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28 anni dopo: l’horror evoluto di Danny Boyle e Alex Garland che racconta un’umanità allo specchio

C’è un certo tipo di cinema che non ti lascia mai. Non parlo di quelli che rivedi ogni Natale o che citi a memoria nei giochi da pub. Parlo di quei film che si infilano sotto la pelle, che sedimentano nel subconscio e rispuntano, prepotenti, nei momenti più imprevedibili. Per me, 28 giorni dopo è sempre stato uno di quelli. Non solo un film, ma un’esperienza sensoriale, quasi tattile, che ha cambiato il modo in cui guardo l’orrore sullo schermo. La corsa sfrenata di Cillian Murphy in una Londra vuota, la musica di John Murphy che monta come un’onda di panico, gli occhi rossi degli infetti: sono immagini che non si cancellano.

 

E ora eccoci qui, oltre vent’anni dopo, con 28 anni dopo. Un titolo che potrebbe sembrare una semplice operazione nostalgia – e invece no. Quello che Danny Boyle e Alex Garland ci regalano non è solo un sequel. È una riflessione lucida e spietata su cosa significhi vivere dopo la fine del mondo. E soprattutto: su cosa significhi essere ancora umani.

La cosa che mi ha colpito subito – ancor prima dei titoli di testa – è la consapevolezza del film di trovarsi in un mondo post-pandemico. Non parlo solo della narrazione, ma dello sguardo con cui ci osserva. 28 anni dopo sa benissimo che lo spettatore del 2025 ha conosciuto l’isolamento, la paura dell’altro, il silenzio improvviso delle città. Lo accoglie. Lo ingloba nella sua struttura. È come se il film ci dicesse: “Vi ricordate la finzione? Ora fa più paura perché sapete quanto sia vicina alla realtà.”

Il Regno Unito, nella finzione, è diventato un buco nero nella mappa. Nessun contatto, nessuna speranza. La vita resiste solo in forma di ruggine, muschio e sangue. E al centro di questo inferno c’è una famiglia spezzata. Jamie, interpretato da un Aaron Taylor-Johnson in stato di grazia, si è rifugiato con sua moglie Isla e il piccolo Spike su una di quelle isole sospese nel tempo e nelle maree. La malattia che corrode Isla non è il virus, ma qualcosa di ancora più crudele perché reale: una degenerazione senza nome, senza cura. E quando Spike decide di affrontare il mondo per cercare una salvezza impossibile, capisci che il film non parlerà solo di infetti. Parlerà di legami. Di speranze disperate. Di quanto siamo disposti a rischiare per chi amiamo.

La prima metà è un ritorno all’origine del genere. Boyle ha ancora quella furia visiva che ti incolla alla poltrona: la camera a mano che trema come il battito cardiaco, i tagli frenetici, la luce naturale che filtra tra le rovine. Ma ciò che impressiona di più è come l’universo degli infetti si sia evoluto. Non sono più solo corpi rabbiosi e incontrollabili. Sono diventati parte di un ecosistema. Lenti, veloci, mostruosi: ognuno ha una funzione. E guardandoli, non puoi non pensare al modo in cui anche i virus reali mutano, imparano, sopravvivono. C’è una logica fredda, una coerenza scientifica che rende tutto ancora più agghiacciante.

Ma è la seconda parte del film a sorprendermi davvero. Quando Spike e Isla si inoltrano verso il continente, il tono cambia. Non è più solo tensione. È poesia oscura. È viaggio interiore. Ho pensato a The Road, certo, ma anche a Cuore di tenebra, a Stalker di Tarkovskij. Si abbandonano le regole dell’action e si entra in un campo più rarefatto, più doloroso. Le rovine parlano. I silenzi diventano assordanti. Garland sa scrivere la paura non solo come minaccia esterna, ma come voragine dell’anima. E Boyle, con la sua regia istintiva ma calibrata, trasforma le immagini in meditazioni visive. Ogni inquadratura pesa, resta, scava.

Il cast è magnetico. Taylor-Johnson è una forza quieta: senti ogni sua scelta come una ferita. Jodie Comer, fragile e luminosa, regala una performance che spezza il cuore. E Ralph Fiennes – non so nemmeno da dove cominciare. Il suo Dr. Kelson è l’incarnazione del dubbio etico: è un medico? Un santone? Un sopravvissuto che ha perso l’anima? Ogni suo sguardo è un enigma. E poi c’è quel momento. Il viso sfocato di un infetto. Quegli occhi. Quella mascella. Non dicono nulla, ma lo sai. Sì, lo sai. Boyle e Garland non ti servono Cillian Murphy su un piatto d’argento. Ti fanno desiderare che ci sia. E temere che ci sia.

La produzione è sontuosa, ma non perde mai l’anima indie che ha reso grande il primo film. Ogni dollaro del budget – 75 milioni – è investito nel mondo, non nell’effetto. Ci sono immagini che mi porterò dietro: una città sommersa, un campo pieno di croci fatte con i rottami, un bambino che accende un fuoco nella notte. E poi il suono. I momenti di silenzio assoluto. I crescendo elettronici. La colonna sonora è una lama, e taglia nei momenti giusti.

E infine, c’è la promessa. Questo è solo l’inizio. 28 Years Later: The Bone Temple è già pronto. Nia DaCosta alla regia è una scelta coraggiosa e stimolante. Se manterranno questa coerenza, se continueranno a raccontare l’apocalisse con occhi umani e feriti, allora non ci troveremo di fronte a una semplice trilogia. Ma a una nuova mitologia.

28 anni dopo è un film che non spaventa per il sangue, ma per la verità. Perché parla di solitudini, di memorie, di futuri incerti. È un horror che riflette, che morde piano prima di affondare i denti. E io, da appassionata irriducibile del genere, non posso che sentirmi grata. Perché non è solo un grande film. È un grande sguardo sul mondo. Uno di quelli che, una volta che li hai incontrati, non ti abbandonano più.

“Presence”: il ritorno di Steven Soderbergh al cinema con un horror psicologico da brividi

C’è qualcosa che ti osserva. Non lo vedi, ma lo senti. È lì, silenzioso, in un angolo della stanza. E no, non stiamo parlando del tuo coinquilino nottambulo o del gatto che fissa il vuoto con aria inquietante. Stiamo parlando di Presence, il nuovo, attesissimo film di Steven Soderbergh che dal 24 luglio arriverà nei cinema italiani grazie a Lucky Red. E fidati: è un film che farà parlare di sé, non solo tra gli amanti dell’horror ma anche tra i cinefili più esigenti.

Soderbergh, che da sempre ama reinventarsi e sperimentare con i generi (basta pensare alla sua carriera che va dalla Palma d’Oro con Sesso, bugie e videotape ai blockbuster come Ocean’s Eleven e Erin Brockovich), torna ora con una ghost story che promette di riscrivere le regole del thriller soprannaturale. Alla sceneggiatura troviamo David Koepp, un nome che già da solo basta a far salire l’hype alle stelle: parliamo del genio dietro le penne di Jurassic Park, Panic Room e Mission: Impossible. E come se non bastasse, nel cast spiccano volti noti e nuove promesse come Lucy Liu, Chris Sullivan, Callina Liang, Eddy Maday, West Mulholland e Julia Fox.

Ma cos’è esattamente Presence? Proviamo a raccontarlo come se stessimo chiacchierando tra nerd davanti a una birra (o una bibita al gusto cola radioattiva): Presence è un horror psicologico girato interamente in un’unica location, un esperimento tanto audace quanto affascinante. La trama ruota attorno alla famiglia Payne, apparentemente perfetta, che decide di trasferirsi in una villetta suburbana per lasciarsi alle spalle un lutto devastante: Chloe, la figlia minore, è stata segnata dalla tragica morte della sua migliore amica, vittima di un’overdose.

Il fratello Tyler, invece, è un giovane campione di nuoto in rampa di lancio. I genitori, Rebecca e Chris, sperano che il nuovo ambiente possa offrire una seconda possibilità a tutti. Ma si sa, nei film horror, le villette in periferia raramente sono quello che sembrano. E infatti Chloe inizia presto ad avvertire qualcosa di strano nella sua stanza: oggetti che si spostano da soli, emozioni che non le appartengono, e quella sensazione persistente di essere osservata da qualcuno — o qualcosa — che non è visibile.

Inizialmente nessuno le crede, come da tradizione. Ma quando le manifestazioni diventano sempre più intense, inquietanti e tangibili, la famiglia Payne non può più ignorare la verità. C’è una presenza in quella casa, ed è molto più vicina di quanto immaginassero.

Uno degli elementi più affascinanti del film è il punto di vista narrativo. Soderbergh non racconta la storia attraverso gli occhi dei protagonisti, ma attraverso quelli dell’entità invisibile. Un’intuizione che trasforma radicalmente l’esperienza dello spettatore: non siamo più semplici osservatori esterni, ma diventiamo noi stessi quella presenza. È un’idea potentissima, quasi disturbante, che mette in discussione la percezione del tempo e dello spazio. La macchina da presa si muove con una lentezza ipnotica, quasi fluttuante, amplificando la tensione scena dopo scena. E la scelta di utilizzare un obiettivo da 14 mm deforma l’immagine quanto basta per rendere ogni angolo della casa una trappola visiva, un labirinto dell’inquietudine.

L’intero film è costruito come un crescendo emotivo. Non ci sono jump scare gratuiti, ma un senso costante di disagio che cresce, si insinua sotto pelle e non ti lascia fino ai titoli di coda. La regia asciutta di Soderbergh si sposa perfettamente con l’atmosfera claustrofobica della sceneggiatura di Koepp, dando vita a un horror raffinato, cerebrale, che si nutre di silenzi, ombre e sguardi.

