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Trent’anni di Evangelion: l’apocalisse che ha cambiato per sempre il modo di vedere gli anime

Certe opere non invecchiano. Evolvono, mutano, si rispecchiano nei nostri occhi e continuano a parlarci anche dopo decenni. “Neon Genesis Evangelion” è una di queste. Il 4 ottobre 1995, alle 18:30, TV Tokyo trasmetteva il primo episodio di una serie destinata a cambiare per sempre la storia dell’animazione giapponese. Nessuno poteva immaginare che, dietro quel titolo enigmatico, si nascondesse un manifesto generazionale, un grido di dolore e rinascita che avrebbe definito l’anime moderno.Evangelion non era “solo” un nuovo mecha show. Era — e resta — un viaggio nell’inconscio collettivo, una battaglia tra il sé e il mondo, tra l’uomo e Dio, tra tecnologia e disperazione. Una Lancia di Longino scagliata nel cuore di chiunque pensasse che i robottoni fossero soltanto muscoli d’acciaio e pose eroiche.


Il mondo dopo l’Apocalisse

Anno 2015. Quindici anni dopo il Second Impact, la Terra è una ferita ancora aperta. Nella futuristica Neo Tokyo-3, una nuova generazione cresce nell’ombra di una tragedia planetaria. È qui che un ragazzo timido, Shinji Ikari, viene richiamato dal padre — un uomo che conosce più il freddo del potere che il calore dell’affetto — per pilotare un colosso biomeccanico chiamato Evangelion.Da quel momento, l’adolescente smarrito diventa il pilota destinato a confrontarsi con esseri noti come “Angeli”: creature misteriose, ambigue, forse divine, forse solo riflesse della nostra stessa follia. Evangelion è questo: un’epopea di battaglie titaniche e silenzi abissali, dove il nemico è tanto fuori quanto dentro di noi. Ogni episodio è un frammento di un mosaico sempre più oscuro, dove religione, filosofia e psicologia si intrecciano in un enigma senza soluzione definitiva.

Quando Hideaki Anno concepisce Evangelion, il Giappone è in piena crisi esistenziale. L’economia crolla, le certezze sociali vacillano, e una generazione di giovani otaku vive sospesa tra alienazione e isolamento. Anno stesso è reduce da una depressione profonda. Evangelion nasce da lì: dal dolore di un uomo che decide di mettersi a nudo.

Tutti i personaggi di Evangelion sono me”, confesserà anni dopo. E in effetti, Shinji, Asuka, Rei e perfino Gendo sono sfaccettature della stessa psiche: l’insicurezza, la rabbia, la paura di essere rifiutati, il desiderio disperato di essere accettati.

Anno prende il linguaggio dei robot e lo trasforma in seduta di analisi. Gli Eva non sono armi: sono corpi viventi che fondono la carne con l’anima. Sono le estensioni dei traumi dei loro piloti. Ogni sincronizzazione è una confessione. Ogni battaglia, un tentativo di guarigione.


Psicologia, religione e apocalisse

In un panorama dominato da eroi invincibili, Evangelion osa chiedere: cosa significa davvero essere umani?
L’opera intreccia la psicoanalisi junghiana con la simbologia cristiana e cabalistica. Ogni angelo, ogni croce, ogni cerchio di Sephiroth è una tessera di un puzzle mistico che riflette la mente dell’autore.

Gli ultimi episodi, spesso criticati per la loro astrattezza, rappresentano l’apice di questa fusione tra introspezione e sperimentazione audiovisiva. Mentre le battaglie si dissolvono, resta solo la coscienza: un viaggio onirico nel subconscio dei protagonisti, fino all’iconico “Congratulations” — un applauso liberatorio e inquietante allo stesso tempo.

Ma il pubblico non era pronto a una fine così. Nel 1997 arrivano i film “Death & Rebirth” e “The End of Evangelion”, che offrono una conclusione alternativa, più apocalittica e cinematografica. Il risultato è un’esperienza complessiva che fonde arte, filosofia e disperazione con una potenza che ancora oggi pochi titoli hanno eguagliato.


Dalla Gainax alla rivoluzione dell’industria

Prima di Evangelion, lo studio Gainax era già un nome cult tra i fan grazie a progetti come “Gunbuster” e “Nadia – Il mistero della pietra azzurra”. Ma con Eva, Anno e il suo team riscrivono le regole dell’animazione.

L’impatto industriale è devastante: nasce il modello del production committee, le serie si accorciano ma si intensificano, e gli autori iniziano a reclamare una libertà creativa totale. Senza Evangelion, probabilmente, non esisterebbero opere come “Serial Experiments Lain”, “Ergo Proxy”, “Attack on Titan” o “Made in Abyss”.

Gainax diventa un laboratorio di idee, un simbolo di come la cultura otaku possa diventare arte e critica sociale allo stesso tempo. Evangelion non è solo un anime: è una rivoluzione culturale che ha reso possibile parlare di nevrosi, solitudine e identità in un medium pensato fino ad allora per l’evasione.


Il simbolo di una generazione

Shinji Ikari non è un eroe. È un ragazzo che non vuole combattere, che teme il contatto umano, che si rifugia nell’obbedienza e nella fuga. Ma proprio per questo è diventato immortale. In lui, gli spettatori degli anni ’90 — e quelli di oggi — si riconoscono più che in qualsiasi super robot pilotato da coraggiosi comandanti.

Evangelion è il racconto di una generazione che ha paura di crescere ma non può smettere di cercare se stessa. È un’opera che non consola, non spiega, ma ti costringe a guardarti dentro.

Ogni rewatch è una nuova seduta. Ogni battaglia contro un Angelo diventa una metafora delle nostre ansie quotidiane. E ogni volta, quando lo schermo si riempie di sangue e luce, ci chiediamo: “Chi sono io, e perché sono qui?”.


Un’eredità eterna

A trent’anni dalla sua prima trasmissione, “Neon Genesis Evangelion” rimane un monumento all’arte dell’anime. Ha ridefinito l’estetica visiva, la narrazione e la profondità psicologica del medium.
È diventato un linguaggio, un codice culturale condiviso che riecheggia in decine di opere successive, dai manga ai videogiochi, fino alla tetralogia “Rebuild of Evangelion” che, tra il 2007 e il 2021, ha offerto una nuova visione del mito, chiudendo il cerchio con il perdono e la rinascita.

Evangelion è la dimostrazione che l’animazione può essere introspezione, filosofia, dolore e catarsi. È un viaggio nella mente umana travestito da epopea apocalittica.

E se, come diceva Misato Katsuragi, “la realtà è crudele”, Hideaki Anno ci ha insegnato che anche nel momento della fine, c’è sempre un nuovo inizio.

Senua’s Saga: Hellblade II – L’Odissea Psicologica che Accende la PS5

Nel momento in cui le stelle sembrano allinearsi sopra le terre desolate dell’Islanda del IX secolo, una notizia fa tremare il Mjölnir videoludico che portiamo sempre nel cuore: Senua’s Saga: Hellblade II sta per approdare su PlayStation 5. Non è un semplice arrivo, è un ritorno mitico, un tuono che squarcia il cielo della next-gen. L’attesissimo sequel del tormentato e acclamato Hellblade: Senua’s Sacrifice ha finalmente una data, un peso (41,12 GB per essere precisi) e un countdown per il preload che partirà il 10 agosto. Il day one? Segnatelo col sangue: 12 agosto. E no, non stiamo parlando solo di un gioco. Stiamo parlando di un’esperienza sensoriale totalizzante. Di una discesa negli abissi della psiche umana mascherata da avventura vichinga. Di un progetto che fonde mitologia norrena e scienza cognitiva con la maestria di un runemaster digitale. Ninja Theory ci riporta tra le ombre e le voci di Senua, ma stavolta lo fa con la potenza immersiva del DualSense e la ferocia estetica della PS5 Pro.

Viaggio nel Ghiaccio dell’Anima: l’Islanda di Senua

Immagina di camminare tra vulcani sputafuoco, scogliere nere come l’ansia e nebbie che sussurrano antiche maledizioni. Questo è il mondo di Senua, ed è anche il suo specchio interiore. In Hellblade II, ogni ambiente diventa proiezione del suo tormento psicologico. Non è solo narrazione: è il linguaggio visivo dell’angoscia, scolpito nel terreno e nei venti artici.

L’Islanda storica diventa così un palcoscenico per un dramma intimo, una tragedia greca travestita da saga vichinga. Ma invece degli dèi, qui il pantheon sono le voci nella testa. Il gioco continua a esplorare la psicosi di Senua non come gimmick narrativo, ma come autentica lente di percezione. E il risultato? Una narrazione che ti fa dubitare della realtà tanto quanto lei stessa fa.

Spade, Strategie e Silenzi: il nuovo sistema di combattimento

Se nel primo Hellblade i combattimenti erano essenziali e minimalisti, qui siamo davanti a un’evoluzione quasi rituale. I nemici non sono solo ostacoli, ma enigmi cinetici da decifrare. Ogni scontro è coreografato come una danza macabra, dove l’istinto non basta: serve disciplina, serve empatia con il dolore di Senua.

Il combattimento in Hellblade II ha una densità che non cerca la spettacolarità di un soulslike, ma la gravitas di un teatro dell’orrore. Il colpo va sentito, non solo eseguito. Ma attenzione, non aspettatevi un action game alla Devil May Cry: Hellblade rimane fedele al suo stile contemplativo, e chi cerca adrenalina pura potrebbe rimanere deluso. Qui il gameplay è un tramite, non un fine.

