Con Mountainhead, Jesse Armstrong – il geniale creatore di Succession – compie il salto dietro la macchina da presa, confezionando un’opera che sembra il fratello minore, nevrotico e surreale, della serie HBO che l’ha reso celebre. Questa volta, però, il campo da gioco non è un impero mediatico, ma una villa isolata tra le montagne dello Utah, dove quattro amici miliardari si ritrovano per un weekend che si trasforma in un disastro grottesco. Il cast è di quelli che fanno alzare le antenne: Steve Carell, Jason Schwartzman, Cory Michael Smith e Ramy Youssef portano in scena personaggi tanto caricaturali quanto inquietantemente credibili, ciascuno con le proprie ossessioni e strategie di potere.
La trama mette subito le carte in tavola. Venis “Ven” Parish (Cory Michael Smith) è l’uomo più ricco del mondo e proprietario di Traam, social network fittizio che ha accelerato il caos globale grazie alla diffusione di disinformazione generata da intelligenze artificiali. Con lui ci sono Jeff Abredazi (Ramy Youssef), proprietario di Bilter, società specializzata in fact-checking; Randall Garrett (Steve Carell), mentore del gruppo e malato terminale di cancro; e Hugo “Souper” Van Yalk (Jason Schwartzman), “solo” multimilionario, ossessionato dal diventare anche lui un vero miliardario. Il pretesto ufficiale è una rimpatriata amichevole. La realtà? Una partita a scacchi tra giganti dell’ego, in cui ognuno trama per sopraffare l’altro: Ven vuole inglobare Bilter per salvare Traam senza perdere la faccia; Jeff difende la propria azienda; Randall vede nel progresso tecnologico l’unica speranza di sopravvivere alla malattia; Souper cerca investitori per la sua super-app “Slowzo”.
Commedia nera con fiato corto e pugnalate (quasi) vere
Il film gioca con un ritmo claustrofobico: giri in motoslitta, rituali bizzarri (come scrivere il proprio patrimonio sul petto con il rossetto) e conversazioni sempre a un passo dall’esplodere. Quando la crisi globale peggiora e i governi iniziano a vacillare, il fragile equilibrio si rompe: complotti, tradimenti e persino tentativi maldestri di omicidio trasformano il weekend in una guerra fredda domestica.
La scrittura di Armstrong resta affilata e piena di umorismo corrosivo: il dialogo è il vero campo di battaglia, e le battute hanno il retrogusto amaro di un mondo dove il potere conta più della verità. Le dinamiche tra i personaggi ricordano quelle di Succession, ma qui il registro vira verso il farsa tragica, spingendo i toni fino al parossismo.
Un set come personaggio
Girato quasi interamente in una villa di 21.000 piedi quadrati a Park City, Mountainhead sfrutta l’isolamento e il gelo come metafora della distanza emotiva tra i protagonisti. L’ambiente è sontuoso ma asettico, e la montagna innevata diventa un sipario immobile che osserva impassibile il disfacimento morale di chi vi si rifugia.
La scelta di un’unica location principale, combinata a tempi di produzione serrati (appena cinque settimane di riprese), conferisce al film un’intensità teatrale: non ci sono vie di fuga, né per i personaggi né per lo spettatore.
Una satira del presente (e del futuro prossimo)
Il bersaglio è chiaro: l’élite tecnologica che si muove tra filantropia di facciata e cinismo strategico, incapace di separare l’amicizia dal business. Armstrong mette in scena un’apocalisse lenta, in cui non servono esplosioni o invasioni aliene: basta l’algoritmo giusto – o sbagliato – a far crollare le strutture del potere globale.La forza di Mountainhead sta proprio nel suo equilibrio instabile: è commedia nera, è dramma satirico, ma è anche un monito, e a tratti somiglia a una partita di poker in cui tutti barano sapendo che il tavolo sta per prendere fuoco.
Non è un film per chi cerca azione frenetica o lieto fine: Mountainhead è verboso, pungente e volutamente scomodo. È il ritratto di un mondo che balla sull’orlo del precipizio, e lo fa con il sorriso compiaciuto di chi crede di avere in mano il paracadute… senza accorgersi che è pieno di buchi. Dal 12 settembre, in esclusiva su Sky Cinema e NOW, sarà possibile decidere se ridere, rabbrividire o entrambe le cose. Armstrong ha alzato la posta: resta da vedere se il pubblico sarà pronto a seguirlo sulla vetta gelida del suo Mountainhead.