La performance degli attori è altrettanto convincente. Lucy Liu, che molti ricordano per i suoi ruoli action ma anche per la brillante interpretazione in Elementary, qui dimostra una sensibilità drammatica intensa e credibile. Chris Sullivan, noto per il suo ruolo in This Is Us, porta sullo schermo un padre ambivalente, combattuto tra scetticismo e preoccupazione. E Callina Liang, nei panni di Chloe, è una vera rivelazione: la sua interpretazione è il cuore pulsante del film, un mix di fragilità e coraggio che rende il suo personaggio tragicamente umano. Julia Fox, invece, aggiunge quel tocco magnetico che non guasta mai, in un ruolo che oscilla tra la provocazione e il mistero.

Presence ha già fatto parlare di sé nei circuiti dei festival: dopo il debutto al Noir in Festival 2024 e il passaggio al Sundance Film Festival 2025, il film è stato proiettato in anteprima italiana al Comicon di Napoli, dove ha ricevuto una calorosa accoglienza da parte del pubblico nerd e non solo. E ora si prepara a conquistare le sale con anteprime speciali il 23, 24 e 27 giugno, introdotte da ospiti d’eccezione.

Girato nel 2023 a Cranford, nel New Jersey, il film sfrutta l’ambientazione suburbana per amplificare il senso di isolamento e pericolo latente. Ogni dettaglio, dalla fotografia agli effetti sonori, è calibrato per costruire una tensione che non esplode mai del tutto, ma che si avverte con la forza di un pugno nello stomaco.

Non aspettatevi quindi il classico horror con demoni urlanti e porte che sbattono a caso. Presence è qualcosa di diverso. È uno studio sull’invisibile, sull’incomprensibile, su quella linea sottile che separa la realtà dalla percezione. È un film che parla di lutto, di connessioni spezzate, e del bisogno umano di dare un senso a ciò che non si riesce a spiegare.

Se amate il cinema che osa, che inquieta con eleganza e lascia il segno, Presence è un appuntamento irrinunciabile. Dal 24 luglio al cinema, con Lucky Red. E se anche voi, uscendo dalla sala, avrete la strana sensazione che qualcosa vi stia seguendo… beh, sappiate che è perfettamente normale.

E ora tocca a voi: che ne pensate del ritorno di Soderbergh al genere horror? Vi ispira questa ghost story dai toni psicologici? Avete già visto il trailer italiano? Se no, eccolo qui: Guarda il trailer su YouTube. Fatecelo sapere nei commenti, condividete l’articolo sui vostri social e… occhio a chi vi osserva alle spalle.

Clayface: il tragico mutaforma di Gotham sta per arrivare al cinema nel nuovo DCU di James Gunn

Il mondo del cinema supereroistico sta per accogliere un ospite inaspettato, cupo e profondamente umano: Clayface, uno dei villain più enigmatici e affascinanti dell’universo di Batman, diventerà protagonista assoluto in un film standalone targato DC Studios. E non si tratterà di un semplice cinecomic, ma di una vera e propria discesa nell’abisso dell’identità, della trasformazione e del dolore umano. Il film è atteso per l’11 settembre 2026, e promette di essere qualcosa di radicalmente diverso da quanto abbiamo visto finora nell’arena dei supereroi.

A interpretare l’inquietante figura di Clayface sarà Tom Rhys Harries, già noto per il suo carisma e la sua intensità interpretativa. La regia sarà affidata a James Watkins, autore dell’angosciante Speak No Evil, mentre la sceneggiatura — nella sua versione più recente — porta la firma di Hossein Amini. Ma il cuore pulsante del progetto è un nome che fa brillare gli occhi agli amanti del brivido: Mike Flanagan. Sì, proprio lui, il creatore delle acclamatissime La maledizione di Hill House e Midnight Mass, che ha steso la prima bozza del film e ha influenzato profondamente il tono della storia.

L’approccio di Flanagan promette di trasformare Clayface in qualcosa di più di un villain da fumetto. L’intenzione dichiarata è quella di raccontare la vicenda di Matt Hagen, attore di B-movie in declino che, pur di restare sotto i riflettori di Hollywood, si sottopone a un trattamento sperimentale in grado di alterare il suo corpo… in modo irreversibile. L’uomo perde progressivamente la sua forma umana, diventando una creatura fatta di fango e creta, capace di cambiare aspetto a piacimento, ma irrimediabilmente sfigurata nell’anima. È il classico archetipo del mostro tragico, in stile La Mosca di Cronenberg, che prende vita attraverso le atmosfere cupe e i toni psicologici tipici del cinema horror d’autore.

Non a caso, il budget previsto è di circa 40 milioni di dollari: una cifra modesta rispetto ai blockbuster del genere, ma che lascia intuire una scelta precisa. Questo Clayface non sarà un tripudio di CGI e distruzione, ma piuttosto un dramma personale, una tragedia gotica che mette al centro l’emotività del protagonista, i suoi traumi, le sue illusioni perdute.

Flanagan ha più volte espresso il suo desiderio di dare nuova linfa al personaggio, esplorando il lato umano del villain. Non un antagonista da abbattere, quindi, ma una figura che suscita empatia, un’anima spezzata da una società che premia l’apparenza e punisce la vulnerabilità. Una delle fonti principali di ispirazione per questo film sarà proprio l’episodio cult della Batman: The Animated Series in cui Clayface, tra lacrime e rabbia, affronta il proprio crollo psicologico in una delle rappresentazioni più toccanti mai viste nel mondo dell’animazione.

Il DCU, sotto la guida visionaria di James Gunn, sembra dunque puntare a un rinnovamento narrativo profondo. Dopo anni di rincorsa al modello Marvel, ora l’universo DC cerca la sua identità con toni più maturi, storie più introspettive e personaggi più sfaccettati. Il film su Clayface rappresenta esattamente questa nuova direzione: un’opera dai contorni horror, con radici nel dramma e nella tragedia classica, che rinuncia all’ironia facile e si tuffa nei dilemmi dell’animo umano.

Ma le sorprese non finiscono qui. Secondo quanto riferito da TheWrap, la versione di Clayface che vedremo sarà quella di Matt Hagen, una delle incarnazioni più celebri nei fumetti. Tuttavia, i fan più attenti del nuovo DCU sanno che una diversa versione del personaggio è già apparsa nella serie animata Creature Commandos, dove sembrava trovare la morte. Ma James Gunn ha gettato benzina sul fuoco dichiarando che quella morte potrebbe non essere definitiva. Dunque ci troviamo di fronte a un multiverso di Clayface? O forse solo a una diversa lettura dello stesso personaggio? L’idea che esistano più incarnazioni del mutaforma, come nei fumetti, è affascinante e lascia aperte molte possibilità narrative per il futuro del DCU.

Il film, le cui riprese inizieranno nell’autunno 2025, si presenta dunque come una vera e propria scommessa artistica e narrativa per DC Studios. Un progetto che rinuncia ai cliché del genere per raccontare qualcosa di più profondo, più cupo, più autentico. Il ritratto di un uomo che perde sé stesso per inseguire un sogno di gloria, trasformandosi in un mostro che non riconosce più il proprio volto.

In un’epoca cinematografica dominata da sequel, reboot e crossover esplosivi, Clayface potrebbe essere l’antieroe che non sapevamo di aspettare. Un personaggio rotto, instabile, terribilmente umano. E se questa pellicola dovesse avere successo, potrebbe aprire le porte a un nuovo modo di raccontare i villain, non più come nemici da sconfiggere, ma come protagonisti di tragedie moderne.

E voi, siete pronti ad accogliere il volto mutevole di Clayface sul grande schermo? Pensate che il DCU stia davvero cambiando pelle con questo tipo di progetti? Condividete il vostro entusiasmo (o le vostre paure) nei commenti e fate girare l’articolo sui vostri social: la creta prende forma anche grazie alla voce dei fan!

Venerdì 13: mito, realtà e pop culture

Il venerdì 13, da secoli, si porta dietro un’aura di mistero e superstizione che continua a intrigare e, talvolta, spaventare. È una data che suscita sentimenti contrastanti: per alcuni è solo un giorno come un altro, per altri rappresenta un momento carico di cattivi presagi. Ma perché proprio questa combinazione di numero e giorno della settimana è tanto controversa? E come ha influenzato la cultura pop? Addentriamoci nel mondo di credenze, leggende e curiosità per scoprire la verità dietro questa data tanto discussa.

Radici storiche e mitologiche: come nasce la superstizione?

Le origini del venerdì 13 si perdono nei meandri della storia e delle leggende, rendendo difficile risalire a una fonte precisa. Una delle teorie più accreditate affonda le radici nella mitologia norrena. Secondo questa tradizione, il numero 12 era considerato simbolo di perfezione e completezza. L’aggiunta del 13, invece, rompeva questa armonia, portando scompiglio. Un esempio celebre è il banchetto divino di Valhalla, in cui Loki, il dio dell’inganno, si presentò come tredicesimo ospite non invitato, causando il caos.

La simbologia del numero 13 si intreccia anche con la tradizione cristiana. L’Ultima Cena, alla quale parteciparono 13 commensali (incluso Giuda Iscariota, il traditore di Gesù), si concluse con la crocifissione, avvenuta di venerdì. Questo ha contribuito a rendere il giorno e il numero infausti agli occhi della tradizione occidentale.

Il venerdì 13 nella cultura pop: tra cinema, videogiochi e letteratura

L’industria dell’intrattenimento ha trovato nel venerdì 13 un fertile terreno per alimentare storie e suggestioni. Dalla paura primordiale alla suspence moderna, il binomio giorno-numero è diventato un simbolo della narrativa horror e thriller.

Nel cinema, la saga Venerdì 13 ha cementato l’immagine del giorno come portatore di terrore. Jason Voorhees, il celebre antagonista mascherato, è diventato un’icona della paura, sfruttando l’idea che in quel giorno tutto può andare storto. Altri film, come Black Friday e The Thirteenth Floor, giocano con il numero e il giorno per esplorare il paranormale o scenari inquietanti.

Il mondo dei videogiochi non è stato da meno. Titoli come Friday the 13th: The Game immergono i giocatori in atmosfere cupe, facendo leva su meccaniche survival horror che trasformano la superstizione in un’esperienza interattiva. Inoltre, molti giochi horror, soprattutto online, organizzano eventi speciali proprio in questa data.

