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Strani disegni di Uketsu: il romanzo noir che ha conquistato il web tra misteri, creepypasta e illustrazioni inquietanti

Ci sono esperienze che ti cercano, non sei tu a trovarle. Ti stanno lì, silenziose, appostate tra gli scaffali impolverati di una libreria, mentre tu, un ignaro nerd della pop culture, stai solo cercando un po’ di sano intrattenimento. Ed è esattamente quello che mi è capitato con Strani disegni di Uketsu. L’ho afferrato quasi per un riflesso condizionato, ipnotizzato dalla copertina che urlava “orrore giapponese stilizzato” in un modo che la mia anima da otaku non poteva ignorare. La sinossi, poi, era un capolavoro di vaghezza e oscurità, un richiamo irresistibile per chi, come me, ha fatto della sete di mistero un vero e proprio stile di vita. E sì, ammettiamolo, la mia irrefrenabile passione per le illustrazioni criptiche ha fatto il resto. Non avevo la più pallida idea di cosa mi aspettasse, ed è forse proprio per questo che sono stato letteralmente travolto. Catapultato in un abisso narrativo che non somigliava a nulla di ciò che la mia mente aveva processato fino a quel momento.


Uketsu: L’Incarnazione Digitale del Terrore e il Suo Esordio Cartaceo

Per molti, il nome Uketsu potrebbe suonare come un mormorio nel vento, un eco lontano di qualcosa di sconosciuto. Ma per noi, gli esploratori delle lande più oscure del web, per chi ha passato notti insonni a divorare creepypasta, per chi ha brividi nostalgici al solo pensiero dei videogiochi horror giapponesi che hanno segnato un’epoca o dei manga che ti lasciano un retrogusto di inquietudine per giorni, Uketsu è già una figura avvolta in un’aura di leggenda. Immaginate una silhouette completamente vestita di nero, il viso occultato da una maschera di cartapesta bianca, quasi monocroma, ridotta all’essenziale: due fenditure vuote per gli occhi e un taglio sottile per la bocca. Statica, disturbante, quasi un’icona minimalista dell’incubo. La sua voce, nei pochi video che circolano come messaggi in bottiglia dal profondo del web, è un sibilo metallico, distorto, disumanizzato al punto da farti gelare il sangue. Questa scelta di anonimato è, oserei dire, profondamente magnetica. Uketsu non si espone, non si rivela; si insinua, si annida. Ed è proprio in questa elusività che risiede il suo fascino: incarna alla perfezione lo spirito delle leggende metropolitane digitali, quelle nate e cresciute nei forum dimenticati, nei thread criptici, nei racconti sussurrati attraverso il linguaggio universale dei bit e dei byte.

Con queste premesse, era inevitabile che il suo esordio letterario fosse qualcosa di intrinsecamente “altro”. E infatti, Strani disegni non è un romanzo nel senso più ortodosso del termine. È un vero e proprio artefatto narrativo ibrido, una creatura letteraria che danza sul confine tra testo e illustrazione, tra la parola scritta e il segno grafico. Questa fusione crea una tensione palpabile, un dialogo continuo tra ciò che viene esplicitamente narrato e ciò che si intravede, si intuisce, si immagina nelle pieghe delle pagine. Il libro si snoda attraverso tre filoni narrativi apparentemente scollegati, come tre tracce audio che attendono di essere mixate. C’è un blog che, dal nulla, inizia a pubblicare disegni che emanano un’aura di inquietudine, creati da un artista che sembra detenere conoscenze indicibili. Poi c’è la storia di un bambino che, in un pomeriggio apparentemente innocuo, scarabocchia su un foglio un messaggio così carico di presagi sinistri da farti rabbrividire. E infine, c’è lo schizzo agghiacciante realizzato da una vittima di omicidio, negli istanti finali della sua vita. Tre storie, tre voci, tre mondi. Ma Uketsu non è un autore da lasciare nulla al caso: con la maestria di un burattinaio oscuro, tesse e ritessa i fili narrativi fino a farli confluire in un’unica, ineluttabile trama che ha il sapore amaro del destino già scritto.


L’Enigma Strutturale e il Fascino dell’Investigazione Narrativa

La cosa che mi ha colpito di più – e che continua a ronzarmi in testa anche ora, a giorni di distanza dalla lettura – è la costruzione architettonica di questo romanzo. La sua struttura è quella di un enigma vivente, un gigantesco puzzle disseminato di indizi. Ogni capitolo, ogni immagine, ogni singola frase sembra un tassello da posizionare con una precisione quasi maniacale. Si legge con quella sensazione elettrica addosso, come se da un momento all’altro si stesse per compiere una scoperta epocale, qualcosa che ribalterà ogni certezza. Nella prima metà del libro, Uketsu gioca in modo sublime con il senso del mistero, trasformando il lettore in un investigatore, uno spettatore e, al tempo stesso, un protagonista in bilico sull’orlo dell’abisso. È un’esperienza narrativa profondamente immersiva, che ti spinge a sottolineare passaggi, a tornare indietro, a rileggere una frase perché, magari, quel dettaglio apparentemente insignificante era in realtà la chiave di volta, e tu te l’eri perso.


Un Brivido nel Mezzo e la Riflessione sull’Imperfezione Geniale

Poi, però, arriva il “ma”. E qui devo essere brutalmente onesto, da nerd a nerd. Intorno a metà libro, si percepisce un lieve scricchiolio. La tensione narrativa, quella carica elettrica che ti aveva tenuto incollato alle pagine, cala leggermente, come se la corsa verso la verità perdesse un po’ di slancio. Inizi a intuire cosa si nasconde dietro il velo del mistero, e quando finalmente le carte vengono scoperte, alcune connessioni non convincono fino in fondo. Le spiegazioni, a tratti, sembrano eccessivamente elaborate, quasi contorte, come se Uketsu avesse dovuto piegare la logica per far quadrare ogni singolo elemento del suo intricato puzzle. È una sensazione sottile, quasi impercettibile, ma fastidiosa: la magia si incrina, anche solo per un fugace istante. I personaggi, pur intriganti e ben congegnati nella loro funzione narrativa, rimangono spesso sullo sfondo, quasi strumenti al servizio della trama piuttosto che esseri umani a tutto tondo. Oscillano tra intuizioni brillanti e comportamenti a volte fin troppo ingenui, e questo rende difficile sviluppare un vero e proprio attaccamento emotivo nei loro confronti.

Eppure, nonostante queste piccole incrinature nella corazza narrativa, non riesco a smettere di pensare a questo libro. Strani disegni possiede un fascino che trascende i criteri di valutazione tradizionali. È un’opera che parla direttamente a una generazione cresciuta a pane e internet, tra forum, YouTube, TikTok, meme e cultura virale. Uketsu non è uno scrittore “classico”, e non ha la benché minima pretesa di esserlo. È un autore nato e cresciuto nel brodo primordiale del web, e questa sua origine si riflette in ogni singola pagina, in ogni singola illustrazione. La promozione del romanzo qui in Italia, curata da Einaudi, è stata un piccolo capolavoro di marketing editoriale: hanno colto alla perfezione il tono e lo spirito del progetto, lanciandolo con una campagna che includeva meme, video virali, filtri Instagram e persino un mini videogioco retrò che sembrava uscito direttamente da una cartuccia maledetta per NES. Il successo in Giappone è stato letteralmente travolgente – oltre un milione e mezzo di copie vendute in soli dodici mesi, con una ventina di ristampe – e il libro è già stato tradotto in ben ventotto Paesi. In Italia, è persino arrivato sulla scrivania di Roberto Saviano, che ha voluto intervistare Uketsu per il Corriere della Sera. Un segnale forte, inequivocabile, che ci dice quanto la voce di questo autore misterioso abbia ormai varcato i confini della nicchia horror, insinuandosi nel cuore del dibattito culturale.


Il Futuro dell’Orrore Digitale

E come se non bastasse a mandare in fibrillazione il mio cuore da fan, Einaudi ha già annunciato l’arrivo del prossimo titolo: Henna Ie, che qui da noi sarà tradotto come Strane case. Già il titolo, da solo, è sufficiente a scatenare la mia immaginazione. Le atmosfere alla The Ring o Silent Hill sembrano dietro l’angolo, e io non vedo l’ora di farmi trascinare ancora una volta da quel brivido sottile, quella sensazione di inquietudine ben costruita che solo la paura più cerebrale sa regalare.

Ma cosa rende davvero speciale, profondamente unico, questo romanzo? È la sua capacità di portare sulla pagina stampata qualcosa che fino a poco tempo fa apparteneva esclusivamente al mondo digitale. È la forza con cui Uketsu maneggia l’estetica creepy, le atmosfere liminali, quelle suggestioni visive e narrative che affondano le radici nelle leggende urbane contemporanee, nutrendosi delle nostre paure più recondite. È un libro imperfetto, certo, ma anche profondamente onesto nella sua ambizione: parlare direttamente alle nostre ossessioni più oscure, ai nostri incubi moderni, a quel desiderio tutto umano di lasciarci attrarre irresistibilmente dall’ignoto. Uketsu conosce la paura. Non la paura grossolana, da jumpscare a buon mercato, ma quella sottile, insinuante, che ti rimane addosso anche quando hai chiuso il libro, un’eco lontana nella tua mente.

Io l’ho letto tutto d’un fiato, divorando le pagine con un misto inebriante di ansia e curiosità febbrile. Non mi ha colpito per la sua coerenza narrativa impeccabile, ma per la sua capacità quasi magnetica di tenermi lì, inchiodato, con un bisogno quasi fisico di scoprire come sarebbe andata a finire. E forse è proprio questo il vero potere di Strani disegni: non quello di offrirti tutte le risposte su un piatto d’argento, ma quello di lasciarti con più domande di quante ne avessi all’inizio. Di farti desiderare di esplorare, di investigare, di capire, anche a costo di restare un po’ perplesso quando, alla fine, i nodi vengono sciolti in modo forse troppo frettoloso.

E ora, carissimi compagni di ossessione, sono genuinamente curioso di sapere cosa ne pensate voi. Avete letto Strani disegni? Vi ha conquistati, vi ha lasciati interdetti, o forse vi ha deluso in qualche modo? Vi siete persi, come me, in quell’atmosfera rarefatta e inquietante, o avete trovato il finale troppo artefatto e le spiegazioni un po’ forzate? Raccontatemelo nei commenti qui sotto, fatemi compagnia in questa nuova ossessione letteraria che mi sta divorando. E se vi va, condividete questo articolo: magari insieme riusciremo a far conoscere Uketsu a chi ancora non ha avuto il coraggio, o la curiosità, di varcare quella soglia misteriosa.

Perché, fidatevi, una volta entrati… è davvero difficile uscirne indenni. Non ve ne pentirete. O forse sì. Ma l’esperienza sarà comunque indimenticabile.

Brick: il thriller psicologico su Netflix che trasforma il dolore in un labirinto senza uscita

Ecco, ragazzi e ragazze, appassionati e anime nerdiste che bazzicano i meandri oscuri del pop culture! Mettetevi comodi, perché oggi tiriamo fuori dal cilindro una recensione che non è solo una recensione, ma un vero e proprio viaggio nell’inferno cinematografico di Philip Koch, con il suo tanto atteso, quanto discusso, “Brick”. Preparatevi a scavare a fondo, senza bullet point, perché quando si parla di roba che ti fa sanguinare gli occhi (in senso buono, si spera), non c’è spazio per le sintesi da pigri.

Lo confesso, con la mano sul cuore e un’intera collezione di Funko Pop a farmi da testimone: le mie aspettative per “Brick” erano stratosferiche. E non stiamo parlando di un semplice “oh, sembra carino”. No, amici, eravamo a livello “hype da Comic-Con per il prossimo film dei Marvel Studios che cambierà per sempre il multiverso”. Perché? Beh, intanto, questo benedetto “Brick”, sbarcato su Netflix lo scorso 10 luglio 2025 – sì, l’avevo segnato sul calendario nerd con un pennarello indelebile – era stato venduto come un horror psicologico che non solo prometteva un’estetica visiva da far impallidire l’ultimo videoclip di un artista sperimentale, ma anche un’ambizione concettuale da far invidia a un saggio di semiotica cinematografica. Ma c’è di più. Alla regia, signore e signori, c’è Philip Koch, un nome che non dovrebbe suonarvi nuovo se siete dei veri cultori del piccolo schermo e dei mondi distopici, dato che è l’architetto di “Tribes of Europa”. E qui, il nostro Philip sembra aver messo da parte le esplosioni e le corse post-apocalittiche per immergersi nelle profondità più oscure e contorte della mente umana. Un salto di genere coraggioso, un po’ come quando un regista action si butta in un dramma esistenziale. Il verdetto finale, però? Un film che parte con una marcia in più, costruisce un’atmosfera così densa e inquietante da poterla tagliare con un coltello (o con una lightsaber, se preferite), ti avvolge in una sensazione straniante… e poi, proprio quando pensi di aver trovato la tua nuova ossessione cinematografica, inciampa. E inciampa in sé stesso, in una maniera talmente goffa da farti desiderare di avere un “restart point” come nei videogiochi.