Quando l’audio ti parla… sul serio

C’è un aspetto di Hellblade II che eleva tutto su un altro piano sensoriale: il suono. Le voci che sibilano, confondono, guidano e illudono sono una parte fondamentale dell’esperienza, e l’audio 3D è talmente immersivo da farti venire i brividi anche con il volume basso. Gioca con le cuffie e ti sentirai dentro la mente di Senua, tra echi distorti e bisbigli che sfiorano l’inconscio.

È come se Ninja Theory avesse preso la schizofrenia uditiva e l’avesse trasformata in uno strumento interattivo, un gameplay che si insinua sotto la pelle senza mai urlare, ma sempre insinuando.

Il peso della mente, il peso del gioco

E mentre aspettiamo la mezzanotte del 10 agosto per iniziare il preload, ci ritroviamo a contemplare un file da 41,12 GB. Una dimensione che potrebbe aumentare con la patch del day one, certo, ma che già promette ore di immersione viscerale. Per i tecnogeek più accaniti: il supporto a PS5 Pro è confermato, così come il preset “Performance” a 60 fps, la modalità “The Dark Rot Returns” per chi vuole soffrire davvero, e una modalità foto perfezionata per catturare ogni angolo di incubo. Ciliegina sulla torta: un documentario di 4 ore sul making of. Nerd orgasmico.

Tutto questo, anche su Xbox e PC, con aggiornamento gratuito. Un piccolo atto di giustizia cross-platform che fa onore alla community.

L’Inferno è dentro, e va attraversato

Senua’s Saga: Hellblade II non è per tutti. Non lo è mai stato, e non vuole esserlo. È un’opera che rifiuta le comfort zone, che ti costringe a guardare in faccia l’oscurità e a riconoscerla come parte di te. Non è un gioco da “vincere”: è un viaggio da sopportare. Da vivere. Da metabolizzare.

E allora, che tu sia un veterano del primo Hellblade o un nuovo esploratore della mente di Senua, preparati a essere colpito. Non solo dai colpi di spada, ma da quelli dell’anima.

Cosa ne pensi di questo ritorno tanto atteso? Hai già fatto spazio sull’SSD? Ti sei procurato le cuffie giuste per sentir parlare i tuoi demoni? Raccontacelo nei commenti e preparati, perché l’oscurità non aspetta.

Manga senza filtri: quando il fumetto giapponese affronta tabù e verità scomode

C’è una verità che ogni appassionato di manga scopre presto: il fumetto giapponese non si accontenta di raccontare storielle avventurose o romanticismi da shōjo patinato. Il manga è un linguaggio vivo, che osa attraversare territori che altre forme narrative evitano, affrontando temi difficili, controversi, spesso considerati “improponibili” in altri media mainstream. È una porta che si apre non solo verso mondi fantastici, ma anche verso l’abisso dell’animo umano.

E no, non è solo questione di “manga per adulti” o di target demografico: persino storie dall’apparenza leggera possono nascondere sottotesti potenti. Chi ha letto Oyasumi Punpun sa bene che dietro un tratto naïf può celarsi un pugno nello stomaco; chi ha attraversato le pagine di A Silent Voice ha toccato con mano quanto la crudeltà, la redenzione e il perdono possano essere materia di grande narrativa.

Il Giappone e le sue ombre

Il fascino dei manga che trattano temi scottanti sta anche nella loro capacità di affrontare la complessità della società giapponese. Parliamo di un paese in cui il concetto di “tatemae” (la facciata sociale) e “honne” (i veri sentimenti) influenza profondamente il modo di comunicare. I manga diventano allora un’arena dove l’honne può esplodere senza filtri.

Pensiamo ai lavori di Osamu Tezuka, che in MW o Ayako scava nelle ipocrisie, nei traumi storici e nei lati oscuri del potere. O ai racconti disturbanti di Junji Itō, dove l’orrore soprannaturale è spesso un’allegoria delle ossessioni e paure più umane. Non è provocazione fine a sé stessa: è un’operazione culturale, un “ti faccio vedere ciò che preferiresti ignorare”.

Perché ci attraggono le storie scomode?

Forse perché, a differenza di tanto intrattenimento confezionato per rassicurare, questi manga ci riconoscono come lettori adulti, capaci di guardare in faccia il dolore e la contraddizione. Non offrono sempre una morale netta: ci lasciano con domande aperte, ci obbligano a un dialogo interiore.

La scuola che umilia invece di educare (Lesson of the Evil), la famiglia che soffoca e plasma (Kazoku no Shokutaku), le discriminazioni di genere o di classe… tutti temi che, presentati con il ritmo di una serializzazione e l’intimità delle tavole disegnate, entrano sotto pelle.

L’equilibrio tra bellezza e urto

Il punto di forza dei mangaka più grandi è che non rinunciano alla potenza estetica. Il tratto, la regia delle vignette, i silenzi, diventano parte integrante del messaggio. Un primo piano su un volto in lacrime, una tavola doppia che esplode di dettagli grotteschi, un dialogo lasciato sospeso: ogni elemento contribuisce a farci “sentire” più che a dirci cosa pensare.

E non dimentichiamo che molti autori e autrici lavorano consapevoli della censura — esplicita o implicita — sia in patria che all’estero. Ciò rende il loro modo di alludere, suggerire o aggirare i divieti ancora più creativo, come un gioco a scacchi con il lettore.

Dal Giappone al mondo: un linguaggio universale

La globalizzazione del manga ha portato queste storie oltre i confini culturali. Un tema come il bullismo scolastico in A Silent Voice o la violenza domestica in My Broken Mariko non ha bisogno di un glossario culturale: parla a chiunque. Eppure, conoscerne il contesto giapponese arricchisce la lettura, svelando strati che vanno oltre la trama.

Anche per questo, nel fandom internazionale, si accendono dibattiti incandescenti: dove finisce la libertà artistica e dove inizia lo sfruttamento del dolore? Cosa significa rappresentare una realtà scomoda senza cadere nel sensazionalismo?

Un invito alla community

Leggere manga che parlano di tabù è come attraversare un bosco di notte con una lanterna: fa paura, ma ogni passo illumina qualcosa di nuovo. È un viaggio che vale la pena fare, soprattutto se lo si condivide.

E allora vi chiedo, lettori di CorriereNerd.it: qual è il manga che vi ha messo più a disagio… e che non riuscite a dimenticare? Raccontatemelo nei commenti, scambiamoci titoli e riflessioni. Perché certe storie vanno lette, digerite, discusse. Anche quando bruciano.

Tessa Hulls vince il Premio Pulitzer 2025 con il graphic novel Feeding Ghosts – Un viaggio nelle memorie familiari

Tessa Hulls ha appena conquistato uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari al mondo, il Premio Pulitzer 2025 per la categoria Memoir e Autobiografia, con il suo graphic novel Feeding Ghosts. Un’opera che non è solo un viaggio personale, ma un’incursione potente nelle profondità della storia, della memoria e dei traumi generazionali. Il graphic novel, che verrà pubblicato in Italia dalla casa editrice Tunué, si preannuncia come una lettura imprescindibile per gli appassionati di narrativa grafica e per tutti coloro che sono sensibili alle storie che raccontano la lotta per la sopravvivenza, l’esilio e la ricerca di sé.

Il Premio Pulitzer è un traguardo che sigilla un percorso artistico straordinario, ma ciò che rende Feeding Ghosts davvero speciale non è solo il riconoscimento ricevuto, bensì la sua capacità di mescolare la potenza evocativa del fumetto con la profondità di un racconto intimo e storico. La stessa amministratrice del Premio Pulitzer, Marjorie Miller, ha definito l’opera come “un’autentica fusione di arte e ricerca letteraria”, sottolineando la sua capacità di dare vita a tre generazioni di donne cinesi, attraverso i tratti di Tessa, sua madre e sua nonna. Un viaggio che esplora il trauma che si tramanda di madre in figlia, rivelando l’ombra persistente di storie familiari sepolte, ma non dimenticate.

Il graphic novel si addentra nella complessa e travagliata vita della nonna dell’autrice, Sun Yi, una giornalista di Shanghai che ha vissuto in prima persona le violenze e le difficoltà derivanti dalla vittoria comunista del 1949. Dopo essere fuggita a Hong Kong, Sun Yi ha scritto una memoria di grande successo sulla sua persecuzione, ma ha anche vissuto un crollo psicologico da cui non si è mai ripresa. Tessa Hulls, nel suo percorso di indagine sulle radici familiari, si è confrontata con questa eredità di sofferenza e ricerca di identità, mettendo a nudo il modo in cui i traumi delle generazioni precedenti riecheggiano nel presente. Un lavoro che ha richiesto quasi dieci anni di riflessione e ricerca, e che ora, con la sua pubblicazione, ha conquistato anche l’ambito Pulitzer.

Feeding Ghosts non è solo una memoria di famiglia, ma anche una riflessione sul significato di “casa”, su cosa significa appartenere a una cultura e affrontare le cicatrici lasciate dal passato. La Hulls racconta non solo la propria storia, ma una più ampia storia di esilio e identità, di amore e dolore, di donne che lottano per trovare la propria voce in un mondo che non smette mai di cambiare. Il graphic novel si erge così come un lavoro di straordinaria importanza, capace di unire le suggestioni visive del fumetto alla profondità del memoir, e conquistando riconoscimenti inaspettati come il National Book Critics Circle John Leonard Prize, l’Anisfield-Wolf Prize, e il Libby Award per il miglior graphic novel.

