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Arretriamo nel futuro – breve guida alla merdificazione dei media (e come fermarla)

Nel 2023 il giornalista e scrittore canadese Cory Doctorow coniò una parola destinata a diventare simbolo di un’epoca: enshittification. Tradotta in italiano con un certo gusto provocatorio come “merdificazione”, descrive la parabola discendente di molte piattaforme digitali nate come spazi di libertà e condivisione e divenute, nel giro di pochi anni, macchine di profitto pronte a sacrificare la qualità sull’altare degli algoritmi.

Da quel concetto prende le mosse “Arretriamo nel futuro – breve guida alla merdificazione dei media (e come fermarla)”, il nuovo libro di Federico Mello, giornalista Rai e autore di saggi taglienti e visionari, in uscita il 14 novembre per Edizioni BIT. Un saggio che non si limita a denunciare il degrado del nostro ecosistema mediatico, ma tenta di offrirne una mappa, un antidoto e persino una speranza.


Dalla promessa di libertà al collasso comunicativo

Mello compie un viaggio che parte dagli anni ’50, quando la televisione era ancora “maestra” e la cultura di massa sembrava poter educare intere generazioni. Poi, lentamente, il sogno si incrina: i mass media diventano strumenti di consenso, fino a mutare in quella che l’autore definisce “addiction by design”, una dipendenza costruita a tavolino.

Oggi, sostiene Mello, viviamo dentro un paradosso: crediamo di avanzare tecnologicamente, ma stiamo in realtà arretrando nel futuro. La corsa all’innovazione ci ha consegnato un mondo in cui i media non ampliano la conoscenza, ma riducono la capacità di comprendere. L’informazione, filtrata e monetizzata, non emancipa: intrattiene, distrae, polarizza.


Dall’engagement alla retention: il nuovo oppio dei popoli

La metamorfosi dei media ha due fasi. La prima è quella dell’engagement, l’era del like e della condivisione compulsiva: Facebook, nei primi anni Dieci, trasforma l’interazione in valuta sociale e politica. I contenuti che dividono, scandalizzano o spaventano ottengono più visibilità, alimentando il complottismo e la radicalizzazione. È l’inizio dei social mass media, ibridi che fingono orizzontalità ma replicano le logiche verticali della TV.

Poi arriva la retention, la nuova forma di controllo algoritmico. Non conta più cosa dici, ma quanto a lungo resti incollato allo schermo. Instagram prima, TikTok poi, spingono il pubblico in un loop ipnotico di clip infinitamente personalizzate. Ogni gesto, ogni pausa, ogni replay diventa un dato. L’attenzione è la nuova moneta, e la piattaforma è il casinò che incassa sempre.


Un’economia della distrazione

Nel suo racconto, Mello mette in fila le tappe di una colonizzazione culturale: dal Berlusconismo come laboratorio della televisione commerciale all’ideologia californiana delle Big Tech, passando per le distorsioni della politica social che hanno alimentato Brexit e Trump. Tutto riconduce a un’unica pulsione: il profitto.

L’Auditel, spiega l’autore, è stato il “like” ante litteram; il mantra di Zuckerberg, “Move fast and break things”, ha consacrato la rottura di ogni etica comunicativa. Instagram ha trasformato l’autenticità in un’estetica sponsorizzata, TikTok ha addestrato miliardi di utenti al pensiero di dieci secondi, mentre l’intelligenza artificiale – l’ultimo arrivato nella catena alimentare dei media – rischia di sigillare definitivamente la gabbia della commercializzazione totale.

Siamo pervasi dalla merdificazione perché siamo pervasi dalla commercializzazione”, scrive Mello, con un tono che è insieme analitico e disperato.


È possibile un futuro diverso?

Eppure, nonostante il titolo cupo, Arretriamo nel futuro non è un libro rassegnato. Mello intravede un varco possibile: “L’occasione verrà con la prossima crisi”, scrive, “perché ogni crisi è anche un momento di ricostruzione”. Contro la “società di mercato permanente” e la dittatura del virale, propone un ritorno all’essenziale: contenuti che informano invece di intrattenere, comunità che dialogano invece di gridare, strumenti digitali che liberano invece di incatenare.

È un invito a disintossicarsi dalla dopamina dei feed, a riappropriarsi del tempo, della curiosità e del pensiero critico. Un gesto di resistenza culturale che parte dal riconoscere il problema – la “merdificazione” – e sceglie di non accettarlo come destino inevitabile.


L’autore: il cronista del caos digitale

Federico Mello è una voce lucida nel panorama giornalistico italiano. Dopo aver raccontato l’universo dei social in “Essere Chiara Ferragni” (Aliberti, 2022) e riletto la storia politica italiana con “Compagno” (Utet, 2021), oggi affronta il tema più urgente: il rapporto fra tecnologia, informazione e potere. Con uno stile diretto, a tratti narrativo, mescola aneddoti mediatici e riflessioni sociologiche in un saggio che sa essere tanto divulgativo quanto corrosivo.

Il suo nuovo libro è un promemoria per chiunque lavori – o sopravviva – nel mondo della comunicazione: non basta produrre contenuti, bisogna capire in che tipo di ecosistema li stiamo gettando.


Un manuale di autodifesa per menti digitali

Arretriamo nel futuro è, in fondo, una guida di sopravvivenza nell’era dell’algoritmo. Un testo che parla a giornalisti, creator, insegnanti, ma anche a chi ogni giorno apre lo smartphone e si chiede, confusamente, se la tecnologia lo stia rendendo più libero o più schiavo.

Con la consapevolezza che il cambiamento non nasce dai like, ma dalla capacità di fermarsi, comprendere e scegliere.

Addio MTV Music in Europa: La Fine di un’Epoca?

MTV chiude i suoi canali musicali tematici in gran parte d’Europa: un taglio netto che suona come una campana a morto per un pezzo della nostra cultura pop. Per la generazione cresciuta a pane e videoclip, lo slogan “I want my MTV” non era solo un claim, ma una dichiarazione d’amore. Oggi, però, il colosso mediatico sembra dire: “Non li vogliamo più noi”. Ma cosa significa davvero la scomparsa di MTV Music in UK, Benelux e altrove? È la vera fine di un’era o solo la conferma che il futuro è già qui?

Da Music Television a Reality Show: L’Evoluzione Brutale

La storia è nota: MTV, nata nel 1981 (non 1984 come riportato nel testo, ma il concetto non cambia!), ha plasmato l’immaginario di intere generazioni, dettando le mode e sdoganando un nuovo linguaggio visivo. Poi, la musica ha iniziato a sbiadire in favore dei reality show e dell’intrattenimento generalista (e diciamocelo, a volte trash).

Il testo lo conferma: l’obiettivo di Paramount Skydance è tagliare i rami secchi. Canali come MTV 80s, MTV 90s, Club MTV e persino l’evento di punta, gli Europe Music Awards (EMA), vengono sacrificati sull’altare della convenienza strategica e dello streaming su Paramount+. Il flagship MTV sopravvive, ma è un guscio vuoto, riempito da Catfish, Teen Mom e, negli USA, Ridiculousness.

Il Vero Colpevole? YouTube, TikTok e Spotify

La verità, dolorosa ma innegabile, è che l’utente medio tra i 20 e i 40 anni (il nostro target) non ha più bisogno di un palinsesto lineare per la musica. Se vuoi rivedere un’iconica performance dei Video Music Awards (VMA) o ascoltare l’ultima hit di un artista, non aspetti la rotazione televisiva. Vai su YouTube, salvi il brano su Spotify o scopri la nuova banger virale su TikTok.

Questa è la vera rivoluzione del consumo musicale:

  • On-Demand: Scegli cosa, quando e come ascoltare/vedere.
  • Algoritmi: Le piattaforme conoscono i tuoi gusti meglio di un VJ storico.
  • Brevità e Verticalità: I video musicali lunghi lasciano il passo ai brevi clip e ai formati pensati per i social.

I canali musicali tematici di MTV erano i residuati bellici di un sistema obsoleto. La loro chiusura è un atto finale che certifica la vittoria dello streaming e della distribuzione digitale.

L’Eccezione Italiana: Un Piccolo SOS

L’unica nota “positiva” per noi nerd italiani è che MTV Music (il canale tematico) sopravvive in Italia. Un piccolo, forse temporaneo, baluardo di resistenza. Ma anche qui, è un’oasi in un deserto, visto che il focus aziendale di Paramount Global è chiaramente su Paramount+ e sull’assetto in vista della potenziale (e gigantesca) fusione con Warner Bros. Discovery.

Nostalgia vs. Realtà: Il Prezzo del Progresso

Resta un retrogusto amaro. Quello che si perde non è solo un canale TV, ma un luogo. Un punto di riferimento generazionale che univa i fan di cinema, fumetti, musica e cultura pop sotto un unico tetto. Il logo di MTV, quello con il mattone che cambiava, simboleggiava proprio questa fluidità e centralità. Sacrificarlo per “ottimizzare le risorse” è cinico, ma necessario in un mercato guidato dalla competizione tra giganti come Netflix, Disney e, appunto, la potenziale super-entità Warner-Paramount.

