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Wake Up Dead Man: il ritorno più oscuro di Benoit Blanc sta per riscrivere il giallo moderno

Sei anni lontano dalla scena del crimine sono tanti, soprattutto quando il detective in questione è Benoit Blanc, quell’investigatore dalle maniere morbide e dall’intelligenza affilata come un coltello di cristallo, capace di trasformare qualsiasi indagine in un teatro dell’assurdo. Il suo ritorno non somiglia a un semplice capitolo aggiunto alla saga, ma assomiglia piuttosto a un rito d’invocazione: un richiamo profondo, quasi liturgico, verso un nuovo mistero che si annuncia più buio, più sporco, più enigmatico di tutti quelli affrontati finora.

Il 12 dicembre 2025 approderà su Netflix Wake Up Dead Man: A Knives Out Mystery, anticipato da una distribuzione limitata nelle sale cinematografiche il 26 novembre. Rian Johnson non si limita a riaccendere i riflettori sul personaggio; cambia registro, atmosfera, frequenza emotiva, come se avesse deciso di trascinare lo spettatore in un territorio dove il giallo classico incontra l’estetica gotica e il simbolismo religioso. Un terreno disturbante, pieno di ombre e di sussurri, in cui la logica sembra arrendersi per lasciare spazio al soprannaturale… o a qualcosa che gli somiglia pericolosamente.

Un enigma che neppure Blanc sembra in grado di decifrare

Il trailer diffuso da Netflix mostra un Benoit Blanc diverso: più invecchiato, con la barba bianca come un presagio, e con uno sguardo che tradisce una stanchezza quasi spirituale. Di fronte a lui si apre un caso che non ha nulla del giallo elegante ambientato nelle ville dei ricconi annoiati. Questa volta siamo dentro un contesto sacro, segnato da simboli e rituali.

Il giovane sacerdote Jud Duplenticy, interpretato da Josh O’Connor, viene inviato ad assistere il carismatico Monsignor Jefferson Wicks, interpretato da Josh Brolin. Le prime inquadrature suggeriscono un luogo che odora di incenso, pietra antica e segreti non confessati. Dopo un sermone particolarmente acceso, Wicks entra in una stanza e non ne esce vivo. Il suo assassinio ha una dinamica talmente impossibile da sembrare un miracolo al contrario.

Quando perfino la polizia locale, guidata da una Geraldine Scott dal volto di Mila Kunis, ammette di essere di fronte a un muro invalicabile, la soluzione appare chiara: serve la mente di Benoit Blanc. Ma per la prima volta, il detective sembra non riuscire a trovare un appiglio logico. Ogni indizio sembra contraddirsi, ogni sospetto è sospeso tra verità e menzogna, e la morte del Monsignore sembra generare più domande che risposte.


Il cast: una congrega di sospettati che sembra uscita da un incubo gotico

Rian Johnson dimostra ancora una volta di saper assemblare cast che da soli meritano il prezzo del biglietto. Glenn Close si muove con solennità e inquietudine nei panni della devota Martha Delacroix; Thomas Haden Church interpreta il guardiano Samson Holt, un uomo che sembra sapere molto più di quanto mostri. Kerry Washington veste i panni dell’avvocata Vera Draven, mentre Daryl McCormack interpreta il fratello politico Cy, entrambi imprigionati in dinamiche familiari che grondano tensione.

Jeremy Renner appare nei panni del dottore del paese, figura a metà tra rigore scientifico e turbamento emotivo. Andrew Scott è un autore di bestseller che sembra scivolare nella trama come un fantasma affamato di attenzione, mentre Cailee Spaeny conferisce alla violoncellista Simone Vivane un’aura tragica, quasi poetica.

Ognuno di questi personaggi è costruito come una maschera teatrale. Ognuno custodisce un frammento di verità e una menzogna ben più grande. È proprio la loro presenza a dare forma al labirinto narrativo che Johnson vuole costruire: un dedalo di motivazioni, peccati e segreti che si specchiano nella figura del Monsignore assassinato.

Un’estetica nuova per la saga: dal puzzle al gotico sacro

Il titolo Wake Up Dead Man sembra uscito da un vinile blues consumato dal tempo, e quel sapore ruvido si riflette nella fotografia del film. Niente yacht di miliardari, niente isole luminose, niente case da rivista. Questa volta le mura sono antiche, il legno è consumato, le luci tagliano i volti come fendenti.

Il font del titolo, con le sue linee sporche e quasi piratesche, ha acceso immediatamente il fuoco delle speculazioni: c’è chi immagina un mistero legato a reliquie antiche, chi sostiene che il film potrebbe flirtare con elementi sovrannaturali, chi ipotizza una caccia al tesoro teologica. Johnson non ha smentito né confermato nulla, limitandosi a parlare di una “evoluzione naturale” del tono della saga, un passaggio verso atmosfere più cupe, autunnali, intime.

Sembra quasi che questo terzo capitolo voglia riprendere le radici più profonde del giallo gotico, quelle che affondano nei romanzi vittoriani, nei misteri delle cripta, nei peccati che marciscono sotto la superficie della rispettabilità.


Un Natale di misteri da risolvere

La scelta del mese di dicembre è diventata una sorta di tradizione Johnsoniana. È un periodo in cui i misteri sembrano avere più fascino, quando le finestre illuminate contrastano con il freddo e la tentazione di avvolgersi in una coperta con cioccolata calda e un buon giallo diventa irresistibile.

Il detective Blanc è ormai un compagno ideale per questa stagione: un simbolo moderno del racconto investigativo che scalda l’inverno con il fuoco della narrazione.

Perché questo film potrebbe diventare un nuovo cult

Per i fan di cinema, cultura pop e narrazioni labirintiche, Wake Up Dead Man rappresenta un appuntamento imperdibile. La miscela tra estetica sacra, tensione investigativa e ironia calibrata promette un risultato capace di superare persino il successo degli episodi precedenti.

Daniel Craig si riprende il suo ruolo con una maturità nuova, e la storia sembra voler scavare non solo nel mistero, ma dentro l’anima stessa del detective, come se fosse arrivato al punto in cui ogni risposta costa un pezzo di sé.


Ora tocca a te, detective della community nerd

Che ruolo avrà Glenn Close nel grande gioco della manipolazione? Il Monsignore è davvero vittima di un assassino, o di qualcosa di più antico e oscuro? Rian Johnson ci porterà oltre i confini del realismo, oppure sarà tutto un raffinato trucco di prestigio?

Parliamone. Le teorie dei fan sono già più avvincenti di metà dei gialli in circolazione.

Scrivi il tuo sospetto, il tuo indizio, la tua ipotesi più folle nei commenti. Condividi l’articolo su Facebook, X, Instagram o nel tuo gruppo Telegram di riferimento. Il caso è ufficialmente aperto… e la community di CorriereNerd.it è pronta a indagare con te.

Michael Jackson torna al cinema: il trailer del biopic fa esplodere il web tra entusiasmo e polemiche

Il primo trailer ufficiale del biopic Michael, diretto da Antoine Fuqua e interpretato dal nipote Jaafar Jackson, ha letteralmente incendiato i social, totalizzando milioni di visualizzazioni in poche ore. Ma se da una parte gli appassionati gridano al miracolo per la somiglianza impressionante tra Jaafar e lo zio, dall’altra non mancano le perplessità: il timore è che il film possa “ripulire” la figura del Re del Pop, tralasciando i lati oscuri della sua vita.

Il film, prodotto da Graham King (già produttore di Bohemian Rhapsody) e scritto da John Logan (Il gladiatore, Skyfall), arriverà nelle sale il 24 aprile 2026 distribuito da Lionsgate e Universal Pictures.
Un evento attesissimo, che promette di essere molto più di una semplice biografia musicale: un viaggio nel mito, ma anche nell’abisso di una delle figure più complesse e contraddittorie della cultura pop.


Un’eredità immortale e un racconto impossibile da semplificare

Diciassette anni dopo la sua morte – avvenuta il 25 giugno 2009 per un’intossicazione acuta da propofol – Michael Jackson continua a dividere, a ispirare, a muovere emozioni contrastanti.
Il film ripercorrerà la sua intera parabola artistica e umana: dagli esordi negli anni ’60 con i Jackson 5 fino alla consacrazione planetaria con album come Thriller, Bad e Dangerous.
Vedremo il bambino prodigio di Gary, Indiana, trasformarsi nel performer che ha ridefinito il concetto stesso di spettacolo; ma anche l’uomo fragile, schiacciato dal peso della fama, ossessionato dall’immagine pubblica e perseguitato da scandali e accuse.

Il cast ricostruisce fedelmente il microcosmo jacksoniano: Colman Domingo sarà il padre-manager Joseph Jackson, Nia Long la madre Katherine, Miles Teller l’avvocato John Branca, Larenz Tate il leggendario produttore Berry Gordy, Kendrick Sampson vestirà i panni di Quincy Jones e Kat Graham quelli di Diana Ross, musa e amica del giovane Michael.
Non mancheranno i fratelli del gruppo, da Jackie a Marlon, e perfino Bubbles, lo scimpanzé domestico del cantante, ricreato con l’aiuto della CGI. Un piccolo tocco da cinema fantastico per un artista che, in fondo, ha sempre vissuto al confine tra realtà e fiaba.


Dietro la macchina da presa: un kolossal da 155 milioni di dollari

Il progetto è nato nel 2019, ma ha preso forma solo nel 2023, quando Antoine Fuqua – regista di Training Day e The Equalizer – è salito a bordo. Le riprese si sono svolte tra il 2024 e il 2025, toccando luoghi simbolici come Neverland Ranch, la villa di Hayvenhurst a Encino e la storica location di Thriller, ricostruita nei minimi dettagli.
Con un budget di 155 milioni di dollari, Michael si preannuncia come una delle produzioni musicali più ambiziose di sempre, una sorta di “opera pop” che mescola performance, danza, memoria e controversia.

Graham King ha raccontato a Variety di aver lavorato con “una mente aperta”, promettendo di mostrare l’uomo dietro il mito “senza sterilizzare né santificare la sua storia”.
Un intento coraggioso, soprattutto in un’epoca in cui ogni biopic sembra oscillare tra la celebrazione e la damnatio memoriae.


Tra mito e scandalo: le polemiche che accompagnano il film

Proprio questo equilibrio tra luce e ombra ha scatenato le prime polemiche.
Molti critici, tra cui il regista di Leaving Neverland Dan Reed, hanno accusato la produzione di voler “riabilitare” l’immagine di Jackson, omettendo le accuse di molestie che hanno segnato la sua carriera.
In risposta, King ha chiarito che le vicende giudiziarie del 1993 saranno presenti nel film, “affrontate con rispetto e obiettività”. Una scelta che ha però creato tensioni con l’Estate di Michael Jackson, storicamente contraria a ogni menzione diretta di quegli episodi.

