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Red Sonja ritorna in gloria: la rinascita infuocata dell’icona fantasy che ha fatto sognare generazioni

Non so voi, ma quando ho visto per la prima volta l’immagine di Matilda Lutz trasformata in Red Sonja, ho sentito una scossa attraversarmi la schiena. È stato come un viaggio nel tempo, un ritorno a quell’adolescenza nerd fatta di fumetti dai colori esplosivi, guerriere leggendarie e armature tanto iconiche quanto improbabili, che ci facevano sognare mondi lontani e battaglie epiche. Red Sonja non è solo un nome, è un battito del cuore per chiunque ami il fantasy puro, quello ruvido, viscerale, pieno di spade, magia, vendetta e donne pronte a sfidare tutto e tutti. Dopo anni di rinvii, fallimenti, progetti evaporati e promesse non mantenute, finalmente possiamo dirlo a voce alta: Red Sonja sta per tornare al cinema.

La regia è affidata a M.J. Bassett, che molti di noi ricordano per Solomon Kane, un film che pur tra alti e bassi aveva saputo catturare l’anima dark e sporca del fantasy d’altri tempi. Accanto a lei c’è Tasha Huo, la penna dietro la serie di Tomb Raider su Netflix, e già qui si capisce che il progetto ha tutte le carte in regola per darci non solo azione e sangue, ma anche personaggi forti e memorabili. Al centro della scena, naturalmente, c’è Matilda Lutz, attrice che abbiamo ammirato in Revenge (dove era già un concentrato di rabbia e vendetta da brivido) e Rings, e che qui porta sullo schermo una Red Sonja magnetica, intensa, con uno sguardo che promette tempesta. Il leggendario bikini in cotta di maglia? C’è, ma rivisto in chiave più moderna, più adatta a un pubblico del 2025, senza tradire però quell’aura selvaggia che ha reso Sonja un’icona.

Il cast è di quelli che fanno brillare gli occhi ai fan: Wallis Day, che molti conoscono come Batwoman, interpreterà la crudele Dark Annisia, mentre Robert Sheehan, l’amato Klaus di The Umbrella Academy, vestirà i panni di Dragan. E non finisce qui, perché ci saranno anche Michael Bisping, Martyn Ford ed Eliza Matengu, pronti a popolare un mondo dove le battaglie non saranno solo corpo a corpo, ma anche psicologiche e morali.

La sinossi ufficiale fa già sognare: Red Sonja, catturata e incatenata, dovrà combattere per la sua sopravvivenza e guidare un esercito di reietti contro l’impero del tiranno Dragan e della sua spietata sposa Dark Annisia. Insomma, ci aspettano sangue, sudore, spade insanguinate e alleanze improbabili. E francamente, io non vedo l’ora di vedere tutto questo sul grande schermo.

Al Comic-Con di San Diego, dove il trailer è stato finalmente mostrato e subito dopo diffuso online, abbiamo avuto un primo assaggio del tono del film. Si apre su una scena brutale, un massacro, con Sonja che giura vendetta. La seguiamo mentre si fa strada tra orde di soldati in un’arena polverosa, col bikini metallico che scintilla alla luce fioca, fendendo carne e metallo con una furia primordiale. E sì, c’è perfino un momento comico legato all’armatura, quasi una strizzata d’occhio ironica ai fan, che non intacca però la serietà della storia. È questo mix di brutalità e autoironia a dare speranza sul fatto che il film saprà trovare il giusto equilibrio tra rispetto per il materiale originale e modernità.

Red Sonja nasce nel 1973 grazie a Roy Thomas e Barry Windsor-Smith per la Marvel Comics, ispirata ai racconti pulp di Robert E. Howard, il padre di Conan il Barbaro. Con i suoi capelli rossi come fiamme e un carattere indomito, Sonja è diventata subito un simbolo di forza femminile, libertà e ribellione. Non stupisce che nel 2011 sia stata inserita tra le “100 Sexiest Women in Comics” da Comics Buyer’s Guide: Sonja non è mai stata solo un corpo da ammirare, ma un personaggio carismatico e complesso, capace di lasciare il segno in ogni medium, dai fumetti ai giochi, ai romanzi, fino ovviamente al cinema.

La sua storia cinematografica, però, non è stata tutta rose e fiori. Il film del 1985 con Brigitte Nielsen è diventato un cult, sì, ma più per il suo fascino kitsch che per la qualità. Nel 2008 Robert Rodriguez aveva provato a rilanciare il personaggio con Rose McGowan, ma il progetto si arenò. Ancora nel 2018 si parlava di un film firmato Bryan Singer, poi sparito nel nulla, anche a causa del flop al botteghino del reboot di Conan del 2011. È solo nel 2021 che il progetto ha davvero preso forma, arrivando finalmente alla produzione e fissando l’uscita nelle sale per il 15 agosto, con arrivo sulle piattaforme digitali il 29 dello stesso mese.

Per noi fan, questo ritorno non è solo un nuovo film fantasy da guardare: è un’occasione per celebrare un personaggio che ha segnato l’immaginario collettivo, un modo per vedere come il cinema nerd di oggi sappia prendere le sue radici pulp e trasformarle in qualcosa di fresco e potente. Matilda Lutz sembra nata per incarnare questa nuova Sonja, e M.J. Bassett ha già dimostrato di avere la mano giusta per storie cupe e intense.

Quindi, care e cari nerd, prepariamoci: quest’estate ci aspetta una tempesta rovente, fatta di spade, magia e coraggio. Io sono già pronta a brandire la mia spada metaforica. E voi? Avete visto il trailer? Che impressione vi ha fatto? Correte a raccontarmelo nei commenti e, se vi va, condividete questo articolo sui vostri social: il regno di Red Sonja ha bisogno del supporto di tutti noi appassionati!

Superman ritorna: James Gunn riaccende la speranza nel nuovo DC Universe

Io sbaglio di continuo, è questo che mi rende umano! La speranza Lex è che tu un giorno lo capisca!”

A seguito della prima visione per la Stampa questa frase pensiamo possa essere presa come elemento maggiormente riassuntivo di Superman di James Gunn. Ma andiamo con ordine.

Dopo anni di incertezze, reboot confusi e universi narrativi che non riuscivano a trovare una vera direzione, l’attesa per il ritorno di Superman sul grande schermo è finita. Oggi, 9 luglio 2025, l’Uomo d’Acciaio è tornato a volare nei cieli cinematografici mondiali, aprendo ufficialmente le porte del nuovo DC Universe con il film “Superman”, diretto e sceneggiato da James Gunn, il visionario regista già dietro al successo della trilogia dei Guardiani della Galassia.

Ma attenzione: questo non è un semplice reboot. È il primo tassello di un mosaico narrativo ambiziosissimo, che porta il nome di “Chapter One: Gods and Monsters”, il primo capitolo della rinascita firmata DC Studios, ora guidati dallo stesso Gunn e da Peter Safran. L’obiettivo? Riscrivere da zero l’universo cinematografico DC, puntando su una narrazione coerente, emozionante e fortemente radicata nello spirito dei personaggi iconici della casa editrice.

Siamo sicuri di una cosa: “Chapter One: Gods and Monsters” dividerà il fandom tra coloro che non accettano versioni alternative a quella definita “preferita” e coloro consapevoli che nell’universo narrativo dell’uomo d’acciaio non si è nuovi a grandi rivisitazioni, come già accaduto nel 1985 con i fumetti della serie “Crisi sulle Terre infinite”. L’operazione di Gunn per dare il via ad una nuova epoca d’oro DC ha del grande potenziale.

Già il primo trailer ufficiale del nuovo Superman non aveva tardato a far parlare di sé. Tre minuti densi di emozioni, azione e suggestioni visive che ci mostrano un Clark Kent giovane, riflessivo, ma profondamente umano, animato da una compassione disarmante e da una fiducia incrollabile nella bontà dell’umanità. Non è il Superman arrogante o cinico che spesso abbiamo visto negli ultimi anni: è il simbolo della speranza, proprio come dovrebbe essere. E forse come non lo vedevamo dai tempi di Christopher Reeve.

Se da un lato infatti il film nelle sale riprende dal passato molteplici elementi tipici dei fumetti, dall’altro rompe con il passato cinematografico saltando completamente il classico incipit: la storia di Kal-El in fasce lanciato, dai propri genitori, in direzione della Terra a bordo di una navetta durante il collasso del suo pianeta natale Krypton è ormai nota al pubblico. Gunn ci ha salvati dal vedere qualcosa di già visto così che il film inizia nel bel mezzo dell’azione… con la prima sconfitta di Superman!

A vestire il mantello rosso sarà David Corenswet, già visto in Hollywood e nel prossimo Twisters. Il suo look e la sua presenza scenica richiamano in modo quasi commovente l’indimenticabile Reeve, restituendo al pubblico un Superman solare e possente, ma mai distaccato. Al suo fianco ci sarà Rachel Brosnahan nei panni di Lois Lane, la brillante giornalista del Daily Planet, carismatica e determinata. A far tremare Metropolis ci penserà invece un inedito Lex Luthor, interpretato da Nicholas Hoult: il suo villain, a detta di chi ha visto le prime proiezioni test, è sopra le righe e potenzialmente divisivo, ma sicuramente memorabile. Per chi non ha, fino ad oggi, avuto esperienza con il mondo fumettistico di Superman il personaggio di Lex infatti potrebbe non convincere completamente. Gunn infatti come già detto si è ispirato al mondo comics ed agli elementi più classici. Luthor è un genio, è strategico e analitico, odia e prova invidia per Superman. Nel suo piano diabolico crea tecnologie di guerra, mutazioni, portali dimensionali e un universo tasca sfruttando tutto ciò al contempo all’interno di una strategia basata sul diffondere dubbio e paura. È Lex Luthor a tutti gli effetti.

Siamo di fronte ad un prodotto onesto con il pubblico, il film è un cine-comic in piena regola e non aspira ad essere altro. Non confonde. Non mancano ovviamente allusioni a tutte le epoche storiche dello sviluppo del personaggio, anche televisive e cinematografiche: primo elemento degno di nota è la ripresa del tema musicale che ci fa sognare ancor oggi e sviluppato quasi 50 anni fa da John Williams; la ripresa di uno dei leit motiv di Luthor “Il cervello batte i muscoli”; la ormai nota presenza del cane Krypto, ideato nel 1955 e da alcuni trovato “fuori luogo”; Kara Zor-El, cugina di Kal-El e qui interpretata in un cameo da Milly Alcock (Rhaenyra Targaryen nella serie televisiva HBO House of the Dragon), è un personaggio conosciuto dal 1959.

La pellicola presenta inoltre un cast da capogiro: Nathan Fillion è il lanterna verde Guy Gardner, Isabela Merced interpreta Hawkgirl, Anthony Carrigan è Metamorpho, e Edi Gathegi da il volto ad un eccezionale Mister Terrific. Tra i tanti comprimari spiccano anche Skyler Gisondo, Sara Sampaio, María Gabriela de Faría, Wendell Pierce, Alan Tudyk, Pruitt Taylor Vince e Neva Howell.

L’estetica del film pesca a piene mani da alcune delle run più amate di Superman, in particolare dall’epica “All-Star Superman” di Grant Morrison e Frank Quitely, da cui eredita il tono lirico e la profonda introspezione del personaggio. Ma c’è anche un omaggio visivo evidente al “Kingdom Come” di Alex Ross, soprattutto nel nuovo simbolo del costume, che richiama quel senso di nobiltà e responsabilità che è alla base del mito di Kal-El nonché omaggiando l’albo di Waid e Ross con una scena apertamente ispirata alla copertina.

Il cuore della narrazione non è fatto solo di pugni e raggi laser. Al centro c’è il conflitto interiore di Superman, diviso tra la sua eredità kryptoniana e l’amore per la Terra. Si percepisce in Kal-El il peso della sua eredità ma anche il desiderio di vivere come un uomo normale, accanto a Lois. Il senso di dover essere qualcosa di più si scontra con le “conseguenze delle sue azioni” in chiave di una politica internazionale che trova nel suo intervento l’origine di squilibrio e danno, ma per altri resta un faro per l’umanità. Un dilemma eterno, che James Gunn promette di esplorare con sensibilità e profondità, offrendo finalmente una visione complessa e matura dell’eroe più iconico di tutti senza tralasciare un linguaggio moderno figlio dell’arrowverse: “Fa piacere che i metaumani non ti preoccupano, sono loro a dettare le regole ora.”