Siamo di fronte a un incubo claustrofobico, di quelli che ti lasciano il sapore amaro del “già visto” sulla lingua, come quando rivedi un episodio di una vecchia serie TV e ti accorgi che la trama era un po’ troppo simile a un altro classico. Il punto di partenza, lo ammetto, è una gemma di semplicità ed efficacia, un po’ come l’incipit di un buon fumetto horror: Tim e Olivia, interpretati da Matthias Schweighöfer e Ruby O. Fee – una coppia che anche nella vita reale fa battere i cuori, il che aggiunge un tocco di meta-narrazione per gli addetti ai lavori – si risvegliano in un appartamento sigillato, ma non da un imbianchino distratto. Parliamo di muri neri, freddi, lisci, impenetrabili. Nessuna via d’uscita, nemmeno un buchino per l’aria. Nessuna risposta alle loro grida disperate. Solo l’elettricità che pulsa in sottofondo, un battito cardiaco artificiale in un corpo già privo di vita. E no, non sono soli. L’intero palazzo di Amburgo, una specie di microcosmo architettonico del terrore, sembra condividere questo medesimo, orribile, incubo. Qui “Brick” si gioca la sua carta migliore, il suo asso nella manica da fanatico dell’ambientazione: il setting. Il palazzo si trasforma in una sorta di paranoia distillata, un microcosmo abitato da figure che sembrano uscite direttamente da un incubo collettivo che abbiamo fatto tutti almeno una volta: una coppia di tossicodipendenti (immancabili), un vecchio con la nipote (il cliché del saggio-e-fragile), e, ovviamente, un teorico del complotto ossessionato dal Nuovo Ordine Mondiale (perché non ce n’è mai abbastanza). Il tutto, come se non bastasse, è condito da riferimenti così espliciti, così sfacciati, che finiscono per risultare quasi fastidiosi, come quando un amico continua a citare un meme che non fa più ridere da due anni: “Cube”, “The Platform”, “Mother!”, “Squid Game”, e persino “Matrix”. Sì, è un horror da condominio, ma l’impressione che ti lascia è quella di averlo già vissuto, già visto, già teorizzato. Un po’ come quando ti accorgi che la tua nuova band preferita suona esattamente come la tua vecchia band preferita.

E qui, amici miei, casca l’asino, o forse dovremmo dire, il “Brick” inciampa. Il problema di fondo è che questo film non sa decidersi, non trova la sua strada nel labirinto narrativo che costruisce. È un thriller puro? Un dramma psicologico intenso? Una parabola sul trauma e sulla colpa che ti scuote fino alle fondamenta? Un’allegoria sociale post-pandemica, con tutti i suoi velati riferimenti alla solitudine e all’isolamento? Koch sembra voler abbracciare tutto, dire tutto, senza però dire nulla di davvero significativo. È come quando in un videogioco ti danno troppe quest secondarie e alla fine non riesci a concentrarti sulla trama principale. E quando prova a elevare il livello di complessità, inserendo il misterioso coinvolgimento della società Epsilon Nanodefense – il cui nome già urla “mega-corporation cattiva dei film di fantascienza” – responsabile di un presunto disastro nanotecnologico al porto di Amburgo, il film deraglia completamente. Si trasforma in una fantascienza confusa, un minestrone di idee che affoga in un mare di sottotesti che non vengono mai, dico mai, davvero approfonditi.

La metafora centrale del film – i “muri interiori” che ognuno di noi costruisce dentro di sé, un concetto che suona tanto profondo quanto generico, come una frase fatta da un bigliettino dei Baci Perugina – rimane semplicemente sulla carta. Il dolore per la perdita del figlio, che dovrebbe essere il cuore pulsante e straziante del film, viene trattato con una freddezza disarmante, quasi clinica. Viene citato, evocato, un po’ come un fantasma che si aggira ma non si manifesta mai completamente, ma non viene mai scavato, mai esplorato a fondo. E in un horror psicologico che si vanta di essere “esistenziale”, di toccare le corde più intime dell’animo umano, questa, cari miei, è una colpa gravissima. È come se il tuo gioco di ruolo preferito ti dicesse che la storia è importantissima, ma poi ti fa saltare tutte le cutscene.

Ma, per fortuna, c’è un barlume di luce in questa oscurità, un unico, vero pregio che, almeno in parte, salva il salvabile: l’atmosfera. Qui “Brick” si comporta come un vero artista visivo. Girato tra le suggestioni di Amburgo e la magia cinematografica dei Barrandov Studios di Praga, il film riesce a creare un ambiente visivo affascinante e al tempo stesso incredibilmente opprimente. Il set modulare, che sembra un puzzle inquietante, la fotografia fredda, quasi algida, le luci tremolanti che disegnano ombre lunghe e minacciose, le stanze che sembrano respirare di una vita propria, quasi fossero esse stesse personaggi… tutto, ma proprio tutto, concorre a creare un senso di oppressione che, almeno nei primi due atti, ti tiene incollato allo schermo come una falena alla fiamma. È la sensazione di essere intrappolati, di non avere via di fuga, amplificata da ogni singolo elemento visivo.

Tuttavia, anche in questo aspetto che sembra la sua salvezza, il film non riesce mai a esplodere davvero. Koch, con una scelta che, a dire il vero, apprezzo molto da purista del genere, rifiuta il jump scare, quella scorciatoia facile per spaventare il pubblico. Ma, ahimè, la tensione, quella vera, quella che ti fa venire i brividi lungo la schiena e ti fa stringere i pugni, non raggiunge mai un vero climax. Si resta lì, sospesi, in perenne attesa di qualcosa che, purtroppo, non arriva mai. È come ascoltare una nota disturbante che continua a suonare in sottofondo per tutta la canzone, senza mai trasformarsi in una melodia che ti coinvolge, senza mai raggiungere un’esplosione catartica.

Passiamo ora alla coppia protagonista, Matthias Schweighöfer e Ruby O. Fee. Diciamocelo, il fatto che siano una coppia anche nella vita reale dona alle loro interazioni sullo schermo una certa autenticità emotiva, quasi una chimica palpabile che raramente si trova in film di questo genere. Ma anche qui, la sceneggiatura, la vera responsabile di questa incompiutezza, non permette loro di brillare, di mostrare appieno il loro potenziale. I dialoghi sono spesso meccanici, prevedibili, un po’ come le battute di un bot troppo zelante. Le dinamiche tra i personaggi sono viste e riviste, e il dolore che dovrebbe esplodere in momenti catartici e strazianti si riduce a un accenno, a un’espressione trattenuta, a una lacrima che non scende, come se gli attori fossero costretti a recitare con il freno a mano tirato.

E i personaggi secondari? Ah, i personaggi secondari! Sono delle vere e proprie caricature, quasi delle maschere predefinite uscite da un manuale di sceneggiatura: il cospirazionista isterico (che non si distingue dagli altri cento cospirazionisti isterici visti al cinema), la tossica sull’orlo della crisi di nervi (con tutte le sue ovvie fragilità), il vecchio saggio e silenzioso (che dispensa perle di saggezza con parsimonia). Funzionano, certo, come funzioni narrative, come ingranaggi di una macchina, ma non lasciano alcun segno, non ti restano impressi nella memoria, un po’ come gli extra in un film epico di cui non ricordi nemmeno il volto.

In definitiva, “Brick” è un’opera che ambisce a raggiungere le vette più alte del cinema d’autore, ma che purtroppo resta bloccata a metà strada, come un ascensore in panne tra due piani. E la delusione, quella vera, profonda, arriva proprio perché l’idea di base era dannatamente buona. Questo film avrebbe potuto essere un horror metafisico alla “The Lodge”, un viaggio interiore alla “Enemy” di Villeneuve, un’analisi del dolore così profonda da farti venire i nodi allo stomaco, simile a “Relic”. Invece, rimane intrappolato nei suoi riferimenti, schiavo di un’estetica “alla moda” ma che finisce per risultare poco personale, e soprattutto, incapace di trovare un ritmo narrativo davvero efficace, di farti sentire quel crescendo di tensione che ti tiene incollato alla poltrona.

Alla fine dei conti, quello che resta di “Brick” è un senso di incompiutezza, come un disegno lasciato a metà da un bambino. È un film che vorrebbe scavare a fondo nell’animo umano, ma che si limita a grattare appena la superficie, senza lasciare cicatrici. Che vorrebbe inquietare, far tremare le gambe, ma si limita a sussurrare timidamente, senza mai alzare la voce. Che vorrebbe farci riflettere su grandi temi esistenziali, ma che alla fine ci lascia solo a rimuginare sui suoi difetti, come un loop mentale da cui non riusciamo a uscire.

Quindi, la domanda finale, quella che tutti i pop culture nerd si pongono: vale la visione? Se siete amanti del thriller psicologico, di quelli che ti fanno sentire l’ansia addosso, e apprezzate le ambientazioni claustrofobiche e le costruzioni simboliche – anche se qui sono un po’ affannate – allora “Brick” può offrirvi un’esperienza visiva intrigante, magari per una serata in cui non avete nulla di meglio da fare. Ma sappiate, e ve lo dico con il cuore in mano, che vi lascerà più frustrati che sconvolti, più perplessi che terrorizzati. E se cercate un horror che vi prenda allo stomaco, che vi faccia rabbrividire fino all’ultima scena, che vi lasci senza fiato e vi faccia dormire con la luce accesa… beh, “Brick” rischia di lasciarvi semplicemente murati vivi nella noia, in un appartamento dal quale non c’è via d’uscita.

After the Hunt: Dopo la caccia – Il nuovo thriller psicologico di Luca Guadagnino con Julia Roberts e Andrew Garfield

Amiche e amici nerd, preparatevi a segnarvi questa data sul calendario: il 16 ottobre arriva nelle sale italiane After the Hunt: Dopo la caccia, il nuovo e attesissimo film del nostro amatissimo Luca Guadagnino, regista che non smette mai di sorprenderci e che ormai è entrato di diritto nel pantheon dei cineasti contemporanei più visionari e coraggiosi. Il primo trailer distribuito da Sony è già un piccolo gioiello che lascia presagire un’esperienza intensa e disturbante, di quelle che ti si infilano sotto la pelle e ti costringono a rimanere sveglio la notte a rimuginare su cosa hai appena visto. Guadagnino ci ha abituato a viaggi emozionali travolgenti, basti pensare a Chiamami col tuo nome o Suspiria, e anche stavolta sembra aver alzato ulteriormente l’asticella.

Il film è uno psicodramma scritto da Nora Garrett, un nome nuovo che già dalla sceneggiatura promette scintille. Il cuore pulsante della storia è Julia Roberts nei panni di una professoressa universitaria, figura di prestigio accademico ma anche donna sull’orlo di un precipizio esistenziale. La sua vita personale e professionale è messa sotto pressione quando una delle sue migliori studentesse, interpretata da Ayo Edebiri (che molti nerd conosceranno per The Bear), solleva accuse gravissime contro un collega di facoltà, un Andrew Garfield apparentemente insospettabile, capace di passare con disinvoltura dalla vulnerabilità di Tick, Tick… Boom! all’ambiguità più oscura.

E come se non bastasse, il passato della professoressa torna a bussare alla porta, portando con sé un segreto oscuro che rischia di mandare in frantumi tutto ciò per cui ha lavorato. Qui Guadagnino gioca con la tensione e con i nervi dello spettatore, creando un’atmosfera che sa di Hitchcock, ma anche di Polanski, con quel gusto per il dettaglio disturbante, per le sfumature emotive e per i giochi di potere che si consumano negli sguardi, nei silenzi, nelle parole non dette.

Il cast è da capogiro: oltre a Roberts, Garfield ed Edebiri, troviamo Chloë Sevigny, attrice-feticcio del cinema indie americano, e Michael Stuhlbarg, che ritroviamo con piacere dopo la straordinaria performance in Chiamami col tuo nome. La produzione è un affare di grandi nomi: Brian Grazer e Allan Mandelbaum per Imagine Entertainment, lo stesso Guadagnino per la sua casa Frenesy, e Karen Lunder sempre per Imagine, con Nora Garrett che si prende anche il ruolo di produttrice esecutiva. Insomma, un dream team dietro e davanti alla macchina da presa.

