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Trent’anni senza “Non è la Rai”: il programma che ha segnato un’epoca e acceso i riflettori sulla nuova generazione televisiva

Era il 30 giugno del 1995 quando si spensero le luci dello Studio 1 del Centro Palatino di Roma sull’ultima, malinconica puntata di Non è la Rai. Con Ambra Angiolini che cantava T’appartengo tra lacrime vere e finzione scenica, si chiudeva un’era della TV italiana. Un’era fatta di lustrini, playback, coreografie, adolescenti alle prese con costumi a fiori e domande da telefono fisso. Un universo che oggi sembra uscito da un VHS impolverato, ma che ha inciso indelebilmente nella memoria collettiva — e soprattutto nerd — di chi è cresciuto nei ruggenti anni Novanta.

Non è la Rai non è stata solo una trasmissione televisiva. È stata una rivoluzione pop che ha traghettato il varietà italiano dentro un’altra dimensione. Una sorta di Wonder Woman culturale che ha gettato le basi per il concetto stesso di fenomeno mediatico adolescenziale ante litteram. Non era fiction, non era reality, non era talk show, ma aveva elementi di tutti questi generi messi insieme. E, nel bene o nel male, ha influenzato il nostro modo di intendere l’intrattenimento e persino la costruzione del divismo giovanile. Oggi, a trent’anni di distanza dalla sua chiusura, è tempo di (ri)scoprire perché Non è la Rai è stata così dirompente. E perché, in fondo, non abbiamo mai davvero smesso di parlarne.

Boncompagni e il colpo di genio

A creare il mostro — nel senso buono — fu Gianni Boncompagni, lo stesso che aveva già scritto pagine memorabili di radio e televisione con programmi come Alto Gradimento e Pronto, Raffaella?. Con Non è la Rai riuscì a fondere la sua capacità di cogliere i trend giovanili con una visione produttiva moderna, al passo con MTV ma con un cuore profondamente italiano. Affiancato da Irene Ghergo, costruì uno show quotidiano, rigorosamente in diretta, popolato da una galassia di ragazze giovanissime, molte delle quali adolescenti o appena maggiorenni, che cantavano, ballavano, giocavano al telefono e, soprattutto, diventavano star per i fan.

In un’epoca priva di social media e di smartphone, Non è la Rai riuscì a creare un rapporto diretto e quasi ossessivo tra pubblico e protagoniste. Le fan accalcate fuori dagli studi di Roma, le lettere inviate a chilate, i muri del Centro Palatino pieni di scritte e dediche, le serate in discoteca con le esibizioni delle ragazze: ogni elemento del programma sembrava precorrere il culto delle idol moderne giapponesi o delle teen star di Disney Channel.

L’esercito delle “ragazze di”

Se oggi parliamo di Ambra Angiolini come attrice pluripremiata, di Sabrina Impacciatore in odore di Oscar, di Claudia Gerini come una delle presenze più solide del cinema italiano, di Laura Freddi e Antonella Elia come volti iconici della televisione… beh, dobbiamo ringraziare Non è la Rai. È da lì che sono emerse, è lì che hanno costruito la loro identità pubblica.

Il programma ha rappresentato una vera e propria fabbrica di volti — come se fosse un laboratorio nerd di supereroine della cultura pop italiana. Era impossibile non scegliere la propria preferita. C’era la romantica, la comica, la sensuale, la ribelle, l’intellettuale (o presunta tale): ognuna interpretava un archetipo capace di soddisfare il gusto del pubblico generalista e adolescenziale.

Boncompagni, con un orecchio da direttore d’orchestra e uno da hacker televisivo, dava spazio solo a chi sapeva funzionare sullo schermo. Il resto era formato umano di contorno. Ma anche quel contorno è diventato nel tempo carne da Wikipedia: basti pensare a nomi come Miriana Trevisan, Alessia Mancini, Pamela Petrarolo, Nicole Grimaudo, Romina Mondello, Lucia Ocone.

Le critiche? Carburante per il successo

Ovviamente Non è la Rai non è stato tutto rose e playback. Le polemiche furono tantissime. La sessualizzazione precoce delle ragazze, i costumi troppo succinti, le inquadrature giudicate maliziose, le lacrime sospette durante le canzoni struggenti, l’accusa di “telepedofilia” lanciata da alcune associazioni familiari e femministe. E poi, il discusso episodio del diavoletto che avrebbe rivelato ad Ambra che Dio tifava Berlusconi e Satana invece Occhetto. In piena campagna elettorale. Roba che oggi farebbe impazzire Twitter e Reddit.

Ma come spesso accade, le critiche alimentano la leggenda. L’odio e l’amore per lo show viaggiavano di pari passo, e Boncompagni lo sapeva. Non è un caso che proprio durante le edizioni più criticate si raggiunsero gli ascolti migliori e si triplicarono le tariffe pubblicitarie di Italia 1 nella fascia pomeridiana. Non è la Rai era il Minecraft delle trasmissioni: criticato da genitori e insegnanti, ma amato visceralmente da chi lo viveva in prima persona.

Il culto nerd e la macchina del merchandising

Come ogni fenomeno che si rispetti, anche Non è la Rai ha avuto il suo expanded universe. Compilation musicali, album delle figurine, quaderni, t-shirt, zainetti, CD, cassette, videocassette, e chi più ne ha più ne metta. Le ragazze diventavano personaggi da collezionare, idoli da seguire con la dedizione con cui oggi si segue una saga di Stranger Things o l’uscita di un nuovo Final Fantasy.

L’industria intorno al programma macinava numeri importanti. Gli album musicali delle compilation raggiungevano i vertici delle classifiche, alcuni brani originali venivano scritti appositamente per le esibizioni, come Ailoviù o Tutta tua, mentre le ragazze cantavano spesso (e volentieri) in playback su voci di professioniste. Pamela Petrarolo, Francesca Pettinelli e Ambra furono le poche a ottenere l’opportunità di incidere davvero con la propria voce. E anche qui: tra finzione e realtà, si alimentava il mito.

L’eredità culturale

Oggi, guardando indietro, Non è la Rai appare come un fenomeno difficilmente replicabile. Era figlio del suo tempo, ma ha saputo anticipare molte dinamiche future dello star system, dell’ossessione per i giovani talenti, della serializzazione dell’intrattenimento. Una sorta di Black Mirror pop che metteva in scena tutto e il contrario di tutto: innocenza e provocazione, gioco e controllo, spontaneità e regia occulta (tramite auricolari, of course).

Eppure, nel flusso apparentemente caotico di playback e telefonate, si è formata un’intera generazione di professioniste dello spettacolo. Alcune sono ancora oggi protagoniste del panorama culturale italiano. Altre hanno scelto vie alternative, dal teatro alla musica indipendente, passando per missioni umanitarie e attività sociali. Ma tutte, volenti o nolenti, sono parte di un DNA culturale condiviso che ancora pulsa nel nostro immaginario nerd e pop.

Trent’anni dopo

Oggi, a tre decenni dalla sua chiusura, Non è la Rai continua a essere oggetto di studi, revival nostalgici, speciali televisivi e pagine social dedicate. I fan — molti dei quali oggi quarantenni e cinquantenni — condividono ancora i video su YouTube, si emozionano a rivedere le vecchie sigle, collezionano memorabilia. Perché, in fondo, Non è la Rai è diventata una sorta di Doctor Who del piccolo schermo italiano: ha avuto rigenerazioni, momenti di gloria, stagioni discutibili, ma una base affettiva indistruttibile.

E quindi, se sei stato uno di quei ragazzi che chiamava per partecipare al gioco del cruciverbone o uno di quelli che sognava di incontrare Ambra fuori dagli studi… oppure se sei tra coloro che allora odiavano profondamente lo show e oggi ci scherzano sopra su TikTok… in entrambi i casi, Non è la Rai ha fatto parte del tuo mondo. E lo fa ancora.


E tu che ricordi hai di Non è la Rai? Avevi una ragazza preferita? Collezionavi gli album o ballavi le coreografie in cameretta? Raccontacelo nei commenti oppure condividi questo articolo con chi, come te, non ha mai smesso davvero di cantare T’appartengo sotto la doccia.

Power Rangers: il ritorno leggendario su Disney+ che promette di rivoluzionare la saga

Nel vasto e coloratissimo multiverso delle serie che hanno scolpito a fuoco l’infanzia di noi nerd cresciuti tra gli anni ’90 e i primi 2000, poche hanno avuto un impatto culturale paragonabile a Mighty Morphin Power Rangers. Non si trattava solo di un programma televisivo. No, era un vero e proprio rituale quotidiano. Bastava sentire quella sigla esplosiva – “Go Go Power Rangers!” – per farsi travolgere da un’onda di adrenalina, e ritrovarsi catapultati in un mondo di tutine sgargianti, combattimenti acrobatici, mostri in lattice e giganteschi robot trasformabili. Era intrattenimento nerd allo stato puro, un concentrato di action, fantasy e tokusatsu giapponese che ci ha fatto sognare di morfare anche solo per andare a scuola.

Ed eccoci qui, nel 2025, a parlare di un ritorno che ha già mandato in cortocircuito tastiere, forum e bacheche social: i Power Rangers stanno per tornare. E no, non si tratta dell’ennesima replica nostalgica o di un reboot low budget. Questa volta il nome in gioco è quello di Disney+, e i nomi coinvolti nel progetto sono tutt’altro che sconosciuti: Jonathan E. Steinberg e Dan Shotz, le menti dietro la recentissima serie Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo. La notizia, riportata in esclusiva da The Wrap, è di quelle che fanno tremare i polsi – e battere forte il cuore di chi è cresciuto a pane e Zord.

Un’eredità titanica: da Angel Grove al mito generazionale

Per capire davvero cosa significhi questo annuncio, bisogna fare un salto indietro nel tempo. Era il 1993 quando Mighty Morphin Power Rangers fece il suo debutto sugli schermi americani (e poco dopo su quelli italiani), adattando – e occidentalizzando – la serie giapponese Super Sentai. Il risultato fu un ibrido esplosivo che mescolava le scene d’azione nipponiche con nuove sequenze girate con attori americani. Il mix funzionò talmente bene da creare un fenomeno globale. I Power Rangers divennero rapidamente un’icona pop: giocattoli, zaini, merendine, album di figurine, film e videogiochi invasero il mercato e l’immaginario collettivo.