Le prime proiezioni test avevano acceso anche qualche campanello d’allarme. Se la trama ha convinto il pubblico generalista, gli effetti visivi sono ancora acerbi in alcune sequenze, in particolare quelle ambientate nella Fortezza della Solitudine che si riduce ad essere costituita da uno spazio molto limitato seppur polifunzionale, e il design del villain principale che è stato definito “comico” da alcuni spettatori. Ma la post-produzione ha fatto un buon lavoro e certi “effetti” sono probabilmente voluti per non confondere il pubblico. Le prime impressioni potrebbero quindi cambiare radicalmente durante la prima settimana di uscita.

Come se non bastassero le sfide artistiche e narrative, c’è anche una grana legale in corso. Mark Peary, nipote di Joe Shuster, co-creatore di Superman, ha avviato un’azione legale che potrebbe complicare la distribuzione del film in paesi come Regno Unito, Canada, Australia e Irlanda. Un ostacolo non da poco, che aggiunge ulteriore tensione a un progetto già carico di aspettative.

Eppure, nonostante tutto, c’è una sensazione nuova nell’aria. Una sensazione di rinascita, di ottimismo, di promessa. James Gunn sembra avere una visione chiara e rispettosa, e “Superman” potrebbe davvero essere la scintilla che riaccende l’amore del pubblico per l’universo DC, traghettandolo verso una nuova epoca d’oro. Difatti il discorso finale di Superman a Luthor sconfitto mette in luce tutte le possibili caratteristiche umane dell’uomo d’acciaio. Ricorda che seppur geneticamente è alieno “le sue scelte, le sue azioni, fanno di lui ciò che è!” e come da citazione iniziale, Superman fa errori di continuo, ci si deve confrontare, prendersene la responsabilità e rimediare come un uomo illuminato è giusto che faccia. E nonostante lui veda il marcio che c’è ha scelto di vivere nella speranza che ogni uomo possa comprendere e vedere le proprie potenzialità, persino Lex!

Il 9 luglio 2025 non sarà ricordata solo come la data di uscita di un nuovo film. Sarà, potenzialmente, il giorno in cui il mito di Superman tornerà a splendere come non mai, pronto a ispirare una nuova generazione di spettatori. Che ne pensate voi? Questa nuova incarnazione del figlio di Krypton vi ha già conquistati o restate ancora scettici? Parliamone nei commenti o condividete l’articolo con i vostri amici nerd sui social!

Il film è diretto e sceneggiato da James Gunn presentato da DC studios in collaborazione con DOMAIN ENTERTAINMENT e produzione TROLL COURT ENTERTAINMENT / THE SAFRAN COMPANY. La pellicola è distribuita da Warner Bros. Pictures.

Produttori esecutivi di “Superman” sono Nikolas Korda, Chantal Nong Vo e Lars Winther.

Dietro la macchina da presa, Gunn si è avvalso del lavoro di suoi collaboratori fidati, tra cui il direttore della fotografia Henry Braham, la scenografa Beth Mickle, la costumista Judianna Makovsky e il compositore John Murphy, oltre al compositore David Fleming (“The Last of Us”), ai montatori William Hoy (“The Batman”) e Craig Alpert (“Deadpool 2”, “Blue Beetle”). Superman è un personaggio DC ideato da Jerry Siegel e Joe Shuster.

MindsEye: il fallimento epico del “GTA killer” che ha fatto crollare un mito

C’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui il nome Leslie Benzies risuonava come un’eco di gloria nei cuori di tutti gli appassionati di videogiochi. Parliamo dell’uomo che ha messo la sua firma su pietre miliari come Grand Theft Auto e Red Dead Redemption, veri e propri capisaldi dell’intrattenimento digitale. Quando si è saputo che avrebbe diretto un nuovo progetto – MindsEye, un action-adventure ambientato in un mondo futuristico dominato da IA, impianti neurali e corporazioni spietate – le aspettative sono schizzate alle stelle. Alcuni lo hanno persino battezzato “il killer di GTA”. Peccato che quel titolo si sia rivelato, oggi, più un brutale e ironico epitaffio che un ambizioso proclama.

Uscito il 10 giugno 2025 per PlayStation 5, Xbox Series X/S e Windows, MindsEye è stato fin da subito un disastro annunciato. Le premesse c’erano tutte: un universo sci-fi intrigante, un protagonista tormentato, una metropoli decadente ispirata a Las Vegas chiamata Redrock, e un gameplay che prometteva di essere una miscela esplosiva tra cinematica e azione. Eppure, la realtà dei fatti è stata ben diversa. Il giorno del lancio, su Steam, il gioco ha raccolto appena 3.300 giocatori simultanei. Un numero imbarazzante per un titolo che si proponeva come la nuova frontiera del genere action-adventure. Le recensioni negative sono piovute come meteoriti, e la community lo ha letteralmente fatto a pezzi. E non è andata meglio su console, dove le performance tecniche traballanti hanno affondato ogni speranza di redenzione.

Ma facciamo un passo indietro. MindsEye era inizialmente concepito come una sorta di “esperimento pilota” all’interno del metaverso Everywhere, una piattaforma interattiva pensata da Build a Rocket Boy, lo studio fondato dallo stesso Benzies. La promessa era quella di offrire non solo un’esperienza di gioco narrativa profonda, ma anche strumenti per la creazione di contenuti user-generated tramite l’editor ARCADIA. Sulla carta, un’idea ambiziosa. Nella pratica, un labirinto confuso e farraginoso di feature poco intuitive, strumenti imprecisi e un mondo virtuale spaventosamente vuoto.

La trama ruota attorno a Jacob Diaz, ex militare afflitto da amnesia e flashback legati a una missione segreta finita male. Al centro del mistero, un impianto neurale chiamato proprio MindsEye, installato durante il suo servizio e responsabile della sua instabilità mentale. Jacob si ritrova nella polverosa metropoli di Redrock, dove viene assoldato dalla misteriosa corporazione Silva per occuparsi di una serie di robot impazziti. Nel mentre, cerca disperatamente risposte sul suo passato, sul progetto MindsEye e su uno scienziato scomparso di nome Hunter Morrison.

Sulla carta, tutto molto suggestivo. Ma la narrazione si perde in un marasma di cliché, personaggi dimenticabili e colpi di scena prevedibili. Il gameplay? Una copia slavata e senz’anima di GTA e Mafia: Definitive Edition, con sparatorie ripetitive, intelligenza artificiale assente, veicoli incastrati in algoritmi di traffico impazziti, e un sistema di missioni privo di mordente. La tanto decantata interattività si limita a una pseudo-open world che, in realtà, è una lunga serie di corridoi digitali mascherati da città futuristica.

Come se non bastasse, i problemi tecnici sono stati talmente gravi da far ricordare l’incubo di Cyberpunk 2077 al lancio. Crashing continuo, bug grafici, animazioni bloccate e interfaccia utente mal progettata hanno fatto infuriare i giocatori. PlayStation ha addirittura concesso rimborsi in massa, e il confronto con il caso CD Projekt RED del 2020 è diventato inevitabile.

Dietro le quinte, la situazione è ancora più drammatica. Poco prima del lancio, il Chief Legal Officer e il Chief Financial Officer di Build a Rocket Boy hanno lasciato l’azienda. Un campanello d’allarme che, col senno di poi, sembrava urlare “fuggite sciocchi!”. Dopo il flop, è iniziata una brutale ondata di licenziamenti, con circa 300 dipendenti a rischio. E mentre lo studio cercava di arginare l’emorragia con patch (la terza è prevista per fine giugno), le dichiarazioni di Leslie Benzies hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco.

In una surreale videoconferenza interna tenutasi il 2 luglio, l’ex presidente di Rockstar North ha attribuito la colpa del fallimento a presunti sabotatori interni ed esterni. Non ha ammesso errori di gestione, né scelte sbagliate in fase di sviluppo. Anzi, ha annunciato che MindsEye sarà rilanciato, lasciando tutti a bocca aperta. Il Co-CEO ha addirittura insinuato che recensioni negative sarebbero state “commissionate”. Una narrativa quasi complottista, che anziché placare gli animi, ha suscitato ulteriore indignazione.Ma il punto più triste di tutta questa storia è che MindsEye non è un brutto gioco perché ha fallito. Ha fallito perché è brutto. Perché rappresenta un manuale di cosa NON fare in un progetto AAA. Dalla scrittura alla direzione artistica, dal bilanciamento del gameplay alla gestione tecnica, MindsEye è un monumento all’ambizione mal riposta, alla mancanza di autocritica, e a un ego che ha creduto di poter replicare il successo di Rockstar senza il team, il tempo e la visione di Rockstar.

Eppure, in mezzo a questo disastro, c’è una lezione da imparare. Forse il fallimento di MindsEye potrà servire da monito per le nuove generazioni di sviluppatori: l’ambizione è una benedizione solo se accompagnata dall’umiltà, dalla capacità di ascoltare il proprio pubblico e dalla volontà di fare i conti con la realtà. Un gioco non vive solo di promesse, trailer spettacolari e nomi altisonanti. Vive dell’esperienza che offre al giocatore, della passione che trasmette, della cura nei dettagli.

E tu, hai provato MindsEye o hai deciso di tenerti alla larga? Cosa pensi delle dichiarazioni di Benzies e del futuro (improbabile?) rilancio? Parliamone nei commenti, e se ti è piaciuto l’articolo condividilo con la tua community di nerd incalliti. Magari servirà a evitare che qualcuno spenda altri 70 euro per un biglietto di sola andata verso la delusione.

One-Punch Man: il ritorno dell’eroe imbattibile – Crunchyroll annuncia la Stagione 3 in arrivo questo autunno

È ufficiale, ed è una notizia che farà esplodere di gioia ogni appassionato di anime: Crunchyroll ha acquisito i diritti per lo streaming della terza stagione di One-Punch Man, l’adattamento anime tratto dall’opera di ONE e Yusuke Murata serializzata su Tonarino Young Jump di SHUEISHA. Dopo anni di silenzio, meme, ipotesi, teorie e attese infinite, il supereroe più forte del mondo sta per tornare. E stavolta, pare proprio che i pugni non basteranno a risolvere tutto.

Il colosso dell’animazione Crunchyroll ha confermato che la terza stagione sarà disponibile in streaming questo autunno in Europa, Medio Oriente e Africa, portando con sé una ventata di hype che già serpeggia tra le community online. Dopo l’enorme successo delle prime due stagioni (uscite rispettivamente nel 2015 e nel 2019, ancora disponibili sulla piattaforma), il ritorno di One-Punch Man segna un momento cruciale per il franchise e per tutti i fan degli shonen che sanno mescolare azione, ironia e riflessione come pochi altri.

La minaccia si fa più seria: è tempo di Garou

Il trailer ufficiale – già disponibile e cliccatissimo – non lascia spazio ai dubbi: ci aspettano battaglie epiche, un comparto tecnico rinnovato e un focus narrativo che promette di portare la storia su livelli mai raggiunti prima. Stavolta l’azione si concentra su uno degli antagonisti più intriganti e complessi dell’intera serie: Garou, l’ex eroe diventato “mostro umano”, la nemesi perfetta in un mondo dove i confini tra bene e male sono più sfumati che mai.

Garou non è il classico villain da battere con un pugno. È tormentato, ideologicamente motivato, mosso da una visione del mondo alternativa. La sua evoluzione da semplice minaccia a catalizzatore di eventi cruciali porterà l’Associazione degli Eroi a fare i conti con i propri limiti, la propria etica e – perché no – le proprie debolezze. Dopo essere stato catturato dall’Associazione Esseri Misteriosi, Garou si risveglia nel loro covo con una nuova forza e una determinazione ancora più feroce. Il risultato? Una stagione che promette scontri titanici e tensione narrativa alle stelle.