Il trailer, già online con l’hashtag #AfterTheHunt, ci offre solo un assaggio: atmosfere ovattate e minacciose, dialoghi taglienti, primi piani carichi di tensione, e quella sensazione sottile che “non tutto ha lo scopo di metterti a tuo agio”. E forse è proprio questo il punto: Guadagnino non è qui per rassicurarci, ma per portarci in territori scomodi, per interrogarci, per metterci davanti ai nostri stessi giudizi morali.

C’è già chi parla di After the Hunt come di uno dei titoli più attesi della stagione, candidato a lasciare il segno nei prossimi festival e, chissà, magari anche agli Oscar. Noi intanto scaldiamo i motori, pronti a farci travolgere da una storia che promette di essere un pugno nello stomaco e un balsamo per chi ama il grande cinema che osa e che non ha paura di sporcare le mani.

E voi cosa ne pensate? Avete già visto il trailer? Siete pronti a farvi trascinare da questo nuovo viaggio emotivo targato Guadagnino? Raccontatemelo nei commenti qui sotto o sui social del CorriereNerd.it! Condividete l’articolo, parliamone insieme, e prepariamoci a questo ottobre che si preannuncia rovente per il nostro cuore geek!

La Casa degli Automi: il librogioco investigativo che ti trascina in un thriller psicologico tra ombre e misteri

Ci sono storie che non si leggono soltanto: si abitano, si respirano, si vivono sulla pelle. La Casa degli Automi di Michele Buonanno, pubblicato da Edizioni Aristea, è una di queste. Non è solo un libro, e nemmeno soltanto un librogioco: è un’esperienza totalizzante, il genere di opera che fa brillare gli occhi a chi, come me, è cresciuto nutrendosi di misteri, thriller psicologici, romanzi gotici e pop culture. È un viaggio dentro una villa antica, la sinistra villa Hoffer, ma soprattutto dentro la mente del protagonista – e, di riflesso, dentro la nostra.

Immaginatevi questa scena: notte fonda, un temporale fuori dalla finestra, il ticchettio ossessivo di un orologio che sembra accelerare all’aumentare della tensione. Aprite il libro e vi ritrovate nei panni di Stephan, artista disturbato, fragile, instabile, improvvisamente risucchiato in un incubo. Uno degli ospiti della villa, Johan, è stato brutalmente assassinato, e il principale sospettato siete proprio voi. Da qui parte un’indagine non convenzionale, fatta non tanto di interrogatori e impronte digitali, ma di domande interiori, di sospetti, di scelte cariche di ambiguità morale.

Buonanno, già apprezzato per il raffinato 49 Chiavi, ci catapulta in una storia che sembra scritta per chi ama i giochi mentali e i labirinti narrativi. Qui non ci sono mostri da combattere, né tesori da conquistare. Il vero campo di battaglia è la psiche. Ogni paragrafo – e ce ne sono ben 225, distribuiti su 160 pagine – è una porta aperta sul dubbio. Prendere una strada significa chiudere un’altra, e ogni scelta ha conseguenze reali, irreversibili. È impossibile non pensare ai grandi maestri del mistero e del perturbante: Agatha Christie per l’intreccio da whodunit, Edgar Allan Poe per la tensione gotica che serpeggia ovunque, David Fincher per il gusto del dettaglio inquietante, per il piacere sottile del non detto.

La villa Hoffer stessa è un personaggio vivo, pulsante, inquietante. Le sue pareti sembrano guardarti, i corridoi si piegano come pensieri ossessivi, le stanze ti imprigionano con i loro segreti. Nulla è neutro, nulla è solo scenografia. E a rendere ancora più intensa l’atmosfera ci sono le illustrazioni di Fabio Porfidia: schizzi a matita, inquietanti, graffiati, come se fossero usciti direttamente dalla mano febbricitante di Stephan. Non sono abbellimenti, ma frammenti di racconto, pezzi di psiche messi su carta. Ti osservano mentre li osservi, e lo fanno senza alcuna pietà.

Il cast dei personaggi è ridotto, ma ogni figura è cesellata con attenzione maniacale. Anna, la vedova gelida, Lukas, l’antiquario misterioso, Sarah, la curiosa e fragile, Markus, il padrone di casa e psicanalista, Emilia, la domestica-sfinge, e Peter, il neurologo che forse custodisce le chiavi della verità. Ognuno di loro è un enigma ambulante, un groviglio di segreti e ambiguità. Parlano, svelano, tradiscono, ma mai completamente. Sono specchi deformanti che rimandano a Stephan (cioè a te) un riflesso inquietante.

Ma quello che davvero rende La Casa degli Automi un’esperienza nerd imperdibile è la sua struttura immersiva. Non si tratta soltanto di leggere o scegliere: si tratta di partecipare fisicamente. Nella scatola, oltre al libro, si trovano il Foglio degli Indizi, il misterioso allegato intitolato L’Ombra (e no, non vi dirò cosa contiene, perché va scoperto da soli), e il Quaderno di Stephan, fitto di appunti e schizzi da decifrare. Sono strumenti che amplificano la dimensione ludica e trasformano la lettura in un’indagine in prima persona, quasi teatrale. Non sei solo uno spettatore o un lettore: sei un giocatore, un investigatore, un complice e, forse, un colpevole.

C’è un dettaglio che mi ha fatto sorridere con sincero entusiasmo nerd: chi riesce a svelare tutti i misteri, a completare ogni deduzione e a chiudere ogni cerchio narrativo può contattare direttamente l’editore per ricevere un dietro le quinte scritto da Buonanno stesso. Un regalo per veri appassionati, il genere di chicca che ti fa sentire parte di una comunità ristretta e appassionata, quella dei fan hardcore dei librigame, dei cultori della narrazione interattiva, dei cercatori di storie che non finiscono all’ultima pagina.

È difficile catalogare La Casa degli Automi in un solo genere. È un thriller psicologico, un giallo cerebrale, un’esperienza narrativa interattiva. È tutto questo, ma è anche qualcosa di più: è un gioco con il lettore, con le sue aspettative, le sue paure, la sua voglia di esplorare. E riesce a essere tutto questo con una scrittura calibrata, asciutta, chirurgica, che non concede nulla al superfluo, e con una messa in scena visiva che colpisce dritto allo stomaco.

Per chi è cresciuto tra videogiochi investigativi, serie tv come True Detective, romanzi di suspense, film disturbanti e giochi di ruolo, entrare nella villa Hoffer non sarà solo leggere un libro. Sarà un ritorno a casa. Una casa buia, piena di ombre, dove nulla è come sembra e dove l’unica vera arma a tua disposizione è l’intuito. Ma attenzione: non è detto che basti per uscirne interi. E forse, sotto sotto, non è nemmeno questo il punto. Perché ci sono storie che ci piacciono proprio perché ci lasciano addosso qualche crepa, qualche graffio nell’anima.

La Casa degli Automi non si limita a raccontarti un mistero: ti sfida a viverlo. E lo fa con un’intelligenza, un fascino e una profondità che raramente si incontrano nel panorama del librigame contemporaneo. Non è un semplice passatempo, è un viaggio dentro l’oscurità – e dentro te stesso. E fidati, una volta varcata la soglia della villa Hoffer, il difficile non sarà scoprire chi è stato. Sarà tornare alla realtà senza portarsi dietro qualche ombra.

“Dexter Resurrection”: Dexter Morgan è tornato. Di nuovo. E questa volta… non è più solo.

Se c’è un personaggio televisivo che sembra proprio incapace di morire — e non parlo solo di sopravvivere a ferite letali — è Dexter Morgan. Il nostro caro, oscuro, tormentato Dexter. Ma stavolta, credetemi, la mia non è un’esclamazione di entusiasmo. È più un sospiro stanco, quasi esasperato. Perché sì, Paramount+ con SHOWTIME ha deciso di rimettere in circolazione il killer etico con Dexter: Resurrection, una nuova serie che, almeno sulla carta, prometteva di ridefinire tutto ciò che credevamo di sapere sull’antieroe per eccellenza della TV. E invece? Beh, preparatevi, perché stavolta vi parlo da fan delusa, quasi tradita.

Quando nel lontano 2006 abbiamo conosciuto Dexter, eravamo tutti affascinati. Lui, il tecnico della scientifica di Miami di giorno, giustiziere di assassini di notte, incarnava un nuovo tipo di narrazione televisiva: disturbante, magnetica, capace di farti tifare per qualcuno che, razionalmente, non avresti mai dovuto neanche capire. Era la tv che ci faceva fare i conti con il nostro lato oscuro, che ci domandava quanto fossimo disposti a giustificare, a empatizzare, a scendere a compromessi morali.

Poi sono arrivate otto stagioni, un finale che ha lasciato l’amaro in bocca a chiunque avesse seguito la serie con devozione, e un sequel, Dexter: New Blood, che — pur con tutti i suoi limiti — aveva almeno avuto il coraggio di dare un (quasi) punto fermo alla storia. Il colpo di pistola di Harrison, il figlio che uccide il padre, era sembrato un modo amaro ma necessario per chiudere il cerchio.

E invece no.

Come un vampiro narrativo, Dexter risorge ancora, stavolta a New York, e ci viene presentato con una nuova promessa: sarà diverso, sarà più grande, sarà più profondo. Ma la verità? Sa solo di déjà-vu.

Il trailer lo dice chiaro: Dexter si sveglia da un coma, Harrison è scomparso, e lui deve inseguire le ombre del passato in una nuova giungla metropolitana. Fin qui, potrei anche starci. Ma poi arriva il dettaglio che mi ha fatto alzare un sopracciglio, e non in senso positivo: Dexter non è più un solitario. Entra in scena una cabala di serial killer, una specie di Suicide Squad del crimine, con Peter Dinklage come leader, Uma Thurman versione Coulson deviato, Neil Patrick Harris, Krysten Ritter, Eric Stonestreet e David Dastmalchian nel mix.

Sembra un sogno nerd? Forse. Ma la domanda che mi martella è: perché?

Non fraintendetemi: adoro ciascuno di questi attori. Sono pezzi da novanta del panorama televisivo e cinematografico, capaci di regalare momenti iconici. Ma qui, onestamente, sembrano messi insieme più per stuzzicare i fan con il giochino del “guarda chi c’è!” che per servire davvero la storia. È come se lo show sapesse di non avere più molto da dire e cercasse di intrattenerci agitando le mani in aria, sperando che le lucine ci distraggano abbastanza da non notare le crepe narrative.

New York, certo, è una cornice intrigante. Dimenticate il sole sfacciato di Miami e l’isolamento innevato di Iron Lake: qui siamo nel cuore pulsante di una metropoli insonne, un teatro perfetto per giochi di caccia e predazione. Ma la regia, affidata a Monica Raymund e Marcos Siega, perde quell’identità visiva che aveva reso unica la serie originale. E la colonna sonora… oh, la colonna sonora. Un continuo, fastidioso “hey, siamo cool!”, tanto invadente da farti desiderare il silenzio, o almeno un ritorno al minimalismo teso delle prime stagioni.

E il cuore emotivo?

Qui arriviamo al punto più dolente. Il rapporto tra Dexter e Harrison era il fulcro di New Blood. Ora diventa un’ombra, un pretesto. Harrison gestisce un hotel, si dibatte tra l’eredità del padre e la voglia di fuggirne, mentre Dexter, con la sua onnipresente voce interiore (che ormai rasenta l’auto-parodia), si aggira tra i vicoli bui come un fantasma che non sa più se vendicarsi o redimersi.

E poi ci sono i ritorni dal passato: David Zayas nei panni di Batista, James Remar di nuovo come Harry, il padre-mentore morto che ormai ha più tempo sullo schermo da spettro che da vivo. Li guardi e non puoi fare a meno di pensare: ma serviva davvero? È questo che volevamo?

La verità, almeno per me, è che Resurrection somiglia più a un’operazione di resuscitazione commerciale che a un atto creativo autentico. È un DLC televisivo non richiesto, un tentativo di spremere ancora un po’ di succo da un frutto ormai secco. Le dinamiche padre-figlio? Già viste. Il codice di Harry? Ripetuto all’infinito. Gli omicidi creativi? Sempre meno sorprendenti.

Mi dispiace dirlo, perché io per prima avrei voluto adorare questo ritorno. Avrei voluto perdermi di nuovo nella psiche contorta di Dexter Morgan, interrogarmi sulla natura del male, farmi travolgere da un thriller psicologico all’altezza delle stagioni migliori. Ma invece mi trovo davanti a una serie che, più che rinascere, si trascina.