L’autrice, Tessa Hulls, è un’artista e scrittrice poliedrica che ha sempre vissuto al di fuori dei confini tradizionali, esplorando il mondo con un’energia quasi irrequieta che l’ha portata a calcare tutti e sette i continenti. Il suo lavoro, pubblicato in testate come The Washington Post e Atlas Obscura, ha suscitato l’interesse di una vasta audience, e ora il suo primo libro trova finalmente spazio in un catalogo d’eccezione come quello di Tunué. La Hulls, che ha ricevuto anche il Washington Artist Trust Arts Innovator Award, porta nel suo lavoro una visione che supera i confini della pura autobiografia per diventare un’opera che invita alla riflessione sulla memoria, sull’eredità culturale e sulla resilienza.

La pubblicazione di Feeding Ghosts in Italia arricchisce ulteriormente il già prestigioso catalogo della Tunué, casa editrice che ha recentemente accolto altre opere di valore come I Pizzly di Jérémie Moreau, vincitore del Premio Strega, e La vita che desideri di Francesco Memo e Barbara Borlini, premiato con il Manzoni. Con questa aggiunta, Tunué conferma il suo impegno nella promozione di graphic novel di altissimo livello, capaci di unire qualità narrativa e visiva, e di trattare tematiche universali con un linguaggio innovativo e coinvolgente.

Feeding Ghosts non è solo una lettura, ma un’esperienza emotiva e intellettuale che lascia il segno. Un’opera che ci ricorda quanto il personale sia anche politico, come ci insegna Ling Ma, autrice di Bliss Montage, che ha definito il libro “un’impresa audace e stupefacente”. Per Tessa Hulls, Feeding Ghosts è il suo ritorno a casa, un viaggio doloroso, ma necessario, che ci obbliga a confrontarci con il passato, con i suoi fantasmi e con l’amore che, nonostante tutto, riesce a tenerci uniti.

La prima stagione di Daredevil: Rinascita. Il Diavolo di Hell’s Kitchen è tornato…

Dopo anni di attesa, silenzi e piccoli cammei che ci avevano fatto solo assaporare il ritorno, Daredevil: Rinascita è finalmente approdata su Disney+ il 5 marzo 2025. E lasciatemelo dire: se siete cresciuti con le atmosfere cupe e stratificate della serie Netflix, questa nuova iterazione non vi lascerà indifferenti. Anzi, sarà come tornare a casa… anche se con qualche mobile spostato.

Marvel ha fatto una mossa audace, riportando Matt Murdock sotto i riflettori in una serie che è, a tutti gli effetti, un ibrido: una creatura alla Frankenstein dove si fondono due anime distinte — la visione iniziale (più legale, meno vigilante) e quella successiva, profondamente ancorata all’eredità della serie originale. E se i primi episodi arrancano un po’, come un pugile che prende tempo prima di trovare il ritmo giusto, la seconda metà si scatena con la potenza che ci si aspettava, raddrizzando la traiettoria con una precisione chirurgica.

Charlie Cox torna in gran forma: il suo Matt Murdock è ancora quel mix perfetto di fragilità e determinazione, un uomo diviso tra fede, giustizia e la tentazione di lasciarsi consumare dall’oscurità. È un personaggio che non ha bisogno di urlare per imporsi: ti conquista nei silenzi, nei respiri sospesi, nei pugni che arrivano quando meno te lo aspetti. Al suo fianco, o meglio, davanti a lui come nemesi inevitabile, Vincent D’Onofrio dà vita a un Wilson Fisk più contenuto, quasi austero nella nuova veste di candidato sindaco di New York. Ma non fatevi ingannare: sotto la maschera istituzionale c’è ancora il predatore. E quando colpisce, lo fa con una violenza che mozza il fiato.

Jon Bernthal, con il suo Frank Castle, torna in scena con la forza di un uragano. Il Punisher non è mai stato un personaggio da sfumature, e qui non fa eccezione: è rabbia pura, dolore che cammina su due gambe, un caos controllato che incendia ogni scena in cui appare.

Ma Rinascita non è solo un revival nostalgico: è una riflessione matura e a tratti quasi filosofica sul concetto di giustizia, sul trauma, sulla possibilità (o meno) di redimersi. È meno supereroistica di quanto ci si aspetti — le scene d’azione ci sono, e sono brutali come devono essere — ma il cuore pulsante della serie sta nei dialoghi, negli sguardi, nella lenta decostruzione dei suoi protagonisti.

Il cast di supporto è una vera scoperta. Margarita Levieva nei panni di Heather Glenn porta una dinamica interessante e inattesa al tormento emotivo di Matt, mentre Michael Gandolfini, nei panni del consigliere politico di Fisk, sorprende per carisma e controllo scenico. E poi c’è Muse, un nuovo villain disturbante e fincheriano, che lascia il segno nonostante il minutaggio ridotto.

Dal punto di vista tecnico, Daredevil: Rinascita è un gioiello di precisione narrativa: 9 episodi senza filler, con un solo (intelligente) episodio-bottiglia che si giustifica pienamente nel contesto generale. La colonna sonora è curata, mai invadente, capace di passare da tensione pura a momenti di ironia leggera — una scena su tutte: una versione muzak di “Killing Me Softly” che fa da sottofondo a un momento carico di pathos. Queste piccole gemme fanno la differenza.

Se dovessi trovare un difetto? Forse qualche effetto speciale non proprio impeccabile e il fatto che Kingpin sia messo (volutamente) un po’ in secondo piano. Ma sono dettagli che non scalfiscono l’impatto complessivo della serie.

Il bello di Daredevil: Rinascita è che, pur essendo parte integrante del Marvel Cinematic Universe, riesce a non piegarsi alla logica del “prodotto seriale da collegare al prossimo capitolo”. No, Rinascita è una storia che vive di vita propria, con una sua identità, con un suo peso. E alla fine dell’ultimo episodio, non ti chiedi cosa succederà nell’MCU… ti chiedi solo quando arriverà la seconda stagione.

Insomma, se questa è davvero la nuova via di Marvel Television, allora possiamo respirare. C’è ancora spazio per raccontare storie vere, complesse, adulte. Matt Murdock è tornato, ed è più vivo che mai. E personalmente? Non ne ho mai abbastanza di questo Diavolo.

Painter of the Night: quando l’erotismo diventa prigione – riflessioni amare su un manhwa che divide

Di fronte al debutto italiano al Comicon Napoli (per i tipi di J-POP Manga) di Painter of the Night, un’intrigante serie Boy’s Love di Byeonduck ambientata nella Corea dell’epoca Joseon, firmato Byeonduck, che sarà sugli scaffali di librerie, fumetterie e store online a partire dal 13 maggio, confesso che mi sono sentito investito da una miscela di curiosità e apprensione. Non si tratta semplicemente di un manga da leggere: Painter of the Night è un’esperienza che scuote, inquieta e mette alla prova i confini tra arte, eros e violenza.

La trama ci introduce a Na-kyum, un giovane pittore dal talento straordinario nel ritrarre uomini in pose erotiche. In un contesto storico come quello della Corea del periodo Joseon, dove le convenzioni sociali sono ferree e il desiderio tra persone dello stesso sesso è stigmatizzato, il suo talento diventa una maledizione piuttosto che un dono. Dopo aver creato opere sotto pseudonimo, Na-kyum decide di ritirarsi dal mondo dell’arte, sperando di lasciarsi alle spalle una carriera che lo mette in conflitto con la sua stessa identità. Tuttavia, la sua vita viene sconvolta dall’arrivo di Yoon Seungho, un nobile noto per la sua insaziabile lussuria. Costringendo Na-kyum a diventare il suo pittore privato, Seungho lo obbliga a tornare alla sua passione, ma lo fa in un modo che non lascia spazio alla libertà: la coercizione è la sua arma principale.

Non c’è nulla di romantico nel loro incontro, anzi, la relazione inizia su toni aspri e inquietanti. Seungho si fa figura di predatore, dominando fisicamente ed emotivamente Na-kyum, ma la vera forza di Painter of the Night sta nella sua capacità di farci riflettere sul confine tra eros e potere, sull’abuso e la sottomissione che si nascondono dietro le dinamiche di attrazione.

Una passione tossica mascherata da amore?

Come lettore, uno degli aspetti che più mi ha turbato è l’apparente romanticizzazione di una relazione che, in ogni aspetto, è intrinsecamente tossica. Il gioco di potere tra Na-kyum e Seungho non è solo una lotta per il controllo fisico, ma un intricato scambio psicologico che, col passare dei capitoli, assume i contorni di una relazione abusiva. La progressiva intimità che si sviluppa tra i due protagonisti, benché velata da una sorta di passione bruciante, non fa che mascherare una sindrome di Stoccolma che emerge sempre più nei pensieri e nelle azioni di Na-kyum.