Anche la letteratura non ha resistito al fascino del venerdì 13. Scrittori di ogni genere, dal gotico al thriller psicologico, hanno utilizzato la data come un efficace espediente narrativo per costruire tensione e mistero.

Sfortuna o semplice suggestione? Il venerdì 13 sotto la lente scientifica

Nonostante la reputazione sinistra, non esistono prove scientifiche che il venerdì 13 sia effettivamente un giorno “maledetto”. Eventi negativi accaduti in questa data sono spesso attribuiti alla coincidenza e alla tendenza umana a trovare schemi anche dove non ce ne sono. Tuttavia, il potere della mente è tale che molte persone, influenzate dalla credenza, potrebbero sentirsi più ansiose o commettere errori per via della tensione.

Questo fenomeno è noto come effetto nocebo, ovvero l’influenza negativa che una credenza può avere sulla percezione di sé e degli eventi.

Curiosità: quando la sfortuna si sposta altrove

Non tutti vedono il venerdì 13 come un giorno funesto. In Italia, ad esempio, il giorno infausto per eccellenza è il venerdì 17, una data che combina il giorno della crocifissione con un numero legato all’anagramma di “VIXI” (in latino “ho vissuto”, quindi “sono morto”).

In altre culture, il numero 13 è invece considerato fortunato. In molti paesi orientali, ad esempio, il 13 è simbolo di prosperità e rinascita, mentre il 4, per via della sua pronuncia simile a “morte” in cinese, è il vero tabù.

Per chi ha paura specificamente del numero 13, esiste persino un termine clinico: triskaidecafobia. Questa fobia, seppur rara, può influire sulle abitudini quotidiane, portando alcune persone a evitare voli, viaggi o decisioni importanti il 13 di ogni mese.

Un mito che resiste nel tempo

Che siate scettici o ferventi credenti nella sfortuna del venerdì 13, è innegabile che questa data abbia un fascino unico. Le sue origini, radicate in miti antichi e leggende religiose, hanno attraversato i secoli, intrecciandosi con la cultura pop e diventando parte dell’immaginario collettivo. Per alcuni, è solo una giornata da vivere con un pizzico di ironia, magari guardando un film horror o giocando a un videogioco tematico. Per altri, invece, è un giorno da trascorrere con cautela, tra amuleti e rituali scaramantici. Una cosa è certa: il venerdì 13, che porti davvero sfortuna o meno, ha saputo ritagliarsi un posto speciale nella nostra cultura.

Resident Evil 9 Requiem è realtà: tutto quello che sappiamo sul nuovo capitolo della saga horror di Capcom

Se siete appassionati di survival horror, preparatevi a segnare una data sul calendario: Resident Evil 9 Requiem uscirà ufficialmente il 27 febbraio 2026. La notizia, che ha fatto letteralmente esplodere l’entusiasmo della community geek e videoludica mondiale, è arrivata durante l’attesissimo Summer Game Fest 2025. Sul palco, capitanato dal sempre energico Geoff Keighley, tra un annuncio e l’altro è stato Capcom a chiudere col botto, presentando il primo trailer di questo nuovo, oscuro capitolo della saga di Resident Evil.

Il titolo, che abbandona la numerazione classica continuando il filone aperto con Resident Evil 7: Biohazard e Resident Evil Village, si chiamerà semplicemente Resident Evil Requiem. E a giudicare dalle prime immagini, sarà un viaggio ancora più inquietante, carico di misteri, atmosfere cupe e una nuova protagonista tutta da scoprire.

Una nuova eroina nell’universo di Resident Evil: Grace Ashcroft

Uno degli elementi più intriganti di Resident Evil Requiem è proprio il cambio di prospettiva. Questa volta il racconto ci mette nei panni di Grace Ashcroft, un’agente dell’FBI che viene inviata a indagare su una serie di morti misteriose avvenute in un hotel maledetto. E non un hotel qualsiasi: proprio quello dove, otto anni prima, sua madre ha trovato una fine tragica e misteriosa.

L’intreccio narrativo promette di essere ricco di colpi di scena e di tensione psicologica, un perfetto connubio tra investigazione, horror e azione. Il trailer ci ha già regalato qualche frame suggestivo, tra stanze decadenti, corridoi impregnati di ombre e un’atmosfera che ricorda i momenti più claustrofobici dei primi capitoli della serie.

Un progetto ambizioso firmato Capcom

Dietro le quinte di Resident Evil 9 Requiem si cela un progetto di lungo respiro. Capcom, infatti, ha pianificato lo sviluppo di diversi titoli della serie in parallelo, con l’obiettivo di garantire un nuovo capitolo ogni due anni e mezzo, o addirittura ogni anno quando possibile. In questo contesto, Requiem è stato concepito per essere uno dei titoli chiave di questa strategia.

Il gioco avrebbe dovuto vedere la luce già alla fine dell’anno fiscale 2023, come suggerito da un easter egg nascosto in Resident Evil Village. Tuttavia, il team ha deciso di prendersi più tempo per affinare il progetto, spostando l’uscita al 2026. Il tutto sotto la direzione di Koshi Nakanishi, veterano della serie, che ha già saputo imprimere la sua visione distintiva in precedenti capitoli.

Curiosamente, fino al 2022 non era ancora stato deciso se il nuovo Resident Evil sarebbe stato in prima o terza persona. Ora sappiamo che, seguendo la linea evolutiva della serie, il gioco continuerà a esplorare una narrazione immersiva che potrebbe alternare le due prospettive per massimizzare il coinvolgimento.

Un collegamento con il passato: Racoon City fa ancora paura

Per i fan di lunga data, il trailer di annuncio di Resident Evil 9 Requiem ha riservato un brivido in più. Tra le sequenze più evocative abbiamo visto anche le rovine di Racoon City, devastata dagli eventi di Resident Evil 3. È ancora presto per sapere quale ruolo giocheranno questi frammenti del passato nella trama principale, ma è chiaro che Capcom sta costruendo un universo narrativo sempre più stratificato, in cui ogni nuovo tassello dialoga con la mitologia storica della saga.

Il futuro di Resident Evil è qui

L’annuncio di Resident Evil Requiem rappresenta molto più di un semplice nuovo capitolo. È la conferma che Capcom ha tutta l’intenzione di mantenere la serie tra i capisaldi del survival horror contemporaneo, innovando senza dimenticare le sue radici. La scelta di dare al gioco un nome evocativo, anziché un numero, testimonia la volontà di renderlo accessibile anche ai nuovi giocatori, senza che la progressione numerica spaventi chi si avvicina per la prima volta a questo universo.

Con l’uscita fissata per il 27 febbraio 2026 su PC e console di nuova generazione, l’attesa per Resident Evil 9 Requiem sarà lunga ma sicuramente elettrizzante. Nei prossimi mesi ci aspettiamo nuovi dettagli, gameplay approfonditi e, chissà, ulteriori sorprese legate alla trama e ai personaggi.

Nel frattempo, la community è già in fermento. E voi? Cosa ne pensate di questo nuovo capitolo? Vi intriga l’idea di un protagonista inedito come Grace Ashcroft? E quali legami con il passato della saga sperate di vedere? Parliamone insieme nei commenti e, se vi va, condividete l’articolo sui vostri social per coinvolgere anche gli altri appassionati della serie. Racoon City potrebbe essere distrutta, ma la leggenda di Resident Evil è più viva che mai.

Mike Flanagan e La Torre Nera: il sogno (im)possibile di riportare in vita l’universo di Stephen King

Lo ammetto subito: non appena sento pronunciare La Torre Nera, qualcosa dentro di me si accende. È una di quelle saghe che non puoi semplicemente “leggere” e dimenticare. Ti scava dentro, ti accompagna come un’ossessione dolceamara, come un ka-tet invisibile che ti lega per sempre a Roland Deschain e al suo eterno viaggio verso la Torre.Se anche voi siete tra i “fedeli del ka”, capirete bene la frustrazione che ci ha accompagnati per anni ogni volta che Hollywood cercava, invano, di adattare l’opera più ambiziosa e stratificata di Stephen King. Il film del 2017? Un’occasione sprecata, inutile girarci intorno. Un progetto che, nonostante il fascino indiscusso di Idris Elba e la magnetica presenza di Matthew McConaughey, non è riuscito neanche lontanamente a catturare la potenza evocativa della saga. Ed è proprio per questo che quando Mike Flanagan ha annunciato di aver messo le mani sui diritti per un nuovo adattamento televisivo, mi sono ritrovata a sospirare un sonoro “finalmente!”. Non solo perché amo il lavoro di Flanagan — che considero uno dei pochi registi capaci di rendere giustizia alla poetica kinghiana — ma perché lui è un vero narratore, uno che sa cosa significa costruire atmosfere dense, personaggi vivi e universi che ti rimangono cuciti addosso.

Un universo che pulsa di vita (e di morte)

Chi conosce La Torre Nera sa che ci troviamo di fronte a qualcosa che va ben oltre il semplice racconto di un eroe in viaggio. È una saga che mescola dark fantasy, western, horror, fantascienza e persino filosofia esistenziale. Roland Deschain non è l’ennesimo cavaliere senza macchia: è un uomo segnato, imperfetto, capace di amare e di perdere, ossessionato da una missione che lo consuma ma che rappresenta anche l’ultimo baluardo di senso in un mondo in frantumi. Ogni lettore che si è avventurato lungo il Sentiero del Raggio porta dentro di sé quelle immagini: i paesaggi desertici, i portali tra i mondi, la compagnia di Eddie, Susannah e Jake, il ruggito della locomotiva pazza Blaine, e soprattutto la Torre, quell’entità quasi mitica che incarna il concetto stesso di narrazione, memoria e destino. Trasporre tutto questo sullo schermo è un’impresa da far tremare i polsi. Non stupisce che finora nessuno ci sia davvero riuscito. Ma se c’è qualcuno che può farcela, è proprio Mike Flanagan.