Il ritorno di Saitama: il dilemma dell’onnipotente

Ma al centro di tutto c’è sempre lui, Saitama, l’uomo che può battere chiunque con un solo pugno. Un potere così smisurato da renderlo… annoiato. Perché quando nessuno può tenerti testa, ogni combattimento diventa routine. E allora One-Punch Man diventa qualcosa di più di un semplice anime d’azione: è una riflessione sull’identità, sul vuoto che può nascere da un potere assoluto, sulla solitudine dell’eroe invincibile.

In questa terza stagione, quel vuoto sembra destinato a riempirsi, o almeno a essere messo seriamente alla prova. L’Associazione degli Eroi è in ginocchio, i mostri sono più organizzati e potenti che mai, e la minaccia che incombe potrebbe essere sufficiente a risvegliare in Saitama quella scintilla di eccitazione perduta. La battaglia contro l’Associazione Esseri Misteriosi è più che uno scontro tra bene e male: è una corsa contro il tempo, un test di sopravvivenza e un’occasione per riscoprire la vera essenza dell’essere un eroe.

Vecchi volti, nuovi stili

La produzione della terza stagione è affidata nuovamente allo studio J.C.STAFF, e il team creativo vede il ritorno di nomi ben noti ai fan della serie. Tomohiro Suzuki è confermato alla series composition, mentre il design dei personaggi sarà curato da Chikashi Kubota, Ryōsuke Shirakawa e Shinjiro Kuroda. Alle musiche troviamo ancora Makoto Miyazaki, una garanzia di continuità stilistica e impatto sonoro, elemento fondamentale per esaltare le battaglie e i momenti più drammatici.

Il trailer mette in luce anche una qualità visiva in netto miglioramento rispetto alla seconda stagione, che era stata oggetto di critiche da parte di parte del fandom per animazioni meno fluide e regia meno incisiva rispetto all’esordio clamoroso targato Madhouse. Se le premesse verranno mantenute, One-Punch Man 3 potrebbe davvero rappresentare una rinascita per il franchise, portando sullo schermo una versione più matura, spettacolare e narrativamente ricca della saga.

Genos: la fiamma della determinazione

Accanto a Saitama ritroveremo anche il suo fedele allievo Genos, il cyborg dalla volontà incrollabile. Il suo viaggio personale, fatto di upgrade, sconfitte, ma anche crescita interiore, continua a essere una delle sottotrame più amate dai fan. Se Saitama è il simbolo del potere assoluto, Genos rappresenta invece la fatica, la dedizione, la determinazione nel voler superare i propri limiti. In questa nuova stagione, anche lui sarà chiamato a confrontarsi con le sue paure più profonde e con avversari in grado di metterlo davvero in difficoltà.

L’attesa è finita… o quasi

Sebbene una data precisa non sia ancora stata annunciata, l’autunno 2025 si prospetta come la finestra ufficiale per il debutto della terza stagione. Una stagione che si preannuncia carica di colpi di scena, introspezione, battaglie leggendarie e momenti da brividi, capaci di far innamorare ancora una volta sia i veterani del fandom che i nuovi spettatori che si avvicinano per la prima volta a questo universo.

Nel frattempo, se non l’avete ancora fatto, potete prepararvi recuperando le prime due stagioni su Crunchyroll, riscoprendo le origini di Saitama, l’ascesa di Genos, la nascita dell’Associazione degli Eroi e l’inarrestabile avanzata del caos portato da Garou e dai suoi alleati.

Il mondo ha bisogno di un eroe. Ma lui ha bisogno di qualcosa di più.

Cosa succede quando nessuno è più alla tua altezza? Quando la sfida non è battere un nemico, ma sentire di essere vivo? La terza stagione di One-Punch Man si appresta a rispondere a queste domande con la sua solita combinazione di umorismo dissacrante, filosofia spicciola ma intensa e sequenze action da far tremare lo schermo.

Il ritorno di Saitama è vicino, e stavolta l’universo potrebbe davvero tremare. Allacciate le cinture, aggiornate il calendario e preparate il vostro spirito da otaku: One-Punch Man 3 sta arrivando su Crunchyroll, e sarà un’esperienza che non dimenticheremo tanto facilmente.

E tu? Sei pronto a tornare nel mondo di Saitama e a far parte della battaglia definitiva? Commenta, condividi l’articolo e raccontaci qual è stato il tuo momento preferito delle stagioni precedenti: lo leggeremo con entusiasmo sui nostri social!

Hellboy: L’Uomo Deforme – Il ritorno oscuro e maledetto del demone rosso

Il mondo del cinema horror-fantasy si tinge nuovamente di rosso fuoco. No, non stiamo parlando di un nuovo incubo demoniaco di Guillermo del Toro, ma di “Hellboy: L’Uomo Deforme” (Hellboy: The Crooked Man), il secondo reboot cinematografico del celebre antieroe creato da Mike Mignola. Una pellicola che, finalmente, sembra voler rendere giustizia all’anima più oscura e gotica del fumetto originale. E la notizia bomba? In Italia arriverà al cinema il 6 agosto 2025, distribuito da Eagle Pictures. Un evento nerd che sa di rito magico, sangue antico e vendetta infernale.

Dimenticatevi l’Hellboy caciarone e action degli anni 2000. Dimenticate anche il reboot confusionario del 2019 (sì, ci ricordiamo anche noi delle capre parlanti e del sangue a secchiate senza senso). Questo Hellboy interpretato da Jack Kesy è sporco, ferito, tormentato e… maledettamente fedele alla sua origine fumettistica. Il regista Brian Taylor, noto per aver diretto film fuori dagli schemi come Crank, qui cambia completamente registro: il tono è cupo, lento e opprimente, con uno stile che richiama l’horror folk à la The Witch o The Wicker Man. E la cosa ci piace parecchio. Il film è basato sulla graphic novel The Crooked Man – in Italia L’uomo deforme – una delle storie più amate dai fan di lunga data di Hellboy. Non a caso, Mike Mignola stesso ha firmato la sceneggiatura, cosa mai accaduta prima nei precedenti adattamenti. Già solo questo elemento basta a far tremare le mani dei lettori più hardcore.

Una discesa all’inferno negli Appalachi

La storia è ambientata nel 1959, periodo raramente esplorato nella mitologia cinematografica di Hellboy. Il nostro demone preferito è ancora agli inizi della sua carriera nel B.P.R.D. (Bureau for Paranormal Research and Defense) e viene inviato insieme all’agente novellina Adeline Rudolph in un villaggio isolato tra le montagne degli Appalachi, infestato da streghe, magia nera e spiriti dannati. Qui si troverà faccia a faccia con l’Uomo Deforme, una creatura demoniaca legata al folklore della zona, in grado di reclamare le anime per conto del Diavolo in persona. Il tono? Una favola gotica immersa nell’oscurità.

L’atmosfera è marcia, il male è palpabile, e ogni capanna scricchiolante sembra nascondere un patto col diavolo. Il film ci regala un Hellboy più giovane e vulnerabile, che lotta non solo contro mostri e maledizioni, ma anche con il peso della propria natura. È un viaggio iniziatico, un horror sovrannaturale che affonda le radici nel peccato originale americano.

Effetti pratici, niente CGI plastificata

In tempi in cui tutto sembra dipinto in post-produzione con effetti digitali e green screen, Brian Taylor fa una scelta coraggiosa e nostalgica: utilizza quasi esclusivamente effetti pratici. Creature realizzate con trucco prostetico, ambientazioni fisiche, sangue finto e fumo vero: tutto contribuisce a rendere il film tangibile, viscerale, inquietante. L’horror torna a far paura con elementi concreti, sporchi, reali.

Questa estetica old school si sposa alla perfezione con l’ambientazione anni ’50 e con l’intento di restituire a Hellboy la sua dimensione più intima e disturbante. Niente battutine da supereroe Marvel, niente CGI da videogame: qui si respira folklore, si ascoltano bisbigli nelle tenebre, si ha paura dell’ombra dietro la porta.

Un cast inaspettato ma promettente

A dare volto a questo nuovo Hellboy è Jack Kesy, attore forse poco noto al grande pubblico, ma che ha già mostrato grinta e fisicità in The Strain e Deadpool 2. La sua interpretazione promette di essere più sobria, più dolente, ma anche più fedele allo spirito malinconico del personaggio. Accanto a lui troviamo Jefferson White (che i fan di Yellowstone conoscono bene) e Adeline Rudolph, attrice già apprezzata in Le Terrificanti Avventure di Sabrina.

Il villain principale, l’Uomo Deforme, è interpretato da Martin Bassindale, e ci dicono che la sua performance sarà da incubo, con un trucco prostetico da antologia dell’horror.

Una distribuzione “maledetta”

Il film è già stato distribuito in edizione limitata negli Stati Uniti, ma non è mai arrivato nelle grandi sale americane. È stato invece rilasciato in formato digitale a partire dall’8 ottobre 2024, una scelta che ha fatto storcere il naso a molti fan desiderosi di godersi Hellboy sul grande schermo. In Italia, però, la situazione è diversa: grazie a Eagle Pictures, “Hellboy: L’Uomo Deforme” arriverà nelle sale il 6 agosto 2025, giusto in tempo per rinfrescarci l’anima con un bel po’ di incubi estivi. Un piccolo miracolo distribuitivo che va celebrato con corna al cielo e birra ghiacciata.

Hellboy: L’Uomo Deforme si presenta come il reboot che nessuno osava più sperare. Fedelissimo al fumetto, cupo, violento, atmosferico e ricco di fascino sovrannaturale, sembra finalmente restituire dignità a un personaggio troppo spesso frainteso dal cinema. Se siete fan di Mike Mignola, questo film potrebbe diventare la vostra nuova ossessione visiva. Se invece siete semplici curiosi in cerca di una storia maledetta e diversa dal solito blockbuster, preparatevi: l’inferno sta arrivando, e questa volta ha le sembianze di una leggenda appalachiana. E voi, siete pronti a tornare nelle tenebre con Hellboy? Avete letto la graphic novel originale? Vi piace questa nuova direzione horror folk o preferivate il tocco epico-fantasy di Del Toro? Fatecelo sapere nei commenti, condividete l’articolo sui social e unitevi alla discussione: l’Uomo Deforme vi aspetta nell’oscurità.

“I Fantastici 4: Gli Inizi” – La Prima Famiglia Marvel sta per riscrivere la storia del MCU (e del nostro immaginario nerd)

Manca soltanto un mese. Il conto alla rovescia è ufficialmente partito, e l’attesa è quasi elettrica: il prossimo 23 luglio, “I Fantastici 4: Gli Inizi” arriverà finalmente nelle sale italiane, pronto a ridefinire tutto ciò che pensavamo di sapere sull’universo Marvel. No, non si tratta di un semplice reboot. Non è nemmeno una rinfrescata nostalgica per accontentare i fan di lunga data. Quello che ci aspetta è un evento cinematografico che ha tutte le caratteristiche del mitologico game changer: un nuovo inizio, tanto per i personaggi quanto per l’intero Marvel Cinematic Universe. E fidatevi, questo è uno di quei momenti che i fan non dimenticheranno facilmente.

Il trailer finale e il nuovo poster, rilasciati in questi giorni, hanno acceso ulteriormente i riflettori sul progetto, mostrando un mondo vibrante, colorato e a tratti spiazzante, immerso in un’estetica retro-futuristica ispirata agli anni Sessanta. Una scelta visiva e stilistica che già promette di differenziare questo film da tutto ciò che abbiamo visto finora nel MCU. Sullo sfondo di una metropoli che sembra uscita da una copertina vintage di “Amazing Stories”, si muove la nuova versione della Prima Famiglia Marvel: Reed Richards/Mister Fantastic (Pedro Pascal), Sue Storm/Donna Invisibile (Vanessa Kirby), Ben Grimm/La Cosa (Ebon Moss-Bachrach) e Johnny Storm/Torcia Umana (Joseph Quinn), affiancati dal robot H.E.R.B.I.E., dalla maestosa Silver Surfer (interpretata da una magnetica Julia Garner) e dalla minaccia più inquietante dell’intero cosmo: Galactus, il Divoratore di Mondi, con la voce possente di Ralph Ineson.