La storia gioca con l’idea di un “amore redentore”, un trope molto usato, ma che in questo caso non trova una sua giustificazione. Le piccole riflessioni che l’autrice inserisce, come il dialogo tra Na-kyum e sua sorella, potrebbero essere il seme di una critica sociale più ampia sulla coercizione e sull’abuso, ma purtroppo queste intuizioni vengono rapidamente soffocate dalla necessità di sviluppare una trama che sembri giustificare la relazione come un “dramma romantico”. Questo contrasto tra le potenzialità della narrazione e le scelte narrative fatte mi ha lasciato un senso di frustrazione.

L’erotismo come forma di dominio: una critica al BL stereotipato

Non possiamo ignorare che Painter of the Night affronta il tema dell’erotismo in modo diretto e, per certi versi, brutale. Il sesso non è mai semplice piacere o intimità, ma una manifestazione di dominio e controllo. Non solo Seungho, ma anche tutti i personaggi che ruotano attorno a lui sembrano muoversi in un gioco di potere in cui chi ama viene punito, chi desidera viene spezzato.

Sebbene la rappresentazione dell’erotismo in Painter of the Night possa essere interessante per il suo trattamento crudo e realista, non posso fare a meno di notare come la serie riproponga alcuni dei peggiori stereotipi del genere BL: i personaggi effeminati sono spesso rappresentati come vittime passive, mentre quelli virili sono predatori incapaci di controllarsi. In questo senso, l’opera non fa che amplificare una rappresentazione problematica della sessualità queer, già oggetto di critiche in altre opere simili.

Una bellezza visiva che inganna

Nonostante gli aspetti disturbanti della trama, Painter of the Night è un’opera visivamente straordinaria. Il tratto di Byeonduck è elegante, raffinato, con un’attenzione maniacale ai dettagli. Ogni tavola sembra essere costruita con una cura cinematografica, dove le linee morbide e l’uso sapiente delle luci e delle ombre conferiscono alle scene un’atmosfera seducente, quasi onirica. Ma è proprio qui che il cortocircuito emotivo prende vita: mentre la bellezza visiva ti cattura, il contenuto ti lascia con un nodo allo stomaco. La capacità di Byeonduck di rendere l’orrore esteticamente attraente è, in un certo senso, inquietante. La sua arte ti invita a guardare, anche quando dovresti distogliere lo sguardo.

Painter of the Night è un’opera che suscita emozioni contrastanti. È senza dubbio un titolo che ha il potere di affascinare e disturbare allo stesso tempo. Alcuni lettori apprezzeranno la sua intensità, la bellezza delle illustrazioni e l’approccio audace alla sessualità e al potere. Altri, come me, non potranno fare a meno di interrogarsi sulle scelte narrative e sulla maniera in cui l’autrice maneggia temi complessi come la coercizione e l’abuso. Painter of the Night non è un manga facile, ma è sicuramente un’esperienza che ci costringe a riflettere, a confrontarci con temi dolorosi e a mettere in discussione le narrazioni romantiche tradizionali. E forse, anche se è un’opera che ci lascia con molte domande, è proprio questo il suo valore più grande.

The Good Daughter: il thriller familiare che promette di sconvolgere il 2025

Sono sempre stata attratta dai thriller psicologici capaci di scavare nei traumi familiari, nei segreti sepolti e nelle verità che riaffiorano come fantasmi in cerca di giustizia. Per questo, quando ho scoperto che The Good Daughter, tratto dal romanzo omonimo di Karin Slaughter, stava per diventare una serie TV targata Peacock, ho sentito un brivido percorrermi la schiena. Quel brivido che solo le storie potenti e oscure sanno darmi. Le riprese sono iniziate a marzo 2025 ad Atlanta, e già questo mi ha fatto sperare bene. Atlanta è da anni una delle capitali del nuovo thriller televisivo americano: urbana, autentica, con una vena gotica sottile ma persistente. Ma è il contenuto stesso della serie a promettere qualcosa di davvero indimenticabile: una storia che non solo si nutre di violenza e suspense, ma affonda le radici nel dolore, nella memoria, nella sopravvivenza.

Nel cast troviamo nomi che, a chi come me divora le serie TV come pane quotidiano, suonano come promesse mantenute: Rose Byrne sarà Samantha Quinn e Meghann Fahy (che ho amato in The White Lotus) interpreterà Charlotte Quinn. Due sorelle, due destini spezzati da un’unica notte di terrore. Brendan Gleeson, imponente e intenso come sempre, sarà Rusty, il padre avvocato difensore, mentre Harper Steele, Paula Malcomson, Jake McDorman e i nuovi volti come Audrey Grace Marshall, Olivia Williams, Michael Dorman e Drew Cheek completano un ensemble da pelle d’oca. Già solo immaginare questo cast dare corpo e voce ai personaggi creati dalla penna affilatissima della Slaughter mi fa venire voglia di contare i giorni che ci separano dall’uscita.

Chi ha letto il romanzo sa bene quanto questa storia sia più di un semplice thriller. È un grido silenzioso, un’indagine emotiva travestita da legal drama, un’ode alle sorelle che si sono perse e forse, nel dolore, ritrovate. La trama parte da un evento traumatico: due sorelle vengono trascinate in un incubo nei boschi, una riesce a fuggire, l’altra resta indietro. Ventotto anni dopo, Charlotte è diventata avvocato come il padre e si trova di nuovo nel mezzo di una tragedia violenta che scuote la loro cittadina, Pikeville. Ma questa volta, la prima testimone sulla scena è proprio lei. E da quel momento, tutto precipita.

Quello che mi colpisce più di tutto è il sottotesto emotivo. Il thriller qui è solo il mezzo. Il fine è mostrare come il passato non solo ci forma, ma ci perseguita. Come essere la “brava figlia” non sia sempre una benedizione, ma a volte una condanna. Come la giustizia non sia mai semplice e i legami familiari possano essere fili spinati che non ti lasciano andare. È la tensione che si crea tra quello che siamo costrette a diventare e quello che eravamo prima che il mondo ci cambiasse.

Con Karin Slaughter stessa coinvolta come produttrice esecutiva, e la regia affidata a Steph Green (che ha già dimostrato il suo talento con Watchmen e The Americans), The Good Daughter non sarà solo un adattamento: sarà un’esperienza immersiva, un’interpretazione visiva di una storia che ha già fatto vibrare milioni di lettrici nel mondo. E non vedo l’ora di essere tra quelle che la vivranno, scena dopo scena, col cuore in gola e le mani strette al cuscino.

Non è solo l’attesa di una serie TV. È l’attesa di un viaggio dentro la mente, la memoria e la ferita aperta che ogni “brava figlia” porta con sé. E io sono pronta a farlo, ancora una volta, con il fiato sospeso.

Wanderstop: Il Gioco Che Guarisce Traumi e Cuori Spezzati

Il mondo videoludico è pronto ad accogliere un nuovo titolo che promette di combinare l’intimità di un’esperienza “cozy” con una riflessione profonda sul trauma e la guarigione. Wanderstop, sviluppato da Ivy Road e pubblicato da Annapurna Interactive, è un progetto ambizioso che unisce la delicatezza del gioco a una narrazione ricca di emozioni e introspezione. La direzione è affidata a Davey Wreden, già noto per il suo lavoro su The Stanley Parable e The Beginner’s Guide, mentre la colonna sonora è curata dal compositore C418, noto per le sue sonorità evocative. Il gioco, che uscirà il 11 marzo 2025 per PlayStation 5, Windows e Xbox Series X/S, racconta la storia di Alta, una guerriera che, dopo aver subito profonde perdite, cerca la guarigione in un piccolo negozio di tè.

La Trama: Dalla Battaglia al Tè

Alta, un tempo una combattente invincibile, si trova a dover fare i conti con una sconfitta devastante. In cerca di riscatto, si avventura nel bosco alla ricerca di un leggendario maestro di arti marziali, Master Winters, ma crolla esausta prima di trovarlo. Alla fine, accetta l’offerta di Boro, un uomo imponente ma gentile, che le propone di lavorare nel suo negozio di tè, dove la preparazione delle bevande diventa un modo per guarire corpo e anima. Qui, tra foglie di tè e ricordi, Alta affronta le proprie cicatrici, scoprendo che la vera battaglia non è quella fisica, ma quella interiore.

I personaggi di Wanderstop sono il cuore pulsante del gioco. Boro, il proprietario del negozio, è un uomo filosofico, che invita a prendere la vita con leggerezza e saggezza, come un vero buddhista. I clienti che frequentano il negozio portano con sé storie uniche e bizzarre, come quella di Gerald, un uomo maledetto che cerca di impressionare suo figlio fingendo di essere un cavaliere, o un cacciatore di demoni che ora si dedica a lavori sociali, dopo aver esaurito la sua missione. Ogni personaggio ha una propria missione, un percorso che si intreccia con quello di Alta, mentre quest’ultima cerca di trovare la pace con il suo passato.

Il Gameplay: Il Tè come Strumento di Guarigione

Il gameplay di Wanderstop è pensato per essere rilassante e privo di stress, un elemento chiave che lo distingue dalla frenesia di molti altri titoli. La preparazione del tè è una delle meccaniche principali, che include un sistema complesso ma affascinante. Alta raccoglie le foglie di tè nei cespugli che circondano il negozio, le lascia essiccare e le trasforma in palline di tè. Queste vengono poi inserite in un ingegnoso dispositivo di infusione, che richiede l’uso di una scala per manovrarne tutti i componenti. La bellezza di questa parte del gioco è che non c’è pressione: se si commette un errore, non c’è punizione, solo la possibilità di riprovare.