Ma i Power Rangers non sono stati solo un fenomeno commerciale. Per molti di noi, erano modelli di coraggio, lealtà e spirito di squadra. Erano l’emblema della lotta tra il bene e il male, incarnato da adolescenti “normali” che, una volta attivati i loro poteri, diventavano eroi intergalattici. Una metafora potentissima per un pubblico giovane alle prese con la propria crescita.

Nel corso dei decenni, il franchise ha conosciuto mille trasformazioni: Zeo, Turbo, In Space, Time Force, Ninja Storm, SPD, fino all’indimenticabile Dino Thunder – che ha segnato il glorioso ritorno del mitico Tommy Oliver (interpretato dall’indimenticabile Jason David Frank) e un inaspettato picco creativo proprio durante la prima “era Disney” (2001-2010).

Il lungo cammino del reboot: tra tentativi, flop e sogni infranti

Ovviamente, con un’eredità così pesante alle spalle, non sono mancati i tentativi di rilanciare i Rangers in epoche più recenti. Ma diciamocelo con onestà nerd: non tutti hanno centrato il bersaglio. Il film del 2017, ad esempio, partiva con ottime premesse – un cast giovane e promettente, una regia visivamente matura e una colonna sonora moderna – ma il pubblico non lo premiò. Troppa voglia di prendersi sul serio, poca magia. I fan storici non si riconobbero, e le nuove generazioni non si fecero catturare.

Poi fu il turno di Jonathan Entwistle e del suo ambizioso “Power Rangers Universe” per Netflix, concepito come un MCU in miniatura con serie, film e spin-off interconnessi. Ma anche quel progetto naufragò, probabilmente schiacciato dalla mole di aspettative e dalla difficoltà di rimettere mano a un brand così stratificato.

Ed è qui che Disney+ entra in scena con una nuova, rinnovata ambizione. La piattaforma sta cercando di rafforzare il suo catalogo rivolgendosi a un pubblico specifico: i giovani appassionati di azione, fantascienza e superpoteri – quel target maschile tra i 12 e i 35 anni che vive a cavallo tra Avengers, Star Wars, Stranger Things e The Witcher. E quale marchio migliore dei Power Rangers per parlare a questa fascia di spettatori, oggi cresciuti ma ancora affamati di eroi?

Steinberg e Shotz: il morpher è nelle mani giuste

Il duo Steinberg-Shotz si è già fatto notare per la capacità di trattare materiale “sacro” come quello di Percy Jackson, modernizzandolo con rispetto e intelligenza, mantenendo fede allo spirito originale ma aggiornandolo per il pubblico attuale. E se sono riusciti a fare una magia simile con le avventure del giovane semidio, allora c’è speranza concreta che possano riuscirci anche con i Power Rangers.

Perché, a pensarci bene, il concetto alla base della serie è sempre attualissimo. Un gruppo di adolescenti che affronta la crescita personale e sociale mentre difende il mondo da minacce cosmiche, alla guida di robot giganti? È pura meraviglia. Con i giusti aggiornamenti estetici, un tono narrativo più profondo e una regia capace di valorizzare l’azione quanto le emozioni, questa nuova incarnazione potrebbe rivelarsi la migliore dai tempi d’oro.

La presenza di Hasbro come casa produttrice aggiunge un ulteriore elemento di ottimismo. L’azienda ha già mostrato, negli ultimi anni, di voler rilanciare il franchise in grande stile, investendo in nuovi fumetti (tra cui alcune ottime run pubblicate da BOOM! Studios), giocattoli da collezione e contenuti destinati sia ai nostalgici sia a una nuova generazione di fan. L’idea è quella di costruire un universo narrativo coerente, multimediale, capace di unire passato e futuro.

Sogni morfici e domande cosmiche: cosa ci aspetta davvero?

Ovviamente, come ogni progetto di queste dimensioni, anche questa nuova serie live-action su Disney+ è ancora avvolta nel mistero. Le trattative sono in corso, e siamo ancora nella fase di sviluppo iniziale. Ma l’interesse del pubblico è esploso. Reddit e Twitter (anzi, X) sono già invasi da speculazioni, teorie, fan art e fan cast. Chi saranno i nuovi Ranger? Rivedremo qualche volto storico? Ci sarà un legame diretto con le vecchie stagioni o sarà un reboot completo in stile multiverso?

Quel che è certo è che il ritorno dei Power Rangers ha già riacceso una fiamma che sembrava essersi affievolita. C’è voglia di eroi in costume, di combattimenti spettacolari, di quei momenti in cui tutto sembra perduto… finché il Megazord non entra in azione. E se Steinberg e Shotz riusciranno a creare una storia che sappia parlare alle emozioni del pubblico di ieri e di oggi, potremmo assistere a qualcosa di più di una semplice serie: potrebbe essere l’alba di una nuova Power Rangers Renaissance.

Un universo condiviso, spin-off dedicati, speciali natalizi (perché no?), magari un nuovo film per il grande schermo. Le possibilità sono infinite – come infinite sono le forme che questo brand ha già saputo assumere nel tempo.

It’s Morphin’ Time… di nuovo!

In un’epoca in cui il panorama seriale è più affollato e competitivo che mai, riportare in auge i Power Rangers non è solo una mossa nostalgica. È una dichiarazione d’intenti. Un messaggio ai fan: non ci siamo dimenticati di voi. E un invito ai nuovi spettatori: venite a scoprire cosa significa davvero essere un Ranger.

Che dire, se siete come me, se avete passato ore a scegliere il vostro colore preferito, a gridare “Tyrannosaurus!” davanti allo specchio, o a collezionare action figure come reliquie sacre… questo annuncio è una festa. Una festa che potrebbe diventare qualcosa di epico.

E voi, siete pronti a morfare ancora una volta? Vi piacerebbe rivedere qualche volto storico come mentore, oppure siete curiosi di scoprire un team completamente nuovo? Quali sono le vostre aspettative per questa nuova serie Disney+?

Parliamone nei commenti qui sotto e, se questo articolo ha risvegliato anche solo un po’ del vostro spirito da Ranger, condividetelo sui vostri social con l’hashtag #ItsMorphinTime. Facciamolo sapere a tutti: i Power Rangers stanno tornando, e noi siamo pronti a rispondere alla chiamata.

Go Go Power Rangers! 💥

Una pallottola spuntata, il reboot con Liam Neeson uscirà il 30 luglio 2025

A distanza di più di trent’anni dall’ultima missione demenziale del tenente Frank Drebin, la polizia più sgangherata del cinema sta per tornare. Ebbene sì, “Una Pallottola Spuntata” (titolo originale: The Naked Gun) torna sul grande schermo il 30 luglio 2025 in Italia, pronto a farci sbellicare dalle risate in pieno stile slapstick. Ma attenzione: non si tratta di un remake qualsiasi. Questo nuovo capitolo è un sequel/reboot che continua la storia originale ma cambia rotta, protagonista e… baffi finti.

A raccogliere l’eredità dell’indimenticabile Leslie Nielsen c’è una scelta che definire “inusuale” è dire poco: Liam Neeson. Sì, proprio lui. L’eroe implacabile di Taken, l’uomo delle minacce al telefono, l’anima tormentata di mille drammi e action movie, qui interpreta Frank Drebin Jr., figlio del celebre tenente protagonista della trilogia originale. Una scelta azzardata? Forse. Ma anche geniale, considerando quanto la serietà granitica di Neeson potrebbe sposarsi perfettamente con l’umorismo nonsense e surreale che ha reso celebre la saga.

Un’eredità comica… a prova di banana

Per chi non lo ricordasse (e allora correte a recuperare i film!), “Una Pallottola Spuntata” nasceva come spin-off cinematografico della serie Police Squad! dei primi anni ’80, creata dal leggendario trio comico Zucker-Abrahams-Zucker. La comicità era al limite del delirio: giochi di parole, gag visive improbabili, e un ritmo comico serratissimo. A rendere il tutto ancora più divertente era proprio Leslie Nielsen, il cui volto serissimo era il veicolo perfetto per le assurdità più estreme.

Nel reboot/sequel 2025, lo spirito resta intatto, almeno a giudicare dal trailer rilasciato. Tra inseguimenti in segway, irruzioni maldestre, esplosioni (quasi tutte causate accidentalmente dalla polizia) e una scena esilarante in cui Neeson si traveste da bambina con un lecca-lecca esplosivo, le premesse sono promettenti. Il tono? Inconfondibilmente da Naked Gun.

Dietro la macchina da presa: comicità moderna e rispetto per il passato

A dirigere l’operazione c’è Akiva Schaffer, membro del collettivo The Lonely Island e regista di “Chip ‘n Dale: Rescue Rangers”, pellicola che ha dimostrato come si possa fare metacinema comico con intelligenza e originalità. La sceneggiatura è firmata da Dan Gregor e Doug Mand, duo noto per le loro scritture a metà strada tra demenzialità e cuore. Non un trio comico classico come ZAZ, certo, ma una squadra capace di maneggiare il materiale con rispetto e creatività.

Un cast improbabile ma irresistibile

Oltre a Liam Neeson, il cast è un mix esplosivo di volti noti e sorprese. Pamela Anderson interpreta un personaggio che richiama la Jane Spencer di Priscilla Presley: una donna affascinante e ambigua coinvolta in un delitto. Il suo carisma da icona anni ’90 si fonde con l’autoironia necessaria a un ruolo così assurdo. La chimica con Neeson nel trailer fa già scintille (e fa esplodere una torta nuziale…).

C’è anche Paul Walter Hauser, attore talentuoso e camaleontico (ricordate Richard Jewell?), che veste i panni del nuovo Capitano Ed, ruolo che fu dell’indimenticato George Kennedy. Con lui nel cast troviamo CCH Pounder, Kevin Durand, Cody Rhodes, Liza Koshy, Eddy Yu e Danny Huston, in una serie di ruoli probabilmente grotteschi, surreali e totalmente fuori controllo.

Perché Neeson? Perché no!

La scelta di Neeson ha fatto storcere qualche naso, ma anche sollevato molte sopracciglia per la curiosità. Lui stesso ha ammesso di essere nervoso all’idea di interpretare un personaggio comico, ma ha già dato prova del suo potenziale in ruoli autoironici (memorabile la sua comparsata nella serie Life’s Too Short e in The LEGO Movie). È proprio quella serietà inossidabile che, messa a confronto con l’assurdo, può far scattare la scintilla comica.