Mike Flanagan e il coraggio di affrontare la Torre

Nel 2022, Flanagan ha annunciato di aver acquisito i diritti per realizzare la serie, con il supporto di Prime Video. Da allora, per chi come me vive di pane e King, è stato un continuo seguire ogni minimo aggiornamento. E recentemente, in un’intervista a ComicBook, il regista ci ha rassicurati: il progetto è vivo, eccome se lo è. “È come costruire una petroliera”, ha detto, facendo sorridere non poco i fan che sanno bene quanto sia mastodontica questa impresa. Ha già scritto la sceneggiatura del pilot, ha delineato tutta la prima stagione e ha in mente almeno cinque stagioni per coprire l’intero arco narrativo. Ma la cosa che più mi ha emozionata è stata sentirlo raccontare della prima inquadratura, quella che ha in mente da quando era studente: “È legata direttamente alla prima, iconica frase de Il Pistolero. Ho bisogno di realizzarla. Non riesco più a tenerla solo nella mia testa.” Chi ha letto la saga sa quanto quella frase, “L’uomo in nero fuggì nel deserto, e il pistolero lo seguì”, racchiuda già in sé l’intero spirito dell’opera. Se Flanagan parte da qui, con rispetto e consapevolezza, possiamo davvero sperare in un adattamento degno del nome che porta.

Un adattamento che profuma di sogno e rispetto

Non è un caso che King stesso sia coinvolto attivamente nello sviluppo della serie. Il Re ha sempre avuto un rapporto molto personale con questa sua creatura. Flanagan lo sa e, a differenza di chi ha tentato prima di lui, vuole onorare questa complessità, non semplificarla. Parliamo di un’opera che attinge a fonti letterarie straordinarie: dal poema Childe Roland to the Dark Tower Came di Robert Browning, ai versi di T.S. Eliot, dai western di Sergio Leone fino alle suggestioni di Tolkien. Ma soprattutto è una saga che parla di noi, delle nostre ossessioni, dei nostri rimpianti, di ciò che siamo disposti a sacrificare in nome di un ideale che spesso non comprendiamo fino in fondo. Flanagan, con la sua sensibilità e la sua capacità di fondere horror e introspezione psicologica (chi ha visto Midnight Mass sa di cosa parlo), è probabilmente il regista ideale per questa impresa.

Ancora mistero sul futuro, ma il ka ci guida

Al momento non abbiamo ancora notizie sul cast. E lo ammetto, da fan sono in preda a mille fantasie su chi potrebbe vestire i panni di Roland. Deve essere un attore capace di incarnare non solo la forza e la determinazione del pistolero, ma anche quella malinconia struggente che lo rende un personaggio unico.

Le tempistiche? Flanagan è cauto: la serie non arriverà prima del 2026. E va bene così. Meglio prendersi il tempo necessario per fare le cose per bene, piuttosto che affrettarsi e tradire l’essenza della saga.

Nel frattempo, l’hype è alle stelle. E io, come tanti di voi, continuerò a seguire ogni notizia con il cuore in gola, sperando che questa volta il viaggio verso la Torre sia quello che tutti noi abbiamo sempre sognato.

Perché, come ci ha insegnato King, la Torre non è solo una meta: è il cammino stesso che conta.

E voi, compagni di lettura e di avventura, siete pronti a tornare lungo il Sentiero del Raggio? Avete anche voi le vostre teorie sul casting ideale? Fatemelo sapere nei commenti qui sotto e condividete l’articolo sui vostri social — che il ka possa guidare i suoi fili attraverso la Rete! Vi aspetto per parlarne insieme… sempre lungo il sentiero del pistolero.

Licantropia: la bestia che è in noi – tra mito, storia, medicina e cinema

Quando si pensa al male primordiale, al terrore che ci scruta nella notte con occhi ardenti e zanne pronte a lacerare, è difficile non visualizzare l’immagine di un lupo. Non un lupo qualsiasi, però. Parliamo del lupo mannaro, creatura che da secoli incarna il dualismo perfetto tra uomo e bestia, raziocinio e istinto, civiltà e barbarie. È una figura che affonda le sue radici nella notte dei tempi e che ha trovato terreno fertile nei meandri della nostra cultura pop nerd: dal folklore ancestrale alla cinematografia horror, passando per i fumetti, la letteratura gotica, le serie tv e i videogiochi. Ma cosa si cela davvero dietro il mito del licantropo?

Il lupo e l’uomo: fratelli rivali

Il lupo, sin dagli albori della civiltà, è stato una figura ambivalente. Affascinante e terribile, simbolo di forza e pericolo, totem spirituale e minaccia concreta. Nell’immaginario collettivo, il lupo incarna il lato oscuro dell’uomo: la parte selvaggia, carnale, che ruggisce sotto la pelle della civiltà. Questo è il motivo per cui, pur temendolo, non abbiamo mai smesso di raccontare storie su di lui. L’uomo, nel suo passaggio da cacciatore nomade a pastore sedentario, ha trasformato l’animale guida in nemico. Ma non lo ha mai davvero dimenticato. Ed è proprio in questa ambivalenza che nasce la licantropia.

Licantropia: tra delirio e trasformazione

La parola stessa ci arriva dall’antico greco: lykos (lupo) e anthropos (uomo). Ma se nel mito la licantropia è una trasformazione fisica, nella realtà medica prende le forme di un disturbo psichiatrico rarissimo, conosciuto come “licantropia clinica”. Chi ne è affetto crede fermamente di potersi trasformare in un animale, in genere un lupo, e agisce come tale. Un delirio di trasformazione somatica, che affascina per quanto inquieta.

Non è difficile immaginare come, in un passato dominato da superstizione e ignoranza, simili manifestazioni venissero interpretate come vere e proprie metamorfosi. E quando il folklore incontra l’incomprensione, il risultato è sempre il rogo. Tra il XIV e il XVII secolo, l’isteria collettiva in Europa portò alla condanna di migliaia di persone, accusate di essere lupi mannari. La licantropia, come la stregoneria, diventò un comodo capro espiatorio. Peter Stubbe, forse serial killer, forse solo vittima del fanatismo, è solo uno dei nomi oscuri della storia.

Dal culto al castigo: il lupo nella mitologia antica

L’idea della trasformazione da uomo a lupo non nasce in epoca cristiana, anzi: è ben più antica. In Egitto, Anubi – divinità dalla testa di sciacallo – presiedeva ai riti funebri. In Grecia, il mito di Licaone narra di un re empio punito da Zeus che lo trasformò in lupo dopo avergli servito carne umana. Apollo stesso veniva associato al lupo, e il Liceo di Aristotele (da cui il nostro “liceo”) era dedicato proprio al dio in forma lupina. Nell’antica Roma, il licantropo era detto versipellis, “colui che cambia pelle”, e già si distingueva tra leggenda e patologia.

Nei riti dei Lupercali, il sacerdote travestito da lupo onorava Luperco, protettore delle greggi. Il lupo non era solo minaccia, ma anche figura sacra. Questo simbolismo sopravvive e si evolve nei secoli, contaminando i culti nordici, le leggende celtiche e le saghe scandinave. Nella mitologia norrena, guerrieri come i berserkr e gli ulfheðnar entravano in trance e combattevano come lupi. Fenrir, il lupo gigante figlio di Loki, è il progenitore dei lupi mannari vichinghi. E quando la regina Signi salva Sigmund grazie all’odore del miele, siamo di fronte a uno dei più affascinanti episodi mannari dell’epica nordica.

La mutazione nei secoli: superstizioni e “scienza”

Nel Medioevo, la licantropia diventa sinonimo di possessione demoniaca. La trasformazione in lupo, spesso causata da una maledizione, è considerata il risultato di un patto con il Diavolo. Le modalità per divenire licantropo sono tantissime: indossare una pelle di lupo maledetta, bere acqua raccolta dalle orme del mannaro, nascere in una notte “proibita” come Natale o l’Epifania, essere maledetti da una strega o addirittura da un santo. In Calabria, ad esempio, si temeva la trasformazione sotto la luna nuova, mentre in Abruzzo bastava dormire all’aperto durante una notte di plenilunio per rischiare la mutazione.

Eppure, tra le pieghe della superstizione, c’è anche spazio per la medicina. Claudio Galeno e altri studiosi dell’epoca descrivevano i sintomi della licantropia clinica come una forma estrema di melanconia. Pallore, allucinazioni, sete incessante, piaghe: un quadro che oggi potrebbe corrispondere a vari disturbi mentali, ma che allora conduceva spesso a diagnosi terribili e cure terrificanti.

Il licantropo oggi: da mostro a icona pop

Ma il licantropo non è rimasto confinato nei polverosi manoscritti medievali. Anzi, è rinato nella cultura nerd. Nei fumetti Marvel, ad esempio, Werewolf by Night è un personaggio cult, mentre nel mondo DC troviamo creature mannare tra le schiere del paranormale. In ambito cinematografico, il lupo mannaro ha vissuto numerose incarnazioni: dal classico “L’Uomo Lupo” del 1941 alla saga di Underworld, passando per il romantico e adolescenziale Twilight e l’epica serie The Witcher, dove le bestie si confondono con la maledizione della natura umana.

Persino i videogiochi ci hanno regalato momenti indimenticabili con creature mannare: da The Elder Scrolls V: Skyrim dove puoi diventare un licantropo, fino a Bloodborne, dove la trasformazione è segno di una malattia cosmica.

E la licantropia, oggi, continua ad affascinare anche in ambito psicologico. È una delle sindromi più rare documentate nella letteratura psichiatrica, ma non è scomparsa del tutto. Ogni tanto riemerge nelle cronache, come un’eco ancestrale del nostro passato mitico.