In parallelo, il gioco presenta un sistema di coltivazione che si basa su una griglia esagonale. Piantare semi permette di ottenere ibridi che producono frutti, che a loro volta vengono utilizzati nella preparazione del tè. La combinazione dei semi crea diverse varietà di piante e frutti, che permettono di sperimentare con le varie richieste dei clienti. La natura del gioco invita alla riflessione sulla cura e sulla pazienza, in contrasto con la frenesia del mondo esterno. La mancanza di sfide “classiche” come punizioni o livelli da superare, fa sì che il gioco non diventi mai fonte di ansia, ma piuttosto di contemplazione.

Un Viaggio Interiore: Trauma e Guarigione

Sebbene Wanderstop possa sembrare un titolo che si inserisce nel filone dei giochi “cozy” come Stardew Valley, in realtà affronta temi molto più complessi e profondi. La decisione di Wreden di esplorare il tema del trauma nasce dalla sua personale esperienza di burnout, legata allo sviluppo dei suoi giochi precedenti. Il risultato è un titolo che non cerca di “curare” il giocatore, ma che lo invita a riflettere sul significato della guarigione. Alta, infatti, si confronta costantemente con l’idea che la vita senza lotte, senza difficoltà, non abbia valore. La tranquillità e la serenità offerte dal negozio di tè non sono immediate, ma un processo lungo e doloroso che richiama le cicatrici interiori di ogni giocatore.

Lo Sviluppo e l’Arte: Una Riflessione Visiva

Wanderstop si distingue anche per la sua direzione artistica, che si ispira a opere come Alba: A Wildlife Adventure e My Time at Portia. Temitope Olujobi, uno degli artisti dietro al progetto, ha dichiarato di essersi ispirato all’arte impressionista per creare paesaggi che evocano sensazioni più che semplici visioni. L’ambiente di gioco, che funziona quasi da “personaggio principale”, riflette una natura rigogliosa, tra fiori, piante e colori che parlano direttamente ai sensi. L’influenza dell’Art Nouveau è evidente, con linee organiche che si intrecciano tra di loro, creando un’atmosfera che invita al relax e alla contemplazione.

Musica e Suoni: La Colonna Sonora di C418

La musica di Wanderstop è un altro degli aspetti che rende il gioco speciale. Composta da Daniel Rosenfeld (C418), la colonna sonora si adatta dinamicamente alle azioni del giocatore, accompagnando ogni momento con la giusta melodia. I suoni, curati dallo stesso C418, sono altrettanto coinvolgenti e immersivi, con effetti sonori che riflettono le delicate operazioni quotidiane di Alta. La radio nel negozio offre tre stazioni, ognuna con un’atmosfera unica, che aggiunge un ulteriore strato di immersione all’esperienza.

Un’Attesa Carica di Promesse

In conclusione, Wanderstop non è semplicemente un gioco di simulazione del tè o di agricoltura. È un’opera che esplora la fragilità umana, il trauma e la ricerca di equilibrio attraverso un mondo che, pur nelle sue semplici attività quotidiane, offre al giocatore una riflessione profonda sulla vita stessa. Con la sua data di uscita fissata per il 11 marzo 2025, Wanderstop promette di essere una delle esperienze più emozionanti e contemplative degli ultimi anni. Chi cerca un gioco che sfidi le proprie aspettative e, al tempo stesso, offra un rifugio dalla frenesia quotidiana, troverà in Alta e nel suo negozio di tè un angolo di serenità, ma anche un invito a esplorare le cicatrici che ognuno di noi porta dentro.

La ballerina di Auschwitz: Un racconto di Resilienza e Scelta Personale

Quando ci avviciniamo alla lettura di un libro che porta con sé il peso della testimonianza storica, spesso ci prepariamo a un percorso doloroso e sconvolgente. La ballerina di Auschwitz di Edith Eger è, senza ombra di dubbio, uno di questi libri, ma ciò che rende questa testimonianza unica non è solo la sofferenza che Eger ha vissuto durante la Seconda Guerra Mondiale, bensì la straordinaria forza di una donna che, a partire dalla sua tragedia, ha costruito una carriera di guarigione, non solo per sé stessa, ma per molti altri.

La storia di Edith Eger è un inno alla resilienza. Deportata ad Auschwitz a soli sedici anni, una ragazza piena di sogni e ambizioni, vive un’esperienza che trasforma la sua esistenza. La sua adolescenza, che un tempo era consacrata alla danza e alla ginnastica, alle speranze olimpiche e ai primi amori, viene brutalmente interrotta dalla follia del regime nazista. La sua giovane vita diventa un incubo fatto di violenza, fame e morte, dove ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza. Ma, come una ballerina che sa danzare anche nel buio, Edith riesce a trovare la forza di vivere anche nei momenti più disperati, nonostante le atrocità che la circondano. È il ricordo di Eric, il ragazzo che ama, che le dona la forza di resistere, con quella semplice frase: “Non dimenticherò mai i tuoi occhi”. Non è solo una dichiarazione d’amore, ma un atto di speranza che la accompagna nei giorni più bui.

Ciò che colpisce nel racconto di Eger è la sua capacità di intrecciare il trauma vissuto durante la guerra con la sua lunga carriera di psicoterapeuta. Come il suo mentore Viktor Frankl, Eger ha fatto della sua esperienza di sopravvivenza una missione di guarigione. Non si è limitata a raccontare ciò che ha vissuto, ma ha trasformato quella sofferenza in uno strumento di comprensione e supporto per chiunque affronti il proprio dolore. Le sue parole non sono solo una testimonianza storica, ma un invito a rielaborare il trauma, a non lasciarsi sopraffare da esso, ma a trarne una forza che ci consenta di vivere una vita più autentica e completa. La sofferenza, quindi, non è mai l’elemento finale della sua storia. Il dolore non è il capitolo conclusivo, ma solo un passaggio che, se affrontato con la giusta mentalità, può portare a una nuova nascita.

Nel libro, Edith Eger ci offre una lezione profonda e universale: non possiamo cambiare il passato, ma possiamo sempre decidere come affrontarlo. Questo è il cuore del messaggio di La ballerina di Auschwitz. La resilienza, la scelta e il perdono sono tematiche fondamentali che attraversano l’intero testo. La possibilità di scegliere, nonostante tutto, è ciò che ci rende liberi. Non siamo vittime delle circostanze, ma esseri umani capaci di fare delle scelte che, anche nella sofferenza, possano portarci verso la luce. Eger ci invita a non essere prigionieri dei nostri traumi, ma a liberarci dalle catene che ci legano, riscoprendo una vita che, pur tra le cicatrici, è ancora degna di essere vissuta.

Questa è la parte più potente di La ballerina di Auschwitz: la possibilità di rinascere. Edith, con il suo coraggio e la sua esperienza, ci offre una guida pratica per affrontare le difficoltà della vita, siano esse interne o esterne. La sua testimonianza non è solo un racconto di sopravvivenza, ma una vera e propria lezione di vita. La sua storia è un faro per chiunque si senta intrappolato nei propri dolori e nei propri traumi, un invito a scegliere la libertà, la felicità e la pace interiore.

La ballerina di Auschwitz è un libro che lascia il segno, che non si dimentica facilmente. Non è solo un memoir, ma un viaggio profondo nell’animo umano, un’esplorazione di come la mente e il cuore possano trasformare il dolore in una forza creativa e liberatoria. Concludere la lettura di questo libro non è solo un atto di empatia verso una persona che ha sofferto indicibili orrori, ma un atto di riflessione su noi stessi, su come affrontiamo le difficoltà e come possiamo scegliere di vivere una vita piena, anche quando il passato ci segna in modo indelebile.

La forza della scelta, la bellezza della resilienza e la luce della speranza sono le vere protagoniste di questo libro. Edith Eger ci insegna che, anche nei momenti più oscuri, possiamo trovare il cammino verso la luce. E, in un mondo che spesso sembra incatenato dalle sue difficoltà, La ballerina di Auschwitz è un promemoria che ci ricorda che, nonostante tutto, possiamo sempre scegliere di vivere.

Mononoke – Il film: lo spirito nella pioggia. Un Viaggio Oscuro tra Spiriti e Sofferenze

Se siete appassionati di storie che sfidano le convenzioni, dove il soprannaturale si mescola con il dramma umano e si spinge a esplorare gli angoli più oscuri dell’animo, “Mononoke – Il film: lo spirito nella pioggia” è un’esperienza che non potete lasciarvi scappare. Diretto da Kenji Nakamura, già regista della serie cult Mononoke del 2007, questo primo capitolo di una trilogia spin-off non solo continua l’universo narrativo che ha conquistato milioni di spettatori, ma lo amplifica in un turbinio di visioni psichedeliche, tormenti interiori e una riflessione profonda sui lati più oscuri dell’essere umano.