È un equilibrio sottile, quasi impossibile: raccontare la grandezza di un artista che ha cambiato la musica e la cultura pop senza ignorare l’ombra che lo ha accompagnato fino alla fine.
Un dualismo che, forse, è la vera chiave per capire chi fosse davvero Michael Joseph Jackson: un uomo in lotta costante con se stesso, con la sua immagine, con la percezione del mondo.


Jaafar Jackson: il sangue del Re

Ma a rapire il pubblico, almeno per ora, è lui: Jaafar Jackson, 28 anni, figlio di Jermaine, cresciuto nel mito dello zio e ora chiamato a reincarnarlo davanti alle telecamere.
La sua performance nel trailer – voce, movenze, sguardo – ha scatenato un’ondata di commenti entusiasti. “È come rivedere Michael”, scrivono i fan. E in effetti la somiglianza è impressionante: sembra quasi che il D.N.A. artistico della famiglia Jackson abbia compiuto un salto generazionale perfetto.

Fuqua ha definito Jaafar “una presenza magnetica, capace di restituire la grazia e il tormento dello zio”. E proprio questo dualismo potrebbe rendere Michael qualcosa di più di un film celebrativo: un ritratto umano, potente e controverso.


L’attesa cresce (ancora una volta)

Il film, già posticipato più volte, è ora fissato per il 24 aprile 2026, ma non si esclude una distribuzione in due parti vista la durata di oltre tre ore e mezza.
Un’operazione titanica che mira non solo al successo di botteghino, ma anche alla stagione dei premi: l’obiettivo dichiarato della Lionsgate è portare Michael dritto agli Oscar 2027.

Nel frattempo, il trailer continua a moltiplicare visualizzazioni e dibattiti. E, paradossalmente, proprio come in vita, Michael Jackson torna a dominare la scena mondiale con il suo eterno paradosso: un artista che ha toccato il divino, ma ha vissuto nell’inferno dell’essere umano.

Jack Black e Paul Rudd sfidano il serpente gigante: Anaconda torna al cinema in versione comedy

Negli anni Novanta, Hollywood viveva una stagione di puro delirio creativo. Era l’epoca in cui ogni pellicola sembrava voler superare la precedente in assurdità, effetti digitali traballanti e trame talmente improbabili da diventare leggenda. Tra dinosauri ribelli, squali mutanti e lucertoloni spaziali, un film riuscì a strisciare nel cuore dei fan dei “creature feature”: Anaconda, uscito nel 1997, con un cast da manuale del culto pop – Jennifer Lopez, Ice Cube e un giovanissimo Owen Wilson, tutti alle prese con un serpente gigante nella giungla amazzonica. Oggi, quasi trent’anni dopo, quella stessa anaconda torna a muoversi, ma con un morso completamente diverso. L’8 gennaio 2026 arriverà nei cinema italiani il reboot più improbabile e geniale dell’anno: Anaconda, con Jack Black e Paul Rudd. Una rivisitazione che promette di trasformare la paura in comicità, l’adrenalina in risate e la nostalgia in pura follia cinefila.

Una nuova giungla firmata Tom Gormican

Il nuovo Anaconda nasce dalla mente di Tom Gormican, il regista di The Unbearable Weight of Massive Talent, quella perla metacinematografica in cui Nicolas Cage interpretava… Nicolas Cage. Insieme a Kevin Etten, autore di Ghosted e The Mick, Gormican firma una sceneggiatura che ribalta completamente l’impianto del film originale. Niente più documentaristi sperduti nella foresta: qui troviamo Doug e Griff, due amici di mezza età che decidono di girare un remake amatoriale del loro film preferito, proprio Anaconda. Quello che inizia come un viaggio nostalgico si trasforma presto in un incubo reale quando, tra un ciak e l’altro, il serpente meccanico muore… e al suo posto ne appare uno vero, gigantesco e affamato. Da quel momento, il confine tra finzione e realtà si dissolve in un vortice di panico e risate. È come se Tropic Thunder incontrasse Jurassic Park, con una spruzzata di Cocaine Bear e la consapevolezza ironica del cinema contemporaneo. Una giungla, certo, ma anche un set dove la vita imita l’arte nel modo più assurdo possibile.

Jack Black e Paul Rudd: l’alchimia del disastro perfetto

La vera forza del film, inutile negarlo, è nella coppia protagonista. Paul Rudd, con il suo sorriso da eterno ragazzo e quell’umorismo intelligente che ha reso Ant-Man uno dei personaggi più amati del Marvel Cinematic Universe, rappresenta il perfetto contrappunto alla follia di Jack Black, che dopo aver dato voce a Bowser in Super Mario Bros. – Il Film torna a dominare la scena con il suo carisma incontenibile.

Insieme, i due creano una chimica che sembra destinata a diventare leggendaria. Rudd è il cinico disilluso che cerca di dare un senso alla propria vita, Black è il sognatore fuori controllo che trasforma ogni disastro in spettacolo. Le loro interazioni sono pura dinamite comica, un continuo gioco di specchi tra ironia e disperazione, tra il “buddy movie” e la farsa surreale.

L’anaconda: da incubo digitale a icona pop 3.0

Nel 1997, la creatura digitale di Anaconda era diventata un simbolo di quegli anni in cui la CGI cercava di convincere più che di stupire. Oggi, invece, la tecnologia permette di farla tornare in scena in tutta la sua gloria mostruosa. Jack Black, in un’intervista, ha già anticipato che il nuovo serpente sarà “enorme, terrificante e ridicolmente realistico”. Ma, soprattutto, sarà il fulcro di una comicità nera e surreale: la paura si fonde al grottesco, e ogni inseguimento diventa una gag visiva, ogni morso un’esplosione di nonsense degno di un cartone di Looney Tunes diretto da Tarantino. Il risultato promette di essere una parodia raffinata e insieme un omaggio ai monster movie che hanno segnato un’epoca.

Un Natale fuori dagli schemi

La data d’uscita italiana, l’8 gennaio 2026, segue quella natalizia americana del 25 dicembre 2025, una scelta a dir poco audace. Portare in sala durante le feste un film che mescola horror, commedia e satira metacinematografica è un gesto di pura ribellione contro il conformismo hollywoodiano. Mentre il pubblico si divide tra cinepanettoni e musical Disney, Anaconda si prepara a diventare il “grinch” del box office, con la sua dose di caos controllato e humour velenoso.

È un’operazione che parla direttamente ai fan della cultura pop, ai nostalgici degli anni ’90 e ai nuovi spettatori cresciuti tra meme, remake e ironia postmoderna.

La reazione del fandom: hype a livelli stratosferici

Sui social, l’annuncio ha scatenato una valanga di commenti e teorie. Su Reddit e X (ex Twitter), gli utenti si dividono tra chi sogna un cameo di Jennifer Lopez e chi immagina un easter egg dedicato al serpente originale in CGI. Le prime foto dal set mostrano Rudd e Black con machete e camicie sudate, immersi in una giungla che sembra uscita da Jumanji dopo una sbornia di rum.

Il pubblico nerd, sempre pronto a celebrare i ritorni impossibili e le follie cinematografiche, ha già eletto questo film a cult annunciato. Perché Anaconda 2025 non è solo un reboot: è una dichiarazione d’amore per un certo cinema che non si prende troppo sul serio ma sa ancora come stupire, divertire e — perché no — spaventare.

Conclusione: il ritorno del serpente che non sapeva di far ridere

C’è qualcosa di profondamente nostalgico e al tempo stesso rivoluzionario in questa operazione. Gormican e il suo cast non vogliono solo riesumare un titolo, ma rianimare un modo di fare cinema che si è perso tra franchise e algoritmi. Anaconda torna per ricordarci che anche l’assurdo può avere un cuore, che la paura può far ridere e che, a volte, la giungla più pericolosa è quella dentro di noi.

E allora, community di CorriereNerd.it, la domanda è d’obbligo: siete pronti a farvi mordere dall’Anaconda più esilarante di sempre? Sotto l’albero del prossimo Natale non troveremo solo regali… ma anche un serpente gigantesco, due eroi improbabili e una montagna di risate velenose.

Miami Vice torna al cinema: Joseph Kosinski riaccende il mito anni ’80 con Michael B. Jordan e Austin Butler

Quando il neon incontra di nuovo l’asfalto bagnato di Miami, vuol dire che sta per accadere qualcosa di epico. Miami Vice, la serie cult che ha definito lo stile e l’immaginario di un intero decennio, tornerà sul grande schermo con un reboot diretto da Joseph Kosinski, il regista di Top Gun: Maverick e del prossimo F1. L’uscita è fissata per il 6 agosto 2027, e tutto lascia intendere che sarà una rinascita in grande stile. Secondo The Hollywood Reporter e Variety, le trattative per i due ruoli principali sono già in corso: Michael B. Jordan sarebbe vicino a interpretare Ricardo “Rico” Tubbs, mentre Austin Butler, reduce dai successi di Elvis e Eddington, potrebbe vestire i panni di James “Sonny” Crockett. Un’accoppiata destinata a riscrivere il mito della coppia di detective più iconica degli anni ’80, resa immortale da Don Johnson e Philip Michael Thomas nella serie originale.

Il progetto è targato Universal Pictures e promette di riportare lo spettatore nell’epoca d’oro dei Ray-Ban a specchio, dei motoscafi ruggenti e dei completi pastello. Kosinski, che ha già dimostrato di saper fondere realismo e spettacolarità visiva in modo magistrale, sembra il nome perfetto per tradurre il fascino nostalgico della serie in linguaggio contemporaneo. L’obiettivo? Creare un film che non sia solo un revival, ma una vera e propria celebrazione della cultura pop che Miami Vice ha generato — un’estetica fatta di musica synth, notti al neon e ambiguità morale. Il film sarà girato in formato IMAX, con la produzione che dovrebbe partire nel 2026. Una scelta che suggerisce l’intenzione di restituire allo spettatore un’esperienza sensoriale totale: la Miami patinata ma pericolosa degli anni ’80 tornerà a pulsare sul grande schermo come non si vedeva da decenni.

Il nuovo Miami Vice sarà “ispirato all’episodio pilota e alla prima stagione della storica serie televisiva che ha influenzato la cultura e definito lo stile di tutto, dalla moda al cinema”. Un ritorno alle origini, dunque, ma con l’intenzione di modernizzare le dinamiche e la sensibilità dei protagonisti, mantenendo però intatto il cuore pulsante della serie: l’eterna tensione tra il dovere e la seduzione del lato oscuro.