La bestia che è in noi

In fondo, forse, la figura del lupo mannaro ci affascina tanto perché parla di noi. Delle nostre pulsioni represse, della violenza che ci portiamo dentro, del bisogno di liberarci dalle regole e correre nella notte, selvaggi e liberi. Il licantropo è la metafora perfetta del conflitto interiore, dell’eterna lotta tra il razionale e l’istintivo.

E allora, la prossima volta che la luna piena illumina il cielo, fermati un attimo a pensare. Forse, da qualche parte, c’è ancora qualcuno che ulula. Forse, in fondo, un po’ di lupo ce l’abbiamo anche noi.

Hai anche tu una passione per i lupi mannari? Qual è il tuo film, fumetto o gioco preferito su questo tema? Scrivilo nei commenti o condividi l’articolo sui social e facci sapere che ne pensi! Su CorriereNerd.it il mistero è sempre dietro l’angolo, pronto a ululare.

Mercoledì (Wednesday) Stagione 2: il ritorno della regina gotica che ci farà tremare di nuovo (e ridere, ovviamente)

È passato quasi un triennio dalla sua comparsa su Netflix, ma l’eco del suo passo deciso e delle sue battute taglienti non si è mai davvero spento. Mercoledì Addams, l’icona gotica per eccellenza del panorama seriale contemporaneo, è pronta a fare il suo ritorno sullo schermo con una seconda stagione che promette scintille, urla e—ovviamente—risate al vetriolo. E mentre ci prepariamo ad accogliere il suo ritorno alla Nevermore Academy entro la fine dell’anno, le aspettative sono più alte che mai. E fidatevi, questo nuovo capitolo sarà tutt’altro che una passeggiata nel cimitero.

Partiamo da una notizia che ha fatto letteralmente impazzire il fandom: la seconda stagione di Mercoledì (Wednesday) sarà divisa in due parti, con una prima tranche di episodi in uscita il 6 agosto 2025, seguita dalla seconda il 3 settembre. Una strategia di rilascio che sa tanto di tortura dolce, ma che ci permetterà di gustarci con ancora più attenzione ogni indizio, ogni sussurro tra le mura della Nevermore, ogni ghigno di Mercoledì. La prima stagione ci aveva abituati a un mix irresistibile di atmosfere lugubri, misteri scolastici e relazioni al limite del disfunzionale, e se i creatori Miles Millar e Alfred Gough mantengono le promesse, questa seconda ondata sarà ancora più audace. Più horror, più tensione, ma sempre con quel tocco ironico che rende la serie un piccolo capolavoro di equilibrio.

A proposito di orrore, i creatori hanno chiarito: non si tratta di uno show per stomaci forti a tutti i costi. Niente torture gratuite, niente horror spinto solo per scioccare. Ma aspettatevi comunque momenti da brivido, di quelli che ti costringono a stringere il cuscino e a guardare attraverso le dita. La posta in gioco si alza, le morti diventano più reali, e l’oscurità si insinua più profondamente. Un cambio di tono che non rinnega la commedia ma che affonda ancor più le radici nel gotico, come se Tim Burton avesse deciso di spingere l’acceleratore sulle sue visioni più cupe e affascinanti.

E ora tenetevi forte, perché il cast della seconda stagione è roba da urlo (letteralmente). Oltre al ritorno dell’immancabile Jenna Ortega—ormai regina indiscussa del personaggio, tanto da esserne anche produttrice—ci aspetta una pioggia di volti noti e new entry da capogiro. Lady Gaga, sì, proprio lei, farà il suo debutto nella serie. Il suo ruolo è ancora avvolto nel mistero, ma se c’è un’artista capace di incarnare una figura ambigua, potente e borderline tra genio e follia, quella è Mother Monster. Ortega ha parlato di una collaborazione “speciale” e noi non vediamo l’ora di scoprirne il risultato.

Ma non è finita: Steve Buscemi sarà il nuovo preside della Nevermore, portando il suo inconfondibile carisma da outsider nel già variopinto microcosmo della scuola. E come ciliegina sulla torta, Christopher Lloyd—lo Zio Fester dei film anni ’90—tornerà per una misteriosa apparizione, in un ideale passaggio di testimone tra le generazioni di Addams. E poi c’è lei, la nonna di Mercoledì, Hester Frump, interpretata da Joanna Lumley: una presenza che si preannuncia maestosa e arcana, pronta a rivelare nuovi dettagli sulla potente stirpe di Morticia.

La trama? Ancora top secret, ovviamente. Ma già sappiamo che torneremo a indagare su Tyler, il “mostro” della prima stagione, ora rinchiuso in un manicomio. Una storyline che promette sviluppi inquietanti e forse anche un nuovo scontro psicologico con Mercoledì. E proprio lei sarà al centro di un viaggio più intimo e introspettivo: il primo episodio, dal titolo Una tristezza senza fine, lascia intendere che esploreremo i lati più vulnerabili del suo carattere. Non solo sarcasmo e cinismo, quindi, ma anche dolore, confusione, empatia. Una Mercoledì più umana, ma non per questo meno spaventosa.

Ci sarà spazio anche per gli altri personaggi, a partire da Enid Sinclair—l’eterna colorata coinquilina dal cuore d’oro e dagli artigli affilati—e Bianca, sempre più centrale in un intreccio che va ben oltre il semplice cliché del teen drama. Xavier, l’ex con la faccia da poeta tormentato, potrebbe ritornare con nuove dinamiche, mentre il giovane Pugsley entrerà ufficialmente a far parte della Nevermore Academy, pronto a uscire dall’ombra della sorella e, magari, a scoprire poteri latenti.

Un altro punto forte? La promessa degli showrunner di ampliare l’universo Addams. Se nella prima stagione Mercoledì era il baricentro di tutto, ora ogni personaggio avrà il suo spazio. Un’espansione narrativa che darà respiro alla storia, permettendo di esplorare non solo la scuola ma anche le complesse dinamiche familiari degli Addams. Morticia e Gomez torneranno più presenti che mai, portando con sé quel mix irresistibile di amore gotico e follia grottesca che li contraddistingue.

Tim Burton rimane la mente visionaria dietro tutto questo, con il suo tocco artistico inconfondibile. La sua visione continua a permeare ogni angolo della serie, trasformandola in un piccolo universo parallelo dove l’orrore e la bellezza convivono, dove l’anomalia è la norma e dove le regole del teen drama vengono riscritte sotto una luce lunare e inquietante.

Insomma, questa seconda stagione di Mercoledì (Wednesday) promette di essere un evento, non solo per i fan della prima ora ma anche per chi cerca una serie diversa, audace, che osa mettere in scena la diversità senza stereotipi. Mercoledì Addams non è solo una ragazza vestita di nero: è un simbolo, un manifesto dell’alterità, della forza di essere se stessi anche quando il mondo ti vorrebbe omologato. E allora, prepariamoci: accendiamo le candele, spolveriamo i vecchi diari pieni di misteri irrisolti e facciamo spazio nel cuore (e nella watchlist) per la regina gotica che ci ha insegnato a non avere paura del buio—ma a viverci dentro con stile.

E tu? Sei pronto a tornare a Nevermore? Condividi l’articolo sui tuoi social, tagga l’amico che ti ha fatto scoprire Mercoledì (Wednesday) e raccontaci cosa ti aspetti da questa nuova stagione nei commenti!

Welcome to Derry: Il prequel di It con Pennywise in arrivo su HBO nel 2025

C’è un brivido che percorre la schiena di ogni appassionato di horror quando sente pronunciare un nome: Pennywise. Il clown danzante, nato dalla penna geniale e malata di Stephen King nel suo romanzo It del 1986, è tornato. Ma stavolta lo fa in grande stile, con una nuova serie targata HBO intitolata Welcome to Derry, che promette di portarci alle radici del male, in un viaggio disturbante e affascinante nel passato oscuro della cittadina più inquietante della narrativa horror americana.L’universo di It si espande, e lo fa con una prequel che affonda le mani nel cuore pulsante del terrore. Welcome to Derry, in arrivo nel 2025, è destinata a diventare un nuovo, imprescindibile capitolo della mitologia kinghiana, riportando in scena un Pennywise ancora più inquietante, incarnato — di nuovo, e per fortuna — da uno straordinario Bill Skarsgård. Dopo averci terrorizzati nei due film diretti da Andy Muschietti (It, 2017, e It: Chapter Two, 2019), l’attore svedese torna a indossare le vesti del mostro per eccellenza, pronto a perseguitarci in un’epoca lontana, ma non per questo meno sinistra: il 1962.

Ma Welcome to Derry non si limiterà a quel periodo. Andy Muschietti, che figura anche tra i produttori della serie assieme alla sorella Barbara, ha rivelato che la narrazione seguirà una struttura a ritroso. La prima stagione, ambientata nei primi anni ’60, verrà seguita da una seconda nel 1935, fino ad arrivare al 1908 nella terza. Una cronologia inversa che promette di svelare, strato dopo strato, come il male abbia attecchito nella cittadina del Maine, rivelandoci — forse per la prima volta — la vera origine dell’orrore.

E proprio qui sta la forza narrativa di questa nuova serie. Derry non è solo un luogo, ma un personaggio vivo, pulsante, infestato. Una città che sembra attrarre la sofferenza, che cela i suoi segreti sotto una coltre di nebbia, tra fogne umide, vecchi cinema, strade deserte e sorrisi dipinti su volti inquietanti. Welcome to Derry vuole riportarci lì, dove tutto ha avuto inizio. Non solo per mostrarci cosa Pennywise è diventato, ma per svelarci cosa era prima di diventarlo.

Tra i punti focali della trama ci sarà l’incendio del nightclub Black Spot, un evento già citato nel romanzo di King e nella miniserie del 1990, ma mai esplorato a fondo sullo schermo. Questo episodio, che avrà un ruolo chiave nella narrazione, rappresenta una delle prime manifestazioni del male a Derry e sarà l’occasione per gettare luce su dinamiche sociali, razziali e culturali della città. Sì, perché Welcome to Derry non si limiterà all’horror puro, ma intende approfondire le tensioni sotterranee che attraversano la comunità, rendendo la città un ecosistema perfetto per l’insediamento del Male.