La trama ci catapulta nel Giappone del XIX secolo, in un mondo intricato dove le apparenze ingannano e le verità rimangono nascoste dietro strati di dolore e vendetta. Asa e Kame, due giovani servitrici, si ritrovano al loro primo giorno di lavoro presso l’Ōoku, un palazzo di piacere lussuoso che ospita l’harem del potente Lord Tenshi. In questo spazio proibito agli uomini, le due ragazze si legano subito, ma ben presto si rendono conto che dietro il splendore del palazzo si nascondono giochi di potere, rivalità spietate e una minaccia che va oltre il mondo dei vivi. La comparsa di Kusuriuri, un enigmatico venditore ambulante di pozioni, introduce un elemento soprannaturale che scuote le fondamenta stesse del palazzo. Con il suo volto tatuato e il suo misterioso passato, Kusuriuri è un esorcista di mononoke: spiriti malvagi generati dalle emozioni negative degli esseri umani. Il suo compito è scoprire la verità e distruggere questi esseri, ma ogni passo che compie lo conduce in un abisso di rivelazioni disturbanti.

Ciò che rende Mononoke – Il film: lo spirito nella pioggia un’opera così affascinante non è solo la sua trama, ma la potenza con cui esplora temi complessi e dolorosi, immergendosi senza paura in argomenti scottanti come l’aborto forzato, l’incesto, la violenza domestica e la discriminazione di genere. Ogni mononoke rappresenta una materializzazione fisica dei tormenti interiori che l’essere umano non è riuscito a superare, un’ombra oscura delle cicatrici lasciate dalle esperienze più traumatiche. E Kusuriuri, unico capace di percepire e affrontare queste entità, si trova di fronte a un cammino doloroso alla ricerca della verità, che si rivela essere tanto terribile quanto liberatoria.

Dal punto di vista estetico, il film è un tripudio di immagini evocative che attingono all’arte tradizionale giapponese, ma con un’intensità visiva che non lascia spazio alla neutralità. Le atmosfere psichedeliche e surreali che avevano caratterizzato la serie tornano con maggiore vigore, spingendo ogni elemento grafico e stilistico oltre i confini dell’immaginazione. I colori, pur rimanendo fedeli alle radici della pittura giapponese, sono saturi, vividi e allucinanti, creando uno spettacolo visivo che cattura e disorienta lo spettatore in ogni fotogramma.

Ogni scena è curata nei minimi dettagli, con un design ambientale che richiama l’arte di maestri come Hokusai, ma con una lettura moderna e inquietante. La contrapposizione tra luci e ombre, tra momenti di pura oscurità e sequenze di apparente luminosità, amplifica il senso di smarrimento che permea tutta la narrazione. Il film gioca con angolazioni e proporzioni che richiamano la messa in scena kabuki, rendendo ogni movimento e ogni espressione facciale un’indicazione precisa dello stato emotivo dei personaggi. Nonostante l’uso di CGI, che mai disturba l’atmosfera organica del film, la regia di Nakamura trova un perfetto equilibrio tra fluidità cinematografica e la staticità evocativa tipica di un dipinto vivente.

Un altro aspetto fondamentale del film è l’uso del simbolismo visivo. Il concetto di “seccarsi” o “asciugarsi” diventa una metafora potente nella storia di Kitagawa, in cui la trasformazione da donna di prestigio a mononoke è rappresentata in un turbinio di immagini simboliche che evocano il dolore, la solitudine e la perdita. Queste sequenze psichedeliche non solo sfidano la percezione visiva dello spettatore, ma lo immergono in un’esperienza sensoriale che non permette distrazioni.

Dal punto di vista musicale, “Mononoke – Il film: lo spirito nella pioggia ” vanta una colonna sonora che gioca un ruolo cruciale nel creare l’atmosfera unica del film. Composta da Taku Iwasaki, la musica è presente in ogni momento, ma mai invasiva. Cresce in intensità insieme alla narrazione, accompagnando le immagini con la stessa forza evocativa che caratterizza la regia e l’animazione. La sinergia tra suono, visione e atmosfera inquietante è impeccabile, e ogni scena si svela come un’esperienza sensoriale completa.

Non aspettatevi un film facile o immediato. Mononoke – Il film: lo spirito nella pioggia è un’opera complessa, che invita a riflettere sulla natura dell’animo umano e sulle ombre che tutti portiamo dentro. È una storia che non ha paura di affrontare temi scomodi e che, pur mantenendo il legame con l’anime originale, si spinge oltre, proponendo nuove e inaspettate sfaccettature del suo universo. È un’opera che lascia il segno, spingendo lo spettatore a interrogarsi e a cercare risposte in un mondo che sembra sfuggire a ogni convenzione.

Disponibile su Netflix dal 27 settembre 2024, Mononoke – Il film: lo spirito nella pioggia è un’occasione imperdibile per chi desidera tuffarsi in un mondo affascinante e inquietante, ma anche per chi già conosce l’universo di Mononoke e vuole esplorarne le nuove dimensioni. La trilogia promette ulteriori sorprese, e questo capitolo iniziale è solo l’inizio di un viaggio che non mancherà di affascinare e sconvolgere chi avrà il coraggio di affrontarlo.

 

“Qui non è Hollywood”. La Miniserie che racconta il dramma di Avetrana

Il 30 ottobre 2024 segna un momento significativo per l’audiovisivo italiano: il debutto su Disney+ della miniserie “Qui non è Hollywood”. Questo progetto non è solo un racconto drammatico, ma affronta con grande sensibilità e coraggio uno dei capitoli più oscuri della cronaca nera italiana: l’omicidio di Sarah Scazzi, un caso che nel 2010 ha scosso le fondamenta della società.

Originariamente intitolata “Avetrana – Qui non è Hollywood”, la serie ha dovuto affrontare un percorso tortuoso costellato di polemiche. Il Comune di Avetrana, città natale di Sarah, ha espresso preoccupazioni per l’immagine della comunità, portando a un ricorso legale che ha bloccato la trasmissione. In risposta a queste controversie, Disney e Groenlandia hanno deciso di cambiare il titolo in “Qui non è Hollywood”, un gesto che riflette il rispetto necessario nel trattare un tema così complesso e doloroso.

Diretta da Pippo Mezzapesa, la miniserie si compone di quattro episodi che si distaccano dal sensazionalismo spesso presente nel genere true crime. Con un cast stellare che include nomi come Vanessa Scalera e Paolo De Vita, “Qui non è Hollywood” si propone di offrire un affresco sociale del contesto in cui è avvenuto l’omicidio, mettendo in risalto la vita di Sarah e le ripercussioni devastanti del suo tragico destino.

Il titolo stesso invita a riflettere: “Qui non è Hollywood” è un richiamo alla realtà, ben lontana dal glamour e dalla spettacolarità del cinema. La storia di Sarah è una miscela di dolore e ambiguità, che affligge un’intera comunità in subbuglio.

La visione di Mezzapesa ha sollevato dibattiti sin dall’annuncio del progetto, ma il regista ha mantenuto una direzione chiara e potente. Con uno stile caratterizzato da una narrazione cruda e rispettosa, Mezzapesa immerge lo spettatore nei microcosmi umani che circondano la tragedia, esplorando le vite e le dinamiche familiari dei protagonisti. Non si limita a ricostruire i fatti, ma presenta un ritratto complesso delle conseguenze, dedicando a ciascuno dei personaggi un episodio per permettere al pubblico di entrare nel loro mondo e comprendere la loro umanità.

Uno degli aspetti più toccanti della serie è la scelta di dare voce a Sarah, non solo come vittima, ma come persona. Questo approccio consente di esplorare la sua vita, i suoi sogni e aspirazioni, creando un legame emotivo profondo con gli spettatori. La rappresentazione di Sarah è autentica, riflettendo le fragilità di una quindicenne in cerca di appartenenza.

Mezzapesa sfida anche la percezione del dolore nella società contemporanea, interrogandosi sul voyeurismo e sulla spettacolarizzazione della tragedia. “Qui non è Hollywood” non si limita a narrare una storia, ma cerca di restituire dignità a una vicenda spesso ridotta a intrattenimento. Attraverso inquadrature incisive e un montaggio frenetico, il regista offre uno sguardo crudo ma rispettoso sulla vita di chi vive un trauma collettivo, invitando gli spettatori a confrontarsi con la complessità della realtà.

In un’epoca in cui il true crime è in forte ascesa, “Qui non è Hollywood” si distingue per la sua introspezione e per la volontà di restituire alla vittima la sua umanità. La miniserie invita a riflettere su come la società affronta il dolore e la tragedia, sottolineando l’importanza di raccontare storie con rispetto e dignità.

Il vero messaggio di Pippo Mezzapesa è chiaro: riportare al centro della narrazione la voce delle vittime, creando uno spazio di ascolto e comprensione in un mondo che spesso dimentica la complessità di ogni vita umana. Non perdete questa potente miniserie, un’opera che va oltre il crimine e abbraccia la fragilità e la resilienza dell’esperienza umana.

Josephine: Un Thriller Psicologico con Channing Tatum e Gemma Chan sulla Paura e la Paranoia

Nel panorama cinematografico statunitense, una nuova voce sta emergendo con forza: quella di Beth de Araújo, regista talentuosa che, dopo il successo del suo lungometraggio di debutto Soft & Quiet, sta lavorando al suo prossimo progetto, un thriller psicologico dal titolo Josephine. Questo film drammatico e inquietante promette di essere un’esperienza cinematografica intensa e coinvolgente, e la sua trama si preannuncia come un’esplorazione profonda della paura, della paranoia e della lotta per il controllo della propria sicurezza.