Il precedente tentativo di riportare Miami Vice al cinema, quello del 2006 firmato da Michael Mann con Colin Farrell e Jamie Foxx, nonostante la potenza visiva e l’atmosfera iperrealista, fu accolto con freddezza dal pubblico: incassò 165 milioni di dollari a fronte di un budget di 135. Kosinski, tuttavia, sembra voler prendere un’altra strada, più fedele al glamour e alla tensione estetica della serie originale, ma arricchita da un linguaggio visivo capace di parlare anche alle nuove generazioni.

In un panorama dove i revival di serie cult spesso inciampano nella nostalgia fine a sé stessa, Miami Vice potrebbe rappresentare l’eccezione. Con due star di prima grandezza, un regista visionario e un marchio che ha definito il concetto stesso di coolness, tutti gli ingredienti per un ritorno esplosivo sono sul tavolo. E mentre aspettiamo di vedere Jordan e Butler sfrecciare tra le luci rosa e turchesi di una nuova Miami, una cosa è certa: il mito non è mai andato via. È rimasto lì, nascosto tra le note di In the Air Tonight, pronto a rinascere più scintillante che mai.

The Running Man: Edgar Wright riscrive il futuro della distopia

In un mondo in cui il dolore è intrattenimento e la morte uno show in diretta, la profezia distopica torna a bussare alla nostra porta. Ma questa volta non arriva dai libri, bensì dallo schermo gigante di un cinema. “The Running Man”, il nuovo e attesissimo adattamento firmato da Edgar Wright, si prepara a scuotere l’autunno cinematografico con la forza di una denuncia travestita da spettacolo adrenalinico.
L’uscita italiana, inizialmente fissata al 6 novembre, è stata posticipata al 13 novembre 2025, una mossa strategica di Paramount Pictures, Genre Films e Complete Fiction per evitare lo scontro diretto con Predator: Badlands e permettere a Wright di conquistare il suo spazio nel pantheon dei blockbuster d’autore.

Dal romanzo al mito: quando la distopia diventa realtà

Edgar Wright non si limita a riportare sullo schermo il classico di Stephen King, scritto nel 1982 sotto lo pseudonimo di Richard Bachman. Il suo è un atto di riappropriazione: un ritorno alla radice più amara del romanzo, quella critica feroce alla società dello spettacolo che la versione del 1987, L’Implacabile con Arnold Schwarzenegger, aveva trasformato in un action pop dall’estetica ipertrofica.
Wright, regista di cult come Baby Driver e Scott Pilgrim vs The World, prende quel materiale e lo rielabora alla luce del presente. In un’epoca in cui i social hanno sostituito la TV come arena pubblica e ogni momento di vita può diventare contenuto virale, The Running Man non è solo una distopia: è uno specchio lucidissimo del nostro presente.

Il film si interroga sulla fame di visibilità e sulla mercificazione della sofferenza, restituendo un mondo in cui la sopravvivenza è spettacolo e la violenza un algoritmo che genera consenso. Wright non ci invita solo a guardare, ma a riflettere sulla nostra complicità di spettatori.

Ben Richards: l’uomo contro la macchina dello share

Nel 2025 immaginato da Wright, gli Stati Uniti sono un deserto morale. La povertà dilaga, il governo è corrotto e la disperazione ha trovato un rifugio nell’unico vero oppio dei popoli: la televisione.
È in questo scenario che entra in scena Ben Richards, interpretato da un magnetico Glen Powell, padre disperato che accetta di partecipare a “The Running Man” – un reality estremo in cui i concorrenti vengono braccati da killer professionisti in diretta nazionale. Trenta giorni per sopravvivere, una fortuna come premio. Ma le probabilità di farcela sono praticamente nulle.

Ogni passo, ogni respiro, ogni paura di Richards è monitorata, trasmessa, monetizzata. I droni diventano telecamere divine, e il pubblico applaude mentre l’uomo viene ridotto a contenuto.
È qui che la regia di Wright trova la sua cifra più potente: trasforma l’azione in un atto di ribellione morale, un gesto che mette a nudo l’orrore di una civiltà che confonde l’empatia con lo spettacolo.

Un cast infernale per un inferno mediatico

Attorno a Glen Powell ruota un cast di peso: Josh Brolin nel ruolo del produttore-burattinaio Dan Killian, simbolo del cinismo televisivo, e Colman Domingo come il carismatico presentatore dello show, un uomo che sorride mentre ordina la morte in diretta.
Accanto a loro, Emilia Jones, Lee Pace, William H. Macy e perfino Michael Cera contribuiscono a costruire un mosaico umano in cui nessuno è innocente, tutti complici di un sistema che divora sé stesso.

Ma la storia non è solo di caccia e sangue. Quando Richards inizia a ribellarsi alle regole del gioco, qualcosa cambia. Il pubblico – quello fittizio e quello reale – smette di tifare per i carnefici e comincia a riconoscere se stesso nella vittima. La lotta per la sopravvivenza diventa una rivoluzione simbolica, una corsa non più solo fisica ma ideologica.
Un uomo contro il sistema, e forse contro tutti noi.

Stephen King approva: il passaggio del testimone

Durante il New York Comic Con 2025, Glen Powell ha raccontato un retroscena da brividi: prima di ottenere la parte, ha dovuto attendere che Stephen King guardasse uno dei suoi film, Hit Man, per concedere la sua approvazione personale.
«È stato terribile», ha confessato Powell. «Ho passato la notte aspettando che King decidesse se potevo essere Ben Richards». Il giorno dopo, la risposta è arrivata: King ha amato Hit Man e ha dato il via libera. Anche Wright, che ha dovuto sottoporgli la sceneggiatura, ha descritto l’esperienza come “un esame di maturità davanti a un dio della narrativa”.

Con la benedizione dell’autore, The Running Man si è trasformato in qualcosa di più di un semplice remake: un ponte tra due generazioni di distopie, un dialogo tra la visione letteraria degli anni ’80 e la coscienza iperconnessa di oggi.

Una produzione colossale e una campagna virale da record

Girato tra Londra e lo stadio di Wembley nel 2024, il film è una macchina produttiva imponente. Più di un anno di pre-produzione, sequenze notturne mozzafiato e una fotografia che alterna il realismo sporco delle periferie alla freddezza accecante degli studi televisivi.
Il primo trailer, presentato alla CinemaCon 2025, ha incendiato i social, accompagnato da un remix pulsante di Underdog di Sly and the Family Stone.
Powell, dimostrando la sua vena ironica, ha perfino partecipato a un finto reality promozionale con l’influencer Ashton Hall, ribaltando la finzione in realtà — e viceversa — in una geniale mossa di marketing speculare alla stessa trama del film.

The Running Man corre verso noi

Edgar Wright promette un film “visceralmente politico, esteticamente pop e narrativamente tagliente”.
E se c’è una cosa che la storia ci insegna, è che ogni epoca ha il suo Running Man: negli anni Ottanta era la paura della televisione che manipola, oggi è il terrore di un algoritmo che decide chi esiste e chi scompare nel feed.

Il 13 novembre 2025 non sarà solo l’uscita di un film. Sarà un esperimento collettivo: un modo per guardarci allo specchio e chiederci quanto siamo disposti a sacrificare per essere visti.
Perché Ben Richards non corre solo per salvarsi. Corre per ricordarci quanto siamo diventati spettatori del nostro stesso declino.

Sleeping Dogs: Simu Liu riaccende la speranza per il film ispirato al cult videoludico di Hong Kong

Hollywood non ha mai smesso di flirtare con il mondo dei videogiochi, ma negli ultimi anni la relazione è diventata sempre più seria. Dopo The Last of Us e Sonic the Hedgehog, un altro titolo amatissimo potrebbe finalmente fare il grande salto sul grande schermo: Sleeping Dogs.
E stavolta a guidare il progetto è una star che i fan Marvel conoscono molto bene: Simu Liu, l’eroe di Shang-Chi nel MCU. L’attore ha infatti rivelato che la prima bozza della sceneggiatura dell’adattamento cinematografico è pronta, confermando che la trasposizione del videogioco open world del 2012 non è solo un sogno nel cassetto.

Dalle strade di Hong Kong a Hollywood

Quando Sleeping Dogs uscì nel 2012, non fu un semplice clone orientale di Grand Theft Auto, ma una sorpresa travolgente. Ambientato tra le luci e le ombre di una Hong Kong iperrealistica, raccontava la doppia vita di Wei Shen, un agente di polizia sotto copertura infiltrato nelle Triadi.
Il gioco miscelava parkour, combattimenti di arti marziali, inseguimenti in moto e una narrazione noir degna dei migliori film di John Woo. Un titolo che, pur ricevendo ottime recensioni e conquistando un pubblico di culto, non riuscì a ottenere il successo commerciale sperato. Il fallimento economico decretò la fine della serie, lasciando i fan orfani di un sequel e con la speranza che almeno il cinema potesse raccoglierne l’eredità.

Quella speranza sembrava concretizzarsi nel 2017, quando Donnie Yen — icona del cinema action asiatico e protagonista di Rogue One: A Star Wars Story — era stato scelto per interpretare Wei Shen. Il progetto, però, si arenò senza preavviso, travolto da anni di silenzi e rinvii. Fino a oggi.

Simu Liu prende in mano le redini del progetto

Nel 2024, Simu Liu ha deciso di riaccendere la fiamma. Sul suo profilo X (ex Twitter) ha pubblicato una foto che mostra la sceneggiatura ufficiale di Sleeping Dogs, accompagnata da un messaggio inequivocabile: la prima bozza è completata e pronta per la revisione.
Un dettaglio interessante? Il nome dello sceneggiatore è stato oscurato. Potrebbe trattarsi di un colpo di scena, magari un regista o uno sceneggiatore di fama coinvolto in gran segreto nel progetto.

La scelta di Liu come protagonista non è casuale: l’attore, reduce dalle riprese di Avengers: Doomsday, ha più volte dichiarato la sua volontà di produrre il film personalmente, spinto da un sincero amore per il videogioco. E non c’è dubbio che le sue abilità nelle arti marziali e il carisma già mostrato in Shang-Chi possano renderlo il candidato ideale per incarnare la duplice natura di Wei Shen: poliziotto e criminale, eroe e antieroe, luce e ombra della stessa città.