Il cast della serie è ricco e variegato. Oltre a Bill Skarsgård, troveremo volti noti come Jovan Adepo (Watchmen), Chris Chalk (Godzilla vs. Kong), Taylour Paige (Zola), James Remar (Dexter), Stephen Rider (Daredevil) e Madeleine Stowe (12 Monkeys). Saranno loro a dare voce e corpo a una nuova generazione di personaggi, alcuni dei quali sopravvissuti all’incendio del Black Spot, altri destinati a diventare inconsapevoli testimoni della rinascita di Pennywise.

Tutto, nella serie, punta a un’esperienza immersiva e disturbante. I riferimenti visivi ai film precedenti saranno numerosi, con scene iconiche reinterpretate, ma anche momenti del tutto nuovi che amplieranno la mitologia del clown. Immaginate di rivedere i ragazzini in bici lungo i viali nebbiosi di Derry, ma con la consapevolezza che, questa volta, la storia è appena cominciata. E che il mostro, forse, è ancora più vicino di quanto pensassimo.Bill Skarsgård stesso ha ammesso che tornare a interpretare Pennywise non era nei suoi piani iniziali. Ma qualcosa, nelle parole dei fratelli Muschietti, ha risvegliato quel lato oscuro in lui. “Pennywise è sempre lì”, ha dichiarato, lasciando intendere che ci sono ancora lati inesplorati del personaggio, zone d’ombra che attendono di essere scoperte. Ed è proprio questa promessa di scoperta che rende Welcome to Derry un progetto tanto affascinante quanto terrificante. Per i fan di Stephen King, la serie rappresenta un’occasione unica per vedere all’opera uno degli universi più complessi e stratificati dell’autore. Non solo un racconto dell’orrore, ma una riflessione sul Male che si annida nella quotidianità, che si manifesta nei momenti di debolezza collettiva, che si nutre delle paure individuali e della complicità silenziosa della società.

HBO ha già rilasciato un primo trailer, che ha fatto drizzare i capelli a chiunque abbia osato guardarlo. Le atmosfere sono quelle giuste: lugubri, inquietanti, intrise di un senso di imminente pericolo. Welcome to Derry sembra volerci dire che il passato non è mai davvero passato. Che il male non muore mai. E che Pennywise, là sotto, sta solo aspettando il momento giusto per tornare a danzare. E voi, siete pronti a tornare a Derry? Avete il coraggio di affrontare l’origine del terrore, di guardare negli occhi il clown e chiedergli chi — o cosa — sia davvero? Raccontatecelo nei commenti qui sotto e condividete l’articolo sui vostri social. Il terrore, si sa, è un’esperienza collettiva… e a Derry, nessuno è mai davvero al sicuro.

Final Destination: Bloodlines – Il ritorno della Morte… e del camion più spaventoso della storia del cinema

C’è qualcosa nell’aria. Un sussurro, un brivido lungo la schiena. È la sensazione familiare di quando una saga horror che ci ha segnato ritorna, pronta a sfidare di nuovo il nostro coraggio – o la nostra sanità mentale. Warner Bros. ha appena acceso l’hype più oscuro annunciando la data di uscita ufficiale di Final Destination: Bloodlines, sesto attesissimo capitolo del franchise che, dal 2000 in poi, ha trasformato la “Morte” in un’arte raffinata e crudele. Segnatevi la data: 16 maggio 2025. Quel giorno, il Destino tornerà a esigere il suo tributo… e sarà implacabile. Il film, diretto dalla coppia Zach Lipovsky e Adam B. Stein, promette un viaggio mozzafiato (letteralmente), con l’uscita prevista anche in alcune sale IMAX, in virtù di un accordo recente che conferma quanto la Warner voglia fare sul serio con questa nuova resurrezione cinematografica. E al momento, nessun altro blockbuster si è prenotato quella data: Bloodlines avrà campo libero per spaventarci fino al midollo.

Quando la paura viaggia su ruote: il ritorno del camion assassino

Non si può parlare di Final Destination senza evocare quella scena. Lo sappiamo, lo sai. Il maledetto camion che trasporta tronchi in Final Destination 2. Una scena così devastante che ha impresso nella mente collettiva una fobia concreta: passare accanto a un tir carico di legname sull’autostrada non è più la stessa cosa da allora. È diventato un incubo condiviso, un trauma pop. E indovinate un po’? Warner Bros. ha deciso di cavalcare proprio quel terrore con una mossa di marketing tanto geniale quanto disturbante: un camion sputato fuori dal secondo film, sporco di sangue e sinistro come la morte stessa, sta girando per gli Stati Uniti.

Sì, hai capito bene. C’è un vero camion macchiato di rosso, un tributo horror su ruote, che sta viaggiando tra gli ignari automobilisti americani per promuovere il film. Alcuni fortunati (o sfortunati?) lo hanno già avvistato, e il web si è riempito di video in cui l’ansia diventa virale. Per molti è un colpo di genio. Per altri, come chi scrive, è pura crudeltà. Perché c’è un confine sottile tra nostalgia e tortura psicologica, e Final Destination: Bloodlines sembra aver deciso di oltrepassarlo con gusto.

La Morte cambia prospettiva: cosa ci aspetta in Final Destination: Bloodlines

Ma dietro alla trovata pubblicitaria si nasconde un film che potrebbe davvero rivoluzionare la saga. Jeffrey Reddick, il creatore originale, ha parlato apertamente del desiderio di espandere l’universo narrativo del franchise. Non sarà solo una nuova serie di morti spettacolari (anche se, ne siamo certi, non mancheranno): Bloodlines vuole raccontare qualcosa di diverso. Vuole esplorare la morte dal punto di vista di chi, ogni giorno, ci convive per mestiere.

Parliamo di paramedici, vigili del fuoco, agenti di polizia. Uomini e donne che affrontano il caos e la tragedia in prima linea, che combattono contro il destino armati solo della loro volontà di salvare vite. E se fossero proprio loro, per una volta, a sfidare la Morte nelle sue stesse regole? Craig Perry, storico produttore della serie, ha promesso che Bloodlines sarà un gioco pericoloso tra scelta e conseguenza, tra salvezza e condanna, in cui ogni decisione potrà alterare il sottile equilibrio tra vita e morte.

Il ritorno di volti noti (e amati)

Nel cuore pulsante di questa nuova storia ritroviamo Tony Todd, l’iconico William Bludworth. Se conoscete la saga, sapete che ogni volta che lui compare, il gelo cala nella stanza. Misterioso, enigmatico, forse più vicino alla Morte di quanto lasci intendere, il suo personaggio rappresenta la coscienza nera dell’universo di Final Destination. Insieme a lui troviamo un cast giovane e interessante: Brec Bassinger, Teo Briones, Kaitlyn Santa Juana e Richard Harmon si caleranno nei panni dei nuovi protagonisti. E, siatene certi, qualcuno di loro perderà la testa… in senso molto letterale.

La sceneggiatura è stata affidata a Guy Busick (già al lavoro su Scream), Lori Evans Taylor e Jon Watts, un team che conosce bene le dinamiche del genere e che promette una narrazione più stratificata e meno prevedibile. Le riprese si sono svolte a Vancouver tra luglio e ottobre 2023, con una pausa forzata a causa dello sciopero SAG-AFTRA, e riprese nel marzo 2024 per concludersi in tempo per l’uscita primaverile del 2025.

La Morte non è una condanna. È una possibilità.

In un’intervista recente, Reddick ha rivelato qualcosa di molto personale. Ha raccontato di come sua madre, data per spacciata dai medici, abbia invece superato un’operazione a 87 anni. “La morte non è una condanna definitiva”, ha detto. E questa frase, detta da colui che ha inventato un franchise in cui la Morte è protagonista assoluta, cambia tutto. Ci fa capire che Bloodlines potrebbe non essere solo una serie di trappole letali e incidenti improbabili. Potrebbe essere anche un’ode alla resilienza umana, alla possibilità di sfuggire, almeno per un po’, all’inevitabile.

E forse è proprio questo il fascino eterno di Final Destination. Non è solo paura. È la tensione costante tra ciò che possiamo controllare e ciò che ci sfugge, tra la casualità e il disegno nascosto che sembra guidare ogni cosa. Un concetto potentissimo, soprattutto in un’epoca come la nostra, dove il caos è diventato una componente quotidiana.

Pronti a incontrare di nuovo il Destino?

Final Destination: Bloodlines uscirà il 16 maggio 2025. C’è ancora tempo per prepararsi, per riguardare tutti i capitoli precedenti (anche se magari saltate la scena del camion nel secondo film…), per speculare sulle nuove morti creative e sul mistero che avvolgerà questo nuovo capitolo. La Morte, ancora una volta, ci invita a giocare. E come sempre, le regole sono le sue.

Che ne pensate di questa inquietante trovata pubblicitaria? Vi siete mai trovati dietro a un camion pieno di tronchi e avete subito avuto un flashback? E soprattutto: siete pronti per tornare a sfidare il Destino?

Parliamone insieme nei commenti qui sotto e, se vi è piaciuto questo articolo, condividetelo sui vostri social! Aiutateci a spargere il terrore… con stile nerd, ovviamente. 💀💬

Il 26 aprile è Alien Day: neanche sul calendario nessuno può sentirti urlare!

A distanza di quasi mezzo secolo dal suo esordio, Alien è diventato una delle creature fantastiche della storia del cinema e continua ad appassionare milioni di fan. Ogni anno gli appassionati festeggiano questo iconico franchise proprio il 26 aprile: una scelta non casuale è per veri nerd. Il numero 4/26 si riferisce al nome del satellite, LV-426 noto anche come Acheron, una delle tre lune del pianeta Calpamos dove vengono scoperti per la prima volta gli xenomorfi nel film del 1979 di Ridley Scott.