Come appassionata di fantascienza da sempre, devo confessarlo: ogni volta che si parla di Black Mirror mi si accende quella scintilla negli occhi, quella che solo le grandi storie sanno accendere. E ora, con la settima stagione finalmente tra noi, è impossibile non sentire quel fremito elettrico che solo le grandi serie riescono a suscitare. Perché sì, Black Mirror è tornata, e sembra più inquietante, profonda e provocatoria che mai.b Questa creatura nata dalla mente brillante e disturbante di Charlie Brooker non è una semplice serie antologica. È un’esperienza, un viaggio attraverso le pieghe più oscure della nostra relazione con la tecnologia. L’ho iniziata per curiosità – lo ammetto, attratta da quella sua fama da “serie che ti sconvolge” – ma è bastato un solo episodio per capire che stavo entrando in un territorio molto, molto personale.
Dalla sua prima apparizione nel 2011 su Channel 4, fino alla sua consacrazione globale grazie a Netflix, Black Mirror ha dimostrato di avere qualcosa che pochissime serie riescono davvero a offrire: la capacità di farti guardare dentro. E quando dico “dentro”, intendo davvero dentro – nei nostri abissi digitali, nelle nostre dipendenze da like e notifiche, nei desideri di controllo e nella paura di perdere se stessi. Ogni episodio è come una breve seduta di psicoterapia tecnologica. Ti mette davanti a scenari che sembrano assurdi, finché non ti accorgi che stanno già accadendo, magari in forma più soft, più accettabile… per ora.
E non è solo questione di scenari futuristici. Il vero genio di Black Mirror sta nella sua capacità di rendere queste distopie profondamente umane. Non ci racconta solo l’evoluzione dell’intelligenza artificiale o dei social network, ma ci mostra come questi strumenti si intrecciano con le nostre fragilità, con i nostri sogni, le nostre ossessioni, le nostre paure più intime. Dietro ogni interfaccia c’è un cuore che batte – spesso confuso, spesso spezzato. Con la settima stagione, questa tensione tra umanità e tecnologia torna prepotente. Dopo una sesta stagione che aveva diviso pubblico e critica (ma che io, personalmente, ho trovato audace nel suo sperimentare nuovi linguaggi), Brooker sembra voler tornare alle origini, ma con una nuova maturità. Ogni episodio è una lama affilata che incide sulla pelle sottile del nostro presente, e anche se sai che farà male, non puoi fare a meno di guardare. E allora eccoci qui, davanti a quello schermo nero che, ancora una volta, riflette i nostri occhi. Uno specchio digitale che ci sfida, ci giudica e ci racconta. E forse, tra un colpo al cuore e una stretta allo stomaco, ci insegna anche qualcosa su chi siamo diventati e su chi potremmo ancora essere.
L’era Channel 4: prime due stagioni e l’origine dell’angoscia
Quando Black Mirror fece il suo debutto, fu come un fulmine a ciel sereno. Solo sei episodi divisi in due stagioni, ma sufficienti per scolpire la serie nella memoria collettiva degli spettatori più attenti (e più inquieti). Brooker non cercava solo di intrattenere, voleva turbare, scuotere e far riflettere. Il pilot “Messaggio al Primo Ministro” fu un pugno nello stomaco: provocatorio, politicamente scorretto, e soprattutto profetico, ci mostrava il voyeurismo mediatico portato all’estremo. Poi vennero capolavori come “Ricordi Pericolosi”, che sviscerava i pericoli di una memoria perfetta, e “Torna da me”, dove l’intelligenza artificiale diventa il fantasma di chi abbiamo perso, ma mai davvero conosciuto.
Tra tutti, “15 milioni di celebrità” resta uno degli episodi simbolo della serie: un mondo privo di empatia, dove ogni gesto è performativo e ogni emozione mercificata. Lì, l’umanità appare già perduta, intrappolata in una gabbia luminosa fatta di like, voti e illusioni. Un Black Mirror purissimo.
Netflix entra in scena: la terza stagione e l’ambizione globale
Con l’approdo su Netflix, la serie abbandona l’intimismo anglosassone per aprirsi a un pubblico internazionale. La terza stagione è ambiziosa, più cinematografica, forse meno intima ma comunque potente. Su sei episodi, uno brilla più di tutti: San Junipero. Un racconto dolceamaro che unisce amore, morte e realtà virtuale in una poesia digitale dal sapore eterno. È un episodio anomalo, con un lieto fine (rarità assoluta), ma che colpisce al cuore.
