Certe opere non invecchiano. Evolvono, mutano, si rispecchiano nei nostri occhi e continuano a parlarci anche dopo decenni. “Neon Genesis Evangelion” è una di queste. Il 4 ottobre 1995, alle 18:30, TV Tokyo trasmetteva il primo episodio di una serie destinata a cambiare per sempre la storia dell’animazione giapponese. Nessuno poteva immaginare che, dietro quel titolo enigmatico, si nascondesse un manifesto generazionale, un grido di dolore e rinascita che avrebbe definito l’anime moderno.Evangelion non era “solo” un nuovo mecha show. Era — e resta — un viaggio nell’inconscio collettivo, una battaglia tra il sé e il mondo, tra l’uomo e Dio, tra tecnologia e disperazione. Una Lancia di Longino scagliata nel cuore di chiunque pensasse che i robottoni fossero soltanto muscoli d’acciaio e pose eroiche.
Il mondo dopo l’Apocalisse
Anno 2015. Quindici anni dopo il Second Impact, la Terra è una ferita ancora aperta. Nella futuristica Neo Tokyo-3, una nuova generazione cresce nell’ombra di una tragedia planetaria. È qui che un ragazzo timido, Shinji Ikari, viene richiamato dal padre — un uomo che conosce più il freddo del potere che il calore dell’affetto — per pilotare un colosso biomeccanico chiamato Evangelion.Da quel momento, l’adolescente smarrito diventa il pilota destinato a confrontarsi con esseri noti come “Angeli”: creature misteriose, ambigue, forse divine, forse solo riflesse della nostra stessa follia. Evangelion è questo: un’epopea di battaglie titaniche e silenzi abissali, dove il nemico è tanto fuori quanto dentro di noi. Ogni episodio è un frammento di un mosaico sempre più oscuro, dove religione, filosofia e psicologia si intrecciano in un enigma senza soluzione definitiva.
Quando Hideaki Anno concepisce Evangelion, il Giappone è in piena crisi esistenziale. L’economia crolla, le certezze sociali vacillano, e una generazione di giovani otaku vive sospesa tra alienazione e isolamento. Anno stesso è reduce da una depressione profonda. Evangelion nasce da lì: dal dolore di un uomo che decide di mettersi a nudo.
“Tutti i personaggi di Evangelion sono me”, confesserà anni dopo. E in effetti, Shinji, Asuka, Rei e perfino Gendo sono sfaccettature della stessa psiche: l’insicurezza, la rabbia, la paura di essere rifiutati, il desiderio disperato di essere accettati.
Anno prende il linguaggio dei robot e lo trasforma in seduta di analisi. Gli Eva non sono armi: sono corpi viventi che fondono la carne con l’anima. Sono le estensioni dei traumi dei loro piloti. Ogni sincronizzazione è una confessione. Ogni battaglia, un tentativo di guarigione.
Psicologia, religione e apocalisse
In un panorama dominato da eroi invincibili, Evangelion osa chiedere: cosa significa davvero essere umani?
L’opera intreccia la psicoanalisi junghiana con la simbologia cristiana e cabalistica. Ogni angelo, ogni croce, ogni cerchio di Sephiroth è una tessera di un puzzle mistico che riflette la mente dell’autore.
Gli ultimi episodi, spesso criticati per la loro astrattezza, rappresentano l’apice di questa fusione tra introspezione e sperimentazione audiovisiva. Mentre le battaglie si dissolvono, resta solo la coscienza: un viaggio onirico nel subconscio dei protagonisti, fino all’iconico “Congratulations” — un applauso liberatorio e inquietante allo stesso tempo.
Ma il pubblico non era pronto a una fine così. Nel 1997 arrivano i film “Death & Rebirth” e “The End of Evangelion”, che offrono una conclusione alternativa, più apocalittica e cinematografica. Il risultato è un’esperienza complessiva che fonde arte, filosofia e disperazione con una potenza che ancora oggi pochi titoli hanno eguagliato.
Dalla Gainax alla rivoluzione dell’industria
Prima di Evangelion, lo studio Gainax era già un nome cult tra i fan grazie a progetti come “Gunbuster” e “Nadia – Il mistero della pietra azzurra”. Ma con Eva, Anno e il suo team riscrivono le regole dell’animazione.
L’impatto industriale è devastante: nasce il modello del production committee, le serie si accorciano ma si intensificano, e gli autori iniziano a reclamare una libertà creativa totale. Senza Evangelion, probabilmente, non esisterebbero opere come “Serial Experiments Lain”, “Ergo Proxy”, “Attack on Titan” o “Made in Abyss”.
Gainax diventa un laboratorio di idee, un simbolo di come la cultura otaku possa diventare arte e critica sociale allo stesso tempo. Evangelion non è solo un anime: è una rivoluzione culturale che ha reso possibile parlare di nevrosi, solitudine e identità in un medium pensato fino ad allora per l’evasione.
Il simbolo di una generazione
Shinji Ikari non è un eroe. È un ragazzo che non vuole combattere, che teme il contatto umano, che si rifugia nell’obbedienza e nella fuga. Ma proprio per questo è diventato immortale. In lui, gli spettatori degli anni ’90 — e quelli di oggi — si riconoscono più che in qualsiasi super robot pilotato da coraggiosi comandanti.
Evangelion è il racconto di una generazione che ha paura di crescere ma non può smettere di cercare se stessa. È un’opera che non consola, non spiega, ma ti costringe a guardarti dentro.
Ogni rewatch è una nuova seduta. Ogni battaglia contro un Angelo diventa una metafora delle nostre ansie quotidiane. E ogni volta, quando lo schermo si riempie di sangue e luce, ci chiediamo: “Chi sono io, e perché sono qui?”.
Un’eredità eterna
A trent’anni dalla sua prima trasmissione, “Neon Genesis Evangelion” rimane un monumento all’arte dell’anime. Ha ridefinito l’estetica visiva, la narrazione e la profondità psicologica del medium.
È diventato un linguaggio, un codice culturale condiviso che riecheggia in decine di opere successive, dai manga ai videogiochi, fino alla tetralogia “Rebuild of Evangelion” che, tra il 2007 e il 2021, ha offerto una nuova visione del mito, chiudendo il cerchio con il perdono e la rinascita.
Evangelion è la dimostrazione che l’animazione può essere introspezione, filosofia, dolore e catarsi. È un viaggio nella mente umana travestito da epopea apocalittica.
E se, come diceva Misato Katsuragi, “la realtà è crudele”, Hideaki Anno ci ha insegnato che anche nel momento della fine, c’è sempre un nuovo inizio.
