La prima volta che ho visto questo film mi sono sentita come se stessi leggendo un antico testo sacro, scritto in una lingua che non conoscevo ma che, in fondo, sentivo mia. Ho amato la bambina con il suo volto etereo, quasi trasparente, e la cura con cui proteggeva il suo uovo, senza mai spiegarne il contenuto. L’uovo, ovviamente, è il simbolo attorno a cui ruota tutto il film: può essere la speranza, l’anima, Dio, la memoria, la verità… oppure niente di tutto questo. L’uovo è un mistero, proprio come il film stesso. Quando il ragazzo lo rompe, in una delle scene più strazianti e poetiche che io abbia mai visto, non sai se piangere per la perdita o per la rivelazione.
Yoshitaka Amano, il genio che ha dato volto a tanti personaggi di “Final Fantasy”, qui si supera. Il suo stile visivo è un matrimonio perfetto tra delicatezza e decadenza. Le ambientazioni sembrano quadri che si animano lentamente, con prospettive impossibili e un’architettura che evoca cattedrali gotiche, ma anche castelli dimenticati nei sogni. Ogni dettaglio – una scala che non porta da nessuna parte, una statua pietrificata, un riflesso nell’acqua – contribuisce a creare un senso di eterno ritorno, di loop spirituale, come se i protagonisti fossero anime intrappolate in un limbo senza redenzione.
E poi c’è la colonna sonora di Yoshihiro Kanno. Non si può parlare di “Tenshi no Tamago” senza evocare quei suoni ancestrali, solenni, che ti entrano nella pelle. Non è musica di accompagnamento: è il respiro stesso del film. Le sue quattordici tracce sembrano messe lì non per sottolineare le emozioni, ma per costruirle, generarle da dentro. La musica ti avvolge, ti isola, ti trasporta. E alla fine ti lascia vuota e piena al tempo stesso.
Il film fu un disastro commerciale alla sua uscita. Nessuno lo capì, pochi lo videro, Oshii rimase disoccupato per tre anni. Eppure oggi lo consideriamo un capolavoro. E a ragione. Come disse lui stesso, “Tenshi no Tamago è la mia figlia povera”, mentre “Ghost in the Shell” è la figlia che si è sposata bene. Ma ogni madre ha un amore speciale per la figlia fragile, quella incompresa. Ed è così che io vedo questo film: un gioiello fragile, che per troppo tempo è rimasto chiuso in un cassetto, ma che ora può finalmente brillare anche qui da noi.
La versione che arriverà nei cinema italiani sarà quella rimasterizzata in 4K per il quarantesimo anniversario dell’opera, supervisionata dallo stesso Oshii. È come se il regista ci tendesse la mano, ci dicesse: “Questo è ciò che volevo dirvi allora. Ora siete pronti ad ascoltare?”. Io credo di sì. Credo che oggi, in un mondo che corre troppo in fretta e che ci bombarda di immagini, emozioni, risposte pronte, ci sia più bisogno che mai di un’opera come questa. Un’opera che ci invita a fermarci, a contemplare, a non capire per forza tutto, ma a sentire.
Non aspettatevi un film “facile”. Non aspettatevi nemmeno una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. “Tenshi no Tamago” è una poesia visiva, una preghiera, un enigma esistenziale. È un film da guardare in silenzio, possibilmente da soli, magari in una sala buia dove l’unica luce è quella che emana dallo schermo. E quando uscirete da quella sala, ve lo assicuro, non sarete più gli stessi.
E voi? Avete mai sentito parlare di “Tenshi no Tamago”? Vi incuriosisce questa misteriosa opera di Mamoru Oshii? Fatemi sapere cosa ne pensate, condividete questo articolo e parliamone insieme. Perché certe storie, anche se non si capiscono, vanno comunque raccontate.