Quindi, no: non è la fine del mondo. La musica è viva, più accessibile che mai. Ma è la fine di un’epoca, quella in cui un canale televisivo poteva dettare l’immaginario collettivo globale. E, diciamocelo, una parte di noi sentirà sempre un piccolo, nostalgico impulso a urlare: “I want my MTV!

Instagram compie 15 Anni: Da “Polaroid Digitale” a Arena di TikTok. Cosa Ricordiamo del Design Perduto?

Sembra ieri che ci riunivamo per scegliere il filtro perfetto per la foto del pranzo, e invece eccoci qui: Instagram compie 15 anni. Era il 6 ottobre 2010 quando vedeva la luce, e in soli due mesi contava già un milione di iscritti. Oggi vanta oltre 3 miliardi di utenti attivi, ma la sua storia è una parabola affascinante di cambiamenti radicali, ripensamenti e, diciamocelo, di dolorosi addii.

Per noi che siamo cresciuti con la cultura pop e la tecnologia in evoluzione, Instagram non è stato solo un social: è stato un vero e proprio specchio dei tempi. Ripercorriamo l’evoluzione di questo colosso, analizzando come il suo design e le sue funzionalità si sono evolute, spesso abbandonando il proprio DNA per inseguire la concorrenza.

L’Epoca d’Oro del Quadrato Perfetto (2010-2014)

All’inizio, Instagram era puro minimalismo analogico: un’app dedicata esclusivamente alle foto quadrate (formato 1:1), pensate per evocare le vecchie Polaroid. I filtri erano la vera star, il “trucco magico” che rendeva ogni scatto degno di essere condiviso.

  • Il Cambio di Direzione: Pensate che i co-fondatori avevano inizialmente pensato a un’app per il check-in (tipo Foursquare)! Fortunatamente, virarono sulle foto istantanee.
  • L’Acquisizione Epocale (2012): L’acquisizione da parte di Facebook (Mark Zuckerberg) per 1 miliardo di dollari fu definita esagerata. Col senno di poi, è stato il colpo di genio del decennio.
  • L’Invasione Video (2013): L’idea originale delle foto immutabili iniziò a vacillare quando vennero introdotti i video, inizialmente limitati a 3-15 secondi. Un piccolo passo che ha aperto un vaso di Pandora.

L’Addio all’Essenziale e l’Inseguimento dei Trend (2015-2019)

Dal 2015, Instagram ha iniziato a perdere la sua innocenza. L’abbandono del formato 1:1 in favore delle proporzioni verticali è stato il primo, doloroso tradimento per i puristi.

Ma il vero punto di svolta arriva nel 2016 con le Storie, un copia-incolla spudorato, ma efficace, di Snapchat. Le Storie, contenuti che si autodistruggono dopo 24 ore, hanno cambiato per sempre la frequenza e la natura dei nostri contenuti. Da qui in poi, la piattaforma ha smesso di innovare per dedicarsi all’adattamento aggressivo.

Gli anni successivi sono stati un susseguirsi di nuove funzionalità (Dirette Live, Caroselli) e, significativamente, di cambiamenti “silenziosi”: nel 2019 scompare la visualizzazione dei “Mi piace” per gli altri (un piccolo passo per la privacy ma un grande per l’ansia da prestazione) e viene eliminato il tab Attività, che permetteva di spiare like e commenti di chi si seguiva.

Il Dominio di TikTok e il Futuro Incerto (2020-Oggi)

La pandemia del 2020 ha segnato l’apice della trasformazione. Con l’ascesa inarrestabile di TikTok, Instagram ha risposto con i Reels, video verticali identici al suo rivale cinese. Da quel momento, l’algoritmo ha penalizzato le foto in favore del formato video, spingendo gli utenti a creare contenuti sempre più fugaci e performanti. L’identità della “photo app” è stata completamente sacrificata.

Oggi, tra le Note testuali che tentano di recuperare un po’ di immediatezza e i test (falliti) su mode passeggere come gli NFT (2022), l’unica costante è il cambiamento e il tentativo di essere “tutto per tutti”.

Riflessione: Il Design Come Eco della Cultura Pop

La storia di Instagram è la storia della nostra generazione: una transizione rapida e a volte spiazzante dall’analogico al digitale, dall’estetica curata alla performance costante. L’evoluzione del suo logo, dalla fotocamera Polaroid nostalgica al minimalismo astratto fucsia e bianco, riflette questa perdita di identità.

Ricordare i 15 anni di Instagram non significa solo celebrare un successo miliardario, ma anche riflettere su quanto la pressione della concorrenza (Snapchat, TikTok) abbia costretto i giganti a rinunciare alla propria anima. Forse la vera nostalgia non è per i vecchi filtri, ma per quell’epoca in cui un social media era ancora fedele alla sua idea originale: un semplice, perfetto, quadrato di magia.

L’Allarme Skincare Precoce tra TikTok, AI e il Lato Oscuro del Marketing Pop

Ammettiamolo: siamo cresciuti sognando di diventare come i nostri eroi dei fumetti o i protagonisti dei film, ma la Generazione Alpha (e le loro sorelle maggiori della Gen Z) ha eroi diversi. Non sono più le Winx, ma le content creator come Salish Matter (15 anni, 4,6 milioni di follower) che lanciano marchi di skincare che fanno sold out in un’ora.

Le cosiddette “Sephora Kids” – preadolescenti tra i 9 e i 14 anni ossessionate dalla cura della pelle e, incredibile, dalla prevenzione delle rughe – sono un campanello d’allarme che non possiamo ignorare? Non è solo una moda, è un fenomeno che affonda le radici nel mondo digitale che noi analizziamo ogni giorno.

TikTok, K-Beauty e L’Effetto North West

Il fenomeno non è nuovo, certo. Chi di noi non ha rubato un po’ di ombretto o smalto alla mamma da piccolo? Ma la differenza, oggi, è la scala e la precocità.

  1. L’Esposizione Precoce: L’algoritmo di TikTok e YouTube non fa distinzioni d’età. Le giovanissime sono bombardate da tutorial di makeup e routine skincare complesse, spesso veicolate da creator più grandi, o, peggio, da figlie di celebrità come North West (Kim Kardashian) o le figlie dell’influencer Mely Garza che mostrano routine a 7 anni. Questo crea modelli aspirazionali e, diciamocelo, una pressione estetica insostenibile.
  2. L’Attrattiva Nerd del Prodotto: Parliamo di K-Beauty (la cosmesi coreana, i cui prodotti sono i più richiesti) o marchi come Drunk Elephant e The Ordinary. Questi non sono semplici trucchi, ma prodotti con ingredienti specifici (retinoidi, acidi vari) e packaging “da collezione” che alimentano una mentalità da completisti. Per la Gen Z e Alpha, l’acquisto non è solo vanità, è l’atto di possedere la pozione magica o l’oggetto raro visto nell’ultimo unbox su TikTok. Un’evoluzione del collezionismo di card o miniature, ma applicata alla propria pelle.

Le ragazzine, come confermano i commessi di profumeria, arrivano con l’esatta cifra in contanti per quel brand specifico visto online, dimostrando un livello di ricerca e determinazione degno di un speedrun videoludico.

Quando la Prevenzione Incontra il Pericolo (Inutile)

Qui casca l’asino e si entra nel campo di chi, come noi, tiene d’occhio la tecnologia e la scienza. La divulgatrice Beatrice Mautino lo chiarisce: sebbene i cosmetici debbano essere sicuri per legge, usare prodotti come i retinoidi (antirughe potenti) a 12 anni non solo è inutile ma potenzialmente dannoso.

Applicare antirughe sulla pelle che è in piena evoluzione significa destabilizzarla. Come un nerf in un gioco, si rischia di peggiorare la situazione (irritazioni, macchie) senza alcun beneficio. La consapevolezza digitale di queste ragazze è altissima (sanno quale brand cercare), ma la consapevolezza scientifica è pari a zero: vedono il tutorial, non pensano alla crema solare protettiva.

Il Nostro Ruolo: Cultura Pop e Consumo Consapevole

Come redattori di una rivista che si occupa di cultura pop e tecnologia, abbiamo il dovere di analizzare questo crossover inquietante.

  • Il Business: Le aziende (come Drunk Elephant o Bubble) hanno fiutato l’affare e stanno lanciando linee child-friendly. Il capitalismo è più veloce della maturità.
  • L’Impatto Sociale: Dietro l’acquisto di una crema super-costosa, c’è l’idea, trasmessa dai social, che si debba contrastare l’invecchiamento a 10 anni e raggiungere uno standard di bellezza preimpostato. È un boss finale troppo difficile per la loro età.

Dobbiamo riflettere su come i media digitali e le influencer stiano trasformando l’infanzia in un early access al consumo adulto. È tempo di parlare di media literacy e scienza (la vera, non quella da tutorial) con lo stesso hype che mettiamo nel commentare il prossimo film Marvel.

Cosa ne pensate? La beauty routine preadolescenziale è solo un gioco o un sintomo del lato oscuro dell’economia dell’attenzione?

#SephoraKids #Skincare #GenAlpha #GenZ #CulturaPop #TikTok #Influencer #Marketing #Cosmetici #TechEBusiness

Vine e TikTok: La Storia dei Video Brevi e il Ritorno con l’AI

Quanto valgono sei secondi? Chi di voi ha passato ore a guardare video in loop di sei secondi, ridendo senza sosta? Probabilmente in molti, anche se forse non vi ricordate più il nome dell’app che ha reso possibile tutto questo. Prima che TikTok dominasse il mondo, c’era Vine, l’O.G. dei video brevi che ha cambiato per sempre internet.

