Era il 30 giugno del 1995 quando si spensero le luci dello Studio 1 del Centro Palatino di Roma sull’ultima, malinconica puntata di Non è la Rai. Con Ambra Angiolini che cantava T’appartengo tra lacrime vere e finzione scenica, si chiudeva un’era della TV italiana. Un’era fatta di lustrini, playback, coreografie, adolescenti alle prese con costumi a fiori e domande da telefono fisso. Un universo che oggi sembra uscito da un VHS impolverato, ma che ha inciso indelebilmente nella memoria collettiva — e soprattutto nerd — di chi è cresciuto nei ruggenti anni Novanta.
Non è la Rai non è stata solo una trasmissione televisiva. È stata una rivoluzione pop che ha traghettato il varietà italiano dentro un’altra dimensione. Una sorta di Wonder Woman culturale che ha gettato le basi per il concetto stesso di fenomeno mediatico adolescenziale ante litteram. Non era fiction, non era reality, non era talk show, ma aveva elementi di tutti questi generi messi insieme. E, nel bene o nel male, ha influenzato il nostro modo di intendere l’intrattenimento e persino la costruzione del divismo giovanile. Oggi, a trent’anni di distanza dalla sua chiusura, è tempo di (ri)scoprire perché Non è la Rai è stata così dirompente. E perché, in fondo, non abbiamo mai davvero smesso di parlarne.
Boncompagni e il colpo di genio
A creare il mostro — nel senso buono — fu Gianni Boncompagni, lo stesso che aveva già scritto pagine memorabili di radio e televisione con programmi come Alto Gradimento e Pronto, Raffaella?. Con Non è la Rai riuscì a fondere la sua capacità di cogliere i trend giovanili con una visione produttiva moderna, al passo con MTV ma con un cuore profondamente italiano. Affiancato da Irene Ghergo, costruì uno show quotidiano, rigorosamente in diretta, popolato da una galassia di ragazze giovanissime, molte delle quali adolescenti o appena maggiorenni, che cantavano, ballavano, giocavano al telefono e, soprattutto, diventavano star per i fan.
In un’epoca priva di social media e di smartphone, Non è la Rai riuscì a creare un rapporto diretto e quasi ossessivo tra pubblico e protagoniste. Le fan accalcate fuori dagli studi di Roma, le lettere inviate a chilate, i muri del Centro Palatino pieni di scritte e dediche, le serate in discoteca con le esibizioni delle ragazze: ogni elemento del programma sembrava precorrere il culto delle idol moderne giapponesi o delle teen star di Disney Channel.
L’esercito delle “ragazze di”
Se oggi parliamo di Ambra Angiolini come attrice pluripremiata, di Sabrina Impacciatore in odore di Oscar, di Claudia Gerini come una delle presenze più solide del cinema italiano, di Laura Freddi e Antonella Elia come volti iconici della televisione… beh, dobbiamo ringraziare Non è la Rai. È da lì che sono emerse, è lì che hanno costruito la loro identità pubblica.
Il programma ha rappresentato una vera e propria fabbrica di volti — come se fosse un laboratorio nerd di supereroine della cultura pop italiana. Era impossibile non scegliere la propria preferita. C’era la romantica, la comica, la sensuale, la ribelle, l’intellettuale (o presunta tale): ognuna interpretava un archetipo capace di soddisfare il gusto del pubblico generalista e adolescenziale.
Boncompagni, con un orecchio da direttore d’orchestra e uno da hacker televisivo, dava spazio solo a chi sapeva funzionare sullo schermo. Il resto era formato umano di contorno. Ma anche quel contorno è diventato nel tempo carne da Wikipedia: basti pensare a nomi come Miriana Trevisan, Alessia Mancini, Pamela Petrarolo, Nicole Grimaudo, Romina Mondello, Lucia Ocone.