La trama di Josephine segue la vicenda di una bambina di otto anni, interpretata da Mason Reeves, che è testimone di un brutale attacco nel celebre Golden Gate Park di San Francisco. Questo evento traumatico segna un punto di rottura nella vita della giovane protagonista, che inizia a soffrire di una crescente ansia e paranoia. Il suo mondo interiore si scompone e, nel tentativo di riprendere il controllo, Josephine diventa sempre più violenta. Accanto a lei, il padre Damien (interpretato da Channing Tatum) e la madre Claire (Gemma Chan), cercheranno di proteggerla e aiutarla a superare questo vortice di paura.

Il film vanta un cast di grande talento, con attori noti come Channing Tatum, che recentemente ha preso parte a Magic Mike’s Last Dance e The Lost City, e Gemma Chan, vista di recente in The Creator e Afterparty. Insieme a loro, ci saranno Philip Ettinger e Syra McCarthy, entrambi con esperienze significative nel cinema indipendente e nei ruoli drammatici. La presenza di questi attori promette di aggiungere una dimensione emozionale profonda ai personaggi, rendendo la trama ancora più coinvolgente.

La regia di Josephine è affidata a Beth de Araújo, una regista che ha già dimostrato il suo talento con Soft & Quiet, un film che le ha fatto guadagnare riconoscimenti importanti come la candidatura al Gotham Bingham Ray Breakthrough Director Award. La sceneggiatura di Josephine è ispirata ad un’esperienza personale della stessa de Araújo, che, da bambina, ha vissuto un trauma simile. L’autrice ha raccontato di un episodio in cui, dopo un’aggressione avvenuta nel Golden Gate Park, è rimasta sola in macchina mentre suo padre si allontanava. Questo evento ha avuto un impatto profondo su di lei, spingendola a diventare ipervigile e a sviluppare ansie che l’hanno accompagnata negli anni successivi.

Le riprese del film sono iniziate nell’aprile del 2024, con San Francisco e il Golden Gate Park come location principali. Il film si preannuncia come un’analisi intensa dei temi della vulnerabilità, della paranoia e della crescita emotiva di una giovane protagonista, con un tono che mescola il thriller psicologico al dramma familiare. La produzione di Josephine è curata da Kaplan Morrison, una casa di produzione che sta cercando di portare il progetto al grande pubblico, con l’uscita prevista nel 2025.

Con Josephine, Beth de Araújo ci offre una storia che esplora la reazione di una giovane mente di fronte alla violenza e al trauma, mettendo in evidenza le difficoltà di ricostruire la sicurezza e la stabilità emotiva dopo un’esperienza devastante. In questo thriller psicologico, il tema della paura non è solo un’emozione da affrontare, ma un’esperienza che può cambiare radicalmente la vita e il comportamento di una persona. La trama, intrisa di tensione e mistero, promette di lasciare il pubblico con domande sulla natura della paura e su come essa influenzi le nostre azioni più intime e quotidiane. Josephine si preannuncia come uno dei film più attesi dei prossimi anni, grazie alla sua regia audace, al cast di talenti affermati e a una trama che indaga profondamente l’animo umano. Non resta che attendere con trepidazione l’uscita nel 2025 per scoprire come questo thriller psicologico si svilupperà e quale impatto avrà sui suoi spettatori.

La Casa delle Magnolie: Un Viaggio di Riscoperta e Rinascita di Flavia Biondi

C’è una cosa che i lettori di fumetti appassionati sanno bene: non tutte le storie si rivelano immediatamente come quelle che lasciano un segno profondo. A volte, infatti, ci vuole un po’ di pazienza per entrare nel cuore di una narrazione, per comprendere la sua anima e apprezzarne la bellezza nascosta sotto la superficie. La Casa delle Magnolie di Flavia Biondi è una di quelle opere che, inizialmente, sembra semplice e prevedibile, ma che si trasforma e si arricchisce pagina dopo pagina, rivelando una profondità straordinaria. Un graphic novel che inizia come una storia di rimpianti e solitudine, per diventare un racconto intenso e commovente sulla crescita, la rinascita e la riscoperta di sé stessi.

La trama ruota attorno a due protagoniste, Amelia e Ada, entrambe segnate da esperienze dolorose che le hanno portate a un punto di stallo nella loro vita. Amelia, un’assistente di volo che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in viaggio, è tornata nel suo paese natale con un compito difficile: vendere la casa di famiglia, un luogo che contiene ricordi intimi e dolorosi legati alla sua giovinezza e alla sua nonna, recentemente scomparsa. Ada, una giovane insegnante, arriva nel paese di Montalcino per iniziare una nuova avventura come supplente in una scuola locale, ma il suo passato turbolento e un traumatico incidente hanno lasciato cicatrici profonde nel suo cuore. Le due donne non potrebbero essere più diverse, ma le loro vite si intrecciano in modo inaspettato, portandole a un incontro che cambierà il loro destino.

Il fascino di La Casa delle Magnolie sta proprio in questa tensione tra differenze e somiglianze. Fin dal primo incontro, Amelia e Ada sono personaggi in cerca di qualcosa che sfugge loro, una sorta di equilibrio interiore che sembra sempre allontanarsi. La casa che Amelia ha ereditato diventa il simbolo di una solitudine che entrambe condividono: la solitudine di chi si è allontanato da casa, la solitudine di chi, nonostante sia circondato da persone, non riesce a sentirsi parte di un mondo che non capisce più. Eppure, è proprio in questa casa, che inizialmente appare come un luogo di dolore e rimpianto, che le due protagoniste cominceranno a scoprire qualcosa di nuovo: non solo il valore dei ricordi, ma anche la possibilità di ricominciare, di rifiorire.

Flavia Biondi è una fumettista che sa come raccontare le emozioni più intime con delicatezza e intensità. Con La Casa delle Magnolie, l’autrice ci regala una storia che, pur affrontando temi complessi come il rimpianto, il trauma e la paura del futuro, sa essere allo stesso tempo tenera e appassionante. La sua scrittura è sottilmente poetica, mai troppo esplicita, ma sempre capace di colpire al cuore. A questa scrittura si aggiunge il lavoro grafico, che è uno degli aspetti più affascinanti dell’opera. Biondi, infatti, non solo ha scritto e disegnato il volume, ma ha anche curato la colorazione in modo impeccabile. Le tonalità calde e avvolgenti che dominano le pagine dedicate a Amelia contrastano perfettamente con le tinte fredde che caratterizzano Ada, creando una separazione visiva che riflette la distanza emotiva tra le due donne. Questo contrasto cromatico non è solo un espediente estetico, ma diventa una metafora del loro percorso interiore: se Amelia rappresenta il desiderio di abbracciare il passato e il futuro, Ada è più incline a rimanere intrappolata nel suo dolore, lontana dalla possibilità di guarire.

La casa stessa, con la sua struttura che scricchiola e si riflette nei paesaggi circostanti, è un altro elemento che contribuisce a dare profondità al racconto. All’inizio, la casa sembra essere solo un simbolo di solitudine e di ricordi dolorosi, ma mano a mano che la storia si sviluppa, essa diventa un luogo di rifugio e di rinascita. La casa diventa la testimonianza di una vita che non è ancora finita, ma che sta cercando di reinventarsi. E proprio come la magnolia che circonda la casa – simbolo di purezza, fedeltà e rifioritura – anche le protagoniste, attraverso il loro incontro, avranno l’opportunità di riscoprire sé stesse, di guardare al futuro con occhi nuovi e di rimettere insieme i pezzi di una vita che sembrava frantumata.

Un altro aspetto che arricchisce la storia è il contesto in cui si svolge. Montalcino, il paesino toscano che fa da sfondo alla vicenda, non è solo un luogo fisico, ma diventa il riflesso di un mondo interiore. La campagna toscana, con le sue colline verdi, i suoi tramonti dorati e il profumo delle magnolie in fiore, è la cornice ideale per una storia che parla di introspezione e di cambiamento. I paesaggi descritti nelle tavole sono tanto reali quanto simbolici: la natura diventa un luogo di confronto, un posto dove le protagoniste possono entrare in contatto con le proprie emozioni più profonde, lontano dal caos della vita quotidiana.

Non è solo la bellezza della natura a colpire, però. Flavia Biondi riesce a catturare anche i piccoli dettagli che rendono unica la vita quotidiana: le schermate degli smartphone, gli oggetti sparsi nella casa, le piccole cose che definiscono l’esistenza di ciascuno di noi. In questo, la Biondi dimostra una maestria nel costruire un mondo che è al contempo concreto e ricco di simbolismi. Le lentiggini sui volti dei suoi personaggi, il modo in cui ogni angolo della casa è raccontato, sono segnali di un’attenzione ai particolari che rende la lettura ancora più coinvolgente.

Se La Casa delle Magnolie fosse solo un graphic novel che racconta una storia d’amore, sarebbe già di per sé una lettura interessante, ma l’opera di Flavia Biondi va ben oltre. In essa si parla di solitudine, di dolore, di crescita, di paura del futuro, ma anche di speranza, di rinascita e di amore. È una storia che, pur ambientata in un contesto specifico e raccontata con uno stile molto personale, riesce a parlare a chiunque si sia mai sentito smarrito, come se la vita non avesse più un senso. Il viaggio di Amelia e Ada diventa, in effetti, un viaggio universale, quello di chiunque stia cercando di ricostruire la propria vita, di trovare il proprio posto nel mondo.