Non mancano però episodi più crudi e claustrofobici: “Caduta Libera” ci mostra l’incubo delle valutazioni sociali, “Zitto e Balla” ci ricorda che il web non dimentica e che dietro la facciata di vittime si nascondono spesso mostri. Black Mirror continua a brillare, ma si percepisce già una leggera torsione: la distopia diventa spettacolo, il dolore si fa estetica. E il cambiamento è appena iniziato.
La crisi dell’identità: la controversa quarta stagione
La quarta stagione, nonostante i mezzi più imponenti, viene accolta con freddezza. I fan storici storcono il naso: troppe luci, poca sostanza. Episodi come “Crocodile” e “Arkangel” promettono, ma non mantengono. Le storie sembrano abbozzate, i personaggi anonimi. “Metalhead”, un esercizio di stile post-apocalittico in bianco e nero, omaggia Terminator, ma dimentica l’anima. “Hang the DJ” cerca di replicare il successo emotivo di San Junipero, ma non ci riesce.
L’unico vero gioiello è “USS Callister”, un episodio brillante, ironico e cupo al tempo stesso, che rilegge Star Trek in chiave psicotica e vendicativa. Un omaggio nerd irresistibile, che però appare fuori contesto rispetto al tono generale della serie. La sensazione è che Black Mirror stia diventando vittima del proprio successo: più interessata a stupire che a riflettere, più forma che sostanza.
Ritorno alla semplicità: la breve ma intensa quinta stagione
Con solo tre episodi, la quinta stagione cerca di ricompattare l’identità smarrita. “Striking Vipers” esplora la sessualità e i confini dell’identità digitale attraverso un videogame; “Smithereens” è un intenso thriller psicologico che denuncia la tirannia dell’attenzione; “Rachel, Jack & Ashley Too” propone una favola pop con Miley Cyrus che funziona solo a metà. È una stagione di transizione, dove Black Mirror cerca nuove strade, sperimenta, ma non sempre convince. Eppure, dietro le imperfezioni, si intravede ancora la scintilla dell’inizio.
La sesta stagione: distopia 2.0 tra horror, true crime e metanarrativa
Nel 2023, con la sesta stagione, Black Mirror rinasce. Brooker capisce che ormai la realtà ha superato la fiction e decide di cambiare marcia. Gli episodi diventano meno tecnologici e più umani, il focus si sposta sul nostro rapporto con la narrazione stessa. “Joan is Awful” è una bomba metanarrativa sul potere delle piattaforme streaming, con tanto di cameo satirici. “Loch Henry” e “Mazey Day” esplorano il dark side del true crime e del gossip, mentre “Demon 79” è un horror retrofuturista che sembra uscito da un film di Dario Argento. “Beyond the Sea” ci riporta invece alla solitudine cosmica della fantascienza classica, in uno dei racconti più intensi e struggenti dell’intera serie.
Il cambiamento è evidente, ma non snatura la serie. Black Mirror evolve, diventa più matura, più riflessiva. Non urla, ma sussurra. E il risultato è straordinario.
Il ritorno del mito: la sorprendente settima stagione
La settima stagione, uscita nel 2024, è un regalo per i fan di vecchia data. Sei episodi che omaggiano le radici della serie ma guardano avanti. “Hotel Reverie” è una nuova ode all’amore digitale che strizza l’occhio a San Junipero. “Come un giocattolo” ci riporta all’inquietudine delle intelligenze artificiali con una freddezza quasi lynchiana. “Bestia Nera” e “Eulogia” fondono introspezione e fantascienza con risultati emozionanti.
Ma il vero evento è USS Callister: Infinity, sequel dell’episodio cult, che viene volutamente lasciato avvolto nel mistero. Una scelta geniale che alimenta discussioni e teorie, mantenendo vivo il fascino del non detto.
Anche la colonna sonora torna protagonista con Anyone Who Knows What Love Is, la canzone che ha attraversato tutta la serie come un’eco malinconica di ciò che l’uomo era, prima di diventare schiavo delle sue stesse creazioni.