E poi, ammettiamolo: vedere Neeson inciampare su una buccia di banana mentre pronuncia con solennità “questa è una questione di Stato” è esattamente il tipo di cinema che non sapevamo di desiderare.

Una nuova generazione di risate

Il film non è solo un’operazione nostalgia. Pur mantenendo il cuore dell’originale, vuole avvicinare anche un pubblico giovane che magari non conosce la saga storica. L’umorismo demenziale, se ben fatto, è senza tempo. E in un’epoca in cui le commedie parodiche latitano (a parte rari casi come Scary Movie o Disaster Movie, ormai datati), un ritorno di Una Pallottola Spuntata può rappresentare un’occasione per rilanciare un genere.

Il tono sembra quello giusto, l’energia pure. Ora non resta che attendere di vedere il risultato finale.


E voi, nerd nostalgici e nuovi adepti della comicità assurda, siete pronti a tornare nella Squadra di Polizia più imbranata della storia del cinema?
Fatecelo sapere nei commenti e condividete l’articolo con i vostri amici su Facebook, Instagram o nel vostro gruppo Telegram di cinefili! La nuova pallottola spuntata è in canna… e noi non vediamo l’ora che faccia fuoco!

Addio a Aldo Hugo Sallustro, l’uomo che trasformò le figurine in cultura pop

Il mondo della cultura pop italiana piange oggi una delle sue figure più emblematiche e silenziosamente rivoluzionarie: Aldo Hugo Sallustro, storico amministratore delegato e anima del Gruppo Panini, è scomparso il 21 aprile 2025 all’età di 75 anni. E con lui se ne va non solo un manager visionario, ma anche un pezzo importante della nostra infanzia, della nostra adolescenza, dei nostri ricordi fatti di album, figurine scambiate durante la ricreazione, copertine di fumetti sfogliate avidamente.

Nato a Buenos Aires ma modenese d’adozione, Sallustro ha avuto il raro merito di guidare un’azienda profondamente radicata nella memoria collettiva italiana con la cura di un artigiano e la visione di un imprenditore globale. Era il 1991 quando prese il timone della Panini in un momento di grandi incertezze. L’azienda, passata di mano più volte, sembrava destinata a smarrirsi tra fusioni, acquisizioni e cambi di proprietà che minacciavano di farne solo un brand tra tanti. Ma Sallustro, ingegnere italo-argentino con una passione sincera per il prodotto, ha saputo trasformare quella che era “solo” una casa editrice di figurine in un colosso internazionale dell’intrattenimento e della narrazione visiva.

Panini, sotto la sua guida, ha resistito a tempeste economiche e sfide di mercato, tornando italiana nel 1999 grazie a una cordata guidata proprio da lui e da Fineldo, del Gruppo Merloni. Negli anni a seguire, con intelligenza e dedizione, Sallustro ha saputo diversificare e rilanciare il brand, portando l’azienda ad acquisire nel 2013 la divisione Disney Publishing in Italia — quella di Topolino, per capirci — e ad espandersi con forza nel mondo dei fumetti, dei manga e delle card collezionabili.

Sotto la sua direzione, Panini Comics è diventata una vera e propria fucina di sogni stampati, conquistando il cuore di generazioni di lettori e appassionati in tutta Europa e America Latina. Ha contribuito a rendere l’Italia un punto di riferimento per la pubblicazione di supereroi Marvel e DC, mantenendo però viva anche la grande tradizione fumettistica italiana. Senza dimenticare l’enorme influenza che ha avuto sul mercato editoriale giovanile, trasformando la Panini nel quarto editore europeo nel settore ragazzi.

Ma non è solo una questione di numeri — che pure parlano chiaro: 1,5 miliardi di euro di fatturato nel 2023, oltre 30 miliardi di figurine stampate ogni anno, distribuzione in 150 Paesi. È una questione di identità culturale. Sallustro ha compreso e custodito l’enorme valore affettivo delle figurine: piccoli rettangoli di carta in grado di raccontare storie, costruire miti, celebrare eroi, unire padri e figli, amici e sconosciuti. Le figurine, per molti di noi, sono state il primo approccio al collezionismo, alla narrazione per immagini, al piacere dell’attesa e della scoperta. E dietro a tutto questo, c’era lui. Un uomo che, anche quando Panini stava per essere ceduta agli americani, ha sempre lottato perché la sua anima rimanesse profondamente italiana.

Fino all’ultimo, Sallustro è rimasto attivo nella vita aziendale, lavorando in ufficio fino al venerdì precedente la sua improvvisa scomparsa. Una dedizione rara, che racconta molto più di mille discorsi sulla leadership. Perché Aldo Hugo Sallustro non era solo un manager: era un custode. Il custode della memoria di milioni di noi, che siamo cresciuti sfogliando le pagine lucide degli album Calciatori, cercando la figurina introvabile del nostro bomber preferito, leggendo Topolino ogni mercoledì, immergendoci nelle avventure di Spider-Man, di Goku, dei mutanti della Marvel, dei guerrieri Sailor.

Oggi ci lascia una figura discreta, lontana dai riflettori ma fondamentale per quello che la cultura pop italiana è diventata. Una figura che ha lavorato per far sì che ogni bustina, ogni albo, ogni card fosse non solo un prodotto, ma un frammento di immaginazione condivisa.

Alla famiglia Sallustro, alle sorelle Baroni che con lui hanno condiviso l’ultima fase della vita aziendale, a tutti i dipendenti Panini e ai fan sparsi in ogni angolo del mondo, va il nostro abbraccio.

E a te, Aldo, grazie. Per aver custodito i nostri sogni di carta. Per averli fatti crescere con noi. Per averli portati nel futuro.

Ragazze a Beverly Hills: Una Nuova Vita per l’Iconica Cher Horowitz

È incredibile come, a trent’anni di distanza dal suo debutto, Ragazze a Beverly Hills (Clueless), il film cult del 1995 diretto da Amy Heckerling, continui a essere un faro luminoso nella cultura pop degli anni ’90. Un classico senza tempo che ha segnato l’adolescenza di intere generazioni, Clueless ha non solo reinventato la commedia teen, ma ha anche lanciato un intero vocabolario di slang giovanile, uno stile inconfondibile e, naturalmente, un’icona della moda per ragazze di ogni età: Cher Horowitz. Il film, liberamente ispirato al romanzo Emma di Jane Austen, ha reso famosi i volti di Alicia Silverstone, Stacey Dash, Donald Faison e Brittany Murphy, mentre il suo spirito spensierato e l’intelligente critica sociale non sono mai passati di moda.

Ma cosa è successo a Cher e ai suoi amici di Beverly Hills dal 1995? La risposta arriva in un annuncio che ha fatto impazzire i fan: una nuova serie di Clueless è in fase di sviluppo per Peacock, con il ritorno trionfale di Alicia Silverstone nei panni della protagonista. E, sebbene i dettagli sulla trama siano ancora avvolti nel mistero, la prospettiva di rivivere le disavventure di Cher e dei suoi compagni è un sogno che si fa realtà.

Un’Icona per Tutti i Tempi

Iniziamo con l’intramontabile fascino del personaggio di Cher, che ha rappresentato l’apice dell’adolescente privilegiata e un po’ superficiale, ma allo stesso tempo genuina e con un cuore d’oro. In un’epoca in cui i film adolescenziali sembravano un po’ stagnare dopo il periodo d’oro di John Hughes, Clueless ha dato nuova linfa vitale al genere. Non solo un film divertente, ma anche un’accurata riflessione sul materialismo, sull’identità e sulle dinamiche di potere tra giovani, il tutto condito con una risata e un outfit perfetto. La moda giocava un ruolo fondamentale, diventando a sua volta un personaggio che faceva da specchio alla protagonista: i completi tartan, i top a maniche corte e i tacchi, tutto contribuiva a creare un’epoca visiva che è rimasta nell’immaginario collettivo.

Non sorprende che Clueless abbia lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare. Così tanto che, nel 2015, la rivista Entertainment Weekly lo ha inserito tra i migliori 50 film ambientati in un liceo, al settimo posto. Eppure, ciò che rende Clueless davvero speciale non è solo il suo umorismo, ma l’incredibile capacità di Amy Heckerling di mescolare il moderno con l’antico, adattando un romanzo del 1815 alla vita spensierata e materialista di Beverly Hills.

Un Ritorno tra Vecchi e Nuovi Volti

A questo punto, però, ci siamo chiesti: cosa accadrà a Cher e ai suoi amici nella nuova serie? Quali volti vedremo di nuovo sul piccolo schermo? Alicia Silverstone, che ha reso celebre il personaggio di Cher, tornerà sicuramente per raccogliere la sfida di interpretare la sua famosa teenager, ma con il passare degli anni. Potremmo trovarla nei panni di una madre che, ironia della sorte, ha una figlia altrettanto “clueless” (sarebbe il colmo, vero?). Per quanto riguarda gli altri membri del cast, ci auguriamo un ritorno di Donald Faison, il leggendario Murray, e magari qualche cameo di personaggi che hanno arricchito la storia del film. Tuttavia, la tragica scomparsa di Brittany Murphy, che interpretava la dolce e un po’ maldestra Ty, rende impossibile il ritorno di quel personaggio.

Nonostante l’assenza di alcuni volti storici, come Paul Rudd, che probabilmente ha troppe cose in agenda per riprendere il ruolo di Josh (il passo-fratello di Cher e suo potenziale interesse amoroso), la serie promette di essere una rivisitazione fresca e divertente del mondo di Beverly Hills, con una trama che, si vocifera, potrebbe vedere Cher come una madre indaffarata ma sempre alla moda.

Un Nuovo Inizio per Clueless

È curioso pensare che questa non sia nemmeno la prima serie tv ispirata al film. Già nel 1996, un anno dopo l’uscita del film, Clueless era diventato una serie televisiva, con Rachel Blanchard nel ruolo di Cher. Sebbene la serie sia durata solo tre stagioni, essa ha avuto il merito di cementare ulteriormente il posto del film nell’immaginario collettivo. E ora, con il nuovo progetto targato Peacock, la serie promette una nuova visione della storia, con elementi innovativi che potrebbero rispecchiare meglio la società moderna pur mantenendo intatto il suo spirito ironico.