Un adattamento che può (finalmente) funzionare

Ma Sleeping Dogs non è un progetto semplice. Come molti adattamenti videoludici, il rischio principale è tradurre male l’esperienza di gioco: l’azione senza il pathos, il ritmo senza la tensione narrativa, la fedeltà senza emozione.
Il segreto, come dimostrano gli esempi virtuosi degli ultimi anni, sta nel trovare un equilibrio. The Last of Us ha insegnato che è possibile rispettare il materiale di partenza senza rinunciare alla profondità cinematografica. Sonic, invece, ha mostrato che il pubblico premia chi sa essere leggero ma coerente con il proprio universo.

Nel caso di Sleeping Dogs, il potenziale è enorme: un’ambientazione urbanistica viva e pulsante, le complesse dinamiche tra Triadi e forze dell’ordine, e soprattutto un protagonista lacerato tra dovere e sopravvivenza. Se trattati con la giusta sensibilità, questi elementi potrebbero dar vita a un film capace di mescolare azione, introspezione e spettacolarità, mantenendo intatta la tensione morale che ha reso unico il gioco.

L’energia di Hong Kong come co-protagonista

Uno dei punti di forza del videogioco era proprio la città stessa: una Hong Kong non solo scenografica, ma viva, respirante, dove ogni vicolo raccontava una storia. Ricrearla sul grande schermo sarà una sfida tecnica e artistica, ma anche un’occasione straordinaria per mostrare una metropoli raramente rappresentata in tutta la sua complessità.
Le luci al neon, le stradine affollate, il contrasto tra modernità e tradizione potrebbero diventare il vero cuore visivo del film, un teatro perfetto per le battaglie di Wei Shen e le tensioni che attraversano il confine tra legalità e corruzione.

Hollywood e la riscossa dei videogame

Negli ultimi anni l’industria cinematografica ha imparato una lezione fondamentale: i videogiochi non sono più materiale di serie B. Sono universi narrativi ricchi, dotati di fanbase globali e mitologie degne delle grandi saghe.
Dopo decenni di adattamenti deludenti, Hollywood sembra aver finalmente trovato la chiave per trasformare i giochi in film rispettosi e redditizi. Sleeping Dogs potrebbe essere il prossimo passo di questa evoluzione, una pellicola che unisce il fascino del cinema action orientale con l’estetica del crime moderno.

Il futuro di Wei Shen

Per ora, il progetto è ancora nelle prime fasi di sviluppo, ma l’entusiasmo dei fan è palpabile. L’annuncio di Simu Liu ha riacceso l’hype e, come un colpo di kung fu ben assestato, ha rimesso Sleeping Dogs sotto i riflettori.
Se tutto andrà per il verso giusto, potremmo trovarci di fronte a uno dei più promettenti adattamenti videoludici di sempre, capace di restituire alla saga il posto che merita nel pantheon dell’action moderno.

Hong Kong attende, le Triadi pure. E questa volta, forse, il sogno di vedere Wei Shen tornare in azione non è più un’illusione.

Yellowjackets: la serie cult tra sopravvivenza, follia e oscurità si avvia alla conclusione

C’è una strana magia in Yellowjackets. Una magia oscura, viscerale, quasi selvaggia, che ti graffia l’anima e ti costringe a guardare il lato più spietato dell’essere umano. Fin dal suo debutto, la serie Showtime ha conquistato pubblico e critica con un mix unico di mistero, horror psicologico e dramma adolescenziale. Ora, però, quella corsa nella foresta sta per finire: Paramount+ ha ufficialmente annunciato che la quarta stagione sarà l’ultima.

Una decisione che divide, ma che ha una sua logica narrativa. Dopo un primo capitolo da applausi, dove tensione e simbolismo si fondono in una narrazione magistrale, Yellowjackets aveva mostrato qualche incertezza nelle stagioni successive. Il fascino del mistero e della superstizione, l’inquietante equilibrio tra passato e presente, avevano perso parte della loro forza originaria. Eppure, nonostante tutto, l’hype è rimasto vivo, come una fiamma impossibile da spegnere.

Una fine annunciata ma inevitabile

Gli showrunner Ashley Lyle e Bart Nickerson hanno confermato la notizia con una dichiarazione intensa e riconoscente:

“Dopo tre incredibili stagioni e grande considerazione, siamo entusiasti di annunciare che porteremo la storia di Yellowjackets alla sua conclusione più contorta in questa quarta e ultima stagione. Raccontare questa storia selvaggia, emotiva e profondamente umana è stata un’esperienza straordinaria. Siamo grati al cast, alla troupe e soprattutto ai fan: l’alveare non esisterebbe senza di voi”.

La serie, che inizialmente era stata pensata per cinque stagioni, si chiuderà dunque prima del previsto. Ma, come spesso accade nella giungla dell’intrattenimento, la sopravvivenza non è mai garantita. In un panorama televisivo in cui i tagli colpiscono anche i titoli più amati, riuscire ad avere un finale pianificato è già un lusso.

Il fascino disturbante della sopravvivenza

Forse è proprio questo che ha reso Yellowjackets una serie tanto potente: la sua capacità di scavare nei meandri più oscuri dell’animo umano. Non è solo una storia di adolescenti abbandonate a se stesse dopo un disastro aereo. È una parabola crudele sul potere, la fede e la follia.

La Foresta — con la F maiuscola, perché ormai è un personaggio a sé — non è solo un luogo fisico, ma una divinità primordiale, un’entità che divora lentamente la mente delle protagoniste. E anche quando, anni dopo, le vediamo adulte e apparentemente “salve”, quella voce della foresta continua a chiamarle, insinuandosi tra i ricordi e i sensi di colpa.

Dalla rivelazione al declino

La prima stagione era stata una rivelazione: un intreccio di tensione, sangue e superstizione che ricordava Lost, ma con un’anima decisamente più disturbante. Le stagioni successive hanno faticato a mantenere quella stessa intensità, alternando momenti di puro genio a trame più frammentarie. Il pubblico, tuttavia, non ha mai smesso di seguire le “api regine”, alimentando forum, teorie e discussioni degne di un culto.

E sì, alcuni misteri sono stati finalmente risolti — il più celebre: l’identità della “Pit Girl” — ma altri continuano a bruciare come ferite aperte. Il simbolo, quell’enigmatica runa che ricorre ovunque, resta un rebus mitologico. E ogni nuova rivelazione sembra solo aggiungere strati di inquietudine.

Un fenomeno culturale

Chris McCarthy, Co-CEO di Paramount Global e presidente di Showtime/MTV Entertainment Studios, ha definito Yellowjackets “un colosso culturale”, lodando la terza stagione per aver “frantumato ogni record precedente”. E non è difficile capire il perché. Il mix tra horror psicologico, dramma adolescenziale e narrazione corale ha creato un linguaggio unico, capace di parlare tanto ai fan del thriller quanto a chi ama le storie di formazione contaminate dal buio.

Il merito va anche al cast: Melanie Lynskey, Christina Ricci, Tawny Cypress e Juliette Lewis (la cui interpretazione resta tra le più intense della sua carriera) hanno dato vita a personaggi complessi, spezzati, umani. Un mosaico di sopravvissute che non cercano la redenzione, ma solo di convivere con i propri demoni.

L’ultimo morso dell’alveare

La quarta stagione, già in sviluppo, promette di chiudere il cerchio con una conclusione “deliziosamente” inquietante — parola degli stessi autori. Ci si attende un ritorno alle origini, a quella tensione viscerale che aveva reso la prima stagione un piccolo capolavoro.

E allora la domanda sorge spontanea: scopriremo finalmente la verità dietro il simbolo? La foresta lascerà andare le sue vittime? O il vero orrore è ciò che le ragazze hanno portato con sé nel mondo civile?

Per ora non esiste una data di uscita ufficiale per Yellowjackets 4, ma le prime tre stagioni sono disponibili su Paramount+ (e le prime due anche su Netflix). E in attesa di rimettere piede nella foresta, possiamo solo prepararci psicologicamente.

Perché quando Yellowjackets tornerà, lo farà per l’ultima volta. E sarà affamata.

Alice in Borderland 3: il ritorno del Joker nel gioco della vita – e della morte

Tokyo non è mai stata così silenziosa. Le luci della metropoli si riflettono su un cielo che sembra trattenere il respiro, mentre un orologio invisibile scandisce il tempo del ritorno. Dopo tre anni di attesa, Alice in Borderland è tornata. Dal 25 settembre 2025, Netflix ci riporta nel regno dei giochi mortali di Haro Aso con una terza stagione che mescola fantascienza, dramma psicologico e metafisica pura. Sei episodi soltanto, ma sufficienti per riscrivere il mito del Borderland e il destino dei suoi protagonisti.

Avevamo lasciato Arisu e Usagi nel mondo reale, finalmente liberi, senza memoria delle loro prove. Ma la pace era solo un’illusione. Quando Usagi viene rapita da un uomo misterioso, Ryuji (interpretato da Kento Kaku), Arisu è costretto a scendere di nuovo nel confine tra la vita e la morte per salvarla. Così comincia il “gioco del Joker”, la sfida finale che promette risposte ma consegna solo nuove ossessioni. Ryuji è un professore carismatico e disturbato, un uomo ossessionato dall’aldilà e dalla possibilità di manipolare la coscienza. Con lui, la serie apre un capitolo nuovo, più cupo e filosofico, in cui la scienza si mescola al misticismo. Quando Usagi cade in uno stato di pre-morte, il suo spirito precipita nuovamente nel Borderland, trascinando con sé Arisu in un abisso di sogni infranti e realtà frammentate.

Borderland Reloaded

La Tokyo che ritroviamo non è più quella che conoscevamo. Shinsuke Satō – regista visionario che già nelle prime due stagioni aveva trasformato la città in un’arena apocalittica – porta ora la sua estetica all’estremo. Strade contorte, edifici sospesi, luci liquide. Ogni scena è una ferita visiva che racconta un mondo sull’orlo della dissoluzione.

Il primo gioco, una fuga tra piogge di frecce infuocate attorno a un santuario, è un tributo diretto ai capitoli iniziali del manga. Il secondo, un labirinto psicologico costruito sul Dilemma del Prigioniero, mette i partecipanti uno contro l’altro in una spirale di paranoia. Ma è nella seconda metà della stagione che Alice in Borderland 3 trova il suo cuore pulsante: un treno lanciato a tutta velocità nel nulla, sequenza che ricorda il miglior Terry Gilliam, con Arisu e Usagi che corrono tra visioni, ricordi e specchi distorti del passato.

