La prima cosa che colpisce guardando “A Widow’s Game” (La viuda negra), il nuovo film thriller disponibile su Netflix, non è soltanto l’intensità della recitazione o la regia precisa e claustrofobica, ma la consapevolezza che ciò che vediamo sullo schermo non è frutto della fantasia di uno sceneggiatore, bensì il riflesso oscuro di una storia vera. Una di quelle vicende che ti lasciano interdetto, che scavano nei recessi dell’animo umano e fanno emergere una verità più torbida di qualsiasi fiction. A Widow’s Game racconta infatti uno dei casi giudiziari più controversi e seguiti nella storia recente della Spagna: il delitto di Patraix. Ed è proprio da questo omicidio efferato che prende le mosse il film interpretato da Tristán Ulloa.
Tutto inizia in un caldo pomeriggio d’estate, il 16 agosto del 2017. A Valencia, nel quartiere di Patraix, viene rinvenuto in un garage il cadavere di Antonio Navarro Cerdán, 35 anni, ingegnere, con sette coltellate inferte con ferocia chirurgica. Il corpo giace a terra, bocconi, e la scena appare subito sospetta agli investigatori. Nessun segno di rapina, nessuna effrazione. Chi ha ucciso Antonio lo conosceva. Lo aspettava. La polizia, sin dalle prime ore, concentra i sospetti sull’ambiente familiare e, soprattutto, sulla moglie della vittima: María Jesús Moreno Cantó, detta “Maje”.
Maje, infermiera dal volto angelico e l’animo enigmatico, è una figura che sembra uscita da un romanzo di Patricia Highsmith. All’apparenza affranta per la morte del marito, si muove tra interviste e dichiarazioni pubbliche con una compostezza che ben presto insospettisce anche l’opinione pubblica. Dietro quella maschera di dolore si celava una doppia vita fatta di bugie, relazioni extraconiugali e una sete di controllo che avrebbe portato al sangue.
Nel novembre del 2017, la polizia intercetta una telefonata cruciale tra Maje e Salvador Rodrigo Lapiedra, collega e amante, un uomo più grande di lei, fragile e manipolabile, che da tempo orbitava nella sua rete. La conversazione svela legami troppo stretti e dinamiche che poco hanno a che fare con la tragedia appena consumata. Il puzzle si compone lentamente, pezzo dopo pezzo. E quando Salvador confessa, accompagnando gli agenti in un pozzo nero di Ribarroja dove aveva gettato l’arma del delitto – un coltello comprato in una ferramenta – la verità inizia ad affiorare.
Dietro l’omicidio non c’era solo la passione, ma anche un movente economico ben calcolato. Antonio era titolare di diversi assicurazioni sulla vita e sul lavoro. La moglie, poco dopo la morte, aveva già avviato le pratiche per il risarcimento. A questo si aggiungevano l’eredità e la pensione di vedovanza. Tutto torna. Un delitto premeditato, costruito con freddezza, in cui Maje avrebbe usato Salvador come arma umana, inducendolo a uccidere.
Il processo, celebrato nel 2020 presso il Tribunale di Valencia, è seguito dai media con un’attenzione morbosa. Sembra un romanzo gotico moderno: il marito devoto, la moglie dalla doppia faccia, l’amante fragile e ossessionato, la manipolazione psicologica spinta fino all’estremo. María Jesús viene condannata a 22 anni di carcere per omicidio premeditato con l’aggravante della parentela. Salvador, pentito e collaborativo, riceve una pena di 17 anni. Le loro lettere, scritte durante la custodia cautelare e intercettate dagli inquirenti, tentavano invano di costruire un’altra verità: quella di un omicidio passionale compiuto in solitaria. Ma il castello di carta crolla.
Dal 2018 i due sono detenuti nel carcere di Picassent. La storia però non si chiude qui. Nel 2023, la notizia di una gravidanza di Maje scuote nuovamente l’opinione pubblica. La donna viene trasferita nel carcere di Fontcalent, ad Alicante, in un reparto maternità. Il 13 luglio dà alla luce un figlio, in un ospedale pubblico, sotto stretta sorveglianza. Le cronache riportano anche la fine della relazione con un altro detenuto, conosciuto a Picassent e condannato per un altro omicidio. Un dettaglio che, se possibile, aggiunge un’ulteriore sfumatura noir alla figura di questa donna magnetica e letale.
Il film A Widow’s Game di Netflix non si limita a raccontare i fatti, ma li avvolge in una narrazione psicologica tesa e disturbante. Maje non viene mostrata come un mostro, bensì come una donna capace di manipolare chiunque le stia attorno, usando l’affetto come un’arma e il sesso come leva. Il suo personaggio, pur tratto dalla realtà, è una metafora vivente del lato oscuro dell’amore e del desiderio di controllo.
Nel racconto cinematografico, i flashback si intrecciano con le ricostruzioni del processo, creando un crescendo di tensione che culmina nella scoperta dell’inganno. La regia di Enrique Baró Ubach evita facili sensazionalismi e preferisce invece scavare nei non detti, nei silenzi, nei gesti. Tristán Ulloa, nel ruolo dell’investigatore che guida le indagini, rappresenta lo sguardo dello spettatore, diviso tra orrore e incredulità.
A Widow’s Game si inserisce nel solco dei migliori thriller true crime degli ultimi anni, echi di Gone Girl e della cronaca nera italiana (difficile non pensare a Garlasco o al delitto di Avetrana). La realtà, ancora una volta, si rivela più oscura di qualsiasi sceneggiatura. Netflix ci regala un racconto spietato, ma necessario, perché dietro ogni titolo di giornale ci sono persone, drammi e verità che chiedono di essere ascoltate.
E mentre il film fa discutere e divide il pubblico, una cosa è certa: la storia della vera Vedova Nera di Patraix continuerà a vivere nel tempo come monito e mistero, tra le pieghe buie di ciò che chiamiamo amore.