Siamo pronti per tornare nella lussuosa realtà di Beverly Hills, dove l’adolescenza e l’alta società si incontrano in un mix irresistibile di risate, moda e reflexion. Come andrà a finire questa nuova avventura? Non vediamo l’ora di scoprirlo, ma nel frattempo, ci godiamo il ritorno di un’icona. Cher, stiamo arrivando!

Lost Records: Bloom & Rage – Un viaggio tra nostalgia e segreti

Lost Records: Bloom & Rage, il nuovo titolo sviluppato da Don’t Nod Montréal, ha catturato l’attenzione del pubblico fin dal suo annuncio, specialmente per la sua promessa di offrire un’avventura narrativa ricca di emozioni, introspezione e legami profondi. Il gioco, diviso in due parti – Tape 1: Bloom e Tape 2: Rage – si presenta come un’esperienza che unisce la nostalgia per gli anni ’90 a temi universali come l’amicizia, la crescita, il rimorso e la ricerca di sé. Un viaggio che parte dalle luci sfocate di un’estate adolescenziale e arriva a scontrarsi con le ombre di un passato che non può essere dimenticato. Ecco la mia interpretazione delle due parti di questo titolo, partendo dal racconto di Tape 1 per arrivare alle sue conclusioni nel secondo capitolo.

Tape 1 – Bloom: La promessa di un’estate senza fine

La prima parte di Lost Records, Bloom, ci introduce nel cuore pulsante della storia, un racconto che ruota attorno a quattro ragazze – Swann, Nora, Autumn e Kat – e alla loro amicizia che si forma in un’estate del 1995 nella piccola cittadina di Velvet Cove, nel Michigan. La trama si sviluppa in un’atmosfera malinconica e nostalgica, che ricorda le lunghe giornate estive degli anni ’90, piene di sole, falò sulla spiaggia e la scoperta di se stessi. Swann, la protagonista, è l’osservatrice del gruppo, una ragazza introversa e sensibile che racconta la propria vita attraverso una videocamera, quasi come se volesse fissare quei momenti irripetibili nel tempo. La sua lente di ingrandimento su tutto ciò che accade nel mondo circostante è un elemento centrale che permea l’intera esperienza di gioco.

La dinamica tra le quattro ragazze è il vero cuore di Bloom. Swann, pur essendo l’outsider, trova in Nora, Kat e Autumn una sorta di rifugio. Ognuna delle sue amiche è un piccolo universo a sé stante, con proprie fragilità e peculiarità. Nora è la leader del gruppo, una ragazza sicura di sé, ribelle, pronta a prendere in mano la situazione. Kat è più riflessiva, con una certa intelligenza pragmatica che la rende un punto di riferimento per le sue amiche, ma è anche la ragazza che vive nel suo mondo interiore, alle prese con una sorella problematica. Autumn, infine, è la più matura, la voce della ragione, quella che sa leggere tra le righe e che spesso si trova a fare da mediatrice.

La narrazione di Tape 1 non si limita a raccontare un’amicizia, ma esplora il processo di crescita e le sue contraddizioni, facendo luce su temi come il dolore e la liberazione. In un mondo che sembra un angolo protetto e sicuro, Swann e le sue amiche affrontano le sfide dell’adolescenza, la paura di crescere e i segreti che si celano dietro la superficie di una relazione che sembra perfetta. Le scelte che il giocatore è chiamato a fare influiscono direttamente sulla direzione della storia, rendendo ogni interazione con le altre ragazze unica e mai scontata.

Il gameplay di Bloom si fonda principalmente sulle scelte narrative, un sistema che consente al giocatore di modellare il carattere di Swann attraverso le sue risposte, ma anche di esplorare un mondo che è al tempo stesso ricco di dettagli e limitato nella sua libertà. La videocamera di Swann, purtroppo, sebbene sia un dispositivo interessante dal punto di vista tematico ed emotivo, non riesce a offrire quella sensazione di libertà che ci si aspetterebbe da una meccanica che gioca con la memoria e il ricordo. È affascinante, ma spesso ripetitiva e può risultare frustrante per chi spera in una maggiore interazione. Sebbene il gioco non offra la stessa libertà creativa che potrebbe promettere un’esperienza di esplorazione visiva più vasta, la sua bellezza risiede nel suo approccio lento e meditativo, dove ogni passo, ogni parola, ogni immagine catturata è fondamentale per il racconto che si sviluppa.

A livello tecnico, Tape 1 mostra i segni di un gioco ancora giovane, con alcune imprecisioni nelle animazioni e nei modelli dei personaggi. Non si tratta di un gioco che punta sulla perfezione grafica, ma piuttosto su un’atmosfera che deve essere avvolgente e toccante. La scrittura è il vero punto di forza, con dialoghi brillanti e autentici che si rivelano il motore emotivo dell’esperienza. Purtroppo, la mancanza di un doppiaggio in italiano potrebbe risultare un limite per molti giocatori, impedendo una completa immersione nell’esperienza. Nonostante questi difetti, la storia riesce a suscitare un’ampia gamma di emozioni, dalla gioia alla tristezza, passando per il senso di malinconia tipico delle storie di amicizia perduta e ritrovata.

Tape 2 – Rage: Il ritorno al passato e il peso del segreto

La seconda parte di Lost Records, Rage, si apre con il ritorno delle protagoniste a Velvet Cove, ventisette anni dopo gli eventi di Bloom. Il presente si mescola con il passato, e il mistero che ha segnato la fine dell’amicizia tra le ragazze viene finalmente affrontato. La trama di Rage è meno centrata sull’adolescenza e più orientata verso il confronto con le cicatrici lasciate dalla vita adulta, il dolore di una separazione, il rimorso e la difficoltà di accettare ciò che è stato.

Purtroppo, Rage non riesce a mantenere la stessa intensità narrativa della sua prima parte. Se Bloom ci aveva immerso in un mondo di emozioni forti e dinamiche relazionali affascinanti, Rage fatica a mantenere il ritmo e l’impulso narrativo. La storia, pur affrontando temi pesanti come la malattia e la perdita, rimane un po’ troppo ancorata a una struttura narrativa che non decolla mai veramente. La mancanza di colpi di scena significativi e l’assenza di un vero approfondimento dei temi paranormali accennati non aiutano a far decollare il gioco, che sembra perdere il mordente emotivo che aveva caratterizzato il suo predecessore.

Il gameplay, sebbene resti fondato sulle scelte narrative e sull’interazione con le amiche di Swann, non sembra evolversi come ci si sarebbe aspettato. La videocamera, già limitante nel primo capitolo, non viene sfruttata in modo innovativo, e i difetti tecnici, come la staticità dei personaggi o il ricorso a posizioni innaturali, compromettono ulteriormente l’immersione. La sensazione che si ha giocando Tape 2 è quella di un’opera che non riesce a capitalizzare sulla sua premessa, offrendo un finale che, purtroppo, non regala la chiusura emotiva che ci si sarebbe aspettati.

Un’opera che non raggiunge il suo pieno potenziale

Nel complesso, Lost Records: Bloom & Rage è un titolo che ha moltissimo da offrire ma che non riesce sempre a mantenere le promesse fatte dal suo inizio. La prima parte, Tape 1 – Bloom, è senza dubbio la più affascinante, con una narrazione coinvolgente, una scrittura eccellente e personaggi che riescono a farsi amare nonostante le loro imperfezioni. Tuttavia, Tape 2 – Rage non riesce a spingersi oltre e, sebbene affronti temi importanti, manca di quella scintilla narrativa che avrebbe potuto elevarlo a un livello superiore.

Lost Records rimane comunque un gioco che merita attenzione, soprattutto per gli appassionati di storie narrative ricche di emotività e riflessione. Se siete alla ricerca di un’esperienza che vi immerga nella complessità dei legami umani e nella bellezza della memoria, Bloom è sicuramente una tappa obbligatoria, ma Rage potrebbe deludere chi si aspettava una conclusione altrettanto forte. Nonostante i difetti tecnici e narrativi, il viaggio di Swann e delle sue amiche rimane un’esperienza che, seppur incompleta, sa toccare il cuore.

“Nobody Else” dei Take That torna in vinile: 30 anni dopo, il cuore batte ancora forte

Ci sono album che non sono semplicemente dischi, ma veri e propri scrigni di emozioni. Per chi, come me, ha attraversato gli anni ’90 con le cuffiette perennemente nelle orecchie e il diario pieno di cuoricini intorno a nomi come Gary, Mark, Howard, Jason e, ovviamente, lui—il ribelle per eccellenza—Robbie, il solo nominare Nobody Else fa tremare l’anima. E adesso, a trent’anni dalla sua uscita, questo capolavoro dei Take That si prepara a rivivere con una nuova, scintillante edizione celebrativa in vinile. Il 6 giugno 2025 sarà una data da segnare con un cuore rosso sul calendario: la nostra colonna sonora adolescenziale torna a far girare le testine… quelle del giradischi, ovviamente!

Sarà disponibile in diverse edizioni da collezione (e diciamocelo: le vogliamo tutte). Dalla sontuosa versione 2LP Deluxe Marbled Orange Vinyl, passando per il 1LP Translucent Pink Vinyl—un’esclusiva dello store ufficiale Take That—fino al classico 1LP nero, il 2CD e ovviamente la versione digitale, per ascoltarlo anche quando siamo in metro a cercare di sopravvivere alla vita adulta.

Ma cosa rende Nobody Else così speciale? Oh, lasciate che ve lo racconti…

Una macchina del tempo musicale

Correva l’8 maggio 1995. Io avevo i poster dei Take That sul muro, le compilation registrate dalla radio e un’ossessione per Back for Good che rasentava l’ipnotico. Quel brano—così dolce, così struggente—non era solo una canzone: era una dichiarazione d’amore adolescenziale, il sottofondo perfetto per fantasticare su amori impossibili e lettere mai consegnate. E poi c’erano Sure, con quel groove che ti faceva muovere anche se avevi due piedi sinistri, e Never Forget, che ancora oggi mi provoca i brividi al solo pensiero del coro finale.