Per i fan completisti, certo, ci sono cose da salvare. Michael C. Hall resta magnetico, impossibile distogliere lo sguardo da lui. La New York noir è affascinante, il cast secondario fa scintille qua e là. Ma nel complesso, tutto sembra più un esercizio di stile nostalgico che un vero passo avanti. E forse è questo il vero problema: non è Dexter a essere cambiato. Siamo noi. Noi che nel frattempo abbiamo visto crescere le serie crime, abbiamo imparato a pretendere di più, a non accontentarci delle stesse dinamiche ripetute all’infinito.

Quindi vi chiedo: voi ci sarete? Darete a Dexter un’altra possibilità… o pensate che sia arrivato il momento di chiudere definitivamente il sacco degli strumenti? Fatemelo sapere nei commenti, condividete questo articolo con i vostri amici di binge-watching e raccontatemi le vostre teorie. Perché una cosa è certa: anche se Dexter continua a tornare, forse siamo noi spettatori a dover decidere quando dire basta.

Alice in Borderland: Cosa Aspettarci dalla Terza Stagione della Serie Netflix

“Alice in Borderland” (今際の国のアリス, Imawa no kuni no Arisu), la serie giapponese che ha rapito il pubblico internazionale con il suo perfetto equilibrio tra fantascienza, thriller e dramma psicologico, si prepara a tornare su Netflix con una terza stagione che promette di alzare ulteriormente la posta in gioco. Basata sull’omonimo manga di Haro Asô e diretta da Shinsuke Sato, la serie ha trovato una sua dimensione unica nell’intricare il pubblico con giochi mortali in una Tokyo desolata, dove la sopravvivenza dipende dalla partecipazione a prove di morte o di abilità, ma dove ogni vittoria solleva anche quesiti più profondi sul significato dell’esistenza.

Arisu, il protagonista, è un giovane disoccupato, appassionato di videogiochi, la cui vita viene stravolta quando si ritrova catapultato in una realtà parallela, un Tokyo fantasma dove ogni angolo è un potenziale campo di battaglia. La seconda stagione si è chiusa con un colpo di scena che ha lasciato gli spettatori a bocca aperta: dopo aver affrontato la regina di cuori, Mira, in un gioco di croquet psicologicamente devastante, Arisu e Usagi si ritrovano in un ospedale, scoprendo che Tokyo è stata distrutta da un meteorite. Ma il vero enigma arriva alla fine, quando la carta Joker appare, insinuando il sospetto che il gioco non sia affatto finito.

Il Joker, figura centrale anche nel manga originale, è un elemento che incarna il mistero tra la vita e la morte, una sorta di traghettatore che solleva numerosi interrogativi sulla vera natura di Borderland e sul destino dei protagonisti. Con il materiale del manga ormai esaurito, le possibilità narrative per la serie TV sono infinite. La terza stagione si preannuncia come un’incognita, con la promessa di espandere il ruolo di questa figura enigmatica, ma anche di ridefinire le regole di un gioco che, a questo punto, sembra andare oltre qualsiasi limite umano o logico.

Le prime immagini e il teaser presentati durante l’evento “Next on Netflix 2025” danno un assaggio di ciò che ci aspetta: Arisu e Usagi, di fronte a una gigantesca carta Joker, con lo skyline distorto di Tokyo sullo sfondo, suggeriscono che il confine tra realtà e gioco si stia assottigliando sempre di più. La stagione che verrà promette quindi un’esperienza ancora più intensa, dove adrenalina e riflessioni esistenziali si mescoleranno in un cocktail pericoloso e affascinante. La sinossi ufficiale, che parla di “temi legati all’umanità, al sacrificio e alla ricerca di un’esistenza significativa”, lascia intravedere la direzione che prenderanno le storie dei protagonisti, spingendo verso una dimensione sempre più metafisica e psicologica.

Con il manga ormai giunto alla sua conclusione, la terza stagione potrebbe percorrere strade nuove, ampliando le dinamiche di gioco e introducendo nuove minacce e alleanze. La tensione psicologica, che ha caratterizzato le prime due stagioni, rimarrà sicuramente un elemento centrale. Le sequenze d’azione mozzafiato, che hanno saputo tenere incollati gli spettatori allo schermo, lasceranno spazio anche a momenti di profonda introspezione, in cui i protagonisti dovranno fare i conti con le proprie paure, i propri sogni e le loro fragilità. Arisu e Usagi, legati da un rapporto che si è forgiato nelle fiamme di questo mondo spietato, saranno chiamati ad affrontare nuove sfide che non solo metteranno alla prova il loro coraggio, ma anche la loro resistenza mentale e morale.

Sul fronte del cast, Netflix ha confermato il ritorno di Kento Yamazaki nei panni di Arisu e di Tao Tsuchiya in quelli di Usagi, ma molte altre questioni restano aperte. La possibilità di nuove ambientazioni o la comparsa di nuovi avversari rende incerta la sorte degli altri personaggi. La terza stagione, quindi, potrebbe portare a risposte inaspettate o, al contrario, lasciare nuove domande irrisolte, mentre la trama prosegue il suo percorso intricato e affascinante.

C’è chi si chiede se questa terza stagione segnerà la conclusione definitiva della serie o se “Alice in Borderland” proseguirà con nuovi sviluppi. Sebbene Netflix non abbia ancora fatto chiarezza sulla durata futura della saga, il cliffhanger con cui si è conclusa la seconda stagione lascia supporre che questa nuova fase voglia finalmente rispondere a tutte le domande lasciate in sospeso. Gli spettatori, ormai intrappolati nella tensione crescente e nei misteri di Borderland, continueranno a speculare su cosa realmente rappresenti la carta Joker e su quale sia lo scopo ultimo di questo mondo parallelo che sembra giocare con la vita e la morte in modi sempre più incomprensibili.

Settembre 2025 sembra lontano, ma l’attesa per la terza stagione di “Alice in Borderland” è già carica di emozioni e teorie. L’intrigante miscela di azione, psicologia e filosofia che ha conquistato milioni di spettatori nel mondo non si è esaurita. Il gioco non è ancora finito, e la promessa di rivelazioni sconvolgenti e adrenalina pura è più viva che mai. Chi ha amato le prime due stagioni non potrà certo perdersi ciò che sta per arrivare.

“Dangerous Animals”: squali, follia e sopravvivenza nell’horror australiano che scuote Cannes

C’è un brivido particolare che percorre la schiena quando ti rendi conto che il vero predatore non è quello con le pinne, i denti a sega e gli occhi neri come la notte. No, il vero orrore ha volto umano. E “Dangerous Animals”, l’attesissimo ritorno di Sean Byrne, ce lo sbatte in faccia con una brutalità chirurgica. Dimenticatevi i classici shark movie dove la minaccia emerge dalle profondità marine: qui, a terrorizzarci davvero, è l’uomo. Un uomo disturbato, sadico, metodico. Un killer che trasforma l’oceano in un palcoscenico di morte, e gli squali nei suoi strumenti di tortura preferiti.

In uscita nei cinema italiani dal 20 agosto grazie a Midnight Factory (etichetta di Plaion Pictures) e Blue Swan Entertainment, “Dangerous Animals” è un thriller psicologico che affonda i denti nel cuore stesso del genere horror, sporcandosi le mani con il sangue delle emozioni più primitive: la paura, la sopravvivenza, l’ossessione.

Dalla mente contorta che ci ha regalato perle come The Loved Ones e The Devil’s Candy, Sean Byrne torna dietro la macchina da presa dopo un lungo silenzio creativo e lo fa con una pellicola che ha fatto il suo debutto nella prestigiosa Quinzaine des Cinéastes al Festival di Cannes 2025. Un ritorno in grande stile, che ci fa capire da subito una cosa: stavolta non si scherza.

La protagonista è Zephyr, interpretata da una convincente Hassie Harrison (che i fan di Yellowstone conoscono bene), una giovane surfista alla deriva, in fuga dalla vita e forse da sé stessa. Zephyr è il tipo di personaggio che nei fumetti diventerebbe un’eroina disillusa, una guerriera solitaria scolpita dal vento e dalle onde. Durante un viaggio nella Gold Coast australiana, tra cieli infuocati dal tramonto e mare che sembra promettere libertà, incontra Moses (un credibile Josh Heuston), con cui vive un’avventura notturna intensa quanto fugace. Ma dietro quell’idillio si nasconde il vero volto del film: l’incubo che prende forma con Tucker.

Tucker – interpretato da un glaciale e inquietante Jai Courtney (The Suicide Squad, Die Hard – Un buon giorno per morire) – è un serial killer ossessionato dal cinema horror e dagli squali. Cresciuto nel culto del terrore dopo essere sopravvissuto a un attacco squalo durante l’infanzia, ha sviluppato un vero e proprio rituale sanguinario. Organizza escursioni in mare per turisti ignari, ma il suo scopo è uno solo: creare snuff movie in cui le sue vittime vengono divorate vive da squali affamati, il tutto immortalato con una vecchia cinepresa analogica. Un sadico regista di morte, un profeta della carneficina marina, un assassino convinto di agire per volere delle oscure divinità dell’oceano.

La storia si sviluppa tra momenti di tensione crescente e sequenze di puro terrore. La barca di Tucker, da apparente rifugio turistico, si trasforma in una prigione galleggiante, una vera “stanza delle torture marina”. In questo ambiente chiuso, soffocante e instabile, Zephyr dovrà trovare in sé la forza di trasformarsi da vittima designata a combattente indomita. Il suo percorso ricorda quello delle migliori final girl del cinema horror, ma con un’intensità fisica e psicologica che lascia il segno. È ferita, sola, drogata, ma mai spenta.

Byrne dimostra una regia matura e consapevole: evita i facili jumpscare per concentrarsi sulla costruzione del terrore. Le scene sull’acqua sono girate con una tensione palpabile, le inquadrature sono strette e studiate, la colonna sonora di Michael Yezerski accompagna ogni momento con un battito ritmico che ti entra sotto pelle. E quando il sangue scorre – e scorre eccome – lo fa con una crudezza realistica, grazie anche a un ottimo lavoro di make-up e effetti pratici che richiamano il miglior body horror.

Uno degli aspetti più affascinanti del film è proprio il modo in cui capovolge lo schema classico dello shark movie. Qui lo squalo non è più il villain, ma l’arma. Il vero mostro è umano. Un uomo che ha trasformato il trauma in ideologia, il dolore in spettacolo. Ed è proprio questa riflessione a rendere “Dangerous Animals” più di un semplice film horror: è una metafora feroce sull’umanità che perde la bussola, sull’intrattenimento che diventa malattia, sul voyeurismo che divora l’empatia.

Il confronto finale tra Zephyr e Tucker è di quelli che non si dimenticano. Ogni colpo è reale, ogni ferita fa male. Fino a quel climax catartico, liberatorio, in cui il carnefice diventa vittima, gettato in pasto alle creature che tanto ha venerato. La vendetta di Zephyr non è solo una questione di sopravvivenza, ma un vero e proprio rito di passaggio, un’esplosione di rabbia e forza che sigilla il film con un urlo muto sotto le onde.

Certo, il film non è perfetto. La parte iniziale si prende un po’ di tempo per ingranare, e il finale si concede qualche falso climax di troppo. Ma sono dettagli che svaniscono di fronte all’impatto complessivo di un’opera che riesce a intrattenere, turbare e far riflettere. Perché “Dangerous Animals” non è solo una pellicola d’estate da vedere con i popcorn in mano. È un horror intelligente, potente, capace di scavare nei nostri istinti più profondi e di trasformarli in puro cinema.

E a questo punto, la domanda è inevitabile: avete ancora voglia di fare una gita in barca? O magari un’immersione in gabbia con gli squali? Fatecelo sapere nei commenti qui sotto e condividete le vostre impressioni sui social con l’hashtag #DangerousAnimalsFilm. Perché, in fondo, il vero pericolo non è mai quello che viene dal mare… ma quello che si nasconde dietro un sorriso umano.

Squid Game: Il Gioco non è mai finito – La trilogia televisiva Che ha sconvolto il Mondo

C’è un momento preciso nella storia della serialità in cui qualcosa si rompe, o forse si ricompone in una forma del tutto nuova. È il momento in cui “Squid Game” entra nelle nostre vite, non semplicemente come una serie, ma come un fenomeno culturale, un trauma condiviso, un’esperienza collettiva difficile da scrollarsi di dosso. E quando parlo di “esperienza”, non sto esagerando. Non è solo una questione di trama o di personaggi ben scritti, ma di qualcosa di più profondo, viscerale, universale. Squid Game è riuscita a incarnare, in un linguaggio pop potentissimo, l’angoscia del presente e il disincanto del nostro tempo.