Ma andiamo con ordine.

Un universo a parte, tra passato e futuro

La prima cosa che colpisce di “I Fantastici 4: Gli Inizi” è l’ambientazione. Non siamo nel classico MCU. O meglio, lo siamo… ma in un angolo mai esplorato prima. Il regista Matt Shakman, già amatissimo per WandaVision, ci catapulta in una realtà alternativa dove il sogno scientifico degli anni ’60 non si è mai interrotto. Un mondo in cui la corsa allo spazio non ha portato l’uomo sulla Luna, ma oltre le stelle, e dove la scienza è ancora sinonimo di meraviglia e scoperta. Una sorta di “Terra parallela” che si rifà all’immaginario della Silver Age, ma lo reinventa con uno sguardo contemporaneo. Gli Avengers? Non pervenuti. Iron Man, Doctor Strange e compagnia bella restano fuori da questo gioco narrativo. E paradossalmente, proprio questa scelta permette al film di respirare, di prendersi il suo spazio (in tutti i sensi), di raccontare qualcosa di autentico e nuovo.

Quattro volti per una leggenda

Il cuore pulsante del film è ovviamente il suo quartetto protagonista. Pedro Pascal, con la sua solita miscela di carisma e profondità, interpreta un Reed Richards che oscilla tra genio illuminato e padre premuroso, mentre Vanessa Kirby dà corpo e anima a una Sue Storm intensa, forte, ma anche incredibilmente umana: il suo personaggio è incinta, e questa rivelazione non è solo un colpo di scena, ma un motore emotivo che dà nuova linfa al conflitto centrale. Johnny Storm, interpretato con grinta e leggerezza da Joseph Quinn, è il fuoco (letteralmente) del gruppo: giovane, impetuoso, affascinante. E poi c’è Ben Grimm, la Cosa, portato in vita da Ebon Moss-Bachrach con una sensibilità che sorprende: sotto la roccia, c’è un cuore che pulsa forte.

La minaccia cosmica che diventa personale

Se tutto questo non fosse già sufficiente a mandare in delirio i fan, nel mix entrano anche due presenze leggendarie dell’universo Marvel: Silver Surfer e Galactus. Ma attenzione, anche qui niente è come ce lo aspettiamo. Julia Garner interpreta una versione alternativa del surfista cosmico, chiaramente ispirata alla Shalla-Bal dei fumetti, conferendole una maestosità quasi mitologica. La sua figura è enigmatica, eterea, e sembra portare sulle spalle il peso di galassie intere. Galactus, d’altro canto, appare come una forza primordiale, più simile a un cataclisma che a un villain tradizionale. Ma ciò che rende tutto questo davvero interessante è il fatto che il conflitto cosmico si intreccia con questioni personali, intime, umane. Non si tratta solo di salvare il mondo: si tratta di salvare ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

Una bellezza visiva fuori dal tempo

Lo stile visivo del film è qualcosa di realmente unico. Tra razzi art déco, pannelli di controllo analogici e costumi che sembrano usciti da un sogno pulp di metà Novecento, “I Fantastici 4: Gli Inizi” è un trionfo di estetica retrò che riesce a sembrare paradossalmente futuristica. L’influenza di Syd Mead, leggendario concept artist di “Blade Runner”, si respira ovunque. E la colonna sonora firmata da Michael Giacchino aggiunge un’ulteriore dimensione emotiva: tra sinfonie epiche e tocchi malinconici, la musica accompagna la narrazione come una seconda voce narrante.

Un cast corale e una narrazione stratificata

Oltre al quartetto principale, il film può contare su una squadra di comprimari d’eccezione: Paul Walter Hauser, Natasha Lyonne, Sarah Niles e perfino John Malkovich (sì, avete letto bene). Ogni personaggio è inserito con cura in una trama costruita per essere al contempo ricca di significato e piena d’azione. La sceneggiatura, frutto del lavoro collettivo di un team di autori esperti, bilancia alla perfezione profondità tematica e intrattenimento pop, facendo sì che ogni spettatore possa trovarci qualcosa: i riferimenti per i nerd hardcore, l’emozione per i cuori più sensibili, l’epicità per chi vuole solo sognare a occhi aperti.

Una celebrazione dell’immaginario nerd

È interessante notare come la promozione del film abbia già abbracciato lo spirito geek con eventi fuori dagli schemi, come l’anteprima del teaser allo Space Camp® di Huntsville, in Alabama. Una scelta che va ben oltre il marketing: è un modo per dire al pubblico che questo film è anche una lettera d’amore alla cultura nerd, alla fantascienza, alla meraviglia infantile di guardare le stelle e immaginare mondi impossibili. È come se Marvel volesse ricordarci che sì, possiamo essere adulti, cinici e pieni di impegni… ma dentro di noi c’è ancora quel bambino con gli occhi sgranati davanti a un modellino di razzo.

Il futuro è scritto nelle stelle

“I Fantastici 4: Gli Inizi” è pensato come un film autoconclusivo, ma chi conosce un minimo le dinamiche del MCU sa bene che questo è solo l’inizio. Le voci parlano già di un loro coinvolgimento in “Avengers: Doomsday” e nei progetti cardine della Fase 6. Tuttavia, anche se ci aspettano nuove epopee, questo film sembra volerci dire: “Goditi il presente. Goditi l’inizio. Perché ogni leggenda comincia da qui”.

E allora segnatevi quella data sul calendario: 23 luglio 2025. Un giorno che, per noi nerd, potrebbe diventare una piccola festa. Il giorno in cui i Fantastici 4 non solo torneranno al cinema, ma lo faranno come mai prima d’ora: epici, emozionanti, umani.

E ora tocca a voi: cosa ne pensate del nuovo look dei Fantastici Quattro? Chi vi incuriosisce di più tra Galactus, la nuova Silver Surfer o l’adorabile H.E.R.B.I.E.? Condividete l’articolo, fatelo girare tra i vostri gruppi nerd e fateci sapere nei commenti se anche voi siete pronti a salire su questa navetta verso l’infinito (e oltre!).

The Sandman 2: l’epico finale del sogno di Neil Gaiman arriva su Netflix

Tutte le storie, anche le più magiche, prima o poi devono trovare la loro conclusione. E così, anche The Sandman, la serie Netflix ispirata al leggendario fumetto di Neil Gaiman, si avvia al suo gran finale. Ma non temete, cari sognatori: prima che cali il sipario, ci attende un’ultima stagione che promette meraviglia, caos e una raffica di colpi di scena degni degli Eterni. Netflix ha finalmente pubblicato il trailer ufficiale e ha rivelato le date: The Sandman tornerà con Volume 1 il 3 luglio 2025, seguito dal Volume 2 il 24 luglio, e un episodio bonus il 31 luglio, tutti disponibili in esclusiva sulla piattaforma.

Il protagonista, ovviamente, sarà ancora una volta Tom Sturridge nei panni di Morfeo, mentre la regia è affidata a Jamie Childs, già noto ai fan per il suo stile visionario e perfettamente in sintonia con l’estetica onirica della serie. Ma, attenzione: questa sarà l’ultima stagione. Un addio annunciato, sì, ma anche doloroso per tutti coloro che hanno seguito le avventure del Signore dei Sogni sin dalla prima apparizione nel 2022.

La trama si preannuncia densa e tormentata: Dream sarà costretto ad affrontare una serie di scelte impossibili per salvare sé stesso, il Regno del Sogno e persino il mondo della veglia dalle conseguenze delle sue antiche colpe. Per ottenere redenzione, dovrà confrontarsi con volti noti e nuove minacce – tra dei, mostri, umani e membri della sua stessa famiglia eterna. Il cammino verso il perdono non sarà mai stato così pericoloso… né così affascinante.

Il cast si arricchisce ulteriormente in questa stagione conclusiva. Accanto a Sturridge ritroveremo Kirby Howell-Baptiste, Mason Alexander Park, Donna Preston, Esmé Creed-Miles, Adrian Lester, Barry Sloane, Patton Oswalt, Vivienne Acheampong, Gwendoline Christie e Steve Coogan. Ma le vere sorprese arrivano con i nuovi volti mitologici: Freddie Fox sarà Loki, Clive Russell interpreterà Odino e Laurence O’Fuarain vestirà i panni di un impetuoso Thor. Una triade divina che spalancherà le porte a conflitti cosmici e battaglie memorabili.

Chi conosce i fumetti di Gaiman avrà già intuito che ci stiamo addentrando nel cuore di Season of Mists, uno degli archi narrativi più amati. La serie ci porterà nel bel mezzo di un banchetto tra Eterni, fate, angeli, demoni e divinità nordiche, dove Morfeo dovrà decidere chi guiderà l’Inferno. Un dilemma etico, politico e spirituale che metterà a dura prova la sua già precaria serenità. E se l’arrivo di Orfeo – il figlio di Morfeo e Calliope – non bastasse a complicare le cose, ci penseranno Delirio e Distruzione, due dei fratelli più enigmatici degli Eterni, ad aggiungere benzina sul fuoco. Le tensioni familiari non sono mai state così esplosive.

Ma non è solo il pantheon fantastico a fare da motore a The Sandman: è la riflessione continua su ciò che ci rende umani. Morfeo, con la sua natura divisa tra dovere e desiderio, continua a essere il simbolo perfetto di questa lotta interiore. La seconda stagione approfondirà i temi dell’identità, del sacrificio e del potere del perdono, mentre il protagonista si ritroverà costretto a confrontarsi con i propri limiti e con l’eredità delle sue scelte.

Dietro le quinte, troviamo ancora una volta lo showrunner Allan Heinberg, affiancato dai produttori esecutivi David S. Goyer e dallo stesso Neil Gaiman. Quest’ultimo, nonostante le recenti controversie personali, ha confermato che la decisione di concludere la serie non è legata ad alcuna vicenda esterna, ma rappresenta piuttosto il compimento naturale dell’arco narrativo immaginato fin dall’inizio. La seconda stagione, infatti, copre il materiale restante dei fumetti, portando a termine la visione originale dell’autore britannico.

E ora, con l’uscita imminente, il countdown è partito: l’attesa è carica di aspettative. I fan si chiedono se la serie sarà in grado di mantenere il livello qualitativo della prima stagione e, soprattutto, se riuscirà a dare una conclusione degna a uno degli universi più affascinanti mai trasposti sullo schermo.

The Sandman ha dimostrato come anche le storie più complesse e dense di simbolismo possano trovare spazio nella cultura pop di oggi. Ha saputo conquistare spettatori vecchi e nuovi con il suo linguaggio poetico, le sue immagini evocative e il suo profondo messaggio sull’immaginazione, la memoria e il tempo. E adesso che siamo giunti al capitolo finale, ci resta solo da sognare un ultimo sogno, quello che chiuderà il cerchio e lascerà il segno nel cuore di chi ha seguito Morfeo nel suo lungo e tormentato viaggio.

E voi, siete pronti a dire addio a The Sandman? Avete teorie su come si concluderà la storia o speranze su quali personaggi torneranno in scena? Scriveteci nei commenti o condividete l’articolo sui vostri social per continuare a tenere vivo il regno del sogno, almeno un po’ più a lungo…

Lost in Random: The Eternal Die – Il ritorno oscuro e sorprendente del dado maledetto

Ci sono giochi che arrivano quasi in sordina, ma che una volta lanciati, ti afferrano con forza per la maglietta da gamer e ti trascinano in un universo che sembra uscito dal taccuino di uno sceneggiatore gotico pazzoide. Uno di questi è stato Lost in Random, un piccolo gioiello dark-fantasy che aveva già conquistato il nostro cuore nerd con la sua estetica alla Tim Burton, i suoi personaggi fuori di testa e quel mix tra gioco di carte, dadi e narrativa fiabesca che sembrava un incantesimo lanciato da un Dungeon Master nostalgico di Coraline. E ora, contro ogni previsione e in un momento in cui il mercato videoludico naviga in acque più che agitate (tra licenziamenti a pioggia e una crisi d’identità collettiva), Lost in Random: The Eternal Die torna a far rotolare il dado… e questa volta lo fa con un ruggito.