Ecco, Nobody Else non era solo un disco. Era un manifesto. L’ultimo, peraltro, prima dello strappo: Robbie se ne va, le lacrime cadono come pioggia a Londra, e i Take That si sciolgono. Quel disco è diventato il nostro “ultimo ballo”, il nostro addio ad un’epoca. E anche per questo è rimasto impresso nel cuore con una forza emotiva devastante.

La rinascita del vinile e il richiamo della nostalgia

Che oggi esca in vinile ha un sapore speciale. È come se ci fosse una nuova occasione per rivivere tutto, ma con la maturità (e la consapevolezza) di chi ha imparato a convivere con le sue emozioni. E non finisce qui: questa edizione include anche tracce rare e inedite, tra cui la bonus track giapponese “All That Matters To Me”, registrazioni live dal tour del 1995 e, udite udite, un nuovissimo remix 2025 di “Hanging Onto Your Love” firmato da Howard Donald.

Chi, come me, ha passato interi pomeriggi a ricreare le coreografie nel salotto di casa con le amiche (rigorosamente con i calzini a righe e le t-shirt larghe) sa quanto questi dettagli facciano la differenza. Ogni versione, ogni remix, ogni demo è un pezzetto di memoria che torna alla luce, come una vecchia Polaroid ritrovata in un cassetto.

Il peso culturale dei Take That

I Take That non sono stati solo una boy band. Sono stati un fenomeno culturale, un’ancora emotiva per milioni di adolescenti in cerca di modelli, emozioni e rifugi sicuri. Hanno plasmato il nostro immaginario, sì, ma anche il nostro modo di amare. Sono stati la colonna sonora delle prime cotte, delle prime delusioni, dei primi sogni. E mentre oggi il mondo musicale sembra correre a velocità supersonica, Nobody Else ci ricorda un tempo in cui bastava premere play e tutto si fermava.

Dopo lo scioglimento, il silenzio. Poi il ritorno, nel 2005, e il nuovo inizio con Beautiful World nel 2006 (senza Robbie, però!). E infine la reunion completa con Progress nel 2010. Ma, diciamolo con onestà: Nobody Else rimane quel punto di non ritorno, quel confine emotivo che ha separato l’adolescenza dall’età adulta.

La tracklist:

01.   Sure
02.   Back For Good – Radio Mix
03.   Every Guy
04.   Sunday To Saturday
05.   Nobody Else
06.   Never Forget
07.   Hanging Onto Your Love
08.   Holding Back The Tears
09.   Hate It
10.   Lady Tonight
11.   The Day After Tomorrow

Bonus Track:

12.   All That Matters To Me – Japanese Edition Bonus Track
13.   Hanging Onto Your Love – Howard Donald’s 2025 Remix
14.   Sure – Full Pressure Mix
15.   Back For Good – Urban Mix
16.   How Deep Is Your Love
17.   Lady Tonight – Live
18.   Sunday To Saturday – Live
19.   Every Guy – Live

Adesso tocca a noi, care nostalgiche. A noi che abbiamo ancora le cassette originali e conosciamo a memoria ogni singola parola di Never Forget. È il momento di rispolverare il giradischi, di invitare le amiche di un tempo per una listening party old school, di far scoprire ai nostri figli (o ai nostri amici più giovani) cosa significava davvero “essere fan” negli anni ’90. E tu? Hai mai pianto ascoltando Back for Good o ballato come se non ci fosse un domani su Sure? Hai un ricordo speciale legato a Nobody Else? Raccontacelo nei commenti qui sotto o condividi l’articolo sui tuoi social usando l’hashtag #NobodyElse30. Facciamo rivivere insieme la magia. Perché certe emozioni, proprio come i vinili, non passano mai di moda.

Not Just a Goof: Il Documentario su In viaggio con Pippo Celebra il 30° Anniversario della Pellicola Disney

Il 7 aprile 2025, Disney+ offrirà ai suoi abbonati un documentario imperdibile per tutti i nostalgici degli anni ’90 e per gli appassionati di animazione: Not Just a Goof, un viaggio emozionante dietro le quinte di una delle pellicole più amate di tutti i tempi, In viaggio con Pippo (A Goofy Movie). Questo documentario celebra il 30° anniversario dell’uscita di una delle più iconiche produzioni Disney, che ha saputo conquistare intere generazioni di spettatori con la sua storia di amicizia, avventura e crescita personale.

Il film, che ha visto protagonisti Pippo e suo figlio Max alle prese con un’avventura on the road attraverso gli Stati Uniti, è diventato un vero e proprio cult tra i Millennial. Chi non ricorda le indimenticabili canzoni di Powerline e i tentativi di Max di conquistare la sua crush, Roxanne? In viaggio con Pippo ha saputo raccontare in modo fresco e divertente i conflitti tipici dell’adolescenza, portando sul grande schermo due personaggi che, sebbene antropomorfi, sono riusciti a risuonare con il pubblico in modo incredibilmente umano e realistico. La pellicola ha regalato una serie di momenti indimenticabili, dal ballo di “Stand Out” a Powerline, che è diventato un fenomeno virale sui social network come TikTok, dove i fan continuano a riproporre la coreografia.

In occasione di questo importante anniversario, Not Just a Goof ci porta dietro le quinte della creazione di In viaggio con Pippo, esplorando la storia mai raccontata di come il giovane team creativo abbia affrontato la realizzazione del loro primo lungometraggio Disney. Tra le figure principali troviamo il regista Kevin Lima, che all’epoca non aveva esperienza come regista né come capo della storia, ma aveva una visione chiara: voleva realizzare un film che fosse un mix tra il classico Disney e il tipico film adolescenziale in stile John Hughes, ma con personaggi antropomorfi.

Il documentario non si limita a raccontare le fasi della realizzazione del film, ma svela anche alcune delle ispirazioni reali che hanno influenzato la trama e ci mostra il processo creativo attraverso le registrazioni vocali dei membri del cast. La partecipazione di Tevin Campbell, una delle star R&B più acclamate del periodo, ha contribuito in modo fondamentale a dare vita alle canzoni di Powerline, rendendo le musiche del film incredibilmente memorabili e contribuendo al successo della pellicola. Le musiche, ancora oggi, sono fonte di nostalgia per tutti coloro che hanno vissuto quegli anni, facendo sì che In viaggio con Pippo non fosse solo un film d’animazione, ma un vero e proprio punto di riferimento culturale per un’intera generazione.

Not Just a Goof non è solo una celebrazione del film, ma una dichiarazione d’amore verso l’animazione tradizionale e i valori che In viaggio con Pippo ha trasmesso: l’importanza di capire e accettare i propri genitori, l’adolescenza come periodo di sfide e cambiamenti, e la musica come strumento di espressione personale. Per tutti coloro che sono cresciuti con la Disney negli anni ’90, questo documentario rappresenta un’occasione unica per rivivere quei momenti di pura magia, scoprendo i retroscena di una delle pellicole che ha segnato la storia del cinema d’animazione.

Con Not Just a Goof, Disney+ ci offre un’opportunità imperdibile di scoprire la storia dietro le quinte di un film che, nonostante il passare degli anni, rimane un pilastro della cultura pop degli anni ’90. Un documentario che non solo racconta la genesi di In viaggio con Pippo, ma celebra l’eredità di un film che ha saputo conquistare i cuori di milioni di persone e che, a distanza di trent’anni, continua a emozionare e ispirare nuove generazioni. Non resta che segnare il 7 aprile sul calendario e prepararsi a immergersi in una storia che non smette mai di farci sorridere.

Cartoni Animati e Sviluppo Cognitivo: Il Passato Batte il Presente?

Negli ultimi decenni, il mondo dell’animazione ha subito una trasformazione radicale, passando dai classici cartoni della nostra infanzia nerd a prodotti moderni caratterizzati da ritmi serrati e stimoli visivi incessanti. Secondo la neuropsichiatra Zabina Bhasin, questa evoluzione non ha necessariamente giovato alle nuove generazioni: anzi, i cartoni animati del passato sembrano avere un impatto più positivo sullo sviluppo cognitivo dei bambini rispetto a quelli contemporanei. La differenza principale risiede nella qualità della narrazione, nei valori trasmessi e nel modo in cui queste opere interagiscono con la mente infantile.

Tra gli anni ’60 e gli anni ’90, l’animazione visse una sorta di epoca d’oro, con serie che ancora oggi occupano un posto speciale nella memoria collettiva. Titoli come “Goldrake”, “Saint Seiya”, “Heidi”, “Candy Candy”, “Lupin III”, “Occhi di Gatto”, “Doraemon”, “Anna dai Capelli Rossi”, “Holly e Benji”, “Mila e Shiro”, “Sailor Moon” e “Ken il Guerriero” erano più di semplici prodotti di intrattenimento: erano strumenti di crescita, veicoli di insegnamenti morali e fonte di ispirazione per i giovani spettatori. Anche i classici occidentali, come “Scooby-Doo”, “Gli Antenati” e “Tom & Jerry”, pur avendo un taglio comico e leggero, offrivano spunti di riflessione sulla società e sulla famiglia.

 

Ma cosa rendeva questi cartoni così speciali?

Innanzitutto, il ritmo narrativo. A differenza delle produzioni moderne, spesso frenetiche e caratterizzate da un montaggio rapido, i cartoni dell’epoca concedevano più spazio all’approfondimento emotivo e alla costruzione dei personaggi. Le transizioni erano fluide, i dialoghi ben strutturati e i momenti di pausa non erano riempiti da effetti sonori invadenti. Questo approccio permetteva ai bambini di sviluppare una maggiore capacità di concentrazione e di apprendere in modo più efficace.

Inoltre, la componente didattica era molto più marcata rispetto a oggi. Molti cartoni erano progettati con l’intento di educare, come “Siamo Fatti Così”, che spiegava il funzionamento del corpo umano in modo chiaro e accessibile, oppure “Heidi”, che insegnava il valore della semplicità e dell’amore per la natura. Anche nelle serie d’azione come “Dragon Ball”, “Thundercats” o “I Cavalieri dello Zodiaco”, il messaggio di fondo era spesso legato all’amicizia, al coraggio e alla perseveranza.

Un altro aspetto fondamentale era la qualità dell’animazione. Le produzioni degli anni ’80 e ’90 si distinguevano per i disegni dettagliati e le animazioni curate, spesso realizzate con tecniche tradizionali che conferivano un tocco artistico unico. Anche i personaggi erano più sfaccettati e realistici rispetto alle figure stereotipate che popolano molti cartoni moderni. Gli eroi non erano semplici archetipi, ma individui con debolezze, paure e sogni. Lady Oscar, ad esempio, incarnava un modello di indipendenza e forza femminile in un’epoca in cui le protagoniste femminili erano spesso relegate a ruoli secondari.

