Nel labirinto polveroso di Ramadi, dove ogni ombra può nascondere una minaccia, il cinema si immerge in un abisso di orrore e umanità. Con Warfare – Tempo di guerra, il regista britannico Alex Garland e l’ex Navy SEAL Ray Mendoza ci trascinano in un’esperienza cinematografica che è meno un film e più una cicatrice aperta. Non è un racconto didascalico, non è un inno alla patria e non è un’elegia per gli eroi. È la cruda, viscerale e implacabile cronaca di un giorno, di un’ora, di un minuto di sopravvivenza in un inferno di cemento e polvere da sparo.
Dopo l’affascinante e inquietante sguardo sulla disgregazione della società americana in Civil War, Garland torna a scuotere il pubblico, affiancato da un co-regista d’eccezione. Ray Mendoza, veterano della guerra in Iraq e consulente militare di alto livello per produzioni come Lone Survivor, porta sul set non solo la sua professionalità, ma la sua memoria. Il film, infatti, è stato costruito sulle testimonianze dirette di un gruppo di Navy SEAL che hanno realmente vissuto gli eventi narrati. Questa scelta radicale infonde nella pellicola un senso di autenticità che va oltre la semplice narrazione, trasformandola in un atto di testimonianza e, per lo stesso Mendoza, in una dolorosa catarsi.
La storia si svolge il 19 novembre 2006, nel cuore di uno degli scontri più sanguinosi del conflitto iracheno. Un’unità di Navy SEAL è intrappolata in una casa a Ramadi, circondata da un nemico invisibile ma onnipresente. Lo spazio si restringe, la tensione cresce e la pellicola si trasforma in una claustrofobica discesa negli abissi dell’ansia. Garland e Mendoza rifiutano ogni convenzione hollywoodiana: non ci sono preamboli, non ci sono spiegazioni sulla missione o flashback rassicuranti. Lo spettatore viene gettato nel vivo dell’azione, costretto a respirare la stessa aria rarefatta e intrisa di paura dei protagonisti. Il film diventa un’esperienza sensoriale totale, dove il sound design devastante e le inquadrature serrate si fondono per annientare ogni distanza tra chi guarda e chi vive il conflitto.
La produzione A24, nota per il suo approccio audace e innovativo, ha scommesso su questo progetto sin dal suo annuncio nel febbraio 2024. Il cast, composto da alcuni dei talenti più brillanti della nuova generazione di Hollywood, come Joseph Quinn, Kit Connor, Will Poulter e Michael Gandolfini, non cerca di emergere individualmente. La coralità è il vero protagonista, e il legame tra i soldati, fatto di sguardi, battute nervose e silenzi condivisi, diventa un personaggio a sé stante, più potente di qualsiasi retorica bellica.
Warfare sceglie una terza via rispetto ai canoni cinematografici di guerra più recenti. A differenza della glorificazione silenziosa di American Sniper o del tecnicismo ossessivo di The Hurt Locker, il film di Garland e Mendoza si avvicina più a un documentario puro come Restrepo. È un’opera che non vuole convincere, ma mostrare. Non vuole giustificare, ma far sentire. E in questa scelta di distaccata, quasi fredda, immersione nella follia del conflitto, trova la sua forza più dirompente.
Nonostante l’approccio intransigente, il finale del film introduce un elemento che ha già generato dibattito. La scelta di accostare gli attori che interpretano i soldati alle fotografie reali di chi ha vissuto quegli eventi sembra quasi contraddire l’intento iniziale di evitare ogni forma di mitizzazione. È un’oscillazione tra la cronaca pura e la tentazione della celebrazione, un sottile confine che il film attraversa, rischiando di confondere l’osservatore.
Il film si conclude con una scena disarmante: una donna irachena torna nella sua casa in rovina e chiede a un soldato solo una cosa: “Perché?”. Non c’è risposta. E Warfare non la cerca. Non spetta al cinema, in questo caso, fornire una giustificazione o una condanna. Spetta mostrare, nel modo più crudo e onesto possibile, cosa significa davvero vivere in un “tempo di guerra”. Il film ci lascia con le nostre domande, con l’eco di quella domanda sospesa, costringendoci a riflettere non sulle cause o sulle conseguenze, ma sulla nuda e terrificante realtà della sopravvivenza.