Il nostro riflesso resta sempre lì
Dopo sette stagioni, Black Mirror è ancora qui. È cambiata, certo, come è cambiato il mondo intorno a noi. Ma non ha mai smesso di farci riflettere, inquietare, emozionare. Charlie Brooker ha costruito un universo narrativo che non solo racconta la tecnologia, ma ci racconta attraverso di essa. Le sue distopie sono diventate previsioni. Le sue fantasie, cronache del presente.
In un’epoca in cui ogni giorno ci svegliamo con una nuova app, un nuovo algoritmo o una nuova intelligenza artificiale pronta a cambiarci la vita, Black Mirror ci ricorda che la vera sfida non è il progresso, ma l’uso che ne facciamo. E, soprattutto, ci fa una domanda fondamentale: siamo ancora noi a controllare la tecnologia, o è ormai lei a controllare noi?
Se anche tu hai vissuto questo viaggio lungo sette stagioni, condividi il tuo episodio preferito o la tua teoria più folle. Parlane sui social, tagga @CorriereNerd.it e raccontaci: quale riflesso hai visto nel tuo Black Mirror?
Quando ho sentito parlare della nuova serie Piedone – Uno sbirro a Napoli, ammetto che un brivido di inquietudine mi ha attraversato. Piedone è un’icona, una delle figure più amate del cinema italiano, e rinnovare il mito di Bud Spencer non è un’impresa facile. Eppure, come spesso accade nel cinema contemporaneo, il rischio può portare a risultati sorprendenti. La serie, con un cast solido, un’ambientazione vibrante e un mix di azione e umorismo tipico, è riuscita a trovare un equilibrio tra rispetto per il passato e voglia di rinnovamento.
Il regista Alessio Maria Federici ha fatto un ottimo lavoro nel mantenere intatto lo spirito della saga originaria, aggiornandola però con un linguaggio moderno e una narrazione capace di parlare anche al pubblico di oggi. In Piedone – Uno sbirro a Napoli, Salvatore Esposito veste i panni di Vincenzo Palmieri, un ispettore cresciuto all’ombra di Rizzo, il leggendario commissario interpretato da Bud Spencer. Ma qui non si tratta di sostituire l’originale; Palmieri è un personaggio che porta avanti una tradizione, ma con le sue proprie fragilità e contraddizioni.
L’eredità di Piedone è viva, ma viene attualizzata con intelligenza: Napoli non è più solo una semplice scenografia pittoresca, ma diventa una protagonista che vive e respira attraverso ogni scena. La città, con le sue bellezze e contraddizioni, accompagna la lotta di Palmieri per trovare un equilibrio tra il suo passato tumultuoso e il suo ruolo di poliziotto in un mondo che è cambiato. Ma Napoli, purtroppo, non è immune alle problematiche contemporanee: la malasanità, la diffusione di droghe sintetiche come il fentanyl, sono temi trattati con delicatezza ma anche con un realismo che non lascia indifferenti.
Un altro aspetto che mi ha colpito è la dinamica tra Palmieri e la commissaria Sonia Ascarelli, interpretata da Silvia D’Amico. I due personaggi incarnano visioni opposte: Palmieri è disordinato, istintivo, si affida alla strada per risolvere i casi; Ascarelli è metodica, legata alle procedure. La loro interazione, fatta di scontri e alleanze, è uno degli elementi più interessanti della serie. E a completare il trio c’è l’ispettore aggiunto Michele Noviello, interpretato da Fabio Balsamo, un personaggio che aggiunge leggerezza e spessore grazie alla sua passione per la storia medievale, un contrasto ben studiato che arricchisce il gruppo.
Federici ha curato anche i dialoghi e le dinamiche interne alla squadra, facendo sì che ogni personaggio, anche i secondari, avesse una voce ben definita. Questo approccio ha reso la serie più coinvolgente, dando la possibilità ai personaggi di evolversi e crescere nel corso delle quattro storie che compongono la serie. Ogni episodio potrebbe essere visto come un piccolo film, pur mantenendo una continuità narrativa che fa da sfondo alle indagini.
E poi c’è la fisicità di Palmieri. Esposito, che si fa carico di un’eredità pesante, riesce a interpretare un personaggio che non è solo un “sbirro”, ma anche un uomo concreto, radicato nel territorio. La sua passione per il wrestling, che si inserisce nel contesto della trama, non è un semplice espediente, ma un simbolo di come il personaggio utilizzi la forza fisica e l’intelligenza per risolvere le situazioni.