Oggi, invece, i cartoni animati tendono a essere più commerciali e orientati al consumo. Molte serie sembrano progettate con l’obiettivo principale di vendere giocattoli e accessori, piuttosto che raccontare una storia significativa. La CGI, sebbene offra possibilità tecniche avanzate, ha portato spesso a una semplificazione delle animazioni e a una perdita di quel calore artigianale che caratterizzava i cartoni del passato.

Un fenomeno interessante che potrebbe rappresentare una risposta a questa deriva è la “Slow TV”, una corrente che promuove esperienze visive più rilassate e meno caotiche.

Cartoni come “Winnie The Pooh”, “Franklin la Tartaruga” e “The Little Bear” incarnano perfettamente questa filosofia, proponendo trame lineari e ambientazioni serene, in netto contrasto con la frenesia di molte produzioni attuali. Questa tendenza potrebbe offrire ai bambini un’alternativa più sana e bilanciata, riducendo l’iperstimolazione e migliorando la loro capacità di autoregolazione.

Ma quali sono i rischi legati ai cartoni moderni?

Secondo la dottoressa Bhasin, la velocità delle scene, i colori sgargianti e i suoni aggressivi possono avere conseguenze negative sul cervello in via di sviluppo. L’iperstimolazione può portare a difficoltà di concentrazione, irritabilità, sintomi di ansia e iperattività. Inoltre, molti bambini che crescono con contenuti troppo frenetici mostrano difficoltà a gestire la noia senza uno schermo, sviluppando una dipendenza precoce dai dispositivi digitali.

Per questo motivo, è importante che i genitori scelgano con attenzione i contenuti che i loro figli guardano. Se sei un genitore appassionato di animazione, potresti riscoprire insieme ai tuoi bambini i classici del passato, offrendo loro un’esperienza più equilibrata e arricchente. Il futuro del loro cervello potrebbe dipendere proprio da questa semplice scelta: optare per un racconto ben costruito e significativo, piuttosto che per un prodotto pensato solo per attirare l’attenzione con stimoli continui. In un mondo che corre sempre più veloce, forse la vera rivoluzione è tornare a guardare i cartoni con il ritmo e la magia di un tempo.

Diva Futura: Un Viaggio Nella Trasgressione degli Anni ’90, tra Erotismo e Contraddizioni

Immaginatevi un’Italia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, dove l’adolescenza era scandita da momenti di pura esplorazione, spesso accompagnati da un brivido di imbarazzo. Quella che oggi potrebbe sembrare una semplice fase di crescita, all’epoca era un vero e proprio rito di passaggio: scoprire il mondo della “TV hard” in un’era in cui la censura non aveva ancora ben definito i confini tra innocenza e trasgressione. Ed è proprio su questa linea sottile che si sviluppa il nuovo film Diva Futura, scritto e diretto da Giulia Louise Steigerwalt, un’opera che ci catapulta in un’Italia che cerca di ridefinire i propri tabù, tra drammi e commedie.

Con un cast stellare che include Pietro Castellitto, Barbara Ronchi, Denise Capezza, Tesa Litvan e Lidija Kordić, Diva Futura promette di essere una riflessione potente e ironica sull’immaginario collettivo degli anni ’90, un periodo di grandi contraddizioni, ma anche di libertà inaspettate. Il film, che arriverà al cinema il 6 febbraio, racconta le vicende legate all’agenzia italiana di casting e produzione Diva Futura fondata da Riccardo Schicchi e Ilona Staller (la celebre Cicciolina), una realtà che ha avuto un ruolo cruciale nella definizione della pornografia italiana e internazionale. L’agenzia, tra il 1983 e il 2021, è stata una delle colonne portanti di un’industria che si è fatta strada tra incertezze morali e un’inquietante fascinazione popolare.

La storia prende vita attraverso gli occhi di Debora Attanasio, una giovane segretaria che, alla disperata ricerca di un impiego per pagare il mutuo, si trova catapultata in un mondo sconosciuto e controverso. La sua avventura inizia con un lavoro presso l’agenzia Diva Futura, dove entra in contatto con i grandi nomi del mondo del porno italiano, come Ilona Staller (Cicciolina), Moana Pozzi e Éva Henger. A un primo sguardo, l’agenzia sembra una normale produzione cinematografica, ma sotto la superficie si nascondono gelosie, vendette e inganni, che contribuiscono al lento declino di una realtà che, negli anni ’80 e ’90, ha segnato profondamente la cultura popolare italiana.

Ma Diva Futura non è solo un racconto di intrighi e scandali nel mondo della pornografia. È anche una riflessione sulla percezione del corpo, del desiderio e della moralità in un’epoca in cui l’Italia, e più in generale il mondo, stava attraversando una profonda trasformazione sociale e culturale. I produttori Riccardo Schicchi e Massimiliano Caroletti, figure emblematiche nel contesto della produzione erotica, sono ritratti come eroi tragici, attori di una scena che si consuma lentamente, con una bellezza decadente che pervade ogni fotogramma del film.

Quello che emerge dal film è il contrasto tra l’emancipazione femminile e il suo sfruttamento, tra l’estetica del piacere e le ombre della realtà che si cela dietro la macchina da presa. Le protagoniste, come le stesse star del porno, sono figure ambigue, che oscillano tra il desiderio di liberazione e la consapevolezza del proprio ruolo in una macchina mediatica che le trasforma in oggetti di consumo. In questo gioco di potere e vulnerabilità, Diva Futura riesce a raccontare la complessità dei personaggi e delle relazioni, senza mai cadere nella trappola della moralizzazione.

In un film che affonda le radici in un’epoca che sembra ormai lontana, ma che conserva una sua potenza evocativa, l’elemento nostalgico è inevitabile. La fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 sono momenti cruciali per la società italiana, un periodo in cui le regole morali erano ancora molto rigide, ma che si stava preparando a fare i conti con una nuova percezione della sessualità e della pornografia, spesso alimentata dalla televisione. Ed è proprio questo contrasto tra il desiderio di esplorare e la paura del giudizio che pervade ogni fotogramma del film, che ci riporta a un’epoca in cui ogni piccolo gesto, ogni clic sul telecomando, sembrava poter sconvolgere l’equilibrio di un’intera famiglia.

Nel racconto di Diva Futura, l’adolescenza diventa metafora di una società che naviga nell’incertezza, in cerca di nuove identità, ma anche di una comprensione più profonda di se stessa. La produzione, curata da Groenlandia, Piper Film e Rai Cinema, affida alla regista Giulia Louise Steigerwalt la responsabilità di raccontare questa storia con un linguaggio cinematografico che miscela dramma e ironia, risate e riflessioni. Il film è stato presentato in anteprima alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e ha già suscitato molta curiosità tra il pubblico e la critica, promettendo di diventare un cult per gli appassionati di cinema e di cultura pop.

Con un’uscita programmata per il 6 febbraio, Diva Futura è il film che non teme di svelare l’intimità e le contraddizioni di un’Italia che, nel cuore degli anni ’90, stava cercando di ridefinire se stessa. Un film che, tra risate, imbarazzi e riflessioni, ci fa rivivere un’epoca di trasgressione, curiosità e crescita, mostrando quanto i confini tra il proibito e il desiderato siano, in fondo, sempre più sfumati di quanto non vorremmo ammettere.

I segreti dell’isola misteriosa: tra dinosauri, avventure anni ’90 e nostalgia

Nel vasto panorama degli anime degli anni ‘90, I segreti dell’isola misteriosa si distingue come un titolo che, pur senza raggiungere la fama di altre opere del tempo, ha saputo conquistare una nicchia di appassionati grazie al suo mix di avventura, fantasia e nostalgia.

Un gruppo di giovani scout si imbarca in una spedizione verso l’isola di Bonarl. Tuttavia, una misteriosa turbolenza li trasporta in un luogo sconosciuto, un mondo in cui i dinosauri non si sono mai estinti e convivono con civiltà umane oppresse da un regime teocratico che ripudia la tecnologia. Il risultato è una narrazione che unisce temi classici come la sopravvivenza e l’amicizia, con un’ambientazione preistorica carica di fascino e pericoli.

Il gruppo di protagonisti si distingue per i soprannomi che evidenziano le loro personalità: Capo, Presidente, Tigre, God, Serpente, Otaku, e altri ancora. Questa scelta aiuta lo spettatore a identificare rapidamente i personaggi, ma rischia di ridurli a stereotipi, con pochi che godono di un reale sviluppo narrativo. Dei 14 ragazzi, solo una manciata emerge come figure attive, lasciando gli altri sullo sfondo come comparse.

L’anime prende ispirazione dal romanzo di Jules Verne Due anni di vacanze, ma ne semplifica le tematiche più complesse per renderle adatte a un pubblico giovane. Questo approccio sacrifica parte della profondità narrativa, trasformando situazioni potenzialmente drammatiche in momenti leggeri e talvolta banali. Le frequenti dispute tra Capo, God e Serpente, ad esempio, diventano presto ripetitive, privando la trama di una vera evoluzione emotiva. L’isola misteriosa, con i suoi dinosauri e civiltà umane, rappresenta il cuore pulsante della serie. Tuttavia, alcune scelte narrative minano la coerenza dell’ambientazione. I Vocesauri, dinosauri in grado di comunicare con gli umani, inizialmente affascinano ma finiscono per diventare caricature. Elementi come i “Punksauri”, velociraptor armati di fruste, o dinosauri che combattono con tecniche di arti marziali, portano l’anime verso un registro grottesco che ne riduce l’impatto.

L’anime cerca di trasmettere un messaggio ecologista, raccontando di una possibile armonia tra uomini e natura. Tuttavia, il tono spesso didascalico e la risoluzione semplicistica dei conflitti penalizzano la profondità del messaggio. I momenti di tensione si risolvono in modo prevedibile, spesso attraverso sacrifici eroici o soluzioni buoniste.