Thunderful Games ci serve su un piatto d’argento l’annuncio che aspettavamo senza nemmeno saperlo: il mondo di Random è di nuovo tra noi. E non è solo una scusa per fare un sequel, no signori miei. The Eternal Die è un’esperienza radicalmente diversa, una mutazione genetica del suo predecessore che cambia forma, struttura e anche cuore, pur mantenendo intatto il suo spirito gotico e folle.

A cambiare è tutto, a partire dal genere. Dimenticate la classica avventura narrativa in terza persona. Qui si entra nel regno dei roguelite, in visuale isometrica, con dungeon generati proceduralmente e una curva di sfida che ti prende a sberle dal primo secondo. Ma attenzione: non si tratta solo di un “Hades alla Random”, anche se l’influenza del capolavoro Supergiant è palpabile. The Eternal Die ha un’identità tutta sua, che riesce ad emergere già nei primi minuti di gioco.

La protagonista di questa nuova odissea è Aleksandra, nientemeno che l’ex regina di Random. Ma non aspettatevi una sovrana algida e intoccabile. Intrappolata nel misterioso Dado Nero da un villain teatrale chiamato il Cantastorie (che sembra uscito da un freak show animato), Aleksandra deve affrontare un eterno ritorno ciclico fatto di sconfitte, risalite e nuove cadute. È in questo eterno déjà-vu che si dipana la sua evoluzione: da monarca a combattente, da simbolo a essere umano con paure, rabbia e speranza. E dietro questa trasformazione c’è anche una sorprendente storia di sorelle, che aggiunge uno strato di profondità emotiva che non ti aspetti da un roguelite.

Dal punto di vista del gameplay, l’esperienza è snella e potente. I controlli sono immediati: un attacco base, uno scatto, una mossa attiva e, ovviamente, il lancio del dado Fortuna, il compagno cubico di Aleksandra. E che dado, ragazzi. Non solo infligge danni ad area, ma attiva anche poteri e abilità a seconda delle carte raccolte durante la run. Già, perché il sistema di carte ritorna, ma questa volta è integrato in modo ancora più dinamico e tattico. Le combo possibili sono decine, e ogni run si trasforma in un piccolo laboratorio alchemico in cui sperimentare build, potenziamenti e reliquie di ogni tipo.

E non è tutto: alla fine di ogni bioma, ad aspettarci ci sono boss tosti, davvero tosti. Qui The Eternal Die non fa sconti e, come ogni roguelike che si rispetti, la sconfitta è dietro l’angolo. Ma non si perde mai davvero. Dopo ogni morte si torna al Santuario, l’hub centrale del gioco, dove si possono migliorare armi, ottenere benedizioni, sbloccare nuove opzioni estetiche e anche affrontare missioni secondarie con NPC sempre più bizzarri. Il loop di gameplay funziona come un orologio stregato: frustrante e affascinante allo stesso tempo.

Visivamente, il gioco è una gioia per gli occhi nerd. L’eredità artistica del primo capitolo viene non solo rispettata, ma potenziata. Il mondo di Random è un incubo fiabesco intriso di colori acidi, architetture surreali e creature stralunate. È come se Tim Burton avesse fatto un viaggio in Svezia, si fosse innamorato del folklore locale e avesse deciso di realizzare un film interattivo. Ogni angolo trasuda stile e personalità. Il framerate è solido, il codice pulitissimo, e i testi completamente localizzati in italiano sono la ciliegina sulla torta gotica. L’unico neo? La colonna sonora, che manca un po’ di mordente. Non brutta, sia chiaro, ma manca di quel guizzo memorabile che ti fa fischiettare un tema anche dopo aver spento la console.

Certo, qualche pecca c’è. Dopo svariate ore, un po’ di ripetitività si fa sentire, soprattutto per via della limitata varietà delle stanze e delle arene. È un problema? Dipende. Se siete veterani del genere, ci passerete sopra con un’alzata di spalle e la voglia di tentare ancora. Se invece non amate troppo la formula “muori-riprova-muori-di-nuovo”, potrebbe pesare. Ma, onestamente, con un universo così intrigante e un gameplay così rifinito, vale la pena insistere.

In definitiva, Lost in Random: The Eternal Die non è solo un seguito degno del nome che porta, ma una reinvenzione coraggiosa e riuscita. È la dimostrazione che, anche in un mercato in crisi d’ispirazione, ci sono ancora team capaci di osare, di cambiare rotta, di non accontentarsi di rifare la stessa cosa con una skin nuova. Questo titolo è una dichiarazione d’amore per i giochi che sanno stupire, che sanno raccontare e che sanno punire con stile. Un’avventura oscura, sfidante e profondamente nerd. E fidatevi, il Dado è tratto, e questa volta… fa sei.

Hai già provato Lost in Random: The Eternal Die? Ti ha stregato come il primo capitolo o hai trovato questo cambio di stile un rischio troppo grande? Parliamone nei commenti! E se l’articolo ti è piaciuto, condividilo sui tuoi social: ogni click è come un bonus danno al boss finale della disinformazione videoludica!

Dr. STONE: Science Future – La rivoluzione scientifica definitiva arriva il 10 luglio su Crunchyroll!

Ammettiamolo: per noi amanti degli anime, ci sono serie che vanno oltre la semplice visione. Entrano nella nostra vita, ci stimolano il cervello, ci fanno ridere, emozionare, e perfino riflettere. Dr. STONE è una di quelle. Un’ode alla curiosità, alla resilienza e soprattutto al potere infinito della scienza. Ed è con un misto di entusiasmo sfrenato e malinconia che ci prepariamo ad accogliere Dr. STONE: Science Future, la seconda parte della quarta e ultima stagione dell’anime che ha letteralmente pietrificato (in tutti i sensi) i nostri cuori.

Segnatevelo bene: il 10 luglio 2025 è la data da cerchiare con evidenziatore fluorescente sul calendario, perché è in quel giorno che Crunchyroll inizierà lo streaming in simulcast col Giappone della seconda parte di Science Future. E sarà accessibile anche in Italia, quindi niente scuse: la rivoluzione scientifica ci aspetta!

L’annuncio, arrivato il 4 giugno attraverso i canali ufficiali della serie e subito esploso come una supernova sui social, è stato accompagnato da un nuovo trailer mozzafiato e da due nuove theme song che promettono di diventare l’ossessione musicale dell’estate per noi nerd incalliti. Ma prima di perderci nelle note, parliamo di ciò che conta davvero: l’epicità di questa chiusura.

Dr. STONE: Science Future rappresenta il gran finale del viaggio di Senku Ishigami e del Regno della Scienza. Un finale atteso, temuto, ma soprattutto sperato. Perché ogni episodio della serie è stato un piccolo laboratorio animato, un mix perfetto di avventura, tensione, invenzioni geniali e passione per la conoscenza. E ora tutto questo si prepara a esplodere in una sinfonia di emozioni e scoperte.

Siamo reduci da una prima parte intensa, dove Senku e compagni hanno letteralmente spinto i limiti dell’ingegno umano per scoprire le origini della pietrificazione globale. Una corsa contro il tempo, contro le risorse limitate e contro nemici sempre più astuti e pericolosi. La Parte 2 promette di essere ancora più ambiziosa, e lo si capisce già dal trailer: un montaggio frenetico di ambientazioni inedite, nuovi personaggi, vecchie conoscenze e una tensione palpabile che serpeggia sotto ogni scena.

Eppure, tra tutti gli elementi che rendono questa stagione così attesa, uno rimane il cuore pulsante dell’anime: la scienza. Quella vera, raccontata con un entusiasmo contagioso, spiegata con semplicità ma mai banalizzata. In ogni episodio, l’anime riesce a farci dire: “Wow, voglio provare a costruire anche io una batteria artigianale nel mio giardino!”. Magari non sempre con successo, certo, ma l’intento educativo c’è, ed è sincero.

A dare nuova linfa a questa ultima corsa ci penseranno anche due nuovi personaggi fondamentali: il Dr. Xeno, doppiato da Kenji Nojima, e Stanley Snyder, con la voce potente di Kōji Yusa. Due menti brillanti, complesse, forse oscuramente speculari a quella di Senku. Le dinamiche si preannunciano intense, piene di scontri ideologici e confronti etici. Perché in fondo, Dr. STONE non parla solo di reagenti chimici e leggi della fisica. Parla anche del peso delle scelte, del ruolo della scienza nel guidare il potere, e della responsabilità che ne deriva.

E poi c’è la musica, che in ogni stagione ha saputo incorniciare perfettamente lo spirito dell’avventura. Per questa seconda parte, le sigle sono affidate a due pesi massimi del panorama musicale giapponese. La opening è “SUPERNOVA” dei KANA-BOON, una vera esplosione di energia che sembra fatta apposta per lanciarti nello spazio-tempo delle emozioni. L’ending invece è “No Man’s World” di Otoha, una ballata intensa e riflessiva, quasi un canto malinconico che ci prepara al distacco inevitabile da una storia che ci ha accompagnati per anni.

Cosa aspettarci, dunque? Nuove invenzioni al limite dell’impossibile, come al solito con un tocco di ingegno da cartone preistorico alla Flintstones. Decisioni che spezzeranno il cuore. Rivelazioni che ridefiniranno la mitologia dell’universo narrativo. E un finale che, a giudicare dalle anticipazioni di Shueisha e Toho Animation, non sarà solo spettacolare: sarà memorabile.

Io, che ho seguito le gesta di Senku dal primo “E=mc²” gridato al cielo pietrificato, non posso che provare un senso di gratitudine per questa serie. Dr. STONE ci ha insegnato che la scienza non è noiosa, non è distante, non è solo per “quelli bravi a scuola”. È vita. È passione. È creatività. E forse, è anche un modo per costruire un futuro migliore, insieme. Allora, miei cari nerd e otaku, siete pronti a scoprire se l’umanità riuscirà davvero a rinascere sotto il segno della scienza? Il countdown è iniziato. Il futuro è adesso. E ha la voce inconfondibile di un ragazzo dai capelli a palma che non ha mai smesso di credere nel potere della conoscenza. Fatemelo sapere: cosa vi aspettate da questo gran finale? Avete già le vostre teorie su come si concluderà l’avventura di Senku e del Regno della Scienza? Scrivetelo nei commenti o condividete l’articolo sui social con l’hashtag #ScienceFuture – perché, come ci insegna Dr. STONE, la scienza è più bella quando è condivisa!

Lilo & Stitch – L’‘ohana non è mai stata così reale

Chi avrebbe mai pensato che un esperimento genetico alieno e una bambina solitaria delle Hawaii potessero nuovamente farci ridere, piangere e riflettere nel 2025, esattamente ventitré anni dopo il loro debutto animato? Eppure eccoci qui, a commuoverci ancora una volta davanti alla magia di Lilo & Stitch, questa volta in una versione live-action che, anziché limitarsi a “copiare” il passato, osa reinterpretarlo con cuore, tecnica e rispetto. E credetemi: è un piccolo miracolo. Il nuovo Lilo & Stitch, diretto da Dean Fleischer Camp – già apprezzato per il poetico Marcel the Shell with Shoes On – è ora nelle sale italiane dal 21 maggio, e ha già conquistato il botteghino con numeri da record. Ma il vero trionfo è tutto emotivo. Questo film non è solo un remake, è un omaggio affettuoso, una carezza nostalgica e contemporaneamente un tuffo in avanti, dove la CGI e l’intelligenza emotiva si incontrano senza frizioni.