L’Alien Day è stato creato ovviamente da grandi appassionati della saga fantahorror: la prima giornata  “non ufficiale” è stato celebrata nella primavera del 2015 da un gruppo di persone a Brooklyn, New York. Dal  2016, l’Alien Day ha avuto  una connotazione  più ufficiale quando la 20th Century Fox, produttrice dei film di Alien,  è stato coinvolta direttamente nella sponsorizzazione delle celebrazioni in occasione dell 30° anniversario dell’uscita del sequel di Alien, Aliens – Scontro Finale.. Una delle iniziative più memorabile di quella edizione fu una sfida a quiz che è durata ben 24 ore intere. Da mezzanotte a mezzanotte, le domande trivia di Alien sono state pubblicate su Twitter ogni 42,6 minuti (per un totale di 35 domande) e i premi includevano gadget e costumi della serie.

La saga cinematografica di Alien è oggi considerata una delle più grandi e influenti dell’intera storia del cinema. Il motivo del suo successo sta nella sua capacità di evocare emozioni diverse ma sempre intense, attraverso una trama ben costruita e personaggi indimenticabili. Alien non è solo una serie di film ma un vero e proprio franchise crossmediale che ha esordito nel 1979 nel primo poderoso capitolo di Ridley Scott, alla sua prima esperienza nella fantascienza. Il primo film vinse l’Oscar nel 1980 per gli effetti speciali e nell’anno di uscita a fronte di un costo di 11 milioni di dollari ne incassò oltre 100 .Da qui, si è sviluppato un universo vasto ed estremamente dettagliato, che ha reso Alien uno dei franchise cinematografici più amati a livello mondiale.

Uno degli elementi chiave del successo della saga è sicuramente l’antagonista principale, il xenomorfo. Questo essere alieno è diventato un simbolo del cinema horror e fantascientifico, grazie alla sua forma unica e inquietante, ma anche al modo in cui si evolve nel corso della serie. Ogni nuovo film ha introdotto nuove varianti o innovazioni, rendendo il xenomorfo sempre più spaventoso e pericoloso.Inoltre, non si può sottovalutare il contributo degli attori che hanno interpretato i personaggi principali. Sigourney Weaver è diventata un’icona per il suo ruolo di Ellen Ripley, una delle prime donne protagoniste nei film di fantascienza e una figura femminile molto forte ed autonoma. Ma anche i personaggi interpretati da altri attori, come Michael Biehn o Lance Henriksen, sono diventati celebri per le loro interpretazioni memorabili.

Torsoli: Guglielmo Tell nella lotta contro gli zombie, un’originale rivisitazione horror del mito svizzero

Immaginate di prendere una delle leggende più iconiche della storia, quella di Guglielmo Tell, e di catapultarla in un mondo post-apocalittico invaso da zombie. Potrebbe sembrare una combinazione bizzarra, ma è esattamente ciò che Joël Prétôt fa con la sua graphic novel Torsoli, pubblicata dall’Istituto Editoriale Ticinese (IET) nella collana “Le Nuvole”. Un’opera che riesce a fondere con maestria il folklore svizzero, l’horror e una critica sociale di grande impatto, portando sullo schermo una versione inedita e inquietante del celebre eroe svizzero.

Guglielmo Tell, noto per la sua resistenza e per la sua lotta per la libertà contro l’oppressione, viene reimmaginato in un contesto post-apocalittico dove il male che minaccia la sua terra non è più un tiranno umano, ma un’orda di non morti famelici che infetta ogni angolo della sua patria. In Torsoli, Tell non è più solo il simbolo dell’indipendenza elvetica, ma diventa il faro di una lotta disperata contro un male che dilaga inesorabile. La sua arciere di fama mondiale non punta più a colpire frutti o tiranni, ma a fermare l’avanzata di una minaccia che trasforma i suoi compaesani in esseri privi di volontà e umanità.

Joël Prétôt, con il suo approccio originale e audace, riscrive la storia di Guglielmo Tell attraverso lenti horror e sociali. La scelta di inserire gli zombie in questo contesto non è casuale. Infatti, l’invasione degli zombi diventa una potente metafora della pericolosa diffusione di ideologie e mali contagiosi che travolgono le comunità, minacciando la loro stessa identità. Un tema che, sebbene possa sembrare anacronistico, è terribilmente attuale e rilevante, portando alla luce riflessioni sulle paure collettive, sulla resistenza e sulla lotta per la sopravvivenza in un mondo che cambia a una velocità spaventosa.

La storia di Torsoli è quindi più di un semplice racconto di zombi. È una riflessione sulla fragilità della società, un’esplorazione della condizione umana, vista attraverso il prisma di un mito eterno, quello di Guglielmo Tell, che viene trasfigurato in un eroe moderno, ma pur sempre legato alle sue radici. Prétôt non si limita a riprendere il mito originale, ma lo deforma, lo distorce, lo adatta ai tempi oscuri che sta raccontando. E lo fa con una grazia particolare, che unisce il ritmo dell’azione all’introspezione psicologica del protagonista.

Joël Prétôt, classe 1985 e originario di Paradiso, è un fumettista e illustratore che ha acquisito grande notorietà nel panorama italiano, grazie al suo stile distintivo e alla sua capacità di affrontare tematiche complesse con un linguaggio visivo unico. Dopo aver frequentato la Scuola del Fumetto di Milano, ha avuto modo di cimentarsi in numerosi progetti, realizzando opere autoprodotte e su commissione. Il suo impegno nel settore sociosanitario, poi, arricchisce ulteriormente la sua visione artistica, conferendo alle sue opere una profondità e una sensibilità rara. Con Torsoli, Prétôt non si limita a narrare una storia, ma invita il lettore a riflettere, a interrogarsi sul mondo che lo circonda e a confrontarsi con le proprie paure.

La scelta del contesto svizzero e la rilettura di una figura come Guglielmo Tell offrono, dunque, un’opportunità unica per esplorare temi universali come la libertà, la resistenza e la lotta contro l’oppressione, ma anche la paura del cambiamento e della disintegrazione sociale. Con un impianto narrativo che sa mescolare tradizione e innovazione, Torsoli non è solo un’opera di intrattenimento, ma un’occasione per riflettere sulle forze che modellano la nostra società e le nostre identità.

In conclusione, Torsoli è un’opera che segna un passo importante nel panorama del fumetto contemporaneo, un lavoro che va oltre la superficie e riesce a intrecciare generi diversi, dal folklore all’horror, dalla critica sociale alla riflessione sull’indipendenza e la lotta. Joël Prétôt ci regala una rivisitazione di Guglielmo Tell che, in un mondo invaso da zombie, assume nuovi e inquietanti significati, diventando non solo il simbolo di un’epoca, ma anche di un’umanità che lotta, a fatica, per non soccombere alle proprie paure.

Monster High: World’s Scare – La Nuova Miniserie di Fumetti Che Celebra le Differenze e l’Innovazione Mostruosa

Per tutti gli appassionati di Monster High e della cultura nerd, è arrivato il momento di prepararsi a un’avventura davvero unica. A luglio, infatti, arriverà Monster High: World’s Scare, una nuova miniserie di fumetti che promette di conquistare vecchi e nuovi fan della saga. Questa produzione esclusiva nasce dalla collaborazione tra Mattel e IDW Publishing, e Nerdist ha l’onore di rivelarla in anteprima. Se vi siete già innamorati delle creature mostruosamente stilose che popolano il mondo di Monster High, non potete assolutamente perdere questa nuova e affascinante storia.

La Magia di Monster High: Un Viaggio tra Mostri e Diversità

Ma cos’è esattamente Monster High? Per chi non lo sapesse, questa serie è nata nel 2010 come una linea di bambole di Mattel, ma in breve tempo ha conquistato milioni di cuori in tutto il mondo, trasformandosi in un vero e proprio fenomeno culturale. Il concept alla base di Monster High è tanto semplice quanto geniale: racconta le avventure di un gruppo di teenagers, figli di mostri famosi, che frequentano una scuola dove l’individualità e la “mostruosità” sono celebrati. Un mix di horror, moda e inclusività che ha dato vita a una serie animata web, la quale è andata in onda dal 2010 al 2018, ed è tornata alla ribalta nel 2018 con un reboot che ha affascinato ancora di più i fan.

Ryan Ferguson, capo globale della pubblicazione di Mattel, sottolinea come il fascino di Monster High risieda nella sua capacità di toccare il cuore di lettori provenienti da ogni angolo del mondo. “Monster High celebra ciò che ci rende unici, e i nostri collaboratori di IDW Publishing sono riusciti a catturare questo spirito magnificamente”, afferma Ferguson. “Non vediamo l’ora che i fan si immergano in queste nuove avventure e scoprano di più su questi personaggi iconici, celebrando la loro individualità come solo Monster High sa fare.”

Monster High: World’s Scare – Una Nuova Miniserie da Non Perdere

Con Monster High: World’s Scare, la saga si arricchisce di una nuova miniserie che vede protagonista Frankie Stein e la sua inseparabile Boo Crew, impegnati in un’inedita sfida. I nostri mostruosi eroi parteciperanno al “World’s Scare”, una competizione che richiama le fiere mondiali del XIX secolo, dove mostri e creature di ogni tipo presentano le loro invenzioni più straordinarie. Un’occasione per esplorare il misterioso mondo della scienza mostruosa, ma anche un tributo emozionante al padre di Frankie, il celebre Professor Frankenstein. La miniserie non solo offrirà nuove emozionanti avventure, ma risponderà anche a domande che i fan si pongono da tempo. Chi c’era davvero dietro la misteriosa alleanza con Lothar? Cosa sta succedendo con il quaderno di Frankenstein? E, soprattutto, chi è il misterioso CryptCrier? Con la sceneggiatura di Jacque Aye e i disegni di Caroline Shuda, Monster High: World’s Scare si preannuncia come un viaggio ricco di colpi di scena e sorprese.