Due anime in bilico

Questa stagione è meno un survival game e più un requiem. Arisu e Usagi non sono più eroi, ma frammenti di un amore sopravvissuto al trauma. Lui, svuotato di senso, cerca ancora una ragione per vivere. Lei, prigioniera della memoria del padre, diventa il simbolo di un dolore che nemmeno la realtà riesce a contenere. Il loro legame, costruito sul sangue e sul sacrificio, si trasforma in un fragile equilibrio tra follia e redenzione.

Fumiaki Maruto, lo sceneggiatore di Saekano, firma una scrittura più introspettiva, che intreccia filosofia e psicanalisi. Non più solo la sopravvivenza, ma la ricerca di un significato nel dolore. È in questa direzione che Alice in Borderland 3 diventa qualcosa di più grande di un semplice “death game”: una riflessione sulla memoria, sull’identità e sull’impossibilità di sfuggire a sé stessi.

Nuovi giocatori, vecchie regole

Accanto ai protagonisti, la serie introduce nuovi personaggi enigmatici. C’è un ex yakuza disilluso ma onesto, una scienziata che studia il Borderland come fosse un esperimento quantico, e un ragazzo introverso che comunica solo attraverso i suoni dei treni. Tutti portano un frammento di verità, ma anche un nuovo livello di inganno.

E poi, il ritorno inaspettato: Banda, il carcerato della seconda stagione, riappare come l’unico a ricordare tutto. È lui a sussurrare la teoria più inquietante: che forse Arisu e Usagi non siano mai davvero usciti dal Borderland. Che il “mondo reale” non sia altro che un altro gioco.

Il peso del genere

Nel 2025, il filone dei giochi mortali ha invaso l’immaginario collettivo. Dopo Squid Game, Battle Royale, The Long Walk, e decine di imitazioni, rischiare di apparire derivativi è facile. Ma Alice in Borderland mantiene una sua voce unica grazie alla malinconia e alla precisione emotiva che lo contraddistinguono. Satō evita la retorica della crudeltà e gioca invece con i silenzi, con il vuoto, con la poesia della sopravvivenza.

Il Borderland non è solo un campo di battaglia: è uno specchio. Un luogo dove l’umanità mostra la sua parte più fragile, quella che desidera vivere anche quando tutto sembra finito.

Il Joker: fine o inizio?

Il finale della stagione è un colpo al cuore. Il “gioco del Joker” non è una prova fisica, ma un viaggio attraverso la memoria. Arisu e Usagi devono affrontare non un nemico, ma le versioni di sé che hanno perduto. Quando finalmente si ritrovano, comprendono che l’unico modo per vincere è arrendersi: accettare la morte, o forse, la vita.

E poi, l’ultima inquadratura. Una carta da gioco, abbandonata tra le rovine. Il Joker. Un simbolo che sorride beffardo, come a ricordarci che il Borderland non finisce mai: cambia forma, si traveste, si rinnova.

Un viaggio che continua

Con il manga di Haro Aso ormai concluso, questa terza stagione si muove libera nel vuoto, costruendo nuovi significati. Forse è l’ultimo atto, forse solo un passaggio. Ma una cosa è certa: Alice in Borderland continua a spingere oltre i confini della narrazione, trasformando la morte in filosofia e la sopravvivenza in arte.

In un panorama dominato da prodotti che cercano solo il colpo di scena, questa serie ricorda che la vera suspense nasce dall’animo umano.

E quando i titoli di coda scorrono, resta solo una domanda sospesa: e se il vero Borderland fosse il mondo in cui viviamo?

La Prova di Michael Connelly: il ritorno del maestro del noir con il nuovo detective Stilwell sull’isola di Catalina

C’è un momento catartico nella carriera di ogni architetto del noir in cui la mappa del crimine non è più sufficiente; bisogna tracciare la bussola dell’anima. Michael Connelly, il maestro indiscusso del genere contemporaneo, lo sa perfettamente. Dopo aver plasmato per oltre trent’anni un universo narrativo interconnesso con icone del calibro di Harry Bosch, Mickey Haller e Renée Ballard, lo scrittore di Los Angeles non si accontenta di un semplice capitolo: con l’imminente La Prova (The Proof), Connelly apre una nuova era, introducendo un detective destinato a ereditare l’ossessione per la verità: Stilwell.


Dimenticate le strade assolate e le aule di tribunale tentacolari di Los Angeles. Connelly sposta l’attenzione su un microcosmo di roccia e mistero: Catalina Island. Per Stilwell, ex-membro di spicco della Sezione Omicidi del LAPD, l’isola non è un paradiso, ma una sorta di esilio professionale. Allontanato dalla metropoli per ragioni politiche e conflitti interni, si ritrova confinato in un distretto dove l’attività criminale si riduce, in teoria, a innocue risse da bar e piccoli furti.

Eppure, questa placida apparenza si incrina brutalmente. Il ritrovamento sul fondo del porto del corpo di una donna sconosciuta, identificabile unicamente da una distintiva ciocca di capelli viola, trasforma Catalina in un palcoscenico inquietante. Stilwell percepisce subito che non si tratta di un caso isolato. Dietro questa morte si nasconde una fitta rete di silenzi, menzogne e interessi oscuri che l’isola ha custodito troppo a lungo, come una marea che nasconde relitti.


Stilwell: Un Erede con la Crepa

Connelly, con la sua ineguagliabile abilità di caratterizzazione, modella Stilwell come un successore spirituale dei suoi eroi più celebri, ma con un elemento di profonda novità: una crepa morale ancora più marcata. È un professionista della giustizia che vive ai margini, un uomo che ha visto il sistema voltargli le spalle e che, nonostante tutto, non riesce a rinunciare alla sua vocazione.

Egli condivide l’ossessione per la verità di Harry Bosch e la profonda conoscenza dei labirinti del potere di Mickey Haller, ma Stilwell è, in primo luogo, un sopravvissuto al disincanto. Le sue indagini non sono solo sulla vittima o sul colpevole; sono una continua introspezione sul suo ruolo in un mondo corrotto.

La sua ricerca si sdoppia drammaticamente quando un’indagine apparentemente minore per bracconaggio in una riserva naturale si rivela legata a un brutale caso di violenza. Le piste si intrecciano, e Stilwell si ritrova a operare su due fronti: la risoluzione del mistero della “donna dai capelli viola” (o “Nightshade,” come viene etichettata nei rapporti) e lo smantellamento di un giro d’affari illecito che coinvolge figure influenti e inattaccabili dell’isola. A rendere il tutto più esplosivo, si aggiunge un vecchio rancore con un ex collega del LAPD, determinato a sabotarlo. Ma l’ostinazione di Stilwell, la sua incapacità di voltare le spalle al male, è la stessa caparbia integrità morale che ha cementato l’affetto di milioni di lettori per l’opera di Connelly.


La Metafora dell’Isola: Tra Bellezza e Corruzione

In La Prova, Catalina non è semplicemente un’ambientazione, ma un vero e proprio organismo narrativo, un microcosmo che riflette le contraddizioni più aspre dell’America contemporanea. È un luogo dove la bellezza incontaminata della natura funge da velo per una corruzione profonda e radicata, dove il mare è al contempo barriera contro il mondo esterno e prigione per i segreti dell’isola.

Connelly descrive Catalina con la precisione clinica di un reporter e la malinconia evocativa di un poeta. La nebbia, i porti deserti, il silenzio pesante della riserva diventano potentissime metafore di un’umanità alla deriva. La “prova” del titolo non si riferisce solo all’evidenza di un crimine, ma alla sfida esistenziale che Stilwell deve affrontare: la sua capacità di distinguere l’illusione dalla verità e, soprattutto, di rimanere integro quando ogni cosa intorno a lui sembra crollare.


Il Reboot di un Multiverso: Oltre i Confini di Bosch e Haller

Con oltre ottantanove milioni di copie vendute in quarantacinque lingue, Michael Connelly è una delle voci più influenti del crime moderno. Il suo multiverso narrativo, che si estende con successo anche sullo schermo attraverso le serie Bosch: Legacy (Prime Video) e The Lincoln Lawyer (Netflix), è rinomato per aver saputo fondere il realismo giornalistico ereditato dalla sua carriera precedente, con una profonda e toccante tensione morale.

La Prova non è un’eccezione, respirando la stessa aria tesa e matura di romanzi come The Dark Hours o Desert Star, ma introduce una nuova intensità. La forza del romanzo risiede nella sua atmosfera: tesa, malinconica e intrisa di un paesaggio sospeso tra l’abisso e il sole accecante. Connelly sfrutta il ritmo serrato del thriller non solo per far progredire l’azione, ma per scavare nell’animo umano, offrendo un’opera che è simultaneamente poliziesco impeccabile, introspezione psicologica e acuta critica sociale. L’identità della “Nightshade” è solo la miccia di una storia ben più grande, dove ogni personaggio porta con sé il peso della colpa o la promessa della redenzione.

Con La Prova, Michael Connelly dimostra di aver superato brillantemente la sua stessa sfida: il maestro del noir è tornato, non solo per dare un nuovo volto al suo universo narrativo, ma per ribadire che l’ombra del crimine è più che mai viva e che la ricerca della giustizia non ha giurisdizione. Stilwell è il simbolo di una nuova generazione di investigatori che non si accontentano di chiudere un caso, ma vogliono comprendere la natura stessa del male. E Catalina, con i suoi segreti e le sue scogliere battute dal vento, è il nuovo, perfetto teatro morale per questa inesausta ricerca.

Predator: Badlands – La rinascita aliena del franchise tra epica, emozione e nuove alleanze

Il 6 novembre 2025 è una data che ogni nerd dovrebbe cerchiare in rosso sul calendario galattico. Arriva nelle sale italiane Predator: Badlands, e non è semplicemente il prossimo capitolo della saga, ma un vero e proprio terremoto narrativo che promette di ridefinire il mito dello Yautja e, forse, di unire per sempre due delle leggende più oscure della fantascienza: Predator e Alien.A guidare questa rivoluzione c’è ancora Dan Trachtenberg, il regista che con Prey (2022) aveva dimostrato che l’iconico cacciatore alieno aveva ancora frecce, o meglio, lame, al suo arco. Se Prey aveva riportato il franchise alle sue radici brutali e viscerali, ambientandolo nel passato, Badlands compie un balzo in avanti, non solo nello spazio, ma nel punto di vista. Dimenticate i militari intrappolati nella giungla; questa volta, siamo dentro la maschera termica.