Nata nel 2012, l’app ha avuto una vita breve ma intensa, conquistando il cuore di una generazione e diventando il compagno perfetto per Twitter. L’intuizione delle clip brevissime, in un’epoca in cui i video non erano ancora i padroni delle piattaforme, ha spianato la strada a una rivoluzione. Ma perché ne stiamo riparlando proprio ora? Perché il suo fantasma è tornato a bussare alla porta, grazie a un “padrone di casa” d’eccezione: Elon Musk.

Il Loro Mito: Vine e la Nascita del Video Breve

Cosa ha reso Vine così speciale? La sua forza era la sua limitazione: sei secondi per raccontare una storia, creare una gag o immortalare un momento assurdo. Un’idea che ha costretto i suoi creatori, i famosi “viners”, a diventare dei veri maestri della micro-commedia e della creatività istantanea. Questo formato ha precorso i tempi e ha dimostrato al mondo che i video non dovevano essere per forza lunghi per essere popolari.

Non è un caso che la sua popolarità abbia spinto Instagram a lanciare i suoi video da 15 secondi e abbia ispirato una piccola azienda cinese, ByteDance, a fondere le sue app per creare l’erede naturale di Vine: TikTok. Il trionfo dei contenuti video fugaci, che oggi dominano ogni piattaforma, è partito proprio da qui.

Il Ritorno dal Mondo dei Morti: L’Inatteso Piano di Elon Musk

Il colpo di scena arriva direttamente da Elon Musk. Dopo aver solleticato l’interesse dei suoi follower per anni, il magnate ha annunciato di aver ritrovato l’archivio con le storiche clip di Vine, che si pensava fosse andato perso per sempre. E, come suo solito, ha subito lanciato l’idea di riesumare l’app in chiave AI tramite Grok, la sua intelligenza artificiale.

L’idea è tanto ambiziosa quanto folle: utilizzare il vasto archivio di video di Vine per addestrare un futuro modello di AI generativa. Immaginate: prendere tutta la cultura pop, la comicità e la creatività di quegli anni e usarla come base per insegnare a un’IA a generare video da un semplice prompt. Un’operazione da “necromante tecnologico” che darebbe nuova vita a uno strumento amato e, potenzialmente, darebbe a Grok un vantaggio competitivo unico.

Siamo ancora nel regno delle promesse, ma l’idea è affascinante. Potremmo davvero vedere un Vine 2.0, dove l’intelligenza artificiale crea video che sembrano usciti direttamente dall’età d’oro del web? Il futuro dei social potrebbe essere un remix del passato, e noi non vediamo l’ora di scoprire se questa pazzia si avvererà.

TikTok è salvo: l’algoritmo non lascia gli USA grazie all’accordo tra Trump e ByteDance

Negli ultimi mesi, per milioni di americani, il vero cliffhanger non era il finale della nuova stagione di The Boys o se davvero arriverà un crossover tra Spider-Man e i Fantastici 4. No, la vera paura era una sola: “Che ne sarà di TikTok?”.

Il social delle challenge infinite, dei duetti improbabili e delle transizioni da far impallidire Doctor Strange è stato a un passo dal ban definitivo. Una condanna che avrebbe trasformato la Gen Z in un esercito orfano, senza più il loro feed infinito da scrollare fino alle tre del mattino. Ma, proprio come in un anime shōnen, quando il protagonista è alle corde, arriva sempre il power-up: TikTok non andrà da nessuna parte. L’algoritmo resta, almeno per ora, al suo posto.

La trama è degna di un cinecomic: a gennaio 2025, la Corte Suprema americana aveva confermato il ban. TikTok doveva sparire, game over. Immaginate la scena: iPhone usati venduti come reliquie nerd con l’app ancora installata, APK pirata diffusi nei forum come se fossero manuali segreti dei Jedi, creator disperati come se Thanos avesse schioccato le dita cancellando metà dei loro follower. Un’apocalisse digitale che sembrava scritta da Cyberpunk 2077.

Poi, colpo di scena: il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. In conferenza stampa ha lanciato un messaggio criptico, alla Palpatine: non ha mai detto il nome TikTok, ma parlava chiaramente di “un’azienda che i giovani volevano tanto salvare”. Boom: i feed sono esplosi. Subito dopo, il Segretario del Commercio Jamieson Greer ha confermato che un accordo “complicato e delicato” era stato raggiunto. Tradotto dal politichese: il ban non scatta, l’algoritmo resta operativo, i duetti possono continuare.

Ma non è finita qui, perché la storia si è trasformata in un battle royale degno di Fortnite. Microsoft e Oracle pronti a combattere con skin premium, Amazon che entra in lobby fiutando il colpaccio, e persino MrBeast che si candida come outsider con la sua energy da NPC diventato boss finale. Sì, MrBeast proprietario di TikTok: lo spin-off che non sapevamo di volere.

Il cuore della questione, però, è sempre lo stesso: sicurezza nazionale. Washington teme che ByteDance faccia da ponte per la Cina, rubando dati come se fossero Infinity Stones. ByteDance nega e prova a rassicurare tutti, ma in un mondo dove i dati valgono più del vibranio, è chiaro che la tensione rimane altissima.

E come in ogni saga cinematografica, gli effetti collaterali non mancano: CapCut, l’app di editing preferita dai creator, ha subito interruzioni. Persino Marvel Snap, il gioco mobile diventato fenomeno nerd, è finito nel mirino, con i server pronti a collassare come la Morte Nera. L’universo ByteDance stava scricchiolando da tutte le parti.

Intanto, ByteDance ha risposto come un eroe Marvel portato in tribunale da Tony Stark: ha fatto causa al governo USA, sostenendo che il ban violi la libertà di espressione. Un plot twist che ha trasformato TikTok da “app di balletti e lip sync” a simbolo dei diritti digitali. Nel frattempo, Pechino ha accusato Washington di abuso di potere, accendendo un fuoco incrociato che sembra uscito da Civil War, con il mondo diviso in #TeamUSA e #TeamChina.

Ora tutti gli occhi sono puntati sull’incontro tra Trump e Xi Jinping: sarà un boss fight in stile Final Fantasy, con i dettagli dell’accordo a fare da colpi di scena. Joint venture? Trust sull’algoritmo? O magari una soluzione più assurda, tipo TikTok gestito da un consiglio misto che sembra il Consiglio Jedi? Qualunque sia la risposta, una cosa è certa: per ora, i feed americani sono salvi.

Ed è proprio questo il punto più affascinante: un’app nata per balletti e meme è diventata il terreno di scontro tra superpotenze, un campo di battaglia dove like e dati valgono come armi nucleari. La storia di TikTok ci ricorda che viviamo in un mondo dove i confini tra cultura pop, politica e tecnologia sono ormai un glitch costante.

La domanda è: questa è davvero la fine della saga o solo l’inizio di una nuova stagione? Intanto possiamo tirare un sospiro di sollievo, rimettere le cuffie e scorrere il feed. Perché almeno per oggi, l’algoritmo è ancora dalla nostra parte.

Dramione conquista Hollywood: la fanfiction “Alchemised” diventa un film

C’è una magia che nessun incantesimo di Hogwarts ha mai potuto insegnare. Non è il potere di evocare un Patronus o di piegare la realtà con una bacchetta, ma la forza instancabile della fantasia dei fan. Chi è cresciuto tra le mura del castello più famoso del mondo sa che tra quelle pagine si nascondeva sempre qualcosa in più, qualcosa che non era stato scritto ma che i lettori più appassionati riuscivano a scorgere tra le righe. È da quella scintilla che è nato il Dramione, la “ship” che unisce Draco Malfoy ed Hermione Granger, trasformando due acerrimi nemici in protagonisti di storie di passione e redenzione. E oggi, quel sogno collettivo varca una nuova soglia: la fanfiction Alchemised di SenLin Yu diventa un film prodotto da Legendary Pictures.

Dal fandom agli studios: un salto che sembra magia

La notizia, confermata da testate come The Hollywood Reporter, è di quelle che fanno tremare i cuori dei fan: la casa di produzione ha investito milioni di dollari per portare sul grande schermo quella che era nata come una fanfiction pubblicata online. Una storia che prima ha conquistato Archive of Our Own, poi è diventata un romanzo pubblicato da Rizzoli, e ora si prepara a stregare il cinema internazionale.

Non vedremo Draco e Hermione con i loro nomi canonici, ma l’eco della loro relazione proibita aleggia in ogni pagina di Alchemised. Al centro c’è Helena Marino, un’alchimista della Resistenza prigioniera del nuovo regime di Paladia, un mondo oscuro governato da gilde corrotte e negromanti spietati. Privata della memoria e intrappolata nella tenuta di un Alto Reeve, Helena deve affrontare i fantasmi del passato e proteggere l’ultima verità nascosta nella sua mente. È una trama cupa, intrisa di sofferenza e speranza, che porta con sé l’essenza del Dramione: due forze opposte costrette a riconoscersi nell’oscurità.