 

La storia di sempre, ma con un’anima nuova

Il cuore della trama è fedele all’originale del 2002: Lilo, una bambina unica nel suo genere, sensibile e incompresa, cerca un amico in un mondo che la isola. Trova Stitch, una creatura blu, strampalata e iperattiva creata in laboratorio, e lo adotta come “cane”. Inizia così un viaggio fatto di disastri, risate, litigi e, soprattutto, crescita. Crescita individuale, familiare e reciproca. Ma questa nuova versione riesce nell’impresa, non semplice, di rendere il tutto ancora più profondo, più vivido, più “vivo”.

Il merito è di una regia attenta che non dimentica mai cosa rendeva speciale l’originale: l’umanità dei suoi personaggi. Fleischer Camp fa centro grazie alla sua capacità di lavorare sulle emozioni sottili, sulle tensioni familiari mai del tutto risolte, sulle fragilità che ci rendono umani. E Stitch? È semplicemente perfetto. La CGI gli restituisce forma e movimento mantenendo quell’aspetto tra il tenero e il caotico che ci aveva fatto innamorare vent’anni fa. Una combo tra alieno e peluche che – ammettiamolo – avremmo voluto abbracciare anche noi.

Una Lilo che ruba il cuore e una Nani più intensa che mai

Ma parliamo di loro, le vere protagoniste: Maia Kealoha e Sydney Agudong. La prima, appena otto anni, è una rivelazione. Riesce a incarnare la Lilo che tutti ricordavamo, con la stessa energia un po’ ribelle e lo sguardo carico di malinconia. Non interpreta Lilo: è Lilo. La seconda, nei panni di Nani, regala una performance intensa, sfaccettata, vera. È una sorella maggiore che lotta per tenere insieme i pezzi di una famiglia sfilacciata, in un contesto difficile e sempre sull’orlo del collasso. La loro alchimia è l’anima pulsante del film: ti commuove, ti fa ridere, ti fa venire voglia di chiamare tua sorella e dirle che le vuoi bene.

Un cast corale ben calibrato e un nuovo amore che sorprende

A fare da cornice, un cast di supporto variegato e ben sfruttato. Zach Galifianakis nei panni di Pleakley è spassoso e surreale quanto basta. Courtney B. Vance e Billy Magnussen portano spessore ai ruoli più adulti, mentre Tia Carrere – che aveva dato la voce a Nani nell’originale animato – torna in un cameo affettuoso che strizza l’occhio ai fan di lunga data. Ma la sorpresa più interessante è il nuovo personaggio interpretato da Kaipo Dudoit, interesse romantico di Nani: un’aggiunta che non snatura, ma arricchisce, offrendo una dimensione più adulta e coerente con il tono maturo del film.

Hawaiano DOC

Uno degli aspetti che più mi ha colpita è l’omaggio visivo e culturale alle Hawaii. Non solo nei paesaggi mozzafiato – che, tra riprese aeree e tramonti sull’oceano, sono da cartolina – ma anche nella lingua, nella musica, nelle piccole abitudini quotidiane che danno autenticità alla storia. C’è un rispetto tangibile per la cultura locale, cosa non sempre scontata nei prodotti hollywoodiani.

La colonna sonora, che alterna i classici Elvisiani a nuovi brani in hawaiano, accompagna il film senza mai sovrastarlo, sottolineando emozioni e momenti cruciali. Anche qui, come per tutto il film, si percepisce un grande amore per la materia originale, ma anche il coraggio di esplorare nuove sfumature.

Più cuore, meno spettacolo? Meglio così

A differenza di altri remake live-action Disney, Lilo & Stitch non cerca di stupire con l’eccesso o di reinventare il materiale originale con svolte narrative azzardate. Preferisce restare vicino al cuore della storia, lavorando sull’emotività, sulla verità delle relazioni umane e sulle fragilità che ci rendono unici. È meno “grande” di Il Re Leone o La Bella e la Bestia, ma infinitamente più sincero. E, per quanto mi riguarda, è proprio questo a renderlo speciale.

È una storia sulla famiglia, certo. Ma anche sull’appartenenza, sull’accettazione, sulla diversità. Su quanto possa essere difficile amare ed essere amati quando ci si sente “fuori posto”, ma quanto sia importante continuare a provarci.

Lilo & Stitch (2025) non è solo un film da guardare: è un film da vivere. È come rientrare in casa dopo tanto tempo, sentire l’odore del mare, la voce di chi ami, e ricordarti che, nonostante tutto, l’‘ohana è ciò che ti salva. Stitch, con i suoi versi buffi e la sua irresistibile goffaggine, ci ricorda che anche chi è stato creato per distruggere può imparare ad amare. E noi, spettatori incantati, non possiamo fare altro che lasciarci travolgere, ancora una volta, da questa tenera e scatenata avventura.

Quindi sì, prendete i fazzoletti, portate con voi i bambini (ma anche i genitori nostalgici) e correte al cinema. Perché certe storie meritano di essere raccontate di nuovo. E questa, fidatevi, lo fa nel modo giusto.

E voi? Siete già andati a vedere Lilo & Stitch al cinema? Avete amato il nuovo Stitch quanto l’originale? Raccontatemi le vostre impressioni qui sotto o condividetele sui vostri social usando l’hashtag #OhanaAlCinema!

Squid Game: analisi dei giochi e dei giocatori in un mondo dove l’umanità è messa al tappeto… letteralmente

Chi non ha ancora sentito parlare di Squid Game? La serie televisiva sudcoreana ideata, scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk ha letteralmente fatto la storia dell’intrattenimento globale. Dal 17 settembre 2021 fino al gran finale previsto per il 27 giugno 2025, tre stagioni distribuite su Netflix hanno trasformato quello che inizialmente sembrava solo un survival game in tuta verde in un fenomeno culturale di proporzioni colossali. E se vi sembra esagerato, aspettate di leggere questa nostra analisi nerd e approfondita sul vero cuore pulsante della serie: i giocatori e i giochi.

Già, perché se i misteriosi VIP incappucciati d’oro sono i burattinai del massacro e gli organizzatori i registi sadici dello spettacolo, sono i giocatori a rappresentare l’essenza umana della storia. Sono loro che ci fanno tifare, piangere, arrabbiarci e interrogarci su cosa saremmo disposti a fare per sopravvivere. Squid Game non è solo violenza, non è solo giochi da bambini trasformati in trappole mortali: è una riflessione profonda — e impietosa — su noi stessi.

Il lato umano del gioco

Nel microcosmo chiuso e brutale di Squid Game, ogni partecipante diventa un’allegoria vivente. Le loro scelte, azioni e interazioni ci svelano tutte le sfumature del comportamento umano, specialmente quando il denaro (o meglio, la sopravvivenza) è l’unica motivazione. Già nella prima stagione veniamo introdotti a due archetipi contrapposti: i “giocatori positivi” e gli “antagonistici”.

I primi sono quelli per cui si tifa senza riserve. Come dimenticare Ali, il dolce e ingenuo lavoratore migrante, o la coraggiosa Ji-yeong? In loro vediamo compassione, sacrificio, umanità. Sono quelli che, pur nella disperazione più nera, riescono ancora a essere umani. Dall’altro lato ci sono gli spietati, quelli che si lasciano divorare dalla brutalità del sistema, che diventano predatori pur di arrivare alla fine. Personaggi come Jang Deok-su, il gangster brutale, incarnano il degrado morale che emerge quando l’etica viene annientata dalla paura e dal desiderio di potere.

Questo dualismo ritorna con forza anche nella seconda stagione, che introduce un nuovo cast di disperati. Ancora una volta ci troviamo divisi tra chi vorremmo salvare e chi speriamo venga eliminato alla prossima sfida. È come guardare uno specchio che ci riflette nei momenti peggiori, ma anche nei più nobili. Ed è proprio questo il colpo da maestro della serie: i veri nemici non sono i VIP o i sorveglianti mascherati, ma le nostre scelte quando nessuno ci guarda… o quando tutti lo fanno.

I giochi: tra innocenza e orrore

Ogni gioco in Squid Game è un piccolo capolavoro di perversione narrativa. Sono tutti ispirati a passatempi infantili coreani — e in qualche caso anche occidentali — trasformati in meccanismi letali che mettono in palio non solo la vita dei partecipanti, ma anche la loro coscienza.

Si parte con il Ddakji, innocuo gioco di reclutamento che ci introduce con un colpo ben piazzato (letteralmente) all’universo di Squid Game. Poi arriva il famigerato Un, due, tre, stella!, reinterpretato con una bambola robotica inquietante e letale che fa fuori chiunque osi muoversi dopo la canzoncina. La combinazione tra nostalgia e terrore è magistrale. L’infanzia viene smontata, stravolta, e riadattata in chiave distopica.

Poi c’è il Caramello (Dalgona), dove la precisione millimetrica si scontra con il panico. Ogni forma diventa una sentenza: stella e ombrello sono maledizioni, mentre cerchi e triangoli appaiono come una benedizione per chi riesce a controllare le mani tremanti. Il Tiro alla fune traduce un gioco di squadra in una lotta per la sopravvivenza fisica e mentale, con strategie e preghiere che si intrecciano nella speranza di non essere tirati nel vuoto.

Ma è con le Biglie che il gioco si fa davvero psicologico. L’amicizia, la fiducia, la pietà: tutto viene messo in discussione. Tradire o essere traditi diventa una scelta impossibile. Il Ponte di vetro, invece, ci regala forse il momento più adrenalinico della serie. Camminare verso il nulla scegliendo tra vetro temperato e vetro normale è una metafora limpida dell’incertezza della vita. E quando arriva il Gioco del Calamaro, quello che dà il nome alla serie, l’infanzia coreana diventa l’arena finale per un confronto carico di rabbia, senso di colpa e voglia di redenzione.

Le sfide introdotte nella seconda e terza stagione amplificano ulteriormente la varietà e la creatività crudele del format. Il Pentathlon a sei gambe è un mix tra cooperazione forzata e minigiochi infantili dove ogni errore è fatale. Si passa da sfide come il Gonggi, il gioco delle pietre, fino al Jegi, dove bisogna palleggiare con un oggetto leggerissimo. Un disastro per chi non ha coordinazione, ma una goduria per chi ama vedere abilità e fortuna giocare a braccetto.

Il Raduno e il Nascondino inseriscono una componente sociale più marcata. In un gioco di alleanze forzate e tradimenti imminenti, la fiducia si fa rarefatta come l’aria nelle stanze chiuse. E quando entra in scena il Salto alla corda su un ponte semidistrutto, il pericolo diventa tridimensionale: terra, aria e tempo si stringono attorno ai concorrenti come una morsa.

Fino ad arrivare a un’altra variante ancora più surreale del gioco finale: il Gioco del calamaro in aria. Se pensavate che combattere a terra fosse difficile, immaginate farlo sospesi nel vuoto, su strutture instabili, con la certezza che ogni errore significhi la fine.

Un mondo crudele… come il nostro?

Cosa ci dice tutto questo? Che Squid Game è molto più di una serie violenta. È un gigantesco esperimento sociale in forma narrativa. I giocatori sono specchi della nostra società: c’è il debole, il furbo, il generoso, l’approfittatore, l’ingenuo e il crudele. I giochi, invece, sono un’allegoria perfetta delle dinamiche del potere, della competizione economica, delle diseguaglianze sociali e del prezzo della sopravvivenza.

Ed è proprio questa combinazione di folklore coreano e critica sociale universale che rende la serie così potente, così disturbante e così affascinante per noi nerd appassionati di distopie, psicologia, simbolismo e meccaniche ludiche. Ogni puntata è come un gigantesco escape room senza via d’uscita, dove il premio non è solo il denaro, ma il confronto crudo e sincero con la parte più vera — e spesso scomoda — di noi stessi.

E voi, quale giocatore sareste? Quello che cerca alleanze e aiuta il prossimo, o quello che, pur di vincere, non guarda in faccia nessuno? Avete mai pensato a come vi comportereste se la vostra vita dipendesse da un dolcetto di caramello?

Addio a “La Ruota del Tempo”: Prime Video cancella la serie dopo la terza stagione. E noi fan? Siamo devastati.