Il colpo di genio di Badlands è il suo protagonista: Dek, un giovane Yautja interpretato da Dimitrius Schuster-Koloamatangi. Per la prima volta, non osserviamo il Predator come un mostro inarrestabile, ma come un’anima vulnerabile, un emarginato dal proprio clan. È definito un “runt”, un debole, e la sua caccia non è un rituale d’onore, ma un disperato viaggio di formazione e sopravvivenza su un pianeta ostile.

Questa scelta, come spiegato dal produttore Ben Rosenblatt, è la ragione per cui persino un potenziale Prey 2 è stato messo in attesa. Trachtenberg ambiva a un film che cambiasse la prospettiva stessa della saga, trasformando l’alieno da antagonista primario a anti-eroe romantico. Dek caccia per necessità, per trovare il proprio posto in un universo che lo respinge. Il suo percorso non è solo fisico, ma spirituale, una vera odissea esistenziale per scoprire cosa significa essere un guerriero, e forse, per la prima volta, essere vivi. L’autenticità è spinta al limite, tanto che per la cultura Yautja è stato creato un vero e proprio linguaggio strutturato da un linguista che ha lavorato su Avatar.


Il Ritorno della Weyland-Yutani: L’Anima Sintetica di Thia

L’elemento che ha fatto impazzire l’intera fanbase è l’introduzione di Thia, interpretata da Elle Fanning. Thia è una sintetica, e la sua genesi ci riporta direttamente nel cuore dell’incubo cosmico di Alien: è stata costruita dalla mitologica Weyland-Yutani Corporation.

Il logo della megacorporazione sulle sue lenti ottiche non è un Easter Egg, ma una dichiarazione d’intenti. Segnala che le frontiere tra i due franchise non sono mai state così labili. Thia è speculare a Dek: un’anima artificiale in cerca della propria identità, un errore di sistema che trova un’alleanza improbabile con l’escluso alieno. Il loro legame, nato dalla fiducia e dalla lotta condivisa contro le forze che li vogliono eliminare, promette di essere uno degli aspetti più toccanti e, al tempo stesso, inquietanti del film. Questa collaborazione fra un Predator e una “creatura” legata all’universo Alien è la chiave di volta per un crossover organico e maturo, finalmente degno del mito che lega Yautja e Xenomorfo.


Badlands: Un Inferno Visivo tra Dune e Mad Max

La cornice di questa epopea è il pianeta Badlands stesso, un ambiente che il trailer descrive come una meraviglia visiva e un vero inferno vivente. Le riprese, avvenute in Nuova Zelanda sotto il titolo provvisorio Backpack, suggeriscono una produzione monumentale.

Il mondo che vedremo mescola l’immaginario di Dune per i suoi deserti infuocati e canyon levigati, con la brutalità di Mad Max e la poesia visiva di Avatar per le sue creature e la flora letale. Montagne che si muovono e sabbie che sussurrano voci perdute compongono un paesaggio che amplifica la sensazione di un’odissea esistenziale. La fotografia curatissima fa di ogni fotogramma un tributo alla space opera che mescola esplorazione e profonda introspezione.


La Nascita del Nuovo Alienverse

Se Badlands, prodotto tra gli altri da John Davis, Marc Toberoff, Ben Rosenblatt e Brent O’Connor, replicherà il successo di Prey (che ha stabilito record di visualizzazioni su Hulu e Disney+), potremmo trovarci all’alba del vero Alien vs. Predator che i fan sognano da decenni. Non più scontri gratuiti, ma un intreccio narrativo coerente che usa la Weyland-Yutani come ponte, aprendo la strada a una mitologia condivisa e a un universo narrativo espanso.

Con Predator: Badlands, la saga abbandona definitivamente la pura sopravvivenza per abbracciare l’emozione, il dramma e il simbolismo del reietto. Dietro la maschera termica dell’alieno, per la prima volta, non c’è solo un cacciatore, ma un eroe destinato a scoprire l’empatia attraverso la lotta.

Questo film non è solo un sequel, è una rinascita. È il momento in cui la caccia cambia pelle e diventa riflessione, unendo adrenalina e poesia in un equilibrio raro nel panorama sci-fi contemporaneo. Siete pronti a schierarvi dalla parte dello Yautja? Vi intriga l’idea di questo crossover maturo? Fatecelo sapere, perché questa volta, il mirino è puntato proprio sulle nostre aspettative.

Trap House – Dave Bautista contro il crimine (e la sua stessa famiglia)

Nel cuore polveroso di El Paso, Texas, esplode una caccia all’uomo che ribalta ogni regola del genere action. Trap House, diretto da Michael Dowse e in uscita nelle sale americane il 14 novembre 2025, promette di essere uno dei thriller più elettrizzanti dell’anno: una miscela di adrenalina, ironia e dramma familiare che mette in campo un cast da urlo, guidato da Dave Bautista, affiancato da Jack Champion, Sophia Lillis, Tony Dalton, Whitney Peak, Inde Navarrette, Zaire Adams, Kate del Castillo e Bobby Cannavale.

La storia di Trap House nasce da un paradosso narrativo irresistibile: un agente della DEA sotto copertura e il suo collega scoprono che i loro stessi figli adolescenti stanno mettendo a frutto le tecniche di sorveglianza e infiltrazione imparate dai genitori per rapinare un cartello della droga. Un gioco pericoloso di specchi e strategie, dove la caccia si trasforma in una guerra domestica ad alto tasso di tensione. Tra droni, microcamere e sparatorie, il film promette un ritmo serrato che alterna scene d’azione a momenti di puro sarcasmo. In una delle battute più iconiche del trailer, il giovane protagonista – interpretato da Jack Champion – domanda al personaggio di Bautista: “Se muori, riceverò una raccolta fondi su GoFundMe?”. La risposta, secca e amara, racchiude perfettamente il tono dell’intero film: violento, ma consapevole della sua vena ironica e satirica.

 

Un cast di fuoco

Dave Bautista, ex wrestler e ormai stella affermata di Hollywood, dopo aver mostrato la sua sorprendente versatilità in film come Knock at the Cabin, Dune e Blade Runner 2049, torna qui in un ruolo che unisce muscoli, umanità e fragilità paterna. Al suo fianco, Jack Champion, il giovane Spider di Avatar: The Way of Water, ormai lanciato tra le nuove leve del cinema americano, e Sophia Lillis, già vista in It e Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri, conferma la sua capacità di dare profondità emotiva anche ai personaggi più imprevedibili.

Completano il cast Bobby Cannavale (Blue Jasmine, The Watcher), Tony Dalton (Better Call Saul, The Last of Us), Kate del Castillo, star del cinema latinoamericano, e Whitney Peak, nota per Hocus Pocus 2 e Gossip Girl. Una squadra eterogenea che trasforma Trap House in un mosaico di personalità forti e contraddittorie, dove ogni volto nasconde un segreto.

Dietro le quinte: quando l’action incontra il family drama

Il progetto è scritto da Gary Scott Thompson (creatore della saga di Fast & Furious) e Tom O’Connor (The Hitman’s Bodyguard), due nomi che garantiscono ritmo e battute affilate. La regia di Michael Dowse, già autore di commedie d’azione come What If e Stuber – Autista d’assalto, promette un equilibrio tra esplosioni e introspezione, puntando su un tono che oscilla tra la tensione pura e l’umorismo nero.

Le riprese, iniziate il 1° aprile 2024, si sono svolte tra Albuquerque e i deserti del New Mexico, sfruttando paesaggi bruciati dal sole e periferie industriali per creare l’atmosfera perfetta di un thriller sporco e realistico. Il film è prodotto da Capstone Studios, Signature Entertainment, Creativity Media e Ashland Hill Media Finance, con la supervisione di Scott Free Productions di Ridley Scott, che aggiunge al progetto una firma di qualità cinematografica.

Un debutto esplosivo per Aura Entertainment

Trap House sarà il primo titolo distribuito da Aura Entertainment, una nuova casa di produzione americana che ha scelto di inaugurare la propria avventura con un film ad alto impatto visivo e narrativo. La data d’uscita, fissata per il 14 novembre 2025, segna anche un test importante per la compagnia, che punta a entrare nel mercato dei blockbuster con un’opera dal respiro internazionale e un appeal perfetto per gli amanti dell’action moderno.

Perché aspettarlo

Perché Trap House non è solo un film di inseguimenti e sparatorie: è una riflessione, sotto forma di action, sul legame tra genitori e figli in un mondo dove persino la legalità e l’etica diventano armi a doppio taglio. Il thriller di Dowse si muove sul filo sottile che separa giustizia e vendetta, mostrando come i ruoli possano invertirsi in un battito di ciglia.

E poi c’è Bautista, che continua a sorprendere: l’ex Drax dei Guardiani della Galassia non si limita a picchiare, ma costruisce un personaggio tormentato, umano, con uno sguardo capace di dire più di cento esplosioni.

Con un mix di azione, ironia e dramma familiare, Trap House promette di essere una delle sorprese del 2025, un film che non ha paura di sporcarsi le mani e di guardare il pubblico dritto negli occhi.

Wednesday 2, recensione completa: Mercoledì Addams torna più cupa, più ambiziosa… e più divisiva che mai

Sono passati quasi tre anni dal debutto di Wednesday su Netflix, eppure l’eco di quella prima stagione non si è mai spento. Le battute caustiche rimbalzano ancora nei corridoi dei licei, le fiere cosplay sono invase da trecce nere perfette e frange impenetrabili, le fanart popolano Tumblr e Instagram come reliquie di un culto digitale. Mercoledì Addams non è più solo un personaggio: è diventata un archetipo del gotico contemporaneo, un simbolo generazionale che si muove tra ironia macabra e consapevolezza millennial.

Ora che entrambe le parti della seconda stagione sono arrivate su Netflix – completando il quadro il 3 settembre 2025 – possiamo finalmente tirare le somme: il ritorno di Mercoledì è più nero del velluto, più affilato di un coltello rituale, più ambizioso nel raccontare un’identità che supera i confini del teen drama e affonda le mani negli incubi del true crime e nelle ombre di una genealogia mitologica. Otto episodi che confermano, stravolgono e dividono.


Jenna Ortega, anima e regista dell’oscurità

Il cambio di passo si sente subito. Jenna Ortega, oltre che protagonista, è ora anche produttrice esecutiva. La sua mano è evidente: le sottotrame sentimentali si riducono, mentre il cuore narrativo pulsa come un giallo psicologico che scava nella mente dei colpevoli e nei lati più disturbanti della stessa eroina. Ortega ha dichiarato di voler “sporcarsi le mani” nella costruzione creativa della serie, e la sua visione ha dato a Wednesday la forma di un laboratorio autoriale, a metà tra seduta spiritica e autopsia emotiva. Il risultato? Una Parte 1 che ha riportato gli spettatori a Nevermore come in un sogno febbrile: visioni, indizi disseminati come briciole avvelenate, mostri che sbucano dalle pieghe di un campus che non è mai stato così inquietante. Tutto sotto l’occhio visionario di Tim Burton, ancora maestro di cerimonie gotiche, capace di trasformare il coming-of-age in una processione nera, in cui ogni risata è un’eco da cimitero e ogni colore sembra sciogliersi in cioccolato fondente e sangue rappreso.