Il fascino eterno di Dramione

Perché proprio questa ship, tra tutte, ha saputo resistere e crescere fino a diventare un fenomeno globale? Forse perché il Dramione incarna uno dei tropi narrativi più amati: gli Enemies to Lovers. Draco, l’erede dei Malfoy, simbolo di privilegio e pregiudizio. Hermione, figlia di Babbani, genio e coscienza morale del trio. Due mondi inconciliabili che, proprio nel conflitto, trovano il terreno fertile per un amore impossibile.

Non è mai stato canonico, certo, ma per milioni di fan ogni sguardo carico di odio, ogni battuta velenosa, perfino lo schiaffo (o pugno, a seconda della versione) nascondeva una tensione più profonda. È la magia del fandom: là dove l’autrice ha scelto il silenzio, i fan hanno scritto un intero universo alternativo.

Dalle fanfiction agli scaffali: la nuova era dell’editoria pop

Il successo di Alchemised non è un caso isolato. Negli ultimi anni le fanfiction Dramione hanno conquistato l’editoria tradizionale. Julie Soto ha trasformato The Auction in Rose in Chains, pubblicato da Newton Compton, mentre altre autrici come Brigitte Knighyley hanno portato sul mercato romanzi spicy e slow burn che tradiscono chiaramente le loro origini nel mondo Dramione.

Quello che un tempo era un passatempo quasi clandestino, nascosto tra le pagine di FanFiction.net, oggi è un fenomeno editoriale di massa, supportato da case editrici e spinto da piattaforme come TikTok, dove gli hashtag #dramioneedit e #dramionefanfic hanno totalizzato milioni di visualizzazioni.

TikTok e la rivoluzione della narrativa dal basso

Se il fandom ha creato la storia, è stato l’algoritmo di TikTok a trasformarla in un fenomeno globale. Video edit struggenti, colonne sonore ipnotiche e citazioni da brividi hanno portato queste storie oltre i confini della community potteriana, conquistando un pubblico nuovo e variegato. Il Dramione è diventato simbolo di una narrativa alternativa, autentica, capace di parlare di crescita, trauma, riconciliazione.

Perché in fondo, in queste storie Draco non è più solo il bullo privilegiato e Hermione non è più solo la secchiona del trio: insieme diventano il riflesso di ciò che i fan hanno sempre desiderato vedere, ossia che persino chi è cresciuto nell’odio può imparare ad amare.

Dal web al cinema: la consacrazione definitiva

Ora, con Alchemised pronto a diventare film, il Dramione entra ufficialmente nella storia della cultura pop. Non più solo fanfiction, non più solo culto sotterraneo, ma fenomeno riconosciuto e celebrato a livello internazionale.

Per la community è una vittoria che va oltre l’adattamento cinematografico. È la dimostrazione che la voce dei fan conta, che la creatività condivisa online può plasmare il futuro della narrativa e persino dell’industria dell’intrattenimento.

E voi, siete pronti a rivivere questa magia? Avete già letto Manacled o scoperto nuove fanfiction che vi hanno spezzato e ricomposto il cuore? Raccontatecelo nei commenti e condividete questo articolo: perché Hogwarts è ancora viva, e l’amore — anche quello impossibile — continua a farci sognare.

Waveful sale di livello: la startup italiana da 2,1 milioni di euro che vuole sbloccare l’achievement USA

Amici nerd, tech-addict e curiosi del multiverso digitale, preparate i controller: la scena startup italiana ha appena sbloccato un achievement incredibile. Un’onda, anzi, un vero e proprio tsunami, sta per travolgere il panorama social globale, e il suo nome è Waveful. Questa social app made in Italy, che ha saputo mescolare sapientemente le meccaniche di community dei videogiochi con la creatività dei social network, ha appena chiuso un round seed da 2,1 milioni di euro. Non è solo un power-up, ma un vero e proprio boost di esperienza che la proietta verso il prossimo, gigantesco, livello: l’espansione internazionale.

Il party da raid internazionale: investitori da leggenda

Per un’impresa così ambiziosa, serviva un party da raid di alto livello, e Waveful ha saputo radunare un team di investitori che, per chi mastica un minimo di Silicon Valley e finanza tech, suonano come boss di fine livello. Alla console c’è a16z Speedrun, il programma di Andreessen Horowitz, uno dei venture capitalist più influenti al mondo, dedicato alle app consumer e gaming più promettenti. Immaginate di essere notati dal team che ha investito in giganti come Slack, Facebook, Pinterest e Airbnb. Un’impresa non da poco. Ma il party non finisce qui: a fianco di a16z ci sono Italian Angels for Growth (IAG), Vento Ventures, Zest, Vesper Holding, e un vero dream team di angel italiani e americani, tra cui player del calibro di Andrea Ruosi, Vito Lomele, Nick Swift, Simone Cimminelli, Tommaso Tosi, Vincenzo Alagna, Omar Bertoni, Andrea D’Aietti e Jesse Chor. Insomma, un vero e proprio team da multiplayer competitivo, pronto a supportare la prossima quest di Waveful.

Dalle basi al successo: il game dei fratelli Motta

Se c’è una storia che merita di essere raccontata, è quella dei due fondatori di Waveful, i fratelli Steven e Dennis Motta, classe 2003 e 1997. Dimenticate le narrazioni hollywoodiane dei fondatori invecchiati e super ricchi. Qui siamo di fronte a due giovani sviluppatori con una visione chiara: creare una piattaforma che non si limitasse a essere l’ennesimo feed di foto e video, ma un vero e proprio “server” dove le persone potessero connettersi attraverso le proprie passioni. In un mondo che tende sempre di più alla “modalità solitaria” e alla frammentazione, Waveful vuole diventare il posto perfetto per trovare il proprio party. E i numeri, a dir poco sbalorditivi, dimostrano che la missione sta funzionando alla grande. In meno di sei mesi, l’app ha superato i 3 milioni di download, con una crescita mensile che ha raggiunto e superato il +200%. I ricavi in vendite B2C hanno superato il milione di dollari, e le metriche di engagement e retention la posizionano nella top 10% globale delle piattaforme social. Parliamo di statistiche che, nel gergo dei giochi di ruolo, indicano un personaggio con un livellamento esponenziale.

La prossima quest: USA e l’era dell’AI

Con un boost di esperienza così importante, la roadmap di Waveful per i prossimi livelli è già tracciata. La prima e più ambiziosa quest è l’espansione negli Stati Uniti, con l’obiettivo di raggiungere 500.000 utenti americani in 12 mesi. Ma non si tratta solo di crescita numerica. Waveful punta a un upgrade “AI-first”, che introdurrà nuove feature basate sull’intelligenza artificiale per migliorare l’esperienza utente e la scoperta di nuovi contenuti. Per supportare questa espansione, il team si prepara a reclutare nuovi “player”, con 4-6 assunzioni previste nei reparti engineering, growth e marketing.

Il badge d’onore e la visione del futuro

L’ingresso nel programma Speedrun di a16z non è stato un evento casuale. Waveful si è distinta come la startup più veloce a crescere e, udite udite, come l’unica italiana del batch. Un vero e proprio badge d’onore, che il founder Steven Motta ha commentato con l’entusiasmo di un protagonista di un JRPG al culmine della sua avventura. Robin Guo, investment partner di a16z, ha colto perfettamente l’essenza di Waveful e la sua visione. Il futuro dei social network, secondo lui, non sarà più incentrato sulla semplice monetizzazione dell’attenzione, ma sulla creazione di veri e propri marketplace per creator e fan, dove i content creator potranno monetizzare direttamente le loro attività. In altre parole, meno grinding, più loot reale. Waveful è un’opportunità, tutta italiana, di divertirsi e avere una fantastica esperienza, e per i creatori di prosperare. Waveful è disponibile per il sistema operativo Android, sul Google Play Store, e per iOS, sull’App Store.

Anche io ho provato a creare il mio profilo? se fate un salto su Waveful mi trovate all’indirizzo: https://waveful.app/accounts/satyrnet

Film da smartphone: tra David Lynch e TikTok, il cinema è in tasca?

Se c’è una cosa che fa arrabbiare David Lynch più delle trame contorte, è vedere i suoi film su uno smartphone. Per l’autore di Twin Peaks, guardare un’opera cinematografica sul “fottuto telefono” è un’esperienza impoverita, una truffa per la nostra percezione. È un’affermazione forte, ma ha ragione? O forse si sbaglia, come spesso accade ai puristi?

In realtà, il punto di vista di Lynch, seppur estremo, tocca un nervo scoperto: il modo in cui consumiamo i media è cambiato per sempre. I nostri smartphone non sono più solo telefoni, ma finestre sul mondo, e sempre più spesso anche sullo schermo cinematografico. Non solo per guardare film e serie in autobus, ma anche per fare altro… tipo rovinare la visione agli altri in sala.

L’era dell’“Instagrammabile” e il ritorno alla produzione

Negli ultimi anni, l’iPhone è tornato prepotentemente al centro del dibattito sul cinema, ma per due motivi molto diversi.

Da una parte, c’è la fastidiosa (e diciamocelo, maleducata) moda di scattare foto allo schermo del cinema. Che sia l’anteprima di un festival o la prima proiezione del nuovo film Marvel, c’è sempre qualcuno che alza il cellulare per catturare il “momento più instagrammabile” da condividere. Un gesto che rompe la magia della sala e che ci fa riflettere su come la fruizione sia diventata più uno status da esibire che un’esperienza da vivere.