Diciamoci la verità: ci sono cancellazioni che ti aspetti, e poi ci sono quelle che ti colpiscono allo stomaco, che ti fanno quasi sobbalzare sulla sedia mentre scrolli distrattamente le news. La fine di The Wheel of Time su Prime Video è decisamente una di queste. Dopo una terza stagione intensa, emozionante e ricca di colpi di scena, Prime Video ha annunciato ufficialmente che La Ruota del Tempo non tornerà per una quarta stagione. E no, non ci siamo ancora ripresi.

È una notizia che arriva come un fulmine a ciel sereno, soprattutto considerando l’investimento che Prime Video ha fatto nel mondo del fantasy, da The Rings of Power in giù. Il fatto che una serie così amata, basata su una saga epica e monumentale come quella di Robert Jordan (poi completata da Brandon Sanderson), venga cancellata proprio ora, è difficile da digerire. Anche perché la terza stagione ci aveva dato l’illusione che fosse solo l’inizio di un viaggio ancora più vasto. Ma purtroppo, quella che abbiamo appena visto è anche l’ultima tappa di questa avventura televisiva.

E che tappa, ragazzi. La terza stagione di La Ruota del Tempo non solo ha saputo restituirci tutto il fascino e l’epicità dei romanzi, ma ha anche saputo parlare al presente, regalandoci un fantasy coraggioso, inclusivo e potente. La presenza di donne forti, trame queer raccontate con sensibilità e rispetto, personaggi sfaccettati e dilemmi morali profondi hanno reso ogni episodio un piccolo evento. E per chi, come me, si è letteralmente perso tra le sabbie della Triplice Terra o tra gli intrighi della Torre Bianca, questa cancellazione ha il sapore amaro di un destino interrotto.

La stagione si era ispirata in gran parte al quarto libro della saga, L’ascesa dell’ombra, una delle punte di diamante dell’intera epopea letteraria. Con l’introduzione degli Aiel, il popolo guerriero dai codici d’onore complessi e affascinanti, la serie aveva raggiunto vette narrative inaspettate. La trasposizione televisiva della cultura Aiel – con i suoi rituali, le sue leggi e le sue sorprese – è stata una delle sfide più riuscite della produzione, un vero e proprio omaggio alla profondità dell’opera di Jordan. E come dimenticare Rhuidean, la città perduta nel deserto, crocevia di rivelazioni e trasformazioni? Una delle puntate più visivamente suggestive e concettualmente potenti dell’intera serie.

Non solo paesaggi mozzafiato e battaglie epiche, però. La Ruota del Tempo ha saputo concentrarsi anche sull’intimità dei suoi personaggi. Il conflitto interiore di Rand al’Thor, il Drago Rinato, è diventato il cuore pulsante della stagione. Dilaniato tra il richiamo della Luce e la tentazione dell’Oscurità, Rand ha affrontato un viaggio tortuoso, costellato di scelte tragiche e rivelazioni dolorose. E intorno a lui, i rapporti si sono evoluti: l’alleanza tra Moiraine e Egwene, per esempio, ha segnato una delle evoluzioni più belle, con due donne diversissime per carattere e ideologia che si ritrovano unite contro un male più grande.

Il cast, poi, è stato semplicemente straordinario. Rosamund Pike ha brillato ancora una volta nel ruolo di Moiraine Damodred, portando una profondità emotiva rara nel panorama fantasy. Al suo fianco, Daniel Henney nei panni di Lan e Josha Stradowski in quelli di Rand hanno dato vita a performance toccanti e intense. Senza dimenticare Zoë Robins, Madeleine Madden e Natasha O’Keeffe, che hanno contribuito a rendere la storia corale e coinvolgente.

Ma tutto questo, ora, appartiene al passato. Prime Video ha deciso di non proseguire, e nonostante il sostegno di Sony Pictures Television e Amazon MGM Studios alla campagna Emmy per questa terza stagione, l’amaro resta. È frustrante pensare che una serie così ben fatta, con ancora tanto da raccontare, venga messa da parte in un momento storico in cui le narrazioni queer, le eroine forti e la rappresentazione delle minoranze sono più cruciali che mai.

Eppure, non tutto è perduto. Tutte le stagioni di The Wheel of Time restano disponibili su Prime Video, pronte per essere riviste, amate e condivise. Possiamo ancora perderci nella magia delle Terre Occidentali, ascoltare le profezie del Drago Rinato, temere l’arrivo dell’Oscuro e sperare in un futuro in cui – magari, chissà – la Ruota girerà ancora, sotto una nuova luce.

Certo, oggi il sentimento è quello di lutto. Perché La Ruota del Tempo non era solo una serie: era una promessa di avventura, un abbraccio epico e umano, una parentesi fantasy in un mondo che ha sempre bisogno di sogni.

E voi, amici nerd, cosa ne pensate di questa cancellazione? Qual è stato il vostro momento preferito della serie? Credete che un giorno potremo vedere la storia completata, magari su un’altra piattaforma o in un nuovo formato? Raccontatemi tutto nei commenti e, se come me sentite il bisogno di esorcizzare questo addio, condividete questo articolo sui vostri social: facciamo girare ancora un po’ la Ruota, insieme.

“Sakamoto Days”: l’anime che unisce azione adrenalinica e risate incontenibili

Se c’è una cosa che adoro degli anime giapponesi, è la loro capacità di fondere in maniera imprevedibile e geniale due elementi apparentemente inconciliabili: la comicità slapstick da spanciarsi e l’azione furiosa degna dei migliori film di arti marziali. E Sakamoto Days, lasciatemelo dire, è l’incarnazione perfetta di questo binomio esplosivo. Basato sull’omonimo manga di Yūto Suzuki, quest’opera è riuscita a conquistare immediatamente il mio cuore da fan sfegatata di storie fuori dagli schemi, dove anche un ex sicario sovrappeso può diventare l’eroe che tutti stavamo aspettando.

Sakamoto, pur avendo appeso la pistola al chiodo, si ritrova coinvolto in una spirale di eventi che lo costringe a dimostrare, ancora una volta, perché era considerato una leggenda.

L’anime ha fatto il suo debutto su Netflix l’11 gennaio 2025, e già dal primo episodio è evidente che Sakamoto Days non ha alcuna intenzione di prendersi troppo sul serio, pur offrendo scene d’azione coreografate in maniera sublime. La trama ruota attorno a Taro Sakamoto, una leggenda vivente del mondo degli assassini, che decide di abbandonare le armi e mettere su famiglia, aprendo un tranquillo minimarket. Ma come ben sappiamo, il passato ha la fastidiosa tendenza a non lasciarsi dimenticare. Così, Sakamoto si ritrova presto braccato da vecchi nemici e costretto a rispolverare le sue letali abilità… senza però mai togliere il grembiule.

Quello che rende questa serie irresistibile non è solo il contrasto tra la sua vita pacifica da droghiere e la sua identità da killer, ma anche il modo in cui questi due mondi si scontrano con un tempismo comico impeccabile. Le scene in cui Sakamoto, visibilmente fuori forma, affronta avversari spietati con soluzioni tanto ingegnose quanto ridicole, sono il vero cuore pulsante dell’anime. A supportarlo in questa sua doppia vita troviamo Shin, un giovane sicario con la capacità di leggere la mente, e Lu, una ragazza forte e misteriosa con legami con la malavita cinese. Il trio funziona alla perfezione, dando vita a dinamiche esilaranti e spesso inaspettatamente toccanti.

Dal punto di vista tecnico, Sakamoto Days è una vera chicca per gli occhi. L’animazione è affidata allo studio TMS Entertainment, e la regia è nelle mani esperte di Masaki Watanabe, che già in passato aveva dimostrato la sua capacità di raccontare storie dal taglio visivo unico. Ogni episodio alterna momenti adrenalinici e combattimenti a colpi di kung fu con parentesi di pura follia comica che ricordano il miglior Gintama. La sceneggiatura, supervisionata da Taku Kishimoto (già autore di BLUELOCK e Haikyu!!), riesce a mantenere un ritmo serrato senza mai perdere leggerezza, mentre le musiche di Yūki Hayashi completano il quadro con un mix perfetto di tensione ed energia.

Non posso non spendere due parole sul cast vocale, che in entrambi i doppiaggi – giapponese e inglese – è semplicemente stellare. Tomokazu Sugita, che interpreta Sakamoto nella versione nipponica, riesce a dare voce a tutte le sfumature del personaggio: dall’ex assassino temuto da tutti al padre di famiglia bonario che sbuffa quando la figlia chiede troppi snack. Nobunaga Shimazaki, nel ruolo di Shin, aggiunge un tono ironico e sfrontato che ben si sposa con l’atmosfera generale. Anche il cast inglese non è da meno, con Matthew Mercer e Dallas Liu che si calano perfettamente nei loro ruoli. Questo lavoro corale contribuisce a rendere ogni episodio ancora più coinvolgente, e ti fa venire voglia di premere “play” sul prossimo episodio senza nemmeno prendere fiato.

Ma parliamo del futuro della serie, che si preannuncia ancora più esplosivo. Il secondo arco narrativo è pronto a fare il suo debutto il 14 luglio 2025 in Giappone, come annunciato dal nuovo trailer ufficiale che ha anche svelato la nuova opening: “Method” dei Kroi, una rock band giapponese che sta già facendo parlare di sé. La sigla precedente, “Hashire Sakamoto” di Vaundy, era già una bomba, ma questa nuova promessa di ritmo serrato e vibrazioni alternative lascia presagire un cambio di tono, magari più cupo o più maturo. E non vedo l’ora.

L’attesa per questa seconda parte è accompagnata anche da un evento speciale in programma per il 15 giugno al TOHO Cinemas Shinjuku di Tokyo, dove verranno proiettati in anteprima gli episodi 12 e 13. Una mossa che dimostra quanto sia alta l’aspettativa nei confronti di Sakamoto Days, non solo da parte del pubblico giapponese ma anche a livello internazionale.

Nel corso dell’undicesimo episodio sono stati introdotti nuovi personaggi che promettono scintille. Tra questi troviamo Dump, Apart, Minimalist e Saw, doppiati rispettivamente da Yūko Kaida, Chiaki Kobayashi, Ryōta Takeuchi e Kōsuke Toriumi. Personalità nuove e voci iconiche che andranno ad arricchire ulteriormente un universo narrativo già pieno di sorprese. E poi c’è il tocco magico di Yō Moriyama al character design, artista già noto per il suo lavoro in Lupin the IIIrd: Goemon’s Blood Spray, che qui riesce a mescolare tratti realistici e stilizzati con una fluidità davvero affascinante.

 Sakamoto Days è molto più di una semplice serie d’azione con un tocco comico. È un’ode alla seconda possibilità, alla forza dell’amore familiare, e alla capacità tutta giapponese di rendere epico anche il quotidiano. È una serie che ti fa ridere, ti tiene col fiato sospeso e, soprattutto, ti fa venire voglia di seguirla fino all’ultimo episodio. E se anche voi siete tra quelli che adorano gli anime in cui si passa dal ridere a crepapelle al trattenere il fiato in meno di dieci secondi, non potete davvero perdervela.

E ora tocca a voi: avete già iniziato Sakamoto Days o siete ancora lì a decidere? Qual è stata la vostra scena preferita finora? Parliamone nei commenti o condividete l’articolo sui vostri social per scoprire chi tra i vostri amici ha già fatto amicizia con il killer più buffo e letale dell’animazione giapponese!

Thunderbolts*: I Nuovi Avengers della Marvel sconvolgono l’MCU

Non accade spesso che un semplice segno di punteggiatura riesca a catturare l’attenzione dei fan di tutto il mondo. Eppure, i Marvel Studios ci sono riusciti di nuovo. Da mesi, l’enigmatico asterisco nel titolo Thunderbolts* ha fatto discutere il fandom, generando teorie, ipotesi e una mole di speculazioni degne di un thriller cosmico. Ora, finalmente, il mistero è stato svelato: quel piccolo simbolo non era solo un vezzo grafico o una scelta estetica. Era l’indizio che anticipava un cambiamento di rotta narrativo epocale. Thunderbolts* è solo l’inizio. Il vero titolo, svelato in maniera spettacolare dopo i titoli di coda, è I Nuovi Avengers.