Dal punto di vista tecnico, I segreti dell’isola misteriosa risente di un budget limitato. Le animazioni sono funzionali ma prive di guizzi, e il character design, frutto della collaborazione italo-giapponese, è poco ispirato. La colonna sonora, pur gradevole, non riesce a elevare l’opera, mentre il ritmo narrativo soffre di episodi filler che spezzano la tensione.

Nonostante i suoi limiti, l’anime conserva un fascino nostalgico per chi l’ha seguito negli anni ’90. È un’opera che, pur non eccellendo, offre uno spaccato interessante del periodo, mostrando come la cultura giapponese abbia reinterpretato i classici occidentali. Per gli appassionati di anime vintage e storie di avventura, rappresenta un’esperienza curiosa. Per tutti gli altri, rimane una produzione di nicchia, intrigante ma non essenziale.

Hai paura del buio? La Serie Che Ha Fatto Tremare Generazioni

Hai paura del buio?” (originalmente Are You Afraid of the Dark?) è una serie televisiva canadese che ha segnato un’intera generazione di giovani spettatori tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90. In onda per la prima volta nel 1992 e trasmessa fino al 1996, la serie ha saputo mescolare il brivido del mistero con una narrazione che affascinava i più giovani, trattando temi paranormali e horror in modo adatto a un pubblico pre-adolescente. Ma nonostante fosse concepita per i più piccoli, “Hai paura del buio?” ha un forte impatto anche sugli adulti che, pur essendo ormai distaccati dalle paure infantili, continuano a ricordare con affetto la serie.

La serie ruota attorno a un gruppo di ragazzi che si chiamano “Il Club di Mezzanotte”. Ogni settimana, si riuniscono intorno a un fuoco, dove raccontano storie di paura e mistero. Il format della serie è di tipo antologico, il che significa che ogni episodio è una storia a sé stante, che esplora temi di horror e fantascienza. Ogni racconto presenta una trama separata, con un focus su eventi misteriosi e paranormali che intrappolano i protagonisti in situazioni inquietanti. Gli episodi sono abbastanza brevi, circa 20 minuti ciascuno, ma in grado di lasciare una sensazione di suspense che rimane anche dopo la fine della puntata.

Con il suo tono fiabesco ma allo stesso tempo inquietante, “Hai paura del buio?” riesce a mescolare il mistero con l’emozione, giocando sulle paure primordiali come l’ignoto e il soprannaturale. Non c’è violenza esplicita o scene troppo macabre, ma la serie ha comunque il potere di inquietare, costruendo tensione in modo sottile e progressivo.

La genesi e l’evoluzione della serie

L’incredibile successo della prima serie, che ha visto 65 episodi distribuiti in cinque stagioni, portò alla produzione di una seconda serie nel 1999. Questa nuova stagione si è arricchita di nuovi personaggi e nuove storie, ma mantenendo intatto l’impianto narrativo che aveva reso la serie così popolare. La sesta e la settima stagione, che hanno continuato a raccontare storie spaventose, hanno visto il ritorno di alcuni vecchi personaggi, ma anche l’ingresso di nuovi protagonisti, come Quinn, Megan e Vange.

Anche se la serie è stata chiusa nel 2000, “Hai paura del buio?” è riuscita a sopravvivere nell’immaginario collettivo, tanto che nel 2019 è stata rilanciata con una nuova stagione, che ha visto la realizzazione di tre episodi, seguiti da una seconda parte nel 2021, composta da sei episodi. Sebbene i nuovi episodi non abbiano raggiunto lo stesso successo della serie originale, hanno comunque riacceso l’interesse per il mondo creato negli anni ’90.

Personaggi e interpretazioni

Tra i volti che hanno popolato le varie stagioni della serie, alcuni sono diventati veri e propri icone per i fan. La prima serie ha visto protagonisti Gary, interpretato da Ross Hull, e Kiki, interpretata da Jodie Resther, due membri fondamentali del “Club di Mezzanotte”. Accanto a loro, c’erano anche personaggi come Frank (Jason Alisharan) e Betty Ann (Raine Pare-Coull), i cui racconti si intrecciavano in modo sempre affascinante, portando a nuove e misteriose avventure.

Nel corso delle stagioni, si sono alternati altri protagonisti come Tucker (Daniel DeSanto), che ha fatto il suo ingresso dalla terza stagione, e Samantha (Joanna García), il cui personaggio ha dato un tocco di novità e freschezza alla trama. Ogni episodio, infatti, vedeva l’ingresso di nuovi volti e nuove storie, pur mantenendo sempre il nucleo centrale di ragazzi coraggiosi che sfidano la paura per risolvere misteri che vanno al di là della comprensione umana.

L’impatto culturale e l’eredità della serie

Seppur concepita per un pubblico giovane, “Hai paura del buio?” ha avuto un impatto che va oltre la semplice nostalgia. La serie ha offerto un’opportunità unica di esplorare temi horror in modo che fosse accessibile a una fascia di età ancora troppo giovane per affrontare gli spaventi più forti di film o serie televisive adulte. La tematica dell’ignoto, della paura e dell’esplorazione, così come la presenza di personaggi giovanissimi che affrontano mostri e misteri, hanno rappresentato un’esperienza catartica per tanti bambini, che attraverso la serie sono entrati in contatto con un genere che, in altri contesti, sarebbe stato troppo inquietante.

L’aspetto che rende ancora oggi “Hai paura del buio?” così affascinante è la sua capacità di creare tensione senza ricorrere a effetti speciali eccessivi o a violenza grafica. La paura qui è suggerita, insinuata nei dettagli, nel non detto, nel mistero che avvolge ogni episodio. Questo approccio ha lasciato una traccia indelebile nel cuore di tanti che l’hanno seguita negli anni ’90, e l’eco di quella sensazione di inquietudine persiste anche nei più grandi.

“Hai paura del buio?” è una serie che ha conquistato il cuore di molti grazie alla sua capacità di raccontare storie di paura e mistero in modo coinvolgente e adatto a un pubblico giovane. La sua struttura antologica, i personaggi carismatici e le storie affascinanti l’hanno resa un culto della televisione per ragazzi. Nonostante siano passati più di vent’anni dalla sua conclusione, la serie rimane un pilastro della cultura popolare per chi ha vissuto l’infanzia negli anni ’90, un punto di riferimento per l’horror adolescenziale e un trampolino di lancio per un genere che, a distanza di anni, continua ad affascinare le nuove generazioni.

35 anni di Bayside School. La sitcom che ha segnato un’epoca degli anni ’90

35 anni da andava in onda il primo episodio di Bayside School (titolo originale Saved by the Bell) la sitcom che, pur essendo una pietra miliare degli anni ’90, ha lasciato un segno indelebile nelle generazioni che l’hanno seguita. Quando la serie debuttò negli Stati Uniti nel 1989, fu subito un successo, tanto da diventare un appuntamento imperdibile per tutti gli adolescenti americani. In Italia, il pubblico la conobbe grazie alla trasmissione su Italia 1 dal 1992 al 1994, in quella fascia oraria tardo pomeridiana che faceva da ponte tra scuola e tempo libero, facendola entrare nel cuore di molti giovani.

La serie nasce come spin-off di Good Morning, Miss Bliss, una sitcom ambientata in una scuola media di Indianapolis, che però non riuscì a guadagnarsi il favore del pubblico e fu cancellata dopo appena una stagione. Nonostante questo, la base di partenza e alcuni personaggi, tra cui il protagonista Zack Morris, furono ripresi e trasformati in una nuova produzione che avrebbe segnato un’epoca.

Al centro della trama di Bayside School c’è un gruppo di amici che frequentano la Bayside High School di Pacific Palisades, un quartiere di Los Angeles. Tra questi spicca Zack Morris (Mark-Paul Gosselaar), il classico ragazzo biondo e affascinante che riesce sempre a cavarsela con un sorriso e una battuta. Con la sua astuzia e il suo carisma, riesce a farsi largo tra le situazioni più complicate, ma c’è un ostacolo da superare: l’invincibile A.C. Slater (Mario Lopez), un atleta muscoloso con un forte senso di orgoglio per le sue origini portoricane. Entrambi si contendono il cuore di Kelly Kapowski (Tiffani-Amber Thiessen), la cheerleader più desiderata della scuola, una delle icone della serie.

Ma Bayside School non è solo Zack e Kelly: ci sono anche Jessie Spano (Elizabeth Berkley), la ragazza intraprendente e sempre impegnata in cause giuste, che ha una relazione altalenante con Slater, e Lisa Turtle (Lark Voorhies), la fashionista sempre alla ricerca degli ultimi trend e impegnata in gossip e pettegolezzi. Tuttavia, è un altro personaggio che ha davvero catturato il cuore del pubblico: Samuel “Screech” Powers (Dustin Diamond). Goffo, impacciato e con una passione per la scienza, Screech è il classico nerd che non riesce a conquistare la ragazza, ma che riesce comunque a farsi amare grazie al suo spirito geniale e alla sua innata comicità. La sua vulnerabilità, mescolata a un’innocenza che lo rendeva unico, è ciò che lo ha reso uno dei personaggi più amati della serie.

Ambientata principalmente nella Bayside High e nel bar Max, il punto di ritrovo dei ragazzi, la serie ha avuto anche alcuni episodi girati in location iconiche come un country club a Malibù, un hotel a Palm Desert, e il centro commerciale di Pacific Palisades, luoghi che hanno contribuito a creare l’atmosfera unica della serie. Il bar Max, gestito dal mago Max (Ed Alonzo), è diventato il luogo di molte delle scene più divertenti e indimenticabili, dove i ragazzi si riunivano per rilassarsi e condividere le loro avventure.

Oggi, a distanza di più di trent’anni dalla sua messa in onda, Bayside School potrebbe sembrare un po’ datata. Alcune dinamiche narrativo-temporali potrebbero apparire un po’ semplici o quasi inconcepibili per i tempi moderni, eppure non si può negare il suo impatto duraturo. La serie ha saputo raccontare le gioie e le difficoltà dell’adolescenza con una freschezza che, sebbene oggi possa sembrare elementare, all’epoca risuonava profondamente con milioni di giovani spettatori. Il mix perfetto di comicità, emozioni genuine e piccole dosi di dramma ha creato una formula che ha catturato il pubblico di tutto il mondo.