La Casa delle Magnolie è un’opera che sa emozionare e che, grazie alla sua bellezza grafica e alla sua profondità emotiva, lascia un segno indelebile nel cuore di chi la legge. Non è solo una storia di un incontro casuale, ma un racconto di come, a volte, le persone che sembrano più diverse possano insegnarci più di quanto avremmo mai immaginato. E, proprio come le magnolie che sbocciano dopo l’inverno, anche Amelia e Ada, attraverso la loro amicizia, sono destinate a rifiorire. Se siete appassionati di fumetti che sanno emozionare, La Casa delle Magnolie è una lettura che non potete assolutamente perdere.

It di Stephen King: viaggio dentro l’incubo, tra mostri, amicizia e l’oscurità che abita nei ricordi

C’è un luogo, nascosto tra le pieghe dell’America immaginaria e archetipica di Stephen King, dove l’orrore prende forma tra tombini arrugginiti e ricordi sepolti: benvenuti a Derry, Maine, dove il male non solo esiste, ma si nutre delle paure più profonde, indossa il volto di un pagliaccio assassino e striscia silenziosamente sotto i nostri piedi. It, pubblicato nel 1986, non è semplicemente un romanzo horror. È un’opera-mondo, una saga ciclopica che scava nella psiche umana, esplora l’abisso dell’infanzia e ci mette davanti a un interrogativo spaventoso: cosa resta delle nostre paure quando cresciamo?

Stephen King, con la sua penna graffiante e visionaria, tesse un intreccio narrativo che alterna presente e passato, mischiando memoria e incubo, nostalgia e terrore. In quasi 1200 pagine, ci racconta la storia del Club dei Perdenti, sette ragazzi che nel 1958 affrontano una creatura millenaria che si risveglia ogni 27 anni per banchettare con i bambini. E che, diventati adulti, devono tornare a Derry per mantenere una promessa fatta col sangue.

Derry: la cittadina dove tutto marcisce

All’apparenza, Derry è il tipico paesino americano da cartolina: una Main Street vivace, la biblioteca pubblica, i gelatai sorridenti, i genitori premurosi. Ma sotto quella superficie si agita qualcosa di profondamente marcio. È come se la città stessa fosse complice del male che la infesta, come se It—la creatura mutaforma che assume spesso l’aspetto del clown Pennywise—avesse avvelenato non solo l’acqua o l’aria, ma anche l’indifferenza degli adulti, sempre ciechi davanti agli orrori che colpiscono i più piccoli. In questo contesto, l’orrore non è mai gratuito. È un’eco della società, delle sue ipocrisie, del razzismo strisciante, della violenza domestica, dell’omofobia, della solitudine. It si manifesta come mostro, ma anche come specchio di un mondo che non vuole vedere.

Pennywise: l’icona del male

Tra tutti i volti che It può assumere, quello di Pennywise il Clown Danzante è sicuramente il più disturbante e riconoscibile. Con il suo sorriso da ghigno e i palloncini rossi, è entrato di diritto nell’immaginario collettivo dell’horror. Ma Pennywise è molto di più di un clown assassino: è la materializzazione delle paure. Perché It cambia forma in base alle fobie delle sue vittime: diventa una mummia, un lebbroso, un ragno gigante, un licantropo, una strega.

King ha creato un mostro che non ha un volto preciso, ma che sa indossare qualunque maschera. È Lovecraftiano nella sua essenza primordiale e aliena, ma anche profondamente radicato nel contesto sociale e psicologico dell’America del dopoguerra.

Il Club dei Perdenti: eroi imperfetti

Ma It non è solo la storia di un mostro. È soprattutto la storia di un’amicizia. Di quelle rare, che si formano nell’estate dell’adolescenza e restano incise nel cuore anche quando tutto il resto sbiadisce. Bill, Ben, Beverly, Richie, Eddie, Mike e Stan sono bambini feriti, marginali, ognuno con la propria battaglia personale. Bullismo, genitori violenti, malattie psicosomatiche, razzismo: ognuno di loro porta un dolore che li rende “perdenti”, ma proprio per questo trovano forza l’uno nell’altro.

La loro unione è ciò che permette loro di affrontare It, e più tardi, da adulti, di tornare a Derry. Ma il tempo cambia tutto: molti di loro hanno dimenticato ciò che è accaduto. La memoria, tema centrale del romanzo, è una forza in grado di curare e distruggere. Dimenticare può essere una salvezza, ma anche una condanna.

Due epoche, una sola battaglia

King struttura It come un doppio binario temporale: il passato (1958) e il presente (1985) si rincorrono, si specchiano, si influenzano a vicenda. Gli eventi della giovinezza ritornano con prepotenza, come un déjà-vu tragico. E il lettore è costretto, come i protagonisti, a rivivere ogni momento, ogni sconfitta, ogni perdita.

La narrazione è immersiva, a tratti labirintica, ma mai dispersiva. King sa dove vuole portarci: nelle fogne di Derry, dove si nasconde il cuore dell’oscurità. E ci conduce lì tenendoci per mano, ma senza proteggerci. It è un libro che fa male. Ma è anche un libro che guarisce. E nel farlo, lascia un segno indelebile.

L’infanzia perduta e il passaggio all’età adulta

Nonostante l’orrore, o forse proprio grazie ad esso, It è anche un potentissimo romanzo di formazione. Il passaggio dall’infanzia all’età adulta non è mai indolore, e King ce lo ricorda con crudezza e verità. C’è una scena molto controversa e dibattuta nel romanzo, in cui i ragazzi, dopo aver sconfitto temporaneamente It, cercano di sigillare il loro legame in modo estremo. Una scena simbolica e disturbante, che ha fatto molto discutere e che ancora oggi divide critici e lettori. Ma che rappresenta, a modo suo, il confine netto tra innocenza e consapevolezza.

Il tempo passa, le cicatrici restano. Eppure, come ci insegna King, anche di fronte all’orrore più assoluto, è possibile restare umani.

Da romanzo a fenomeno culturale

Pubblicato nel 1986, It ha consacrato King non solo come maestro del brivido, ma anche come cronista dell’anima americana. È entrato nella lista dei 100 migliori romanzi del XX secolo secondo Time e ha ispirato adattamenti che hanno spaventato (e affascinato) generazioni: dalla miniserie TV del 1990 con Tim Curry alla saga cinematografica moderna firmata da Andy Muschietti (It nel 2017 e It – Capitolo Due nel 2019), che ha riportato Pennywise sul grande schermo con un successo planetario.

Il romanzo ha influenzato anche videogiochi, fumetti e una miriade di opere derivate. È diventato un’icona geek e nerd, un riferimento costante per chi ama le atmosfere da “piccoli brividi” e le narrazioni che scavano nel subconscio.

Le radici oscure del mito

Come ogni grande storia dell’orrore, It affonda le radici in leggende metropolitane, fiabe dimenticate e simbolismi archetipici. L’idea del mostro sotto il letto, della fogna come luogo proibito e contaminato, del pagliaccio che ride per mascherare l’abisso. King prende tutto questo e lo riplasma con una voce potente e moderna. It non è solo un horror: è un’enciclopedia della paura, una Bibbia dell’incubo moderno, un’opera che ci ricorda che spesso il vero terrore non viene dai mostri, ma da ciò che non vogliamo vedere di noi stessi.

Un’eredità incancellabile

It è, oggi più che mai, un romanzo necessario. Perché ci parla di paura, ma anche di amicizia. Di orrore, ma anche di resistenza. Di perdite, ma anche di memoria. È un romanzo che ci costringe a scendere nelle fogne delle nostre emozioni, a guardare in faccia i nostri Pennywise personali, a stringere forte la mano dei nostri “Perdenti” interiori e dirgli: “Non sei solo”.E ora, cari lettori del CorriereNerd.it, tocca a voi: avete letto It? Vi ha segnato? Vi ha terrorizzato? O vi ha aiutato a guarire qualche cicatrice dell’anima? Raccontatecelo nei commenti e, se questo viaggio dentro il cuore oscuro di Derry vi è piaciuto, condividete l’articolo sui vostri social: magari proprio là fuori c’è un altro perdente che aspetta di sapere che non è solo.


La magia esiste. Ma anche i mostri. La differenza, forse, la fa chi scegliamo di essere.

#MeToo maschile: anche gli uomini rompono il silenzio

Nasce #MeTooGarçons: l’hashtag che invita gli uomini a condividere le loro esperienze di abusi e violenze sessuali.

L’attore Aurélien Wiik ha dato inizio al movimento in Francia, raccontando su Instagram di essere stato molestato da alcuni membri del suo entourage quando era minorenne.

Un problema diffuso: le statistiche parlano di un rapporto di 1 a 10 rispetto alle donne, ma il trauma e la difficoltà a farsi credere rimangono gli stessi.

Le aggressioni avvengono principalmente durante l’infanzia e l’adolescenza e, in oltre il 90% dei casi, il responsabile è un altro uomo.

Difficoltà a farsi credere e stigma sociale: gli uomini che denunciano sono spesso accusati di non essere stati “sufficientemente maschi”.

Sostegno dal femminismo: #MeTooGarçons è visto come un’occasione per mettere in discussione i luoghi comuni sulla virilità e per incoraggiare gli uomini a emanciparsi.

Un’occasione per cambiare il sistema: la presa di posizione maschile potrebbe contribuire a smantellare il patriarcato.

Un movimento in crescita: #MeTooGarçons sta guadagnando visibilità e potrebbe avere un impatto significativo sulla società.

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