Un Fumetto per Tutti: Fan Vecchi e Nuovi

Una delle cose che ha reso Monster High un fenomeno globale è la sua capacità di abbracciare la diversità. Questo nuovo capitolo non fa eccezione, celebrando l’inclusività e l’originalità dei suoi personaggi. Sia che si tratti di un fan di vecchia data, che conosce ogni dettaglio della saga, sia che si tratti di un neofita, Monster High: World’s Scare è pensato per tutti. La trama avvincente, ricca di mistero e sorprese, è perfetta per chi ama le storie dove l’individualità è non solo accettata, ma addirittura celebrata. E per i collezionisti, non mancano neanche le bellissime copertine alternative, come quella del primo numero, un’opera d’arte da non lasciarsi sfuggire, firmata da Betsy Cola.

Quando Esce e Dove Acquistarlo

Se non vedete l’ora di mettere le mani su Monster High: World’s Scare, sappiate che il primo numero arriverà negli States a luglio. Con un numero doppio che promette di farvi vivere un’esperienza ricca di colpi di scena, la serie si comporrà di cinque numeri, ognuno dei quali sarà un piccolo capolavoro per i fan.

Fonte: nerdist.com.

L’esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual. Un’Interpretazione del Demone e della Fede nel Cinema Horror

Quando si parla di possessioni ed esorcismi nel cinema, il pensiero corre subito a titoli scolpiti nella memoria collettiva: L’Esorcista, The Exorcism of Emily Rose, The Conjuring. Ma con L’esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual, in uscita nelle sale italiane il 29 maggio grazie a Midnight Factory, David Midell tenta qualcosa di diverso: non solo riportare alla luce uno dei casi di possessione più documentati della storia, ma anche farlo con un taglio crudo, realistico e psicologicamente profondo. E, sorpresa tra le sorprese, al centro di questo viaggio infernale troviamo un Al Pacino in stato di grazia, nei panni di un prete anziano in lotta con le proprie ombre interiori.

Una storia vera, un orrore senza filtri

Midell attinge a piene mani dagli archivi della storia per costruire la sua narrazione. Quella di Emma Schmidt – conosciuta anche come Anna Ecklund – è una vicenda realmente accaduta nell’America rurale del 1928, in un convento sperduto nello Iowa. Si trattò di uno dei pochi casi di esorcismo ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa cattolica, con testimonianze scritte e dettagli raccapriccianti conservati nei resoconti di padre Joseph Steiger, chiamato a documentare ogni fase del rituale.

È proprio questa base storica che conferisce a The Ritual un’aura disturbante e autentica: il film non rincorre gli effetti speciali o il facile spavento da “jump scare”, ma si affida a un’escalation lenta, soffocante, che sfiora il documentaristico. L’orrore non esplode: si insinua, si diffonde, cresce con il silenzio, con lo sguardo sbarrato di una ragazza tormentata e con il tremolio delle mani di un prete che dubita.

Pacino, Stevens e la battaglia tra fede e colpa

Padre Theophilus Riesinger (Al Pacino) è un esorcista consumato dal tempo e dai dubbi. La sua fede, ormai corrosa, sembra trovare nell’esorcismo di Emma l’ultima possibilità di redenzione. Accanto a lui, un giovane e brillante Dan Stevens (padre Joseph Steiger), prete con un passato oscuro e occhi che nascondono più di quanto rivelano. È proprio il rapporto tra questi due uomini – opposti per età, temperamento e ferite interiori – il fulcro drammatico del film.

Qui The Ritual si distanzia dal puro horror per abbracciare un’analisi psicologica. Ogni preghiera, ogni gesto rituale, diventa un confronto con i propri demoni. E nel riflesso delle urla di Emma (interpretata con sorprendente intensità da Abigail Cowen), lo spettatore scorge i vuoti e le crepe di chi cerca salvezza tanto per sé quanto per gli altri.

Estetica della possessione: quando la luce fallisce

La regia di David Midell si muove con precisione chirurgica. Dimenticate i conventi gotici e i cliché iconografici del genere: qui tutto è asciutto, scarno, claustrofobico. Il convento, girato nel Mississippi, è una prigione dell’anima, con pareti che sembrano chiudersi addosso ai protagonisti. La fotografia sfrutta la luce naturale fino allo stremo, per poi lasciare spazio all’oscurità – una metafora visiva che non si limita a descrivere l’ambiente, ma traduce visivamente lo stato interiore dei personaggi.

Il vero orrore non è solo quello che vediamo, ma quello che immaginiamo. Il corpo di Emma, contorto, graffiato, urlante, è il centro di una liturgia terrificante in cui anche l’assenza di effetti speciali diventa una scelta stilistica. Tutto è reale, o almeno plausibile. È questa verosimiglianza a rendere il film ancora più disturbante.

Un’esplorazione dell’anima prima che del demone

Oltre alla possessione, The Ritual parla soprattutto di fede – quella che vacilla, che si rompe, che si cerca nei momenti di disperazione. Il film ci ricorda che spesso, prima ancora di affrontare il Male con la M maiuscola, dobbiamo imparare a riconoscere quello che alberga dentro di noi. È per questo che ogni personaggio è segnato da un percorso personale di discesa agli inferi: non solo Emma, ma anche chi la circonda. Perfino le suore del convento, come la Rose di Ashley Greene o la madre superiora interpretata da Patricia Heaton, vivono la possessione come una contaminazione invisibile, come un’epidemia spirituale.

L’esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual non è un film perfetto, ma è un film necessario. Necessario per chi ama il cinema horror che non si accontenta di far paura, ma vuole interrogare, insinuare, lasciare strascichi. È una pellicola che guarda agli archetipi del genere per poi scardinarli, affidandosi a un cast di altissimo livello e a una regia rigorosa, inquieta, capace di scavare più nell’animo umano che nella mitologia del demoniaco. David Midell, grazie anche alla potenza silenziosa di Al Pacino e alla fragilità intensa di Abigail Cowen, firma un film che difficilmente lascerà indifferenti. Perché se è vero che il Male può avere molti volti, è altrettanto vero che, in The Ritual, ci guarda dritto negli occhi.

The Rotten Fruit: L’animazione macabra di Eli Roth arriva su WeShort con una serie che scuote e diverte

Con il suo marchio di fabbrica di orrore estremo e narrazioni scomode, Eli Roth, regista e produttore noto per pellicole come Cabin Fever e Hostel, si lancia in un’avventura animata in stop motion che è tanto grottesca quanto irresistibile. The Rotten Fruit non è solo una serie animata, è un tuffo nell’assurdo, nel folle e nel disgustoso, dove la musica rock incontra il caos della frutta avvelenata.

La serie, che da oggi è disponibile in esclusiva sulla piattaforma di cortometraggi WeShort, offre otto episodi in un mix di umorismo nero e critica sociale. Creata da Roth in collaborazione con il suo amico d’infanzia e produttore Noah Belson, The Rotten Fruit racconta le gesta di una band di frutta (e una carota), il cui comportamento sociopatico e violento va ben oltre ogni limite di decenza. Con una tagline che dice tutto: “They drink. They shag. They rock. They’re fruit.” (Bevono, scopano, fanno rock. Sono frutta.), la serie non si preoccupa di scandalizzare e di sfidare ogni convenzione.

Lanciata originariamente su z.com più di vent’anni fa, The Rotten Fruit è stata una delle prime opere ad abbracciare un formato di animazione che mescola il grotesco con il satirico. Ora, con il 25° anniversario alle porte, Roth e Belson hanno deciso di riportarla in vita, aggiungendo due episodi inediti e rendendola disponibile gratuitamente per una settimana. Una scelta che non solo celebra il passato, ma lancia anche una nuova era per il duo creativo.

Un ritorno al caos

Cosa rende The Rotten Fruit così affascinante? È il suo approccio senza freni all’assurdo, la sua visione senza censure di un mondo in cui ogni regola sociale è violata per puro divertimento. I membri della band non sono solo frutta in senso metaforico, ma veri e propri frutti in carne (o buccia) e ossa, che agiscono come un gruppo di rockstar fuori controllo, le cui disavventure spaziano dai disordini nei concerti ai rapimenti dei critici, dalle lotte con le boy band alla guerra contro la pirateria musicale. Ma non finisce qui: la serie prende una piega ancora più bizzarra con episodi come We Are The World, dove la band tenta di realizzare una canzone di beneficenza, ma la situazione deraglia completamente, o con Cancer Boy, che vede la band registrare una traccia per un frutto malato, con risultati disastrosi e irriverenti.

La serie è una continua provocazione, un gioco di maschere in cui il comico si mescola al macabro. In ogni episodio, la violenza, l’ironia e il surreale si intrecciano in un mix che fa ridere e inquieta allo stesso tempo. È un’analisi spietata e grottesca del mondo della musica e della celebrità, ma anche della nostra cultura contemporanea.

La genesi di un cult

Roth, ormai famoso per le sue opere horror che escono dal solco del genere, ha sempre avuto un amore per il surreale e per l’irriverenza. Insieme a Belson, ha dato vita a un progetto che affonda le radici in una passione adolescenziale per il cinema, la comicità e l’assurdo. Il risultato è una serie che non solo sdrammatizza il mondo della musica rock, ma lo trasforma in qualcosa di completamente nuovo, mescolando il macabro e l’intrattenimento con una visione completamente personale e audace.

Non è un caso che molti di questi episodi abbiano anticipato temi e tecniche che Roth avrebbe poi esplorato nelle sue pellicole più note. La sua capacità di mescolare il grottesco con la comicità, di spingere i limiti dell’umorismo nero e della violenza, è ciò che rende The Rotten Fruit tanto affascinante. È un’opera che, pur mantenendo un aspetto spensierato e quasi infantile grazie alla tecnica del claymation, porta avanti una riflessione sottile, ma provocatoria, sulla società e sul potere della cultura pop.

La ripresa di un’icona underground

Il ritorno di The Rotten Fruit su WeShort segna anche l’inizio di una nuova fase nella carriera di Roth, che non solo riafferma il suo legame con il mondo dell’animazione, ma entra anche nel