Nuove ombre a Nevermore: Buscemi, Lumley e il ritorno degli Addams

Se Ortega è la bussola, i nuovi ingressi ridisegnano la mappa. Steve Buscemi indossa con naturalezza i panni del nuovo preside di Nevermore: enigmatico, ironico, impossibile da decifrare fino in fondo, è la figura ideale per governare una scuola che vive sull’anomalia.

Sul fronte familiare, la serie regala finalmente spazio a Pugsley (Isaac Ordonez), cresciuto e pronto a reclamare la propria ombra, e a Morticia (Catherine Zeta-Jones), al centro di un rapporto madre-figlia scritto con la lama fine di un rancore antico e di una protezione che brucia come acido. Ma è l’arrivo di Hester Frump, la leggendaria nonna Addams interpretata da una sontuosa Joanna Lumley, a diventare il vero detonatore narrativo: elegante come una maledizione in guanti di pizzo, Hester apre cassetti che era meglio lasciare chiusi, trascinando la serie verso un gotico familiare degno di una tragedia elisabettiana.


Lady Gaga, Rosaline Rotwood e “The Dead Dance”

Il colpo di teatro più chiacchierato era ovviamente lei: Lady Gaga. La sua apparizione, promessa e teorizzata dal fandom fin dal primo teaser, arriva nella Parte 2 con il personaggio di Rosaline Rotwood, sospesa tra mito scolastico e fantasma da leggenda urbana. Il suo ingresso è breve ma memorabile, e non vive solo sullo schermo: parallelamente, Gaga ha pubblicato il singolo “The Dead Dance”, accompagnato da un videoclip diretto proprio da Tim Burton.

Bambole inquietanti, silhouette contorte e coreografie da incubo rendono il brano un’estensione naturale della serie, un rituale collettivo che ha già invaso TikTok, cosplay e challenge online. Fan service? Certo. Ma anche world-building musicale che lega in modo indelebile la stagione al suo immaginario.


Struttura in due atti: la spirale e la frattura

La stagione è stata distribuita in due tronconi, e la differenza si sente. La Parte 1 è una spirale: ogni episodio stringe la presa sulla psiche di Mercoledì, mescolando il mistero alla Christie con l’horror di creature che sembrano balzare fuori da un bestiario occulto. La Parte 2, invece, rompe la gabbia: spalanca le porte sulle radici familiari, cita a cuore aperto i mostri classici e avvicina la serie al gotico romantico.

Il prezzo? La coesione. Se la prima metà brilla per precisione chirurgica, la seconda inciampa in frammentazioni che a tratti sembrano pensate più per il consumo social che per l’arco narrativo. Non un naufragio, certo, ma qualche crepa che tradisce l’ambizione titanica del progetto.


Mercoledì, l’anti-eroina che rifiuta il piedistallo

Il fulcro resta sempre lei. Ortega incarna una Mercoledì che odia il piedistallo e smonta la propria iconizzazione con lo stesso sarcasmo con cui strapperebbe un cartello “vietato l’ingresso”. È ironica e crudele, ma anche capace di pietà a modo suo.

La serie la costringe a fare i conti con l’eredità di Morticia: la consegna del diario di Ofelia e la rinegoziazione del legame materno sono momenti tra i più intensi dell’intera saga, in cui la commedia gotica lascia spazio a un lirismo inatteso. È qui che Wednesday smette di essere “solo” una serie e diventa manifesto: un personaggio che resiste a diventare mascotte, restando umanamente scomodo.


Estetica e colonna sonora: la fiaba tossica di Burton

Visivamente, Wednesday rimane un compendio di estetica burtoniana: geometrie storte, contrasti cromatici brutali, corridoi che sembrano vene pulsanti di un organismo vivente. La Nevermore Academy respira come un personaggio, e ogni finestra, ogni quadro, ogni ombra contribuisce a quell’atmosfera da “fiaba tossica”.

La musica accompagna come un incantesimo: archi gotici, sonorità pop teatrali e rumori che paiono provenire da un baule infestato. In questo contesto, la hit di Gaga non è solo fan service, ma rito collettivo, destinato a vivere più a lungo della stagione stessa.


Verso la Stagione 3: promesse e incubi futuri

Con la chiusura degli otto episodi, Netflix ha confermato ufficialmente la Stagione 3. Le prime dichiarazioni dei creatori, Al Gough e Miles Millar, parlano di un approfondimento ancora maggiore dei personaggi e della mitologia Addams.

Il futuro di Mercoledì potrebbe intrecciarsi a nuovi poteri, al ruolo sempre più centrale della nonna Hester e a un vuoto di leadership a Nevermore che promette conflitti interni incandescenti. Le tempistiche restano oscure, ma la porta è aperta e l’eco dei colpi di scena dell’ultima parte risuonerà a lungo.


Cosa resta dopo i titoli di coda

Resta la certezza di una stagione più adulta, consapevole, ambiziosa. Una stagione che osa, anche a costo di spaccare il pubblico. Mercoledì continua a rifiutare la santificazione pop, scegliendo invece di essere un personaggio vivo, contraddittorio, persino disturbante. Se la Parte 1 è stata il respiro trattenuto prima del tuffo, la Parte 2 è il riemergere con in mano qualcosa di familiare e ancestrale, che ci somiglia più di quanto vorremmo ammettere. Non perfetta, ma viva. E in un mare di contenuti algoritmici, questo è già un atto di magia nera.

In the Hand of Dante: il thriller che porta il Sommo Poeta nella New York della mafia

Quando un regista come Julian Schnabel arriva al Lido con un progetto che ha inseguito per quindici anni, la curiosità diventa febbre. In the Hand of Dante, presentato fuori concorso alla 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è molto più di un semplice film: è un’opera-mondo, un flusso che ingloba Dante Alighieri, la mafia newyorkese, il dolore creativo, le ossessioni letterarie e un cast che definire stellare è riduttivo. Schnabel lo ha descritto come “tragico e folle come la vita”, e basta questa dichiarazione per capire il tono del viaggio.

La storia prende vita da un manoscritto perduto della Divina Commedia, custodito per secoli nella Biblioteca Vaticana e improvvisamente piombato nel ventre oscuro di New York. Qui passa dalle mani di un boss mafioso a quelle di Nick Tosches, lo scrittore che nel romanzo originale si mette in scena e che nel film ha il volto intenso di Oscar Isaac. Ed è proprio Isaac a farsi carico del gioco più ambizioso: interpretare sia Tosches che lo stesso Dante Alighieri, in un continuo rimbalzo tra presente e passato. Da una parte c’è lo scrittore coinvolto in una spirale di violenza e tradimenti, dall’altra il poeta alle prese con il proprio blocco creativo, i tormenti politici e le visioni che lo condurranno fino al cuore della Commedia.

Il film è costruito come una discesa agli Inferi che alterna mafiosi a Caronte, sicari a demoni, vicoli di Brooklyn a corridoi medievali. È un noir che si traveste da poema epico, un thriller letterario che flirta con la filosofia e la leggenda. Schnabel non si limita a citare Dante: lo reinventa, lo piega a un presente in cui l’arte è ancora un’arma di salvezza.

Il cast è una di quelle combinazioni che sembrano nate in un universo parallelo dove i fan di cinema hanno potere decisionale. Accanto a Isaac troviamo Gal Gadot come Giulietta/Gemma Donati, Gerard Butler nei panni del brutale Papa Bonifacio, John Malkovich nel glaciale ruolo di Joe Black, Sabrina Impacciatore come la dottoressa Pulice, Franco Nero nei panni del misterioso Don Lecco, Benjamin Clementine in versione Mefistofele enigmatico, e Martin Scorsese, che oltre a produrre veste i panni del mentore Isaiah, con un ruolo scritto quasi come un’eco della sua stessa vita. E non è finita: Jason Momoa, Al Pacino, Lorenzo Zurzolo, Claudio Santamaria e Guido Caprino completano un mosaico che oscilla tra Hollywood e il grande cinema europeo.

Un film così non nasce dall’oggi al domani. L’idea risale al 2008, quando Johnny Depp acquisì i diritti del romanzo di Nick Tosches con l’intenzione di produrlo e interpretarlo. Per anni il progetto rimase sospeso tra voci e annunci, finché Schnabel non ne prese le redini, portando sul set un team di attori che ha trovato la strada solo nel 2023, durante gli scioperi di Hollywood, grazie a un accordo speciale con il sindacato SAG-AFTRA. Girato tra location italiane e metropoli americane, In the Hand of Dante si presenta come un’opera visivamente potente, sospesa tra la pittura raffinata di Schnabel e la crudezza di un noir senza sconti.

Ma un film così ambizioso non poteva non dividere. Già a Venezia le opinioni sono state contrastanti. Alcuni spettatori lo hanno accolto come un esperimento visionario, altri lo hanno definito un guazzabuglio ipertrofico, un flusso di citazioni e immagini che rischia di perdersi nel proprio labirinto. C’è chi ha riso in sala durante scene che avrebbero dovuto suscitare pathos, e chi invece è rimasto incantato dall’azzardo di Schnabel. Lui, dal canto suo, ha difeso le scelte del casting e ha ribadito che il suo film non è un trattato sulla Divina Commedia, ma un’opera che ci spinge a restare nel presente, proprio come i quadri di Caravaggio che trasformano la morte in eternità visiva.

Il paradosso è che, proprio grazie a queste spaccature, In the Hand of Dante sembra destinato a diventare un instant cult. Non tanto per il suo successo narrativo, quanto per la sua natura di esperimento folle, di oggetto cinematografico che si prende terribilmente sul serio e finisce, forse involontariamente, per sfiorare la parodia. È il tipo di film che i cinefili nerd si costringeranno a vedere e rivedere, per poi discuterne per ore tra una birra e una convention, chiedendosi se Schnabel abbia davvero trovato un varco tra Inferno e Paradiso o se si sia perso in un limbo di eccessi.