Dall’altra, però, gli smartphone sono diventati veri e propri strumenti di produzione. Girare un film con un iPhone non è più una stranezza, ma una scelta artistica o una necessità low-budget. Registi come Steven Soderbergh e Sean Baker lo hanno fatto con risultati sorprendenti. Di recente, anche il veterano Danny Boyle ha girato il suo nuovo horror, 28 anni dopo, usando questi dispositivi, esplorando la libertà espressiva che offrono.

Il cinema verticale: un futuro da social?

Il dibattito non si limita solo all’utilizzo dei cellulari per girare, ma anche a come e dove vediamo i contenuti. Ricordi la serie interattiva di Soderbergh, Mosaic, dove potevi scegliere la trama tramite un’app? Era il 2018 e già si esploravano i confini della narrazione su smartphone.

E che dire del formato verticale? Nato su TikTok e Instagram, sta influenzando anche il cinema. L’esempio più lampante è il Vertical Movie Festival, un evento dedicato interamente a opere girate in verticale. Persino un autore classico come Peter Greenaway aveva espresso l’intenzione di girare un film in questo formato, anche se il progetto è rimasto nell’aria.

A batterlo sul tempo è stato Timur Bekmambetov, che nel 2021 ha rilasciato V2. Escape From Hell, il primo blockbuster interamente verticale. E se persino il festival di Cannes ha stretto una partnership con TikTok, creando un concorso di cortometraggi in verticale, è chiaro che qualcosa è cambiato. Gli smartphone sono entrati ufficialmente anche nel salotto più esclusivo del cinema mondiale.

Sala vs. schermo, una battaglia (forse) già vinta

Nonostante la crescente influenza degli smartphone, non c’è da temere. I dati lo confermano: la sala cinematografica non ha perso il suo potere. Pensa a un film come Dune – Parte 2 o al prossimo progetto di Christopher Nolan, le cui prevendite per le proiezioni IMAX sono già sold out.

Il cinema in sala rimane un’esperienza collettiva, immersiva e irripetibile. Nonostante la comodità di avere un film in tasca, la magia del grande schermo resta insuperabile. La battaglia non è tra il cellulare e la sala, ma tra chi si accontenta di una visione ridotta e chi cerca l’emozione totale.

L’ossessione per il “princess treatment”: tra favola e realtà

Ti è capitato di scorrere il feed di TikTok e imbatterti in video che esaltano il “princess treatment”? Magari con ragazze che raccontano di essere viziate dai propri partner, coccolate con colazioni a letto e cene romantiche. Ecco, questo fenomeno sta letteralmente esplodendo tra i ventenni e i trentenni, e non è solo un trend passeggero. Ma perché? Che cosa spinge una generazione cresciuta a suon di femminismo a desiderare un ritorno alla cavalleria d’altri tempi

Da Bridgerton a TikTok: il romanticismo 2.0

Mentre le nostre madri e nonne combattevano per la parità, vedendo certi gesti come simboli di un mondo patriarcale, oggi il copione sembra essersi ribaltato. La Gen Z e i millennials più giovani sono affascinati da un tipo di romanticismo quasi cinematografico, influenzato da serie TV come Bridgerton o da film d’epoca. Insomma, in un’era di appuntamenti veloci, confusi e spesso “usa e getta” (grazie, app di dating!), un po’ di galanteria “old school” sembra quasi un lusso.

Come ha spiegato a BBC Myka Meier, esperta di galateo, “in un’epoca in cui gli appuntamenti possono sembrare transazionali, le storie d’amore vecchio stile sembrano speciali”. A conferma di ciò, Daniel Post Senning, autore di Manners in a Digital World, sostiene che i drammi d’epoca hanno davvero lasciato il segno sui giovani. Ma quali sono questi gesti da “trattamento da principessa”? Si va dal caffè a letto alla manicure pagata, dalla giacca sulle spalle alla prenotazione al ristorante preferito. Insomma, un mix di attenzioni e lusso.

Il “princess treatment” contro il “bare minimum”

Sui social, il concetto di “trattamento da principessa” viene spesso messo in contrapposizione con il “bare minimum”, ovvero il minimo indispensabile che un partner dovrebbe fare. Reel e video tutorial si sprecano per spiegare come distinguere le attenzioni extra dal “minimo sindacale” che non andrebbe nemmeno celebrato. E qui entra in gioco una figura molto discussa: la “trad wife”.

Queste casalinghe “tradizionali” incarnano una versione nostalgica e patinata dell’angelo del focolare. La più celebre? Courtney Palmer, che in un video virale da 8,3 milioni di visualizzazioni ha raccontato come suo marito non la faccia mai parlare con la cameriera o aprire le porte al ristorante. Il suo consiglio per ottenere il princess treatment? Semplice: vestiti in modo “appropriato”, accetta i complimenti con grazia, non ridere forte e, soprattutto, “lascia che tuo marito prenda il comando e si comporti da maschio”. La ricompensa, in cambio di questa passività, sono gioielli, abiti firmati e una vita bucolica e spensierata.

La passività è il prezzo da pagare?

Se da un lato il mondo delle trad wives sembra un’estremizzazione, dall’altro la fantasia di un ritorno alla galanteria è reale e diffusa. Ma c’è un rovescio della medaglia. Come ha notato Emma Beddington sul Guardian, il culto del princess treatment potrebbe essere più un’abile mossa di marketing che un vero desiderio. Il punto è: vale la pena rinunciare alla propria autonomia per una vita di “calma e premurosa passività”?

È significativo che l’aspirazione sia quella di essere “principessa” (giovane, bella e da salvare) e non “regina” (con lo scettro, il potere e l’indipendenza). La passività è un ingrediente centrale e, ammettiamolo, inquietante. Le donne che un tempo non pagavano conti e bollette lo facevano perché non avevano autonomia economica. Raccontarsi oggi che scegliere di essere “servite” sia una forma di empowerment è una narrazione pericolosa. Rinunciare all’indipendenza – sia essa economica, fisica o intellettuale – rende sempre vulnerabili.

Galateo, galanteria e gentilezza: è ora di fare chiarezza

Al di là degli estremi, la questione rimane: cosa desideriamo davvero? Forse non si tratta tanto di galanteria, ma di semplice gentilezza. E qui il vecchio Galateo ci può dare una mano, con una regola intramontabile: chi invita, paga. Semplice, no? Se vogliamo parlare di parità, non ha senso che solo uno dei due partner si faccia carico del conto.

Un sondaggio della rivista francese Elle ha rivelato che il 77% degli intervistati associa gesti come “servire prima una donna” a una forma di cortesia e non più a una galanteria sessista. Questo dimostra una consapevolezza crescente. Come ha sostenuto l’economista femminista Rebecca Amsellem, “se vivessimo in una società egualitaria, la galanteria sarebbe semplicemente cortesia. Sono le nostre radici in una società diseguale che rendono la galanteria problematica”.

Insomma, il punto non è rinunciare alle attenzioni, ma slegarle dagli stereotipi di genere. L’autentica galanteria, secondo l’accademica Jennifer Tamas, non ha sesso. È un gioco piacevole in cui uomini e donne possono essere interlocutori alla pari. Magari è questo il vero “princess treatment” a cui dovremmo aspirare: un mondo di gentilezza reciproca, dove nessuno deve rinunciare a se stesso per una favola.

L’overtourism uccide le città: il caso del Giappone e il lato oscuro di TikTok

Il Cuore di una Città è nelle Piccole Cose

Hai mai pensato a cosa rende una città davvero speciale? Non sono i grandi centri commerciali o le catene di fast food, ma il carattere unico dato dalle sue piccole imprese: i caffè accoglienti, i negozi artigianali, i ristoranti a conduzione familiare. Sono questi luoghi che definiscono l’identità di un quartiere, creando una comunità e un senso di appartenenza. Al contrario, i brand globali rendono ogni luogo anonimo e intercambiabile.

Questi piccoli negozi non nascono per diventare ricchi o per inseguire la fama. Nascono dalla passione e da una visione precisa. Come Terui-san, la proprietaria di un jazz kissa a Morioka, che decise di aprire il suo locale perché nessuno suonava il wa-jyazu (il jazz giapponese) come voleva lei. La sua singola, forte opinione ha creato un luogo speciale, un punto di ritrovo per una comunità di appassionati.

E proprio questa comunità è la risorsa più preziosa di una piccola attività. Il legame con i clienti abituali, le relazioni che si costruiscono nel tempo, è la vera ricchezza. Ma cosa succede quando un algoritmo decide che il tuo piccolo, intimo locale deve diventare l’ultima tendenza virale?

La maledizione dell’algoritmo: l’overtourism da social

Versiamo una birra fredda per tutti i piccoli negozi con le code di turisti che si allungano a dismisura. Riviste come il New York Magazine hanno documentato in modo toccante cosa accade quando l’overtourism, spinto dai social media, travolge luoghi come Kyoto.

Un barista di Kyoto ha confessato in lacrime di aver aperto il suo locale solo per i suoi amici e la gente del posto. Ora, il suo bar è invaso da persone con cui non può comunicare e che non hanno alcun interesse per la sua visione. La magia di un luogo si perde quando diventa una semplice attrazione da spuntare su una lista per un selfie.