Il 17 settembre 2021 non è stata solo una “normale” data di un ennesimo lancio di una serie coreana su Netflix. È stato il giorno in cui l’inquietudine ha preso forma. Hwang Dong-hyuk, con una visione che definire profetica non è esagerato, ci ha offerto un racconto spietato e affascinante che ha messo sotto i riflettori le dinamiche più malsane del capitalismo globale, travestendole da competizione infantile. La scelta stessa del titolo coreano “오징어 게임” (Ojing-eo geim), ovvero “Gioco del calamaro”, non è un vezzo nostalgico, ma un ponte simbolico tra l’innocenza perduta e l’incubo moderno. Un gioco che un tempo univa i bambini coreani negli anni Settanta, diventa ora l’eco distorto di un mondo adulto che si è dimenticato di cosa significhi giocare per vivere, non per sopravvivere.

La prima stagione è un colpo nello stomaco, e Seong Gi-hun – il nostro protagonista – è il veicolo perfetto per farci attraversare l’inferno con gli occhi sbarrati. Un uomo ordinario, inadeguato, quasi patetico, che incarna tutte le contraddizioni di un’umanità in bancarotta morale. Gi-hun è lo specchio di un sistema che premia l’azzardo e punisce la bontà, un sistema che ride in faccia alla solidarietà e glorifica la violenza come forma di intrattenimento. Le sue vicende, in una Seoul più grigia che mai, ci trascinano dentro un’orgia cromatica di tute verdi, maschere geometriche e stanze dai colori pastello che sembrano uscite da un incubo infantile progettato da Escher.

Hwang Dong-hyuk, nel costruire questo mondo, si affida a un cast semplicemente perfetto. Lee Jung-jae, nei panni di Gi-hun, rompe ogni cliché del protagonista eroico e si fa corpo e anima di un uomo che sopravvive, sì, ma a caro prezzo. Jung Ho-yeon, Gong Yoo, Lee Byung-hun… ogni presenza è calibrata, ogni volto racconta qualcosa, anche quando tace. Non dimentichiamo nemmeno Anupam Tripathi, la cui interpretazione emozionale e intensa di Ali Abdul è uno dei cuori pulsanti della prima stagione.

Ma ciò che rende Squid Game indimenticabile è la sua ambientazione: quell’isola misteriosa, aspra, inaccessibile, sembra uscita da un sogno malato tra James Bond e Orwell. Un luogo fuori dal tempo, dove le regole del mondo esterno non valgono più. Il palcoscenico perfetto per mettere in scena la distillazione dell’orrore umano.

E proprio quando pensavamo che fosse tutto finito, ecco che nel 2024 arriva la seconda stagione. Un ritorno attesissimo, che non ha il compito facile di replicare l’effetto shock della prima, ma che invece si gioca tutto sull’approfondimento e sull’espansione. Gi-hun torna, ma è un uomo diverso. La ferita non si è mai chiusa. Ha vinto, sì, ma ha perso tutto. Decide di tornare nel gioco, ma stavolta non per soldi: vuole smantellarlo, dall’interno. È una missione suicida, un gesto folle, ma anche l’unico possibile per chi ha compreso la vera natura del Male.

E qui, la serie cambia ritmo. Si fa più complessa, più politica, più labirintica. Entriamo nelle pieghe dell’organizzazione, ne vediamo i meccanismi interni, gli ingranaggi, le rivalità. Il Front Man, sempre più carismatico e inquietante, non è solo un antagonista, ma una figura tragica, fraterna, spezzata. Wi Ha-joon, nei panni del detective Jun-ho, sopravvive – letteralmente e narrativamente – per portare avanti la caccia alla verità. E intanto nuovi personaggi – Kang No-eul, Cho Woo-seok, e una schiera di volti freschi – rinnovano il campo da gioco, introducendo dinamiche inedite e tensioni nuove.

La stagione due è il cuore politico della serie. Mette in discussione l’idea stessa di rivoluzione. Si può davvero cambiare il sistema giocando secondo le sue regole? O si finisce per esserne risucchiati? Il fallimento della rivolta di Gi-hun, sabotata dall’interno, è un pugno al cuore. La fiducia tradita, l’illusione spezzata, l’amico assassinato… tutto sembra gridare: non puoi vincere, perché il gioco è truccato fin dall’inizio.

E allora arriviamo al gran finale. La stagione tre. Rilasciata nel 2025, è il coronamento – e al tempo stesso lo spartiacque – di tutta l’epopea di Squid Game. Una stagione più cupa, densa, dolorosa. Non ci sono più innocenti. Ogni scelta pesa come una condanna. I giochi si fanno ancora più crudeli, ma ciò che colpisce è la loro trasformazione simbolica: diventano metafore viventi delle dinamiche sociali reali, riflessi distorti di un’umanità sempre più disumanizzata. C’è un momento, durante il quarto gioco, in cui la nascita di una bambina stravolge le regole stesse del gioco. La vita che irrompe in mezzo alla morte. La speranza che sfida la rassegnazione.

Il sacrificio di Gi-hun, che decide di morire per salvare quella neonata, è il climax emotivo e filosofico dell’intera serie. È l’atto finale di un uomo che ha toccato il fondo e ha scelto di essere altro. Non un vincitore. Non un sopravvissuto. Ma un simbolo. Un padre spirituale in un mondo che ha dimenticato cosa significhi proteggere i più fragili.

E poi, come se non bastasse, il colpo di scena. Il Front Man fugge a Los Angeles. La serie ci mostra, con pochi secondi indimenticabili, la nuova incarnazione del Gioco. E lo fa con un cameo da brividi: Cate Blanchett che gioca a ddakji in un vicolo losangelino. Un passaggio di testimone. Un messaggio chiarissimo. Il Gioco continua. È globale. È virale. È inarrestabile.

Hwang Dong-hyuk chiude, ma non chiude. Rilancia. E noi, come spettatori, non possiamo che restare stregati. Perché in fondo, Squid Game non è solo una serie. È una lente crudele e brillante attraverso cui guardare il mondo. È un racconto che non finisce quando si spegne lo schermo. Resta dentro. Si insinua. E continua a giocare con noi.

E adesso, amiche e amici del CorriereNerd.it, tocca a voi: cosa ne pensate del finale di Squid Game 3? Vi ha lasciati senza fiato o avete avvertito una certa amarezza? E soprattutto: siete pronti per una versione americana del Gioco con Cate Blanchett in prima linea e – magari – David Fincher dietro la macchina da presa? Diteci la vostra nei commenti e condividete questo articolo con chi, come voi, ha vissuto il Gioco fino all’ultimo respiro. Perché sì, il Gioco è appena ricominciato… e questa volta nessuno è davvero al sicuro.

“Gioco di Specchi”: il debutto letterario di Claudio Masci tra riflessi inquietanti, realtà distorte e brividi sci-fi

Cosa vedi davvero quando guardi in uno specchio? È questa la domanda – tagliente come una scheggia di vetro – che aleggia tra le pagine di Gioco di Specchi, il sorprendente esordio letterario di Claudio Masci. Disponibile dal 25 giugno 2025 sia in formato cartaceo che digitale su Amazon, questo libro non è soltanto una raccolta di racconti: è un viaggio disturbante attraverso dieci universi paralleli, dieci mondi inquietanti dove l’horror, la fantascienza e il thriller psicologico si fondono per creare un’esperienza narrativa capace di scavarti dentro, risvegliando l’inquietudine che si cela dietro ogni riflesso.

Claudio Masci non scrive semplicemente storie. Costruisce specchi. Ma non specchi limpidi, di quelli che restituiscono un’immagine coerente e rassicurante. No. I suoi sono specchi deformanti, crepe nella percezione, squarci sulla realtà che lasciano intravedere qualcosa di profondamente alieno… o forse fin troppo umano.

Gioco di Specchi è composto da dieci racconti, ognuno con un’identità distinta ma legati da un filo rosso: l’ossessione per il doppio, per ciò che si nasconde sotto la superficie delle cose, per quella sensazione disturbante che ci assale quando ci rendiamo conto che la realtà non è affatto come l’abbiamo sempre immaginata. Ogni storia è una stanza diversa dello stesso labirinto, e più si procede nella lettura, più ci si perde in questa architettura mentale dove la logica vacilla, la memoria inganna, e l’identità si sgretola come vetro sotto pressione.

In queste pagine, il sovrannaturale non esplode in manifestazioni fragorose, ma sussurra nel quotidiano, insinuandosi tra le righe come una presenza costante. La tecnologia diventa strumento di alienazione, i desideri si trasformano in trappole e la memoria è un terreno minato. Masci sa giocare con i generi come un regista visionario gioca con le inquadrature: c’è l’inquietudine di un racconto horror classico, il gelo lucido della fantascienza distopica, e la tensione sottile di un thriller psicologico ben calibrato. Non c’è mai un solo livello di lettura, mai una risposta definitiva. Ogni racconto è una sfida, un invito a guardare più a fondo. Ma attenzione: potresti non gradire quello che troverai.

I racconti inclusi – Ladri di tempo, Il sogno, Proprio come nei film, Il Djinn, Non sei più tu, Il desiderio di una vita, In viaggio, God.AI, Delirio Infestante, Guerra – sono tasselli di un mosaico più grande, ognuno con il proprio ritmo e la propria atmosfera. In God.AI, per esempio, l’intelligenza artificiale diventa specchio crudele delle fragilità umane, mentre in Il Djinn il desiderio prende una piega che ci ricorda quanto sia pericoloso ottenere ciò che vogliamo. E poi c’è Non sei più tu, dove l’identità si frantuma, e ogni tentativo di riconoscersi diventa un atto di disperazione.

Uno dei tratti più affascinanti dell’opera è proprio questo senso di vertigine: leggendo Gioco di Specchi non puoi fare a meno di specchiarti nei suoi personaggi, di domandarti fino a che punto saresti disposto a spingerti se fossi nei loro panni. E mentre lo fai, inizi a mettere in discussione anche le tue certezze, le tue abitudini, la tua idea di te stesso. Non è solo letteratura di genere, è un esperimento psicologico in forma narrativa. E funziona.

A impreziosire ulteriormente il volume c’è una prefazione firmata da Ovidio G. Assonitis, nome cult per chi mastica cinema horror e fantastico, nonché produttore e regista di titoli leggendari. Un’introduzione che contribuisce a calare il lettore nell’atmosfera giusta sin dalla prima pagina, con quella sapienza di chi ha visto il male vestire mille volti – e sa riconoscerlo anche in un semplice riflesso.

E l’autore? Claudio Masci non è nuovo ai linguaggi del futuro: lavora nello sviluppo software, nel graphic design e nel web marketing, ma la sua passione più vera è la narrazione. Cresciuto tra libri, film e videogiochi, ha un debole dichiarato per l’horror, il thriller e la fantascienza – e si vede. La sua scrittura è cinematografica, visiva, pulsante di atmosfere. Ogni racconto sembra una scena girata con cura, dove l’inquadratura perfetta arriva solo quando ormai il lettore è irrimediabilmente intrappolato nella storia.

Gioco di Specchi è un esordio potente, coraggioso, lucidamente disturbante. È il tipo di libro che non si limita a intrattenerti: ti cambia, ti inquieta, ti costringe a fare i conti con te stesso. Se ami Black Mirror, se ti affascina l’inquietudine filosofica di Philip K. Dick, se ti perdi nei labirinti mentali di David Lynch, questo libro è una tappa obbligata.

Disponibile su Amazon in formato digitale e cartaceo (qui il link diretto: https://amzn.to/4np4a3p), Gioco di Specchi è molto più di un libro: è un’esperienza. Un invito a guardarsi dentro, anche quando la vista comincia a tremare.

E tu, lettore nerd, cosa vedi davvero quando guardi in uno specchio?

Parliamone! Se hai già letto Gioco di Specchi o ti ha incuriosito questa recensione, condividila sui tuoi social e tagga @CorriereNerd.it. E se ti va, raccontaci qual è stato il racconto che ti ha lasciato più scosso… o quello in cui ti sei riconosciuto di più. Ma attento: potresti non essere più lo stesso dopo averlo fatto.

“Presence”: il ritorno di Steven Soderbergh al cinema con un horror psicologico da brividi

C’è qualcosa che ti osserva. Non lo vedi, ma lo senti. È lì, silenzioso, in un angolo della stanza. E no, non stiamo parlando del tuo coinquilino nottambulo o del gatto che fissa il vuoto con aria inquietante. Stiamo parlando di Presence, il nuovo, attesissimo film di Steven Soderbergh che dal 24 luglio arriverà nei cinema italiani grazie a Lucky Red. E fidati: è un film che farà parlare di sé, non solo tra gli amanti dell’horror ma anche tra i cinefili più esigenti.