Le critiche? Carburante per il successo
Ovviamente Non è la Rai non è stato tutto rose e playback. Le polemiche furono tantissime. La sessualizzazione precoce delle ragazze, i costumi troppo succinti, le inquadrature giudicate maliziose, le lacrime sospette durante le canzoni struggenti, l’accusa di “telepedofilia” lanciata da alcune associazioni familiari e femministe. E poi, il discusso episodio del diavoletto che avrebbe rivelato ad Ambra che Dio tifava Berlusconi e Satana invece Occhetto. In piena campagna elettorale. Roba che oggi farebbe impazzire Twitter e Reddit.
Ma come spesso accade, le critiche alimentano la leggenda. L’odio e l’amore per lo show viaggiavano di pari passo, e Boncompagni lo sapeva. Non è un caso che proprio durante le edizioni più criticate si raggiunsero gli ascolti migliori e si triplicarono le tariffe pubblicitarie di Italia 1 nella fascia pomeridiana. Non è la Rai era il Minecraft delle trasmissioni: criticato da genitori e insegnanti, ma amato visceralmente da chi lo viveva in prima persona.
Il culto nerd e la macchina del merchandising
Come ogni fenomeno che si rispetti, anche Non è la Rai ha avuto il suo expanded universe. Compilation musicali, album delle figurine, quaderni, t-shirt, zainetti, CD, cassette, videocassette, e chi più ne ha più ne metta. Le ragazze diventavano personaggi da collezionare, idoli da seguire con la dedizione con cui oggi si segue una saga di Stranger Things o l’uscita di un nuovo Final Fantasy.
L’industria intorno al programma macinava numeri importanti. Gli album musicali delle compilation raggiungevano i vertici delle classifiche, alcuni brani originali venivano scritti appositamente per le esibizioni, come Ailoviù o Tutta tua, mentre le ragazze cantavano spesso (e volentieri) in playback su voci di professioniste. Pamela Petrarolo, Francesca Pettinelli e Ambra furono le poche a ottenere l’opportunità di incidere davvero con la propria voce. E anche qui: tra finzione e realtà, si alimentava il mito.
L’eredità culturale
Oggi, guardando indietro, Non è la Rai appare come un fenomeno difficilmente replicabile. Era figlio del suo tempo, ma ha saputo anticipare molte dinamiche future dello star system, dell’ossessione per i giovani talenti, della serializzazione dell’intrattenimento. Una sorta di Black Mirror pop che metteva in scena tutto e il contrario di tutto: innocenza e provocazione, gioco e controllo, spontaneità e regia occulta (tramite auricolari, of course).
Eppure, nel flusso apparentemente caotico di playback e telefonate, si è formata un’intera generazione di professioniste dello spettacolo. Alcune sono ancora oggi protagoniste del panorama culturale italiano. Altre hanno scelto vie alternative, dal teatro alla musica indipendente, passando per missioni umanitarie e attività sociali. Ma tutte, volenti o nolenti, sono parte di un DNA culturale condiviso che ancora pulsa nel nostro immaginario nerd e pop.
Trent’anni dopo
Oggi, a tre decenni dalla sua chiusura, Non è la Rai continua a essere oggetto di studi, revival nostalgici, speciali televisivi e pagine social dedicate. I fan — molti dei quali oggi quarantenni e cinquantenni — condividono ancora i video su YouTube, si emozionano a rivedere le vecchie sigle, collezionano memorabilia. Perché, in fondo, Non è la Rai è diventata una sorta di Doctor Who del piccolo schermo italiano: ha avuto rigenerazioni, momenti di gloria, stagioni discutibili, ma una base affettiva indistruttibile.
E quindi, se sei stato uno di quei ragazzi che chiamava per partecipare al gioco del cruciverbone o uno di quelli che sognava di incontrare Ambra fuori dagli studi… oppure se sei tra coloro che allora odiavano profondamente lo show e oggi ci scherzano sopra su TikTok… in entrambi i casi, Non è la Rai ha fatto parte del tuo mondo. E lo fa ancora.
E tu che ricordi hai di Non è la Rai? Avevi una ragazza preferita? Collezionavi gli album o ballavi le coreografie in cameretta? Raccontacelo nei commenti oppure condividi questo articolo con chi, come te, non ha mai smesso davvero di cantare T’appartengo sotto la doccia.