Il successo della serie ha dato vita a vari spin-off, sequel e film. Uno dei più noti è Bayside School – Un anno dopo, che racconta la vita universitaria di alcuni dei protagonisti. Non possiamo dimenticare nemmeno Bayside School – La nuova classe, un reboot che introduce una nuova generazione di studenti alla Bayside High, e il film Bayside School – Il film, che racconta le nozze di Zack e Kelly. Ma il vero ritorno al successo è arrivato nel 2020, quando è stato realizzato un reboot della serie intitolato semplicemente Saved by the Bell. Questa nuova versione ha visto il ritorno di alcuni dei personaggi originali, ormai adulti, e l’introduzione di nuovi protagonisti, rappresentando in modo più contemporaneo le dinamiche adolescenziali, ma senza perdere il cuore della serie.

Ciò che rende Bayside School davvero speciale è il modo in cui ha saputo cogliere e rappresentare le problematiche degli adolescenti, i loro sogni, le loro paure e le loro amicizie. Nonostante il suo approccio leggero e la sua narrativa semplice, la serie è riuscita a diventare un pezzo di storia della televisione. E sebbene le nuove generazioni possano trovare alcune situazioni un po’ antiquate, per chi ha vissuto quegli anni, Bayside School rappresenta una parte di adolescenza che merita di essere riscoperta, apprezzata e celebrata, un vero e proprio culto che ha segnato un’epoca.

The Lion Trophy show: il gioco interattivo che ha fatto la storia della TV

Ci sono trasmissioni che, a distanza di anni, smettono di essere semplici programmi televisivi e diventano vere e proprie icone generazionali. È il caso del The Lion Trophy Show, un format che ha fatto battere il cuore a migliaia di giovani spettatori italiani negli anni ’90 e che ancora oggi viene ricordato con un misto di nostalgia, affetto e meraviglia. Preparati a fare un tuffo nel passato, perché stiamo per raccontarti tutto — ma proprio tutto — su uno dei programmi più innovativi, bizzarri e pionieristici della storia della tv italiana.

Quando la tv diventava joystick

Trasmettere un game show interattivo negli anni ’90? Da casa? Con il telefono fisso? Sembra quasi fantascienza, e invece è quello che ha fatto The Lion Trophy Show, andato in onda su TMC dal 1994 al 1996 e successivamente su TMC 2 dal 1997 al 2000. Il format nasce come operazione di co-marketing legata allo snack Lion della Nestlé, la famosissima barretta croccante e caramellosa che, ancora oggi, popola scaffali e dispense dei golosi. Ma il programma non si limitava a promuovere un prodotto: lo trasformava in un’esperienza di gioco e intrattenimento che univa mondi apparentemente lontani — tv, pubblicità, videogame e tecnologia — e li faceva interagire in tempo reale.

I concorrenti, selezionati da casa, si collegavano telefonicamente e usavano i tasti del telefono a toni (lo ricordi? Il caro vecchio fisso con i pulsantoni) come se fosse un joystick. Premendo le cifre, controllavano sullo schermo il personaggio di Lion, il leone mascotte, facendolo saltare, schivare ostacoli, raccogliere bonus e affrontare nemici su percorsi a scorrimento che ricordavano i platform più amati del periodo, da Super Mario a Sonic.

Sette edizioni di pura adrenalina

Il successo fu tale da portare a ben sette edizioni. Alla conduzione si alternarono volti iconici come Emily De Cesare, Adriana Volpe e Eleonora Di Miele, che con simpatia, leggerezza e quella punta di entusiasmo un po’ naïf tipica dei programmi per ragazzi, guidavano i concorrenti e tenevano viva l’interazione con il pubblico. Non era solo questione di gioco: il The Lion Trophy Show era un’esperienza collettiva, una sorta di rito pomeridiano per giovani gamer e curiosi che sognavano di vedere il proprio nome scorrere sullo schermo o, meglio ancora, partecipare in diretta.

Un laboratorio di innovazione televisiva

Oggi siamo abituati a show interattivi, second screen, app, votazioni in tempo reale, realtà aumentata… ma nel 1994 tutto questo era semplicemente avanguardia. Il The Lion Trophy Show fu uno dei primi programmi italiani a sperimentare con la grafica computerizzata, unendola all’intrattenimento tradizionale e introducendo un livello di coinvolgimento mai visto prima. La possibilità di controllare un videogioco in diretta, davanti a milioni di telespettatori, era pura magia.

Nel 1997, il format si reinventò con il nome di Lion Network, ampliando contenuti e target: non più solo videogiochi, ma musica, moda, cultura pop giovanile. Era una finestra aperta su tutto ciò che faceva tendenza tra i ragazzi, un mix tra varietà e magazine che cercava di catturare l’universo giovanile a 360 gradi.

Un fenomeno culturale (con luci e ombre)

The Lion Trophy Show non fu solo un gioco: fu un fenomeno culturale. Ha segnato un’epoca in cui la tv cercava nuove strade per dialogare con i giovani, anticipando linguaggi e modalità che avrebbero trovato pieno sviluppo solo anni dopo. Non sorprende che ancora oggi se ne parli in studi, analisi e articoli di critica televisiva: c’è chi ne esalta la carica innovativa, chi sottolinea le ingenuità tecniche e chi riflette sui limiti del modello pubblicità-spettacolo.

Ma per i fan di quegli anni, le luci degli studi, le urla dei conduttori, le mani tremanti sui tasti del telefono e la corsa sfrenata del leone tra piattaforme e ostacoli restano immagini indelebili. Era un tempo in cui bastava un telefono e una buona dose di fortuna per diventare protagonisti in tv — un sogno che oggi, nell’epoca degli influencer e dei social, ha assunto forme completamente diverse, ma che mantiene intatto il fascino dell’interazione.

La nostalgia dei fan

Non stupisce che su YouTube spuntino video nostalgici e che sui social ci siano community dedicate a ricordare i momenti più epici del programma. C’è chi racconta la tensione di quando riuscì a partecipare, chi conserva ancora le vecchie registrazioni in VHS, chi rimpiange i pomeriggi passati davanti allo schermo a tifare per perfetti sconosciuti, ma legati da una stessa passione.

In fondo, il The Lion Trophy Show ci ha insegnato che la tecnologia può essere un ponte tra mondi diversi, che la tv può diventare un gioco e che anche una barretta di cioccolato può trasformarsi in un’avventura.

Se anche tu eri tra quelli che, negli anni ’90, sognavano di guidare Lion tra mille peripezie, faccelo sapere! Commenta questo articolo raccontandoci il tuo ricordo, condividilo con i tuoi amici nerd e nostalgici sui social e aiutaci a tenere viva la memoria di uno dei programmi più folli, teneri e innovativi della nostra tv. Chi ha detto che il vintage non è pop?

Il ritorno di Prezzemolo: il draghetto di Gardaland festeggia 25 anni di fumetti e conquista grandi e piccini!

A 25 anni dalla pubblicazione del primo numero, avvenuta nell’aprile del 1995, torna “Prezzemolo”, il giornalino che racconta le avventure dell’amata mascotte del Parco Divertimenti Gardaland. In occasione di questa importante ricorrenza sono stati infatti realizzati alcuni numeri speciali scaricabili gratuitamente dal sito gardaland.it e pubblicati tra aprile e maggio; ciascun numero propone due episodi con protagonisti Prezzemolo e i suoi amici e due pagine dedicate alla scienza, con divertenti esperimenti che i piccoli lettori possono facilmente riproporre nella propria abitazione.

In un momento così difficile nel quale i bambini sono costretti a casa e il Parco rimane chiuso, Gardaland vuole essere vicino ai suoi fan facendo vivere fantastiche avventure attraverso la sua amatissima mascotte in attesa di poterla riabbracciare dal vivo. Non sono poi mancati sui social media del Parco le interazioni con i fan e i ringraziamenti da parte di tutti coloro che da piccoli erano appassionati lettori del giornalino; grazie ai nuovi numeri speciali hanno infatti potuto addolcire questo periodo rivivendo i loro ricordi di infanzia e condividendoli oggi con i loro figli. Tanti anche gli affezionati che hanno voluto condividere le foto di qualche numero conservato durante gli anni, a dimostrazione del loro legame con il simpatico draghetto e con Gardaland.

Per questi tre numeri speciali i testi e i disegni delle storie a fumetti sono stati curati interamente da Lorenzo De Pretto, storico autore del giornalino che torna così a raccontare le vicende del simpatico draghetto. De Pretto si può considerare a tutti gli effetti il “papà” del Prezzemolo che oggi tutti conoscono; la figura del draghetto verde esisteva già dal 1975, anno di apertura di Gardaland, ma è solo nel 1993 che il giovane fumettista veneto vinse un concorso lanciato dal Parco e ridisegnò la mascotte donandogli l’aspetto che ancor oggi tutti amano. Qualche anno dopo, nell’aprile del 1995, il tenero draghetto dalle lunghe orecchie divenne l’eroe di un albo a fumetti edito, per il primo anno, da FPM Editore; pochi numeri dopo al fianco di Prezzemolo vennero aggiunti i suoi inseparabili amici Aurora, Mously, Bambù, Pagui e l’antagonista T-Gey. Il giornalino – edito successivamente da Egmont Publishing e da Gaghi Editrice – venne pubblicato fino all’ottobre del 2006, con uscite mensili nel periodo di apertura del Parco; alla realizzazione dei numeri, sempre supervisionati da De Pretto, si alternarono negli anni 25 disegnatori e 15 sceneggiatori, tra i quali Giuseppe Ferrario, “papà” del personaggio Mously.

Il fumetto riscosse un notevole successo, con una tiratura annua di circa 35.000 copie per ciascun numero, divenendo un oggetto di culto sia per i bambini che per tantissimi appassionati di fumetti, che negli anni hanno continuato a collezionarne i numeri. Dal 2002 al 2007, Prezzemolo e i suoi amici divennero inoltre protagonisti di un cartone animato molto apprezzato fin dalla prima edizione e che venne poi più volte riproposto da Mediaset. Grazie ai fumetti prima e al cartone animato poi, Prezzemolo è divenuto un personaggio conosciuto e apprezzato in tutta Italia, che continua a rappresentare sinteticamente Gardaland agli occhi del pubblico. Nonostante siano passati tanti anni – più di quaranta! – e tantissime siano le avventure che hanno coinvolto il draghetto verde Prezzemolo, lui non ha mai perso il suo smalto (verde!) e continua a far innamorare migliaia di ospiti del Parco.