Soderbergh, che da sempre ama reinventarsi e sperimentare con i generi (basta pensare alla sua carriera che va dalla Palma d’Oro con Sesso, bugie e videotape ai blockbuster come Ocean’s Eleven e Erin Brockovich), torna ora con una ghost story che promette di riscrivere le regole del thriller soprannaturale. Alla sceneggiatura troviamo David Koepp, un nome che già da solo basta a far salire l’hype alle stelle: parliamo del genio dietro le penne di Jurassic Park, Panic Room e Mission: Impossible. E come se non bastasse, nel cast spiccano volti noti e nuove promesse come Lucy Liu, Chris Sullivan, Callina Liang, Eddy Maday, West Mulholland e Julia Fox.

Ma cos’è esattamente Presence? Proviamo a raccontarlo come se stessimo chiacchierando tra nerd davanti a una birra (o una bibita al gusto cola radioattiva): Presence è un horror psicologico girato interamente in un’unica location, un esperimento tanto audace quanto affascinante. La trama ruota attorno alla famiglia Payne, apparentemente perfetta, che decide di trasferirsi in una villetta suburbana per lasciarsi alle spalle un lutto devastante: Chloe, la figlia minore, è stata segnata dalla tragica morte della sua migliore amica, vittima di un’overdose.

Il fratello Tyler, invece, è un giovane campione di nuoto in rampa di lancio. I genitori, Rebecca e Chris, sperano che il nuovo ambiente possa offrire una seconda possibilità a tutti. Ma si sa, nei film horror, le villette in periferia raramente sono quello che sembrano. E infatti Chloe inizia presto ad avvertire qualcosa di strano nella sua stanza: oggetti che si spostano da soli, emozioni che non le appartengono, e quella sensazione persistente di essere osservata da qualcuno — o qualcosa — che non è visibile.

Inizialmente nessuno le crede, come da tradizione. Ma quando le manifestazioni diventano sempre più intense, inquietanti e tangibili, la famiglia Payne non può più ignorare la verità. C’è una presenza in quella casa, ed è molto più vicina di quanto immaginassero.

Uno degli elementi più affascinanti del film è il punto di vista narrativo. Soderbergh non racconta la storia attraverso gli occhi dei protagonisti, ma attraverso quelli dell’entità invisibile. Un’intuizione che trasforma radicalmente l’esperienza dello spettatore: non siamo più semplici osservatori esterni, ma diventiamo noi stessi quella presenza. È un’idea potentissima, quasi disturbante, che mette in discussione la percezione del tempo e dello spazio. La macchina da presa si muove con una lentezza ipnotica, quasi fluttuante, amplificando la tensione scena dopo scena. E la scelta di utilizzare un obiettivo da 14 mm deforma l’immagine quanto basta per rendere ogni angolo della casa una trappola visiva, un labirinto dell’inquietudine.

L’intero film è costruito come un crescendo emotivo. Non ci sono jump scare gratuiti, ma un senso costante di disagio che cresce, si insinua sotto pelle e non ti lascia fino ai titoli di coda. La regia asciutta di Soderbergh si sposa perfettamente con l’atmosfera claustrofobica della sceneggiatura di Koepp, dando vita a un horror raffinato, cerebrale, che si nutre di silenzi, ombre e sguardi.

La performance degli attori è altrettanto convincente. Lucy Liu, che molti ricordano per i suoi ruoli action ma anche per la brillante interpretazione in Elementary, qui dimostra una sensibilità drammatica intensa e credibile. Chris Sullivan, noto per il suo ruolo in This Is Us, porta sullo schermo un padre ambivalente, combattuto tra scetticismo e preoccupazione. E Callina Liang, nei panni di Chloe, è una vera rivelazione: la sua interpretazione è il cuore pulsante del film, un mix di fragilità e coraggio che rende il suo personaggio tragicamente umano. Julia Fox, invece, aggiunge quel tocco magnetico che non guasta mai, in un ruolo che oscilla tra la provocazione e il mistero.

Presence ha già fatto parlare di sé nei circuiti dei festival: dopo il debutto al Noir in Festival 2024 e il passaggio al Sundance Film Festival 2025, il film è stato proiettato in anteprima italiana al Comicon di Napoli, dove ha ricevuto una calorosa accoglienza da parte del pubblico nerd e non solo. E ora si prepara a conquistare le sale con anteprime speciali il 23, 24 e 27 giugno, introdotte da ospiti d’eccezione.

Girato nel 2023 a Cranford, nel New Jersey, il film sfrutta l’ambientazione suburbana per amplificare il senso di isolamento e pericolo latente. Ogni dettaglio, dalla fotografia agli effetti sonori, è calibrato per costruire una tensione che non esplode mai del tutto, ma che si avverte con la forza di un pugno nello stomaco.

Non aspettatevi quindi il classico horror con demoni urlanti e porte che sbattono a caso. Presence è qualcosa di diverso. È uno studio sull’invisibile, sull’incomprensibile, su quella linea sottile che separa la realtà dalla percezione. È un film che parla di lutto, di connessioni spezzate, e del bisogno umano di dare un senso a ciò che non si riesce a spiegare.

Se amate il cinema che osa, che inquieta con eleganza e lascia il segno, Presence è un appuntamento irrinunciabile. Dal 24 luglio al cinema, con Lucky Red. E se anche voi, uscendo dalla sala, avrete la strana sensazione che qualcosa vi stia seguendo… beh, sappiate che è perfettamente normale.

E ora tocca a voi: che ne pensate del ritorno di Soderbergh al genere horror? Vi ispira questa ghost story dai toni psicologici? Avete già visto il trailer italiano? Se no, eccolo qui: Guarda il trailer su YouTube. Fatecelo sapere nei commenti, condividete l’articolo sui vostri social e… occhio a chi vi osserva alle spalle.

Killer Inn: il nuovo gioco di deduzione sociale horror di Square Enix tra inganni, sangue e sospetti

C’è un castello avvolto nella nebbia, perso tra le pieghe del tempo e della follia, che si erge come un’ombra gotica sulle mappe digitali del Summer Game Fest 2025. È qui che prende vita Killer Inn, la nuova, inquietante creatura videoludica partorita da Square Enix. Un gioco che non solo promette di ribaltare le regole del multiplayer asimmetrico, ma che fa dell’inganno, della deduzione sociale e della pura paranoia la sua arma più letale. Siete pronti a varcare le sue porte?

Killer Inn non è un semplice gioco, ma un’esperienza sociale ad alta tensione, un grande esperimento in cui la fiducia diventa veleno e la sopravvivenza un enigma. In un maniero gotico ricco di passaggi segreti, stanze blindate e trappole letali, ventiquattro giocatori accettano un invito misterioso da parte dell’enigmatica organizzazione Astra. La promessa è chiara: ricompense inimmaginabili. Il prezzo? Una sola notte da sopravvivere. Ma non tutti i partecipanti sono ciò che sembrano. All’inizio di ogni partita, otto giocatori assumeranno il ruolo di “Lupi”, assassini mimetizzati nel gregge, pronti a colpire nell’ombra. Gli altri sedici? “Agnelli”, ignari (forse) della trappola in cui sono caduti, costretti a collaborare, indagare e… a dubitare di tutto e tutti.

Tra Among Us e Dead by Daylight, ma con il tocco gotico di Square Enix

Chi ha familiarità con titoli come Among Us o Dead by Daylight troverà in Killer Inn una vena familiare, ma Square Enix ha voluto spingere oltre i confini del genere. Il gioco fonde elementi di party game, horror psicologico e RPG investigativo, dando vita a un cocktail mortale di tensione e creatività. Ogni partita è una storia diversa, una piccola tragedia in atto unico, in cui il finale dipende dalle scelte (e dai tradimenti) dei giocatori.

Non esistono votazioni democratiche o processi sommari: quando il sospetto diventa certezza, si passa all’azione. I combattimenti sono intensi, brutali, e possono scaturire in qualsiasi momento. Armi da fuoco, veleni, trappole improvvisate: tutto fa brodo, purché si sopravviva. Dimenticate le accuse sussurrate: qui si combatte per restare vivi.

Quando ogni dettaglio conta: l’investigazione come chiave

Il vero cuore pulsante di Killer Inn è la deduzione. Ogni scena del crimine racconta una storia: un ciuffo di capelli, una macchia di sangue, un bossolo di proiettile, una traccia di tessuto. Ogni piccolo indizio può avvicinare gli Agnelli alla verità… oppure portarli dritti nelle fauci del nemico. I Lupi, dal canto loro, dovranno essere maestri del camuffamento, abili manipolatori e assassini senza scrupoli.

In questo senso, la “modalità concentrazione” è una trovata brillante: una sorta di sesto senso investigativo che permette di individuare tracce, rumori sospetti e oggetti nascosti. È una funzione tanto utile quanto inquietante, perché spesso ciò che scopriamo ci avvicina non solo alla verità… ma anche alla morte.

L’esperienza sonora che ti trascina nel gioco

Uno degli elementi più innovativi è senza dubbio l’uso dell’audio 3D spaziale. La chat vocale non è più una semplice finestra per urlare ordini o sospetti, ma un vero e proprio strumento narrativo. Se sussurri in una stanza chiusa, solo chi è con te potrà sentirti. Se gridi in un corridoio, potresti attirare qualcuno… o qualcosa. L’immersione è totale, e anche chi preferisce il silenzio potrà comunicare con emote e timbri ben studiati.

Costruisci il tuo alter ego: personaggi, abilità e strategia

Killer Inn offre una vasta gamma di personaggi tra cui scegliere, ognuno con abilità uniche e uno stile ben definito. Non si tratta solo di estetica: la scelta del personaggio influenzerà concretamente la tua strategia, la tua capacità di investigare o di uccidere, e il modo in cui gli altri si relazionano a te.

Puoi essere un investigatore solitario, un ladro letale, una mente brillante o una presenza silenziosa e ambigua. Puoi giocare da solo, in coppia, in gruppo: ogni dinamica cambia il volto della partita, offrendo possibilità tattiche e psicologiche che si intrecciano con l’imprevedibilità del comportamento umano.

Un gioco per stomaci forti (e menti affilate)

Attenzione, però: Killer Inn non è un titolo per tutti. La violenza è presente, anche se mai gratuita, e l’atmosfera è volutamente disturbante. Si tratta di un horror psicologico in cui il senso di pericolo è costante, alimentato dalla consapevolezza che dietro ogni sorriso si può celare un coltello.

Il gioco è attualmente in sviluppo per PC, e Square Enix ha già aperto l’accesso alla beta chiusa su Steam. Sebbene non sia ancora stata annunciata una data di uscita ufficiale, l’interesse del pubblico è alle stelle. E non potrebbe essere altrimenti: Killer Inn ha tutte le carte in regola per diventare un nuovo cult tra i fan del genere.

Il verdetto: chi regnerà nel castello della menzogna?

Con Killer Inn, Square Enix ci invita a partecipare a un gioco crudele e affascinante, un party game da incubo dove la vera arma è la mente e il vero campo di battaglia è la fiducia. È un’esperienza che unisce tensione, strategia, improvvisazione e un’estetica dark irresistibile. Il castello di Astra è pronto ad accogliere nuove vittime… o nuovi carnefici. Sta a te decidere da che parte stare.

Hai già chiesto l’accesso alla beta? Hai intenzione di calarti nei panni di un Lupo o di un Agnello? Ti fidi davvero dei tuoi amici?

Parliamone nei commenti qui sotto e condividi questo articolo con la tua squadra di sospettosi compagni. Che la caccia abbia inizio.

Dead Take: l’horror psicologico di Surgent Studios ci trascina negli incubi scintillanti dell’industria dello spettacolo

Lo ammetto senza vergogna: Tales of Kenzera: ZAU mi ha lasciato un segno profondo. Quelle emozioni forti, quel senso di perdita mischiato alla magia, e la cura artistica maniacale… tutto mi ha fatto capire che Surgent Studios non è uno di quei team qualsiasi. Sono narratori, creativi, e – soprattutto – visionari. Quindi potete immaginare la mia reazione quando ho scoperto che il loro nuovo gioco era finalmente stato annunciato. Il titolo? Dead Take. E credetemi: è qualcosa di completamente diverso. Un tuffo oscuro e claustrofobico nel cuore nero dell’intrattenimento. Un horror psicologico che non gioca solo con le ombre, ma con la mente. E con la coscienza.

Dead Take è già disponibile per l’aggiunta alla wishlist su Steam, e se amate i giochi che vi fanno trattenere il respiro mentre esplorate stanze silenziose piene di domande, allora dovreste farlo. Subito.