La scelta di mescolare l’azione da poliziesco con momenti di leggerezza e umorismo rende la serie ancora più godibile, trovando un perfetto equilibrio tra toni drammatici e quelli più leggeri. Non mancano i rimandi al passato, con citazioni più o meno esplicite alla figura diBud Spencer , ma queste non appesantiscono la trama, anzi la arricchiscono, come un omaggio a chi ha amato il vecchio Piedone.
Il risultato finale è una serie che sa come parlare al pubblico di oggi senza tradire completamente le origini. Napoli, come dicevo, è una protagonista viva, concreta, che rappresenta un microcosmo di un’Italia che affronta le sue sfide moderne con la stessa forza e passione di sempre. Non c’è nostalgia nel modo in cui la serie affronta la figura di Piedone, ma piuttosto una continuazione naturale, come se Palmieri fosse davvero l’erede di Rizzo.
Piedone – Uno sbirro a Napoli è riuscito là dove molti altri remake o rivisitazioni di icone del passato falliscono: non si limita a copiare la formula, ma la rielabora, la rende moderna e, soprattutto, le dà una dignità propria. Con un Salvatore Esposito in grande forma, una Napoli vibrante e un mix riuscito di azione, humor e denuncia sociale, la serie si presenta come un prodotto capace di attrarre tanto i vecchi fan quanto il pubblico più giovane. Un ritorno al mito, sì, ma con un passo fermo nel futuro.
Le avventure del mago nato dalla penna di J.K. Rowling sono state trasposte in una saga cinematografica in otto film, tutti tra i maggiori campioni di incassi nella storia del cinema, anche grazie alle magiche interpretazioni di Daniel Radcliffe / Harry Potter, di Emma Watson nei panni di Hermione Granger, di Rupert Grint in quelli di Ron Weasley e naturalmente del leggendario Alan Rickman, l’ambiguo Severus Piton. La saga è stata interamente prodotta da David Heyman.
Tutto ha inizio nel 2001 quando esce al cinema HARRY POTTER E LA PIETRA FILOSOFALE, diretto da Chris Columbus. Nel giorno del suo undicesimo compleanno, Harry Potter scopre nel di essere il figlio orfano di due maghi e di possedere poteri magici propri. Alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, impara lo sport del Quidditch e gioca un’emozionante partita a scacchi “dal vivo” mentre si trova ad affrontare un Mago Oscuro deciso a distruggerlo.
Un anno dopo ecco HARRY POTTER E LA CAMERA DEI SEGRETI di Chris Columbus. Le macchine volano, gli alberi reagiscono e un misterioso elfo domestico arriva a mettere in guardia Harry all’inizio del suo secondo anno scolastico ad Hogwarts. Avventura e pericolo sono dietro l’angolo quando una scritta insanguinata su un muro annuncia che “La Camera dei Segreti” è stata aperta. Per salvare Hogwarts serviranno tutti i poteri magici e il coraggio di Harry, Ron ed Hermione.
Nel 2004 Alfonso Cuaròn firma la regia di HARRY POTTER E IL PRIGIONIERO DI AZKABAN. Nel loro terzo anno ad Hogwarts Harry, Ron ed Hermione incontrano il prigioniero fuggitivo Sirius Black ed imparano la delicata arte di avvicinare un Ippogrifo, mezzo cavallo e mezzo aquila, a respingere i Mollicci multiformi e a padroneggiare l’arte della divinazione. Harry deve anche affrontare i Dissennatori che succhiano l’anima, scontrarsi con un pericoloso lupo mannaro e scoprire la verità su Sirius e la sua relazione con Harry ed i suoi genitori.
La regia del quarto capitolo della saga, HARRY POTTER E IL CALICE DI FUOCO, viene affidata a Mike Newell. Harry Potter entra misteriosamente nel Torneo Tremaghi, un’estenuante battaglia tra tre scuole di maghi dove deve misurarsi con un drago, demoni acquatici e un labirinto incantato, solo per ritrovarsi nella morsa crudele di Lord Voldemort. Tutto cambia, mentre Harry, Ron ed Hermione abbandonano definitivamente l’età dell’innocenza e si trovano ad affrontare sfide che vanno oltre la loro immaginazione.