Alla fine, la domanda che resta sospesa è semplice e abissale: può davvero l’arte salvarci dalla caduta? Schnabel sembra rispondere di sì, ma la sua risposta non è mai rassicurante, perché ci ricorda che l’Inferno può nascondersi dietro l’angolo, tra un vicolo di Brooklyn e un’aula del potere fiorentino. E allora la salvezza non è una meta, ma il viaggio stesso.

E voi, lettori di CorriereNerd, che ne pensate? Questo film è un capolavoro visionario o un disastro affascinante? Raccontatelo nei commenti e condividetelo con la vostra community: la discussione, in fondo, è il vero fuoco che alimenta ogni opera d’arte.

Il Club dei Delitti del Giovedì: un giallo ironico, malinconico e profondamente umano

Dal 28 agosto 2025 è finalmente disponibile su Netflix Il Club dei Delitti del Giovedì, l’adattamento cinematografico del bestseller di Richard Osman che, già prima dell’uscita, aveva fatto esplodere l’entusiasmo dei fan. Le prime immagini diffuse online hanno acceso discussioni infinite tra lettori e curiosi, tutti uniti dalla stessa domanda: il film sarà davvero all’altezza del romanzo che ha conquistato milioni di persone?

Questa non è solo la trasposizione di un giallo di successo. È un esperimento narrativo che gioca con gli stereotipi del genere e li ribalta, scegliendo come protagonisti non giovani investigatori rampanti, ma quattro pensionati che vivono in una residenza di lusso per anziani. Il risultato è un racconto che intreccia mistero, ironia e riflessione esistenziale con un equilibrio sorprendente, capace di regalare al pubblico qualcosa di nuovo e fresco, pur rimanendo fedele allo spirito del libro.

La trama si sviluppa all’interno di Coopers Chase, un complesso residenziale costruito sulle rovine di un antico convento. Qui incontriamo Elizabeth, un’ex spia dal passato che non smette mai di riaffiorare; Ron, ex sindacalista dal temperamento battagliero; Ibrahim, raffinato psichiatra in pensione; e Joyce, ex infermiera apparentemente fragile, ma con un intuito capace di svelare più di quanto chiunque si aspetterebbe. Insieme hanno formato un club che si diverte a indagare su vecchi casi irrisolti. Ma quando un delitto reale colpisce proprio sotto i loro occhi, il gioco si trasforma in un’indagine pericolosa e avvincente, che metterà alla prova non solo le loro abilità, ma anche i loro limiti.

Dietro questa cornice da giallo classico, il film costruisce un ritratto molto più ampio e intimo. I protagonisti non sono mai figure stereotipate di “vecchietti arzilli”, bensì personaggi complessi che affrontano dolori e sfide reali. Elizabeth deve convivere con la malattia del marito, Joyce con la solitudine del lutto, Ron con i conflitti irrisolti con il figlio Jason, e Ibrahim con la fragilità che l’età impone. Tutti loro trasformano le proprie debolezze in risorse, rendendo la loro indagine non solo un puzzle investigativo, ma un viaggio dentro la memoria, il rimpianto e la resilienza.

Uno dei grandi meriti di questa trasposizione sta proprio nella sceneggiatura. Katy Brand e Suzanne Heathcote hanno scelto di non replicare pedissequamente la struttura del romanzo, ma di adattarla in modo da renderla più snella e cinematografica. I casi da risolvere passano da tre a due e alcuni personaggi vengono eliminati, ma il cuore rimane intatto: il ritmo è serrato, i colpi di scena sono ben calibrati e lo spettatore si trova costantemente in bilico tra la voglia di ridere e quella di commuoversi.

A dare vita a questo universo c’è un cast che sembra uscito direttamente dalle pagine del libro. Helen Mirren interpreta Elizabeth con eleganza e ironia, mentre Pierce Brosnan porta tutto il suo carisma nel ruolo di Ron. Ben Kingsley veste i panni di Ibrahim con una sensibilità unica, e Celia Imrie rende Joyce indimenticabile grazie al suo mix di dolcezza e astuzia. Ma la magia non si ferma ai quattro protagonisti: attorno a loro ruota un ensemble di volti noti e amatissimi, tra cui David Tennant, Naomi Ackie, Jonathan Pryce, Tom Ellis e Daniel Mays, che arricchiscono la narrazione e danno spessore a ogni interazione.

A orchestrare il tutto c’è Chris Columbus, regista che da sempre sa coniugare leggerezza e malinconia. La sua regia riesce a mantenere costante quell’equilibrio delicato tra mistero e commedia, evitando sia il rischio della farsa che quello del melodramma. Con il suo tocco, la vicenda assume un tono da fiaba noir, dove ogni indizio è un tassello e ogni scena porta con sé un sorriso amaro o una riflessione inattesa.

Il risultato finale è un film che va oltre il puro intrattenimento. Certo, il mistero funziona, le indagini catturano e il gioco del “chi è il colpevole?” tiene incollati fino alla fine. Ma ciò che resta davvero impresso è il messaggio sottile che attraversa la storia: la vita non smette mai di sorprenderci, nemmeno quando sembra avvicinarsi alla sua fase finale. E anche in un’età in cui la società tende a mettere da parte gli anziani, c’è ancora spazio per il coraggio, l’ironia e persino per nuove avventure.

Alla fine, Il Club dei Delitti del Giovedì non è un semplice giallo, ma una celebrazione della vita in tutte le sue sfumature, con le sue fragilità e i suoi colpi di scena. Non è un thriller adrenalinico, né vuole esserlo: preferisce essere un viaggio intimo e sorprendente, capace di lasciare lo spettatore con una sensazione dolceamara, quella di aver risolto un enigma ma anche di aver scoperto qualcosa di più profondo sull’umanità dei suoi protagonisti.

E se questo film dovesse aprire la strada a una saga, proprio come è accaduto per i libri di Osman, non c’è dubbio che il pubblico nerd e appassionato di crime avrà trovato un nuovo punto di riferimento. Perché, diciamolo, chi non vorrebbe far parte di un club che tra una tazza di tè, una fetta di torta e un paio di occhiali da lettura riesce a smascherare assassini con più classe e ironia di qualsiasi detective navigato?

Extraction diventa serie TV: Netflix espande l’universo action con Omar Sy e Boyd Holbrook

C’era una volta un mercenario chiamato Tyler Rake, interpretato da un Chris Hemsworth versione “Thor senza martello”, capace di trasformare inseguimenti e sparatorie in pura adrenalina visiva. Da quel film del 2020 tratto dalla graphic novel Ciudad, i fratelli Russo e Netflix hanno costruito un franchise che non ha mai smesso di alzare l’asticella. Dopo Extraction e Extraction 2, arriva ora il passo che i fan aspettavano: l’universo si allarga con una serie TV spin-off che promette di fondere azione mozzafiato e introspezione psicologica.

Al timone troviamo Glen Mazzara, lo showrunner che ha già guidato The Walking Dead durante alcune delle sue stagioni più cupe e potenti. Al centro della scena non c’è più Hemsworth, ma Omar Sy, l’attore che ci ha fatto sognare con Quasi Amici e che ha dominato il piccolo schermo con Lupin. Qui lo vedremo in una veste inedita: un mercenario lacerato da dilemmi morali, intrappolato in una missione in Libia tra ostaggi, fazioni in guerra e assassini spietati. Una storia che non si limita ai proiettili: a esplodere saranno anche i traumi interiori.

Accanto a lui entra in scena Boyd Holbrook, che i nerd ricorderanno come l’inquietante Corinzio di The Sandman e che presto vedremo anche nei panni di Johnny Cash nel biopic diretto da James Mangold. Holbrook interpreterà David Ibarra, leader della squadra Extraction, figura ambigua che potrebbe rivelarsi alleato prezioso o antagonista letale.

La cosa affascinante è che questa serie non nasce dal nulla: pesca a piene mani nella mitologia già creata. Extraction ci aveva portato a Dhaka, in Bangladesh, dove Rake tentava l’impossibile per salvare il figlio di un signore della droga indiano. In Extraction 2, invece, la sfida era liberare la famiglia di un gangster georgiano, con sequenze d’azione da manuale firmate Sam Hargrave, lo stuntman diventato regista che ha trasformato i piani sequenza in un marchio di fabbrica. Ora, con la serie, quel mondo si fa ancora più ampio e corale.

Dietro le quinte, i fratelli Russo restano fermi al timone come produttori esecutivi insieme ad AGBO, la loro casa di produzione che negli ultimi anni ha costruito veri universi narrativi, e allo stesso Sam Hargrave, garanzia di un action visivamente esplosivo. Ma l’elemento più interessante sta nel tono che la serie sembra voler adottare: meno “videogioco sparatutto”, più “thriller umano”, con personaggi costretti a guardarsi dentro mentre intorno esplode il caos.

Netflix punta chiaramente a trasformare Extraction in qualcosa di più grande di una semplice saga di film. Stiamo parlando di un vero e proprio action cinematic universe, in cui ogni nuova produzione non solo espande la geografia del franchise, ma arricchisce la sua mitologia interna. L’approccio ricorda quello dei fumetti da cui tutto è partito: un mondo in cui ogni storia è autonoma ma allo stesso tempo legata alle altre da fili invisibili.

E qui sta la vera sfida: riuscire a mantenere quell’equilibrio tra intrattenimento adrenalinico e profondità emotiva che ha reso unica la saga. Perché se è vero che i fan amano gli scontri corpo a corpo e le sequenze in piano sequenza che sembrano girate in apnea, è altrettanto vero che il successo di Extraction non si spiega senza l’umanità dei suoi protagonisti. Tyler Rake non era un superuomo, ma un uomo a pezzi che trovava una ragione per andare avanti nelle missioni più disperate. Ora sarà la volta di Omar Sy mostrare un nuovo lato di quell’universo: la vulnerabilità dietro la corazza.

La serie, annunciata per Netflix, non ha ancora una data ufficiale di uscita, ma già si parla di essa come di una delle produzioni più ambiziose nel panorama action televisivo. Con un cast internazionale, un team creativo di veterani e un’eredità cinematografica da onorare, Extraction versione serie TV potrebbe diventare il tassello mancante che trasforma il franchise in un colosso seriale capace di rivaleggiare con i grandi universi narrativi del piccolo e grande schermo.

E voi, siete pronti a seguire Omar Sy tra le sabbie della Libia e i demoni interiori di un mercenario senza pace? Vi intriga di più l’idea di uno spin-off lontano da Chris Hemsworth o pensate che il cuore della saga resti legato indissolubilmente al suo Tyler Rake? Fatecelo sapere nei commenti e preparatevi: l’universo di Extraction non ha intenzione di fermarsi. Questa è solo l’inizio di una nuova, esplosiva stagione.