Questa rivelazione non è solo un colpo di teatro ben orchestrato — è un vero e proprio spartiacque per il Marvel Cinematic Universe, che in questi ultimi anni ha attraversato un periodo di riflessione e assestamento. Dopo il divisivo Captain America: Brave New World e l’attesa per il reboot dei Fantastici Quattro, l’MCU aveva bisogno di un titolo capace di rimettere in moto l’immaginario collettivo, di ridare vigore a un universo narrativo sempre più complesso e difficile da navigare. E proprio quando nessuno se lo aspettava, un film su una squadra di antieroi disfunzionali si è trasformato nella miccia che accende la nuova fase.

Diretto da Jake Schreier e prodotto, tra gli altri, da Kevin Feige e Scarlett Johansson in veste di produttrice esecutiva, Thunderbolts* è un’opera che sovverte le aspettative. Sulla carta sembrava uno spin-off minore, una sorta di Suicide Squad in salsa Marvel. Ma al cinema si è rivelato qualcosa di molto più potente: un film profondo, sorprendentemente emotivo, capace di bilanciare azione, umorismo e introspezione con una consapevolezza rara. Schreier riesce in una missione quasi impossibile: dare coerenza e cuore a un gruppo di personaggi ai margini, tormentati da errori passati e decisioni sbagliate, e farli brillare proprio grazie alle loro fragilità.

Il cuore pulsante della pellicola è senza dubbio Yelena Belova, interpretata da una Florence Pugh in stato di grazia. Dopo aver ereditato il mantello della Vedova Nera, Yelena è diventata un’icona moderna del MCU: sarcastica, vulnerabile, pericolosa. Il suo arco narrativo in Thunderbolts* è toccante, perché mette in scena una donna in cerca di espiazione, ma senza retorica. Il confronto con gli altri membri della squadra — Bucky Barnes (Sebastian Stan), Red Guardian (David Harbour), John Walker (Wyatt Russell), Ghost (Hannah John-Kamen) e Taskmaster (Olga Kurylenko) — diventa una danza delicata tra traumi personali, lealtà incerte e la possibilità concreta di costruire un’identità nuova, lontana dalle etichette di “eroe” o “villain”.

La presenza della spietata e manipolatrice Valentina Allegra de Fontaine (una Julia Louis-Dreyfus sempre più ambigua) aggiunge ulteriore tensione, costringendo il gruppo a confrontarsi con una missione che, sin dal principio, sembra destinata al fallimento. Ma è proprio nella disperazione che Thunderbolts* trova la sua linfa vitale. La pellicola esplora il significato della redenzione, non come premio ma come processo doloroso, incerto, eppure necessario.

E se la squadra di antieroi ha già reso il film intrigante, il debutto di Sentry — interpretato da Lewis Pullman — lo eleva a un altro livello. I fan dei fumetti Marvel conoscono bene Robert Reynolds, l’uomo con il potere di un milione di soli esplosi… e una psiche spezzata dal suo alter ego oscuro, il Vuoto. Il trailer finale ha mostrato una sequenza brutale: Sentry strappa con disarmante facilità il braccio di vibranio a Bucky, accompagnando il gesto con una frase che è già diventata virale: “Pensavate di essere dei grandi salvatori? Non riuscite nemmeno a salvare voi stessi.”

La presenza di Sentry nel film non è solo scenografica: è tematica. Il personaggio incarna perfettamente il caos morale che attraversa tutto Thunderbolts*. La domanda che riecheggia è la stessa: cosa rende un eroe davvero tale? Il potere? Le intenzioni? O forse la capacità di affrontare la propria oscurità senza esserne divorati? In questo senso, Sentry non è solo il nemico da sconfiggere. È lo specchio distorto della squadra, il monito di ciò che possono diventare se perdono se stessi.

Il colpo di scena finale: benvenuti, Nuovi Avengers

Ma veniamo all’asterisco. Quel piccolo simbolo accanto al titolo era il primo tassello di una strategia di marketing a dir poco geniale. I Marvel Studios, noti per la loro capacità di costruire l’hype, questa volta si sono superati. Dopo la proiezione del film, i titoli di coda cambiano tutto: Thunderbolts* viene letteralmente “strappato via”, lasciando spazio al vero titolo, I Nuovi Avengers. Una rivelazione che risuona come un tuono nel cielo dell’MCU e che apre un nuovo capitolo narrativo.

Il teaser dedicato alla rivelazione è stato diffuso pochi giorni dopo, con una tagline ironica quanto efficace: “Avete visto l’asterisco ovunque. Ora è il momento di scoprire cosa significa.” Un richiamo che non solo celebra il mistero risolto, ma prepara il pubblico all’evoluzione narrativa che ci attende. Perché non si tratta solo di un cambio di nome: si tratta dell’idea che questi outsider, un tempo visti come strumenti sacrificabili, possano essere i degni eredi del mito degli Avengers.

Con Avengers: Doomsday all’orizzonte, è ormai evidente che Thunderbolts* — o meglio, I Nuovi Avengers — è un tassello cruciale nella costruzione della nuova formazione. Marvel non sta solo rimpiazzando vecchi volti: sta riscrivendo il concetto stesso di squadra. I nuovi Avengers non saranno perfetti, ma saranno reali, complessi, disillusi. E forse proprio per questo più necessari che mai.

Il cast, già ricchissimo, si espande con l’arrivo di nuovi volti come Geraldine Viswanathan, Chris Bauer e Wendell Edward Pierce, aggiungendo nuove dinamiche e possibilità narrative. La scrittura riesce a fondere il tono ironico tipico della Marvel con una profondità emotiva che mancava da tempo nel franchise. Il risultato? Un film che riesce ad appassionare, sorprendere e — cosa rara oggi — far riflettere.

Thunderbolts* è molto più di quello che sembrava. È un manifesto di rinascita, un film che abbraccia l’ambiguità morale e la trasforma in forza narrativa. E con la rivelazione finale che li consacra come I Nuovi Avengers, questi personaggi passano dall’essere dei reietti a diventare simboli di una nuova era. Un’era che si preannuncia più oscura, più matura e — se la qualità rimarrà questa — anche infinitamente più affascinante.

L’MCU è pronto a cambiare pelle. E noi siamo qui, a goderci ogni singolo istante di questa metamorfosi. Perché se c’è una cosa che i Marvel Studios sanno fare bene, è trasformare anche il più piccolo degli asterischi in un colpo di scena capace di far tremare l’intero universo.

L’Eternauta: La Serie Netflix che Adatta il Fumetto Iconico con Fedeltà e Nuove Sfide

L’adattamento de L’Eternauta alla serie Netflix ha generato grandi aspettative fin dal suo annuncio. Il leggendario fumetto argentino, scritto da Héctor Oesterheld e illustrato da Francisco Solano López, è uno dei capisaldi della narrativa post-apocalittica, e non solo in Argentina. Con la sua potente miscela di fantascienza, dramma umano e critica sociale, L’Eternauta ha conquistato generazioni di lettori e ora tenta di fare lo stesso con il pubblico globale attraverso una produzione di alto livello targata Netflix.

La serie racconta la storia di Juan Salvo, il protagonista che lotta per la sopravvivenza in una Buenos Aires avvolta da una neve mortale che uccide tutto ciò che tocca. Ma come avviene spesso con le trasposizioni, ci sono sfide nell’adattare un’opera così iconica e affascinante a un nuovo medium. La domanda sorge spontanea: quanto riuscirà la serie a mantenere la potenza emotiva e la critica sociale del graphic novel senza scivolare nelle convenzioni della fantascienza moderna?

Il primo aspetto che salta all’occhio nella serie è la scelta di ambientare l’invasione aliena in un’Argentina contemporanea. Il contesto, che nel fumetto originale rifletteva la grave instabilità politica e sociale del paese negli anni ’50, è stato adattato agli scenari attuali, con le politiche di austerità e l’instabilità economica del governo di Javier Milei a fare da sfondo. La decisione di aggiornare il contesto sociale non è affatto banale, e sebbene perda parte del messaggio politico originario, conferisce alla serie una contemporaneità che potrebbe risuonare con i pubblici di oggi. L’inclusione di temi post-apocalittici, come la lotta per le risorse e i contrasti generazionali, fa da collante con le difficoltà del presente. Ma se questo aspetto può essere apprezzato per il suo tentativo di restare rilevante, non si può fare a meno di notare che il cuore pulsante dell’opera originale è stato, in qualche modo, sbiadito.

La scelta di Juan Salvo come protagonista, interpretato dal carismatico Ricardo Darín, è un colpo da maestro. Darín riesce a incarnare perfettamente l’eroismo e la debolezza del personaggio, ma anche qui si nota una deviazione rispetto al fumetto: Salvo, nel graphic novel, è un uomo di mezza età che lotta contro le difficoltà con una determinazione che solo l’esperienza può conferire. Nella serie, però, il suo confronto con i più giovani, più impulsivi e spesso egoisti, diventa una riflessione su un gap generazionale sempre più marcato. Quello che però poteva essere un tema interessante si traduce spesso in una rappresentazione piuttosto standard del conflitto tra le generazioni, con un’intensità che non riesce sempre a decollare.

Dal punto di vista visivo, L’Eternauta è una serie ben realizzata. La fotografia e l’ambientazione sono suggestive e riescono a ricreare l’atmosfera minacciosa e inquietante del fumetto. Non c’è dubbio che la serie riesca a catturare la bellezza cupa di un mondo sull’orlo della distruzione. Ma se la messa in scena è riuscita, la narrazione lascia un po’ a desiderare. La lentezza con cui si sviluppano alcuni eventi e la scarsa innovazione nella trama potrebbero deludere chi si aspetta una rivisitazione più audace dell’opera.

Il ritmo narrativo è piuttosto disomogeneo: alcuni episodi si trascinano, superando l’ora di durata senza una giustificazione chiara, mentre altri sembrano troppo brevi, come se stessero cercando di comprimere troppe informazioni in poco tempo. Le ragazze protagoniste dell’episodio pilota, per esempio, sono una figura centrale che viene ignorata fino al penultimo episodio, creando un vuoto narrativo che potrebbe lasciare il pubblico confuso. Inoltre, il grande mistero della “neve” non viene affrontato in modo soddisfacente fino al quarto episodio, rischiando di spezzare l’attenzione dello spettatore.

La serie, purtroppo, non riesce sempre a mantenere la freschezza del fumetto, ripetendo alcune dinamiche già viste in altri adattamenti apocalittici. La lotta per la sopravvivenza, l’egoismo che prende il posto della solidarietà e la crudeltà umana, sono tutti temi che L’Eternauta condivide con altri racconti del genere, da The Mist a Falling Skies. Se da un lato questa somiglianza non è un difetto in sé, visto che L’Eternauta ha ispirato questi e altri lavori successivi, dall’altro rende la serie un po’ prevedibile, facendo sembrare che l’elemento di sorpresa sia ormai svanito.

Un successo che fa ben sperare

Nonostante queste pecche, la serie di L’Eternauta ha riscosso un successo notevole. La critica si è mostrata entusiasta, con il 93% di gradimento da parte della stampa su Rotten Tomatoes, e la reazione del pubblico è altrettanto positiva, con una percentuale che sfiora il 96%. Questo non fa altro che confermare il fascino duraturo dell’opera e la sua capacità di attrarre nuovi spettatori. Netflix ha già confermato una seconda stagione, e non è difficile immaginare che questo adattamento continui a crescere, trovando la sua strada tra gli alti e bassi.

Nel complesso, L’Eternauta è una serie che merita attenzione, non solo per il suo legame con un’opera fondamentale del fumetto mondiale, ma anche per il tentativo di portare un messaggio universale di resistenza e speranza nel mondo contemporaneo. Sebbene non riesca a raggiungere la perfezione, riesce comunque a cogliere lo spirito di un racconto che, fin dalla sua nascita, ha parlato del conflitto tra l’uomo e le forze che minacciano di distruggere la sua umanità.