Il quinto film, HARRY POTTER E L’ORDINE DELLA FENICE segna l’ingresso alla regia di David Yates (che dirigerà tutti i successivi film). Inizia la ribellione. Lord Voldemort è tornato, ma il Ministero della Magia cerca di tenere sotto controllo la verità, nominando a Hogwarts un nuovo professore di Difesa contro le Arti Oscure, assetato di potere. Ron e Hermione convincono Harry ad addestrare segretamente gli studenti per la guerra magica che li attende. Si prepara una terrificante resa dei conti tra il bene e il male.
È il 2009 quando esce al cinema HARRY POTTER E IL PRINCIPE MEZZOSANGUE. Con Lord Voldemort che stringe la sua presa sia sul mondo dei babbani che su quello dei maghi. Albus Silente è intento a preparare Harry per la battaglia che si avvicina rapidamente. Anche se la resa dei conti si avvicina, il romanticismo sboccia per Harry, Ron, Hermione e i loro compagni di classe. L’amore è nell’aria, ma il pericolo è in arrivo e Hogwarts potrebbe non essere più la stessa.
Nel 2010 e 2011 si susseguono in sala i capitoli finali. In HARRY POTTER E I DONI DELLA MORTE-PARTE I Harry, Ron ed Hermione sono determinati a rintracciare e distruggere il segreto del potere di Voldemort, gli Horcrux. Da soli e in fuga, i tre devono fare affidamento l’uno sull’altro più che mai, ma le Forze Oscure minacciano di farli a pezzi.
HARRY POTTER E I DONI DELLA MORTE- PARTE II. Nell’epico finale la battaglia tra le forze del bene del male del Mondo dei Maghi si trasforma in una guerra totale. La posta in gioco non è mai stata così alta e nessuno è al sicuro. Ma è Harry che può essere chiamato a fare l’ultimo sacrificio mentre si avvicina alla resa dei conti con Lord Voldemort. Tutto finisce qui.
Nel corso di Napoli Comicon è stato presentato il film Monolith, prodotto da Sky Cinema, Lock & Valentine e Sergio Bonelli Editore, nelle sale ad agosto 2017, distribuito da Vision Distribution.
Monolith, è live action drama in arrivo nelle sale ad agosto 2017. Una nuova sfida produttiva per Sky Italia con un progetto cinematografico che ne rafforza l’impegno nel sistema audiovisivo italiano.
Una produzione che la prima media company in Italia realizza con la collaborazione di Sergio Bonelli Editore, ideatrice della storia illustrata a cui il film si ispira, per una operazione transmediale di alto impatto comunicativo Monolith, realizzato dalla casa di produzione Lock and Valentine, è l’adattamento cinematografico dell’omonimo graphic-novel , scritto da Roberto Recchioni (Dylan Dog, Orfani) e Mauro Uzzeo (Orfani) e disegnato da Lorenzo LRNZ Ceccotti.
Il film è sceneggiato dallo stesso Uzzeo, e da Elena Bucaccio, Stefano Sardo e Ivan Silvestrini, a cui è affidata anche la regia.
Il soggetto è di Roberto Recchioni. Al centro della storia, sarà interpretata da un cast internazionale, la corsa di una donna contro il tempo alla ricerca di una soluzione, che appare impossibile, per mettere in salvo ciò che più ama, in una atmosfera via via più incalzante e tesa.
Nel film Disney Alice Attraverso lo Specchio, una spettacolare nuova avventura basata sugli indimenticabili racconti creati da Lewis Carroll, Alice torna nello stravagante Sottomondo e viaggia indietro nel tempo per salvare il Cappellaio Matto. Il regista James Bobin porta al cinema la sua personale visione dello spettacolare mondo creato per il grande schermo da Tim Burton nel film del 2010 Alice in Wonderland. Scritto da Linda Woolverton, sulla base dei personaggi creati da Lewis Carroll, il film è prodotto da Joe Roth, Suzanne Todd, Jennifer Todd e Tim Burton, mentre John G. Scotti è il produttore esecutivo. Il film Alice Attraverso lo Specchio riunisce il cast stellare presente nel precedente successo mondiale, inclusi: Johnny Depp, Anne Hathaway, Mia Wasikowska e Helena Bonham Carter. Il pubblico conoscerà inoltre nuovi personaggi, come: Zanik Hightopp (Rhys Ifans), il padre del Cappellaio Matto e il Tempo (Sacha Baron Cohen), una particolare creatura metà umana, metà orologio.