Questo fenomeno, che potremmo chiamare la “sindrome di Disneyland”, si manifesta quando i visitatori non percepiscono un luogo come una città viva, ma come un parco a tema da saccheggiare. Pensate al fenomeno di Mario Kart a Tokyo, una vera piaga per i residenti che cercano di muoversi in una megalopoli già caotica. O alla stazione di Kamakura Kokomae, trasformata in un set fotografico per i fan dell’anime Slam Dunk, con turisti che bloccano strade residenziali senza portare alcun beneficio economico alla zona.

Il paradosso del turismo moderno

L’overtourism è una sorta di disastro naturale. Non puoi arrabbiarti con l’onda, ma puoi capire cosa l’ha generata. La combinazione tra algoritmi che concentrano l’attenzione su pochi luoghi e la crescente disponibilità economica di un’enorme fetta della popolazione globale ha creato una tempesta perfetta.

La domanda è: possiamo gestirla? La risposta è sì, ma richiede un cambio di mentalità.

Paradossalmente, non c’è mai stato un momento migliore per esplorare il “lato B” del Giappone. Sebbene luoghi come Kyoto e Shibuya siano travolti dal turismo di massa, città meno conosciute come Morioka o Yamaguchi sono pronte ad accogliere viaggiatori curiosi e consapevoli. Questi luoghi offrono un’esperienza autentica, con le loro piccole imprese, le loro tradizioni e la loro storia unica.

Sono le città che accolgono quella piccola percentuale di viaggiatori (circa il 15% del totale) che non si accontenta delle “cinque grandi attrazioni”. Sono persone che cercano di connettersi davvero con la cultura locale, che studiano la lingua e che si prendono il tempo di esplorare senza fretta. Questi sono i turisti che arricchiscono un luogo, finanziariamente e culturalmente, senza sopraffare i residenti.

Come affrontare il problema?

Il Giappone, e altri Paesi in situazioni simili, potrebbero trattare il turismo di massa come una fonte di energia da incanalare. Si potrebbero applicare tasse di uscita più alte o differenziare i prezzi dei biglietti d’ingresso per turisti e residenti nelle zone più affollate.

La chiave è disperdere il turismo al di fuori dei percorsi classici. Invece di seguire la massa, i viaggiatori dovrebbero esplorare le città più piccole, dove il carattere e l’autenticità sono ancora vivi. Se trovi un posto speciale, un piccolo angolo di paradiso, per favore: non postarlo su TikTok. Il suo valore è nella sua tranquillità.

Jessica Radcliffe e la Tragedia Fake: come una bufala assassina ha Ingoiato il Web

Immaginate questa scena, che magari non vi è nemmeno troppo estranea: siete lì, a scrollare il vostro feed di TikTok. Un flusso infinito di contenuti, un algoritmo che, con una precisione quasi inquietante, vi ha letto l’anima e vi serve esattamente ciò che volete. E poi, all’improvviso, un’immagine che vi fa gelare il sangue. Non è un video patinato, non è un’influencer sorridente. Le immagini sono sporche, granulose, come un vecchio filmato ritrovato in una scatola polverosa in soffitta. Ma il messaggio, quello, è di una chiarezza sconcertante: una giovane addestratrice si immerge nella vasca di un’orca.

Quello che segue non è la solita, ipnotica coreografia che siamo abituati a vedere nei parchi acquatici. No, questo è puro, agghiacciante orrore. Il gigante marino la afferra. Non la spinge, non la accarezza. La scaglia in aria come se fosse un pupazzo di pezza, poi la trascina nelle profondità scure e inesplorate dell’acqua. Le immagini si sfocano, l’acqua si tinge di rosso, e un grido quasi digitale si leva da quella che sembra una folla sgranata. Da quel momento, un nome inizia a rimbalzare da una bacheca all’altra, da una bacheca all’altra: Jessica Radcliffe.

https://youtu.be/XeVbt4Sj27U?si=wmFWngqdS8z-WHJQ

La storia di questa presunta addestratrice americana, morta sotto le pinne di un’orca assassina, ha rapidamente assunto le proporzioni di una tragedia virale. In poche ore, un lutto che non esisteva ha popolato il web. Messaggi di cordoglio, fiumi di indignazione, e hashtag come #JusticeForJessica. C’è chi, spinto da una bontà d’animo fuori luogo, ha persino lanciato raccolte fondi per una famiglia distrutta dal dolore. Una famiglia che, in un’incredibile e quasi surreale ironia, non è mai esistita.

Ma la domanda che, a un certo punto, ha iniziato a ronzare nella testa dei più scettici era una sola: com’è stato possibile che una menzogna così palese, così facilmente verificabile, abbia ingannato milioni di persone? La risposta, come spesso accade quando si tratta di questo tipo di fenomeni, non è un complotto degno di un film, né una distorsione mediatica di un evento reale. È qualcosa di ben più subdolo e, a suo modo, di affascinante: un’invenzione dell’intelligenza artificiale. Un “crimine” perfetto in cui la vittima, il carnefice e persino i testimoni erano, semplicemente, pura finzione. Quei video che hanno totalizzato milioni di visualizzazioni erano un patchwork di difetti talmente evidenti da far dubitare della vista a chiunque li guardasse con un minimo di attenzione: pinne che si trasformavano in mani umane per un istante, movimenti innaturali che sembravano usciti da un’animazione glitchata, volti che si sfuocavano e vasche la cui forma mutava in un battito di ciglia. Eppure, una fetta incredibile di pubblico, forse spinta da una bulimia di contenuti o da una necessità di indignazione, ha preferito credere, piuttosto che verificare. Alcuni utenti si sono spinti in analisi pseudoscientifiche, teorizzando persino che l’attacco fosse una reazione dell’orca “confusa dal ciclo mestruale dell’addestratrice”. Una narrativa che rasentava il surreale ma che, in un web alla ricerca di spiegazioni a tutti i costi, ha trovato un terreno fin troppo fertile.

E perché questa menzogna ha avuto un successo così clamoroso? Perché è riuscita ad attingere, a piene mani, a una storia che già conosciamo. La tragedia di Jessica Radcliffe, un’assenza, una pura finzione, ha attinto dal mito di Tilikum, la più famosa orca assassina del mondo dello spettacolo. C’è una verità amara e tangibile dietro questa fake news: l’uccisione di Dawn Brancheau, sua addestratrice a SeaWorld Orlando, avvenuta nel lontano 2010. Una tragedia documentata, ripresa da diverse angolazioni e al centro del documentario Blackfish, che ha acceso un dibattito globale sulla detenzione di animali marini in cattività. E non fu nemmeno la prima tragedia del genere: già nel 2009, l’orca Keto aveva tolto la vita al suo addestratore al Loro Parque di Tenerife. Gli esperti, in entrambi i casi, hanno sottolineato come le orche in natura non attacchino l’uomo. Ma in cattività, stressate e costrette in spazi angusti, possano diventare imprevedibili e letali.

La grande differenza tra queste storie e quella di Jessica Radcliffe è che le prime erano eventi reali, con nomi, date, testimonianze e conseguenze concrete. Jessica Radcliffe, al contrario, è un ologramma digitale dell’orrore, un esperimento maldestro di AI storytelling che ha trovato terreno fertile nella bulimia di contenuti virali dei social. Questo fenomeno rientra in quella che gli esperti definiscono AI Slop, un fiume in piena di immagini e video generati dall’intelligenza artificiale che, pur essendo pieni di difetti, riescono a circolare a una velocità disarmante. Il web è ormai invaso da “falsi visivi” che fanno leva sulla curiosità morbosa e sulla voglia di scandalizzarsi.

Il caso Radcliffe, però, è stato un passo oltre. Non era un meme surreale o una creazione artistica, ma una tragedia inventata con la pretesa di essere reale. A colpire non è tanto la qualità delle immagini, ancora lontane dal fotorealismo, quanto la disponibilità degli utenti a crederci. Bastava un minimo di fact-checking per smascherare l’inganno: nessuna dichiarazione ufficiale da SeaWorld, nessuna associazione animalista in subbuglio, nessun giornale serio a darne notizia. Ma quando la viralità galoppa, la verità resta indietro. Il mito di Jessica Radcliffe ci dice molto sul nostro tempo. Le AI generative stanno riducendo sempre più la distanza tra ciò che è reale e ciò che appare tale. Se oggi i video sono sgraziati e malfatti, domani potrebbero essere indistinguibili da una ripresa autentica. E allora, senza spirito critico, senza cultura digitale e senza giornalismo vigile, il rischio è che la prossima “Jessica Radcliffe” non sia più una bufala così facile da smascherare.

La parte più inquietante del caso Radcliffe non è la crudeltà dell’orca (che in realtà non c’è stata), ma quella del pubblico. Come in un’arena digitale, decine di migliaia di utenti hanno applaudito, pianto, inveito, costruendo una tragedia immaginaria mattone dopo mattone. Lì sta il vero spettacolo: non negli acquari di cemento, ma nella nostra incapacità di distinguere un fatto da una fiction AI-generated. Paradossalmente, proprio mentre la società discute ancora se sia etico imprigionare animali intelligenti come le orche, ci siamo resi prigionieri volontari di vasche ancora più piccole: quelle dei nostri schermi. Forse la vera orca da temere non è Tilikum, non è Keto, non è nessun animale marino. È la voracità del web, capace di divorare la realtà e rigettarla in pasto agli utenti sotto forma di spettacolo, indignazione e bugie.

E voi, lettori, cosa ne pensate? Vi siete mai trovati davanti a una fake news così ben orchestrata da sembrare plausibile?

ByteDance lancia il guanto di sfida a Meta: in arrivo “Swan”, il visore XR che rivoluzionerà TikTok

Nel panorama sempre più affollato della tecnologia immersiva, dove ogni azienda sembra voler accaparrarsi una fetta del futuro digitale, arriva un colpo di scena degno di un film di fantascienza. ByteDance, il gigante cinese dietro TikTok, si prepara a fare il suo ingresso ufficiale nel mondo della realtà mista (XR) con un visore tutto nuovo, attualmente noto con il nome in codice “Swan”. E no, non stiamo parlando di un concept vago o di una voce infondata: le informazioni provengono da un report accurato di The Information, e i dettagli sono succosi abbastanza da far venire l’acquolina in bocca a ogni appassionato di realtà virtuale, aumentata e… di TikTok, ovviamente.

Ma andiamo con ordine. Il nuovo visore XR in sviluppo da ByteDance non sarà un semplice clone del Meta Quest o dell’Apple Vision Pro. L’obiettivo, secondo quanto emerso, è ambizioso: creare un dispositivo indossabile che offra un’esperienza XR avanzata ma con un design ultraleggero, portando la realtà mista a un livello di accessibilità e comfort mai visto prima. Immaginate un paio di occhiali da sci dal look futuristico, collegati a un’unità esterna tascabile — una “computing puck”, come quella del progetto Orion di Meta — che svolge il compito sia di alimentazione che di centro di elaborazione. In parole povere: meno peso sulla testa, più potenza nella tasca.

Questa scelta architettonica non è casuale. Trasferire il carico computazionale e l’alimentazione a un modulo esterno è una strategia simile a quella adottata da Apple con il Vision Pro. Il vantaggio? Un dispositivo più leggero, maneggevole e confortevole da indossare per sessioni prolungate, magari proprio mentre si scrolla TikTok… ma in una nuova dimensione, tra ologrammi, effetti AR e interazioni immersive.

A realizzare questa piccola meraviglia tecnologica sarà Pico, la divisione XR di ByteDance, già nota per il visore Pico 4. Nonostante l’hardware del Pico 4 fosse promettente, soffriva di una cronica mancanza di contenuti software, cosa che ne ha limitato l’adozione globale. Dopo l’annullamento del lancio del Pico 5 nel 2023, ByteDance ha deciso di cambiare rotta: via il progetto pesante e ambizioso, dentro un nuovo dispositivo più snello e focalizzato sulla leggerezza e sulla fruibilità quotidiana. Una mossa che, a quanto pare, è stata ispirata anche dalla recente evoluzione strategica di Meta, che con il suo “Project Phoenix” ha scelto di puntare su visori più compatti e meno invadenti.

Il prototipo attuale del visore di ByteDance dovrebbe pesare intorno ai 127 grammi — poco più di un etto — una cifra davvero impressionante se confrontata con altri dispositivi presenti sul mercato. A titolo di confronto, il Bigscreen Beyond, attualmente uno dei visori VR più leggeri esistenti, pesa circa 107 grammi. Questo posiziona il “Swan” proprio nella fascia top per quanto riguarda portabilità e comfort.

E sotto il cofano? Pico starebbe sviluppando chip personalizzati pensati per elaborare rapidamente i dati provenienti dai sensori del visore, in modo da ridurre al minimo la latenza tra i movimenti fisici dell’utente e ciò che viene visualizzato. Un dettaglio tecnico che potrebbe fare la differenza in un settore dove anche pochi millisecondi di ritardo possono compromettere completamente l’esperienza immersiva, causando disorientamento o malessere.

Al momento non ci sono dettagli ufficiali sulla data di uscita del visore Swan, ma le indiscrezioni indicano che ByteDance starebbe accelerando i lavori. E se davvero questo sarà un anno cruciale per Meta, come molti analisti suggeriscono, l’arrivo di un competitor agguerrito come ByteDance nel settore XR potrebbe rappresentare una minaccia concreta per Zuckerberg e soci.

È affascinante pensare a come questo nuovo visore possa impattare l’universo di TikTok. Un social già fortemente visivo e interattivo potrebbe trasformarsi in una piattaforma XR-native, dove i contenuti non si limitano più a scorrere su uno schermo ma diventano esperienze tridimensionali, in cui lo spettatore è parte attiva. Balli, sketch, tutorial e persino le dirette potrebbero assumere una nuova forma, portando gli utenti in ambienti virtuali creativi e coinvolgenti, come se TikTok incontrasse il Metaverso.

Insomma, la partita nel mondo della realtà estesa è tutt’altro che conclusa. Se ByteDance riuscirà davvero a combinare tecnologia avanzata, design ergonomico e una strategia software vincente, potremmo essere di fronte non solo a un concorrente diretto per Meta, ma a un autentico game-changer per tutto il settore XR.

E voi, cosa ne pensate di questa nuova sfida tra ByteDance e Meta nel mondo della realtà mista? Vi piacerebbe vedere TikTok trasformarsi in un’esperienza immersiva a 360 gradi? Parliamone nei commenti e condividete questo articolo sui vostri social se anche voi siete curiosi di scoprire dove ci porterà questa nuova frontiera della tecnologia nerd!

“Dame un Grr”: il tormentone virale di TikTok che ha conquistato il mondo

Se vi siete avventurati su TikTok negli ultimi tempi — e diciamolo con sincerità, chi di noi non ha ceduto almeno per qualche minuto a quell’ipnotico scorrere di video tra meme, balletti, cosplay e chicche nerd? — è praticamente impossibile che le vostre orecchie non abbiano incrociato quel “Dame un Grr” ripetuto, sensuale, quasi magnetico, capace di insinuarsi nella testa come un sortilegio musicale. Ma attenzione: non stiamo parlando della solita canzoncina estiva usa-e-getta, né di un tormentone passeggero destinato a scomparire nell’oblio digitale. “Dame un Grr” è diventato un vero e proprio fenomeno culturale, un’esplosione di elettronica, pop e ritmo latino che ha conquistato non solo milioni di utenti anonimi, ma anche stelle planetarie come Madonna e DJ Snake.

Per capire cosa si cela dietro questo successo, dobbiamo fare un passo indietro e abbandonarci al fascino della storia che lo ha generato. Al centro di tutto c’è Fantomel, enigmatico produttore rumeno che ha scelto di celarsi dietro una maschera spettrale — un po’ alla Daft Punk, Deadmau5 o Marshmello, perché, ammettiamolo, il mistero ha sempre quel quid in più che ci fa impazzire. Al suo fianco, la voce magnetica di Kate Linn, alias Catalina Ioana Oteleanu, già nota a livello internazionale per brani come “Your Love” e “Thunderlike” e per aver sfiorato la partecipazione all’Eurovision nel 2020.

Il risultato di questa collaborazione? Un brano che è un inno ai sensi. “Dame un Grr” non ha bisogno di raccontare una storia in senso classico: non c’è un intreccio narrativo, non c’è una morale da trarre. C’è piuttosto un gioco di suggestioni: desiderio, calore, movimento, sguardi che si incrociano tra pista da ballo e immaginazione. Le parole, metà in spagnolo e metà in inglese, oscillano tra il dichiarato (“I want it, I got it”) e il sussurrato, creando un’ipnosi collettiva amplificata dalle sonorità elettroniche di Fantomel. È una canzone che si sente con la pelle, più che con le orecchie.

Ma il bello arriva quando ci si sposta dalla musica ai social. Su TikTok, “Dame un Grr” è diventato il cuore pulsante della “leon dance”, una coreografia ispirata al movimento felino di un leone pronto a balzare sulla preda. Basta uno scroll per imbattersi in influencer come Bach, Lola Lolita e Tatiana Kare, veri e propri mostri sacri del mondo social, che hanno lanciato la sfida globale a colpi di passi e battiti di coda immaginaria. Da lì, il passo verso la viralità è stato breve: milioni di clip, remix, meme, parodie e persino contenuti a tema calcistico e politico hanno trasformato “Dame un Grr” in un linguaggio universale, capace di andare oltre la musica per diventare cultura pop a tutti gli effetti.

Per chi ancora pensa che si stia esagerando, basta citare un nome: Dani Olmo. Il calciatore del Barcellona ha totalizzato quasi 30 milioni di visualizzazioni con un video a tema, dimostrando che il richiamo del “grr” non conosce confini né di campo né di genere. E quando persino Madonna si mette a condividere il brano sui suoi social, è chiaro che siamo davanti a un fenomeno che non si può più ignorare. Spotify, Shazam, YouTube: le classifiche parlano chiaro, con numeri da capogiro e un videoclip ufficiale che ha già superato i 6,3 milioni di views.

Quindi, cosa rende “Dame un Grr” così irresistibile? La mia anima nerd direbbe che il segreto sta nella perfetta alchimia tra suono e immagine, tra ritmo e interazione social. È un brano nato per essere vissuto, condiviso, remixato, ballato. Non è solo musica: è un’esperienza collettiva, un po’ come quei tormentoni nerd che hanno segnato generazioni — penso al meme eterno di “Never Gonna Give You Up” di Rick Astley, ai balletti di Fortnite, ai tormentoni che spuntano nei party in cosplay o alle convention di gaming. È la dimostrazione che la musica oggi è fatta per connettere, per unire, per trasformarsi in mille forme attraverso le mani e la creatività degli utenti.

Ma c’è di più. “Dame un Grr” è figlio di un’epoca in cui la viralità non è un caso fortuito, ma una strategia. Fantomel e Kate Linn hanno costruito un prodotto pensato per accendere scintille digitali: un brano che diventa terreno fertile per video, challenge, meme, reaction. Hanno capito alla perfezione le regole del gioco contemporaneo, quello in cui i confini tra reale e virtuale si dissolvono e la cultura pop nasce e cresce nei duetti di TikTok, nei remix su Instagram, nei commenti su YouTube.

In fondo, “Dame un Grr” è come un grande gioco di ruolo collettivo: tutti possiamo partecipare, tutti possiamo aggiungere un tassello, tutti possiamo diventare parte di una storia che si scrive in tempo reale. Ed è proprio questo che, da appassionata di cultura nerd e geek, mi entusiasma di più: sapere che siamo spettatori e autori al tempo stesso, protagonisti di un mondo dove le storie non arrivano più dall’alto, ma si costruiscono insieme, video dopo video, meme dopo meme, ballo dopo ballo.

La prossima volta che vi capiterà di ascoltare “Dame un Grr”, magari mentre scrollate distrattamente TikTok o mentre cercate nuova musica su Spotify, fermatevi un attimo. Lasciatevi trascinare. Magari vi scoprirete a muovere i fianchi davanti allo specchio, a provare quella leon dance con un sorriso complice. Perché, in fondo, anche noi nerd sappiamo quando è il momento di lasciare da parte il controller, togliere le cuffie da gaming e abbandonarci al richiamo ipnotico di un ritmo globale.

E ora passo la palla a voi: avete già provato la leon dance? Avete remixato “Dame un Grr” con qualche chicca geek o vi siete limitati a guardare gli altri ballare? Raccontatemi tutto nei commenti e, se vi va, condividete questo articolo sui vostri social: sono curiosissima di sapere come vivete questo fenomeno e quali altri tormentoni pop vi hanno stregato di recente!

Il testo

Dame un grr (Un qué?)

Un grr (Un qué, un qué?)

Un grr (Un qué?)

Un grr

Un grr, un grr, un grr, un grr (Un qué?)

 

I love

When you shake it, shake it

When I see you go tchê-tcherere-tchê

My body go wakey, wakey

You taste so good, like dulce de leche

 

Don’t you think it’s tricky?

We movin’ slowly, so slowly

I can’t wait no more

So hurry, oh hurry

Dame un tu-ta-ta, tutu-ta, tukutu-ta-ta-tu

Dame un grr, rrah

 

Dame un grr (Un qué?)

Un grr (Un qué, un qué?)

Un grr (Un qué?)

Un grr (Un qué?)

Dame un grr (Un qué?)

Un grr (Un qué, un qué?)

Un grr (Un qué?)

Un grr

Un grr

 

You taste so sweet (Fruta morena)

Pull me close (Like telenovela)

Move so slow (Tú mi bandera)

Eyes on me (No hay frontera)

 

Don’t you think it’s tricky?

We movin’ slowly, so slowly

I can’t wait no more

So hurry, oh hurry

Dame un tu-ta-ta, tutu-ta, tukutu-ta-ta-tu

Dame un grr, rrah

 

Dame un grr (Un qué?)

Un grr (Un qué, un qué?)

Un grr (Un qué?)

Un grr (Un qué?)

Dame un grr (Un qué?)

Un grr (Un qué, un qué?)

Un grr (Un qué?)

Un grr

Un grr

Dame un grr

Se questo articolo vi ha divertito o incuriosito, fatemelo sapere nei commenti! E perché no, condividetelo sui vostri social: voglio vedere anche i vostri video a tema “Dame un Grr” e scoprire come interpretate questo fenomeno pop che sta facendo impazzire il mondo. Vi aspetto!

Skibidi Boppy: storia, origine e perché è diventato il simbolo virale della Generazione Alpha

Se ti è capitato di aprire TikTok, YouTube Shorts o Instagram Reels negli ultimi mesi, probabilmente hai già subito il contagio: un loop incessante di suoni nonsense, facce stralunate, coreografie improbabili e, nel mezzo, quel motivetto ipnotico e irresistibile che fa “Skibidi Boppy”. Non è solo un tormentone virale: è diventato il simbolo della Generazione Alpha, quel gruppo di nati dal 2010 in poi che ha fatto del linguaggio memetico e surreale una vera bandiera identitaria.

Ma cos’è esattamente “Skibidi Boppy”? Da dove arriva? E perché ha attecchito così profondamente nel tessuto culturale digitale dei giovanissimi? Per capirlo bisogna fare un salto a ritroso, scavare tra le pieghe della storia musicale e della cultura pop, fino ad arrivare agli angoli più improbabili di internet.

Il primo ingrediente di questa pozione virale ha radici insospettabili: il jazz degli anni ’20 e ’30, quando mostri sacri come Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e Cab Calloway si divertivano a trasformare la voce in puro ritmo grazie allo scat. “Shoo-be-doo, ba-doo-bap, skibidi-bop!”: chiudendo gli occhi, potremmo quasi immaginare un giovane Armstrong divertirsi con suoni senza senso, cercando non il significato letterale ma l’emozione immediata, lo swing, la vibrazione istintiva. È quell’arte di giocare col suono che oggi vediamo rispuntare, camuffata sotto filtri digitali e meme, ma con lo stesso spirito anarchico di allora.

Il salto temporale ci porta al 2018, quando i Little Big, band russa già nota per il suo umorismo nonsense, lanciano su YouTube il videoclip “Skibidi”. Un delirio audiovisivo fatto di mosse robotiche, occhi spiritati, outfit trash e una coreografia che, in pochi giorni, invade TikTok con la sua challenge virale. Quello che sembrava un semplice tormentone musicale diventa subito un fenomeno globale, accumulando centinaia di milioni di visualizzazioni e aprendo le porte a una nuova era di nonsense condiviso.

Ma il vero punto di svolta arriva nel 2023 con “Skibidi Toilet”, una serie animata creata dal canale YouTube DaFuq!?Boom!. Descrivere questa serie a chi non l’ha mai vista è quasi impossibile senza sembrare reduci da un trip allucinogeno: teste umane che escono dai water per combattere cyborg dalle sembianze improbabili, scenari surreali in grafica low-res, e quel sottofondo musicale diventato ormai firma sonora — skibidi boppy, skibidi boppy, all’infinito. Eppure, proprio questo caos surreale è ciò che ha conquistato il cuore (e i feed) della Gen Alpha.

Il motivo? È semplice, e insieme profondamente rivelatore. In un mondo saturo di stimoli, informazioni e pressioni sociali, l’assurdo diventa un rifugio.

Un porto sicuro dove tutto è permesso, dove il significato si perde e con esso anche la fatica di dover sempre decifrare, capire, spiegare. “Skibidi Boppy” è una pausa, un reset mentale, un momento di condivisione collettiva in cui ci si lascia andare al puro istinto, alla risata, al gesto gratuito.

Per i più giovani, questi microcontenuti rappresentano una sorta di rituale generazionale. Come lo erano le sfide stupide con gli amici al parco, le prime catene di messaggi su MSN, le gif dei gattini o i tormentoni estivi che ci facevano ballare a sproposito. Oggi la differenza sta nel mezzo, nel linguaggio digitale che tutto ingloba, remixando passato e presente in un flusso continuo di immagini, suoni, filtri e hashtag.

Guardando bene, “Skibidi Boppy” non è altro che l’ennesima reincarnazione di un impulso eterno: quello a ribaltare l’ordine, a trovare libertà nel caos, a ridere dell’assurdo per non piangere del reale. Proprio come faceva lo scat jazz, proprio come fanno i meme, proprio come fa chiunque, anche solo per un attimo, balli davanti a uno specchio facendo facce buffe.

E allora no, non è così strano se oggi ci ritroviamo a guardare in loop video di gente che urla da un water o si trasforma in tostapane umano. È una forma di ribellione, di espressione, di connessione. È il modo in cui la Generazione Alpha dice al mondo: “Ci siamo anche noi, e abbiamo il nostro linguaggio, le nostre regole, le nostre follie”.

In fondo, Skibidi Boppy è diventato un codice universale. Non significa nulla e proprio per questo può significare tutto: un inside joke tra sconosciuti, una bandiera del trash creativo, una pausa dalla serietà del quotidiano. È un grido collettivo che attraversa i confini, le lingue, le generazioni, e ci ricorda che, ogni tanto, l’unica cosa sensata è lasciarsi andare al nonsenso.

E tu, sei già caduto nel loop dello Skibidi Boppy? Raccontaci la tua esperienza nei commenti qui sotto! Condividi questo articolo sui tuoi social e facci sapere: anche per te l’assurdo è diventato una piccola scialuppa di salvataggio nel mare agitato del digitale? Facciamoci una risata insieme, perché — shoo-be-doo, skibidi-bop — avanti così!