La storia si apre in modo apparentemente semplice ma già inquietante: interpretiamo un attore. Uno che conosce le luci della ribalta, ma che ora è preoccupato. Il suo amico è sparito. Niente messaggi. Nessuna chiamata. Solo silenzio. L’ultima traccia lo porta a una villa sontuosa, quella che poco prima ospitava una festa glamour nel cuore dell’élite dello showbiz. Ora, di quella festa, non resta che un’eco lontana e inquietante. Ed è lì che inizia la nostra discesa. Attraversiamo corridoi eleganti e allo stesso tempo terrificanti. La casa sembra un set cinematografico abbandonato da chi ha voluto lasciare dietro di sé solo enigmi e ombre. C’è una galleria d’arte che ci osserva, una sala d’audizione piena di fantasmi emotivi, un cinema privato dove le pellicole non raccontano storie ma rivelano verità scomode. E noi? Siamo costretti a guardare, ma anche a capire. A connettere i frammenti. A ricostruire una narrazione che nessuno voleva farci conoscere.

Ciò che colpisce di Dead Take, almeno da quello che è stato rivelato finora, è la sua intelligenza narrativa. Non è solo un horror che ti fa saltare sulla sedia (anche se qualche spavento ben assestato ci sarà, eccome). È un’esperienza psicologica profonda, quasi disturbante, che ci costringe a fare i conti con i mostri veri: quelli dell’ambizione, del potere, della manipolazione. Gli sviluppatori hanno dichiarato che molte delle dinamiche raccontate sono ispirate a esperienze vissute nel mondo dell’intrattenimento. E si sente. Si avverte in quell’atmosfera fatta di pettegolezzi sussurrati, audizioni compromettenti, ruoli maledetti e presenze inquietanti che sembrano rappresentare tutto quello che un artista è disposto a perdere pur di avere successo.

Il gameplay, dal canto suo, si snoda tra enigmi ambientali, oggetti da manipolare e – cosa che adoro – clip video da raccogliere e montare. Sì, avete letto bene: uno dei modi per scoprire cosa è successo davvero sarà editare filmati trovati in giro per la casa. Una trovata geniale che lega il medium videoludico a quello cinematografico in un modo che non avevo mai visto prima. E nel frattempo, ogni volta che pensiamo di essere soli… beh, non lo siamo. Figure umanoidi, strane, silenziose, inquietanti, ci seguono. Non si capisce se siano vive, morte o se siamo semplicemente noi a immaginarle. Ma ci sono. Sempre.

E non posso non parlarvi della villa. È meravigliosa. E terrificante. Ogni stanza sembra uscita da una rivista di design… o da un film dell’orrore. Oggetti di scena, tappezzerie vintage, lampade teatrali, ogni elemento sembra parlare, raccontare, sussurrare qualcosa. Come se anche i muri volessero confessare il peccato di essere stati testimoni silenziosi di qualcosa di terribile. E poi c’è la colonna sonora, composta da Ross Tregenza, già dietro le musiche di The Quarry e Deathloop. Una sinfonia di inquietudine che accompagna ogni passo, ogni respiro trattenuto, ogni dubbio che ci attraversa mentre cerchiamo la verità.

La pubblicazione è affidata a Pocketpair Publishing, nome che per molti significa Palworld e Craftopia. Ma qui ci allontaniamo anni luce da creature kawaii e mondi color pastello. Con Dead Take, Pocketpair e Surgent Studios mostrano di saper affrontare anche i territori del buio, dell’introspezione, del thriller psicologico più crudo. Una combo inaspettata ma potenzialmente esplosiva.

Personalmente, da appassionata di indie thriller e horror narrativi, sono elettrizzata. Mi ha ricordato il disagio elegante di Layers of Fear, le inquietudini viscerali di Observer, e anche l’intelligenza disturbante del mai nato P.T.. È uno di quei titoli che non vedi l’ora di giocare con le cuffie nelle orecchie e le luci spente, perché sai che ti regalerà più di qualche brivido lungo la schiena.

In definitiva, Dead Take si presenta come una gemma oscura del panorama indie. Un horror che vuole farci paura, sì, ma che ci chiede anche di pensare, riflettere e – perché no – tremare per ragioni più profonde del solito spavento.

Io l’ho già aggiunto alla mia wishlist su Steam. E voi?

Se siete amanti dei thriller psicologici, dei misteri lenti ma implacabili, degli horror che scavano nell’anima prima ancora che nella carne, Dead Take merita tutta la vostra attenzione. Fatemi sapere cosa ne pensate, nei commenti o sui social. Condividete questo articolo con gli amici che amano le esperienze forti. E ditemi: chi di voi avrà il coraggio di entrare con me in quella villa?

Total Recall (Atto Di Forza), il cult sci-fi con Schwarzenegger tra sogno e realtà, compie 35 anni!

Il 1° giugno 1990 (in Italia arriverà solo a dicembre dello stesso anno), esattamente 35 anni fa, debutta negli Stati Uniti Atto di Forza – Total Recall, un blockbuster che vede protagonista Arnold Schwarzenegger, all’apice della sua carriera da icona dei film d’azione. Ma sapevi che la realizzazione di Atto di Forza ha richiesto quasi 10 anni? La prima sceneggiatura risale ai primi anni ’80 e porta la firma di Dan O’Bannon e Ronald Shusett, noti per aver scritto Alien. I due si ispirarono al racconto We Can Remember It For You Wholesale di Philip K. Dick. Tuttavia, il percorso per ottenere un finanziamento fu lungo e tortuoso, con numerosi stop che portarono a circa 40 riscritture della sceneggiatura prima di arrivare al progetto finale.

A metà degli anni ’80 il produttore Dino De Laurentis acquisì i diritti e pensava di far ricoprire il ruolo del protagonista, Douglas Quaid, a Richard Dreyfuss o in alternativa a Patrick Swayze, arrivo ad annunciare l’uscita come produzione di lancio della De Laurentis Entertainment, ma anche questo progetto fallì. Fu poi il turno di David Paul Cronenberg a cui De Laurentis affido la sceneggiatura redatta dai due autori di Alien, anche Cronenberg ci mise del suo e in anno fece dodici stesure della sceneggiatura, la visione del film che aveva Cronenberg era una sorta di “Spider su Marte” e contrastava con quella di Shusett che invece vedeva il film più come “I Predatori dell’Arca Perduta su Marte”, le divergenze divennero insanabili al punto che Cronenberg lasciò il progetto. Tuttavia è proprio nelle stesure del regista di che prese vita l’idea dei mutanti marziani, di Kuato, vittime delle radiazioni “dolose” questa è la parte che si discosta maggiormente dal racconto di Dick oltre al fatto di svolgersi su Marte.

L’ennesimo colpo al progetto del film viene poi con il fallimento della De Laurentis Entertainment, ma e proprio questo il punto di svolta, Arnold Schwarzenegger venuto a conoscenza del progetto si era già proposto come protagonista ma senza successo, lavorando al film “Predator” propose il progetto al produttore Joel Silver, anche questo progetto non prese mai il via. Arnold non si arrende e riprova con la Carolco Pictures, a cui propone anche la regia di Paul Verhoeven che Schwarzenegger reclutò, poi, personalmente per dirigere il film essendo rimasto colpito da RoboCop, finalmente il film arriva nelle sale nel 1990!

Distopico come pochi, considero Total Recall come uno dei film più iconici e interessanti subito alle spalle dei monumentali Star Wars, Blade Runner, un film fortemente voluto da tanti e per tanto, a cominciare proprio da Arnold, buona azione per tutto il film, lascia con il dubbio di chi sia stato e di cosa abbia fatto veramente, questo forse l’unico vero significativo punto di contatto insieme all’impianto della memoria con il romanzo a cui si ispira.

Nel 2084, Douglas Quaid, un operaio edile tormentato da sogni ricorrenti su Marte, decide di rivolgersi alla Rekall, un’azienda che impianta false memorie di viaggi. Sceglie l’esperienza di essere un agente segreto su Marte, ma durante l’operazione si risveglia in preda al panico, rivelando inconsciamente di avere già subito un precedente innesto. Tornato a casa, Quaid viene attaccato da uomini misteriosi e scopre che la moglie Lori è una spia. Costretto a fuggire, riceve aiuto da un uomo che gli consegna una valigetta con denaro, documenti falsi e un video di Carl Hauser, un uomo identico a lui, che gli rivela di essere un ex agente di Cohaagen, il dittatore di Marte. Quaid si reca su Marte, dove si unisce ai ribelli e incontra Melina, la donna dei suoi sogni. Dopo una serie di scontri, scopre l’esistenza di un reattore alieno capace di produrre ossigeno per l’intero pianeta, nascosto da Cohaagen per mantenere il controllo sulla colonia. Dopo essere stato catturato, Quaid apprende che tutto il suo viaggio faceva parte di un piano orchestrato da Hauser e Cohaagen per infiltrarsi tra i ribelli. Tuttavia, riesce a liberarsi, uccidere Cohaagen e attivare il reattore, terraformando Marte. Mentre il cielo diventa blu e l’aria respirabile, Quaid si chiede se tutto ciò sia reale o solo un sogno, prima di baciare Melina.

Come ogni film che lascia il segno, ci sono delle immagini che rimarranno sempre nella mia memoria, facile pensare alla donna del locale a Venusville (come chiamare un quartiere a luci rosse su un pianeta rosso?) con tre seni, probabilmente questa immagine l’hanno impressa in molti in testa, proprio a proposito di testa ecco le altre due immagini che mi hanno sempre fatto effetto memoria di questo film, l’estrazione del dispositivo di rilevamento dalla narice e l’apertura della maschera da donna indossata all’arrivo su Marte, con la sua apertura a strati, idea meravigliosa.

Di idee, ispirazioni questo film ne ha date diverse, inizialmente doveva esserci un sequel, ispirato sia ai mutanti marziani, sia ad un altro romanzo di Philip K. Dick ( Rapporto di minoranza) non se ne fece nulla ma spinse sulla realizzazione di “Minority Report” con Tom Cruise. L’altro film ispirato, o meglio dovrei dire dell’ispirato regista Paul Verhoeven, è Basic Istinct, furono proprio le scene di lotta tra Schwarzenegger e Sharon Stone a suggerire un film in cui ci fosse un donna forte e passionale come Lori, la moglie di Quaid.

Aggiungo, infine, un po’ di curiosità raccolte nel web riguardo il film.

  • Schwarzenegger aveva sopranominato la Stone “Female Terminator”. Ci sono voluti 15 burattinai per controllare Kuato, Il trucco era così ben fatto che le persone si avvicinavano all’attore Marshall Campana per chiedere se avesse veramente un gemello-freak.
  • Arnold Schwarzenegger ha subito diversi infortuni durante le riprese. Si è rotto un dito della mano destra e la maggior parte delle scene girate successivamente sono state realizzate con la mano ferita fuori dallo schermo.
  • All’inizio il film era stato vietato X-rating dalla MPAA (Motion Picture Association of America) per l’eccessiva violenza. Sono state editate alcune scene per togliere la censura. Una delle scene ri-editate per ottenere un R-rating è stata la sparatoria in cui Quaid usa un corpo umano per ripararsi dai proiettili.
  • Durante la produzione tutto l’equipe si è ammalata a causa di un’intossicazione alimentare, con l’eccezione di Arnold Schwarzenegger e Ronald Shusett. Schwarzenegger mangiava cibo americano perché tre anni prima si era ammalato durante la produzione di Predator, in Messico. Shusett aveva preso precauzioni particolari come lavarsi i denti con acqua bollita o in bottiglia e insistendo nell’avere ogni settimana la vitamina B12. Il cast lo prendeva in giro per questo… finché si sono ammalati tutti.

Marco Martelozzo

tratto da

Hannibal – La serie TV che ha trasformato il crimine in arte visiva

Se esiste una serie TV che ha saputo innalzare il genere crime al rango di opera d’arte, questa è senza dubbio Hannibal, show statunitense sviluppato per la NBC dal visionario Bryan Fuller e ispirato ai celebri romanzi di Thomas Harris. In onda per tre stagioni dal 2013 al 2015, Hannibal non è solo una trasposizione seriale del personaggio di Hannibal Lecter: è un viaggio disturbante e affascinante nell’abisso della psiche umana, raccontato con una cura estetica e narrativa che non ha eguali nella televisione contemporanea.

Quando la bellezza si fonde con l’orrore

A differenza di molte serie crime che si limitano a descrivere i crimini, Hannibal li sublima, li trasforma in un linguaggio estetico quasi sacrale. Ogni inquadratura, ogni piatto cucinato (o sacrificato), ogni dialogo tra il dottor Hannibal Lecter e Will Graham è carico di tensione, simbolismo e dualismo morale. Mads Mikkelsen, che veste con inquietante eleganza i panni del carismatico e cannibale psichiatra, riesce a distanziarsi completamente dalla storica interpretazione di Anthony Hopkins per dare vita a una figura magnetica, raffinata, capace di incantare anche quando sventra (letteralmente) le sue vittime.

Accanto a lui, Hugh Dancy incarna un Will Graham fragile, tormentato, empatico fino al limite della follia. La sua capacità di “entrare nella mente dei killer” lo rende un’arma preziosa per l’FBI, ma anche una bomba a orologeria psicologica pronta a esplodere. Il rapporto tra Will e Hannibal, al centro della narrazione, evolve puntata dopo puntata in un legame sempre più ambiguo, intimo, morboso e – per stessa ammissione di Bryan Fuller – canonicamente amoroso.

La trasmissione in Italia e il culto in continua crescita

La serie TV Hannibal è approdata in Italia nel 2013, inizialmente su Italia 1. La prima stagione è stata trasmessa in chiaro dal 12 settembre al 10 ottobre 2013. La seconda stagione ha fatto il salto sul canale Premium Crime tra gennaio e aprile 2015, mentre la terza è arrivata direttamente sul servizio streaming Infinity il 2 gennaio 2016. Top Crime ha poi reso disponibili tutte le stagioni in chiaro, tra il 2016 e il 2017, e continua tuttora a proporle nel ciclo “Notte Crime”.

Ma la vera notizia recente per i fan italiani è il lancio di HANNIBAL – La serie completa, un nuovo canale FAST (Free Ad-Supported Streaming TV) interamente dedicato allo show. Nato dalla collaborazione tra Nexo Studios e Movies Inspired, è visibile gratuitamente su Samsung TV Plus, Pluto TV, LG Channels e Hisense/VIDAA. Un’occasione unica per rivedere o scoprire i 39 episodi di una serie diventata oggetto di culto mondiale.

Trama: il sottile confine tra empatia e follia

La narrazione prende le mosse da Will Graham, il miglior profiler dell’FBI, capace di ricostruire con sconvolgente precisione mentale le dinamiche di ogni omicidio. Questa capacità, però, lo avvicina troppo ai mostri che dovrebbe catturare, logorando la sua sanità mentale. Per aiutarlo, l’FBI lo affianca al dottor Hannibal Lecter, brillante psichiatra. Nessuno immagina, però, che Hannibal è il famigerato Squartatore di Chesapeake, nonché uno dei più astuti assassini seriali in circolazione.

Da questo incontro nasce un’intimità perversa e imprevedibile. Hannibal è affascinato dalla purezza empatica di Will, l’unico che non riesce a imitare. Will, dal canto suo, viene attratto dal lato oscuro che Hannibal incarna, e finisce per perdere i confini tra giustizia e complicità. Il loro rapporto sfugge a ogni definizione convenzionale: non è solo un gioco psicologico, ma una danza disturbata tra due anime affini, tra amore e distruzione.

La poesia dei titoli e l’omaggio all’arte

Un dettaglio nerd che i fan adorano: gli episodi non hanno titoli casuali. Le prime due stagioni e la prima metà della terza utilizzano termini culinari (piatti francesi, giapponesi e italiani), come se ogni delitto fosse un piatto gourmet da assaporare lentamente. La seconda metà della terza stagione, invece, omaggia i dipinti di William Blake dedicati al Grande Drago Rosso, legando il ciclo narrativo al serial killer Francis Dolarhyde.

L’ultimo episodio, “The Wrath of the Lamb” (L’ira dell’agnello), prende ispirazione invece dalle opere letterarie di Blake, chiudendo un cerchio simbolico e narrativo che fonde arte, religione e violenza.

Will e Hannibal: amore, odio, abisso

Col passare delle stagioni, il rapporto tra Will Graham e Hannibal Lecter si evolve in modo sempre più intenso e tragico. Hannibal vede in Will un’anima gemella, qualcuno da plasmare e con cui condividere il proprio mondo oscuro. Will, inizialmente riluttante, finisce per comprendere – e forse accettare – il mostro dentro di sé. Scene come quella della zuppa soffiata alla bocca, rimando struggente alla sorella Misha di Hannibal, segnano visivamente la profondità del legame affettivo tra i due.

Nel finale della terza stagione, Will accetta definitivamente la natura di Hannibal e la propria. Dopo aver ucciso insieme il Drago Rosso, i due si abbracciano, e Will pronuncia le parole “è bellissimo” prima di gettarsi giù dalla scogliera con Hannibal. Un finale aperto, poetico e disperato, che chiude un arco narrativo irripetibile.

Una serie che è diventata culto

Hannibal non è mai stata una serie mainstream nel senso classico. È sempre stata un prodotto raffinato, per palati esigenti, ma con una fanbase appassionata e fedele. Oggi viene considerata una delle serie TV più eleganti e disturbanti mai realizzate, capace di mescolare thriller psicologico, horror estetico e introspezione filosofica.

Con il lancio del canale HANNIBAL – La serie completa, Nexo Studios dimostra la volontà di offrire contenuti verticali di altissima qualità, destinati a community ben precise. L’obiettivo, come dichiarato dal CEO Franco Di Sarro, è “parlare a community precise senza rinunciare alla qualità”, riportando in primo piano un capolavoro del piccolo schermo che non ha mai smesso di far discutere e innamorare.

Perché Hannibal è molto più di una serie crime

Se non avete ancora visto Hannibal, oggi è il momento perfetto per immergervi in questa esperienza visiva e narrativa unica. Non aspettatevi il classico procedural FBI: Hannibal è una sinfonia disturbata su identità, potere, amore e morte. È un noir viscerale e raffinato, dove ogni dettaglio – dalla fotografia alla colonna sonora, dai dialoghi ai riferimenti pittorici – contribuisce a costruire un’opera d’arte televisiva che continua a crescere nel tempo, diventando ogni anno più influente.

Non c’è da stupirsi se nel mondo del web il fandom continua a battezzare la coppia protagonista come i “Murder Husbands”, né se oggi una nuova generazione di spettatori sta scoprendo Hannibal come fosse una serie appena uscita. Perché in fondo, il male – se raccontato con poesia – non passa mai di moda.

Squid Game: analisi dei giochi e dei giocatori in un mondo dove l’umanità è messa al tappeto… letteralmente

Chi non ha ancora sentito parlare di Squid Game? La serie televisiva sudcoreana ideata, scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk ha letteralmente fatto la storia dell’intrattenimento globale. Dal 17 settembre 2021 fino al gran finale previsto per il 27 giugno 2025, tre stagioni distribuite su Netflix hanno trasformato quello che inizialmente sembrava solo un survival game in tuta verde in un fenomeno culturale di proporzioni colossali. E se vi sembra esagerato, aspettate di leggere questa nostra analisi nerd e approfondita sul vero cuore pulsante della serie: i giocatori e i giochi.

Già, perché se i misteriosi VIP incappucciati d’oro sono i burattinai del massacro e gli organizzatori i registi sadici dello spettacolo, sono i giocatori a rappresentare l’essenza umana della storia. Sono loro che ci fanno tifare, piangere, arrabbiarci e interrogarci su cosa saremmo disposti a fare per sopravvivere. Squid Game non è solo violenza, non è solo giochi da bambini trasformati in trappole mortali: è una riflessione profonda — e impietosa — su noi stessi.

Il lato umano del gioco

Nel microcosmo chiuso e brutale di Squid Game, ogni partecipante diventa un’allegoria vivente. Le loro scelte, azioni e interazioni ci svelano tutte le sfumature del comportamento umano, specialmente quando il denaro (o meglio, la sopravvivenza) è l’unica motivazione. Già nella prima stagione veniamo introdotti a due archetipi contrapposti: i “giocatori positivi” e gli “antagonistici”.

I primi sono quelli per cui si tifa senza riserve. Come dimenticare Ali, il dolce e ingenuo lavoratore migrante, o la coraggiosa Ji-yeong? In loro vediamo compassione, sacrificio, umanità. Sono quelli che, pur nella disperazione più nera, riescono ancora a essere umani. Dall’altro lato ci sono gli spietati, quelli che si lasciano divorare dalla brutalità del sistema, che diventano predatori pur di arrivare alla fine. Personaggi come Jang Deok-su, il gangster brutale, incarnano il degrado morale che emerge quando l’etica viene annientata dalla paura e dal desiderio di potere.

Questo dualismo ritorna con forza anche nella seconda stagione, che introduce un nuovo cast di disperati. Ancora una volta ci troviamo divisi tra chi vorremmo salvare e chi speriamo venga eliminato alla prossima sfida. È come guardare uno specchio che ci riflette nei momenti peggiori, ma anche nei più nobili. Ed è proprio questo il colpo da maestro della serie: i veri nemici non sono i VIP o i sorveglianti mascherati, ma le nostre scelte quando nessuno ci guarda… o quando tutti lo fanno.

I giochi: tra innocenza e orrore

Ogni gioco in Squid Game è un piccolo capolavoro di perversione narrativa. Sono tutti ispirati a passatempi infantili coreani — e in qualche caso anche occidentali — trasformati in meccanismi letali che mettono in palio non solo la vita dei partecipanti, ma anche la loro coscienza.

Si parte con il Ddakji, innocuo gioco di reclutamento che ci introduce con un colpo ben piazzato (letteralmente) all’universo di Squid Game. Poi arriva il famigerato Un, due, tre, stella!, reinterpretato con una bambola robotica inquietante e letale che fa fuori chiunque osi muoversi dopo la canzoncina. La combinazione tra nostalgia e terrore è magistrale. L’infanzia viene smontata, stravolta, e riadattata in chiave distopica.

Poi c’è il Caramello (Dalgona), dove la precisione millimetrica si scontra con il panico. Ogni forma diventa una sentenza: stella e ombrello sono maledizioni, mentre cerchi e triangoli appaiono come una benedizione per chi riesce a controllare le mani tremanti. Il Tiro alla fune traduce un gioco di squadra in una lotta per la sopravvivenza fisica e mentale, con strategie e preghiere che si intrecciano nella speranza di non essere tirati nel vuoto.

Ma è con le Biglie che il gioco si fa davvero psicologico. L’amicizia, la fiducia, la pietà: tutto viene messo in discussione. Tradire o essere traditi diventa una scelta impossibile. Il Ponte di vetro, invece, ci regala forse il momento più adrenalinico della serie. Camminare verso il nulla scegliendo tra vetro temperato e vetro normale è una metafora limpida dell’incertezza della vita. E quando arriva il Gioco del Calamaro, quello che dà il nome alla serie, l’infanzia coreana diventa l’arena finale per un confronto carico di rabbia, senso di colpa e voglia di redenzione.

Le sfide introdotte nella seconda e terza stagione amplificano ulteriormente la varietà e la creatività crudele del format. Il Pentathlon a sei gambe è un mix tra cooperazione forzata e minigiochi infantili dove ogni errore è fatale. Si passa da sfide come il Gonggi, il gioco delle pietre, fino al Jegi, dove bisogna palleggiare con un oggetto leggerissimo. Un disastro per chi non ha coordinazione, ma una goduria per chi ama vedere abilità e fortuna giocare a braccetto.

Il Raduno e il Nascondino inseriscono una componente sociale più marcata. In un gioco di alleanze forzate e tradimenti imminenti, la fiducia si fa rarefatta come l’aria nelle stanze chiuse. E quando entra in scena il Salto alla corda su un ponte semidistrutto, il pericolo diventa tridimensionale: terra, aria e tempo si stringono attorno ai concorrenti come una morsa.

Fino ad arrivare a un’altra variante ancora più surreale del gioco finale: il Gioco del calamaro in aria. Se pensavate che combattere a terra fosse difficile, immaginate farlo sospesi nel vuoto, su strutture instabili, con la certezza che ogni errore significhi la fine.

Un mondo crudele… come il nostro?

Cosa ci dice tutto questo? Che Squid Game è molto più di una serie violenta. È un gigantesco esperimento sociale in forma narrativa. I giocatori sono specchi della nostra società: c’è il debole, il furbo, il generoso, l’approfittatore, l’ingenuo e il crudele. I giochi, invece, sono un’allegoria perfetta delle dinamiche del potere, della competizione economica, delle diseguaglianze sociali e del prezzo della sopravvivenza.

Ed è proprio questa combinazione di folklore coreano e critica sociale universale che rende la serie così potente, così disturbante e così affascinante per noi nerd appassionati di distopie, psicologia, simbolismo e meccaniche ludiche. Ogni puntata è come un gigantesco escape room senza via d’uscita, dove il premio non è solo il denaro, ma il confronto crudo e sincero con la parte più vera — e spesso scomoda — di noi stessi.

E voi, quale giocatore sareste? Quello che cerca alleanze e aiuta il prossimo, o quello che, pur di vincere, non guarda in faccia nessuno? Avete mai pensato a come vi comportereste se la vostra vita dipendesse da un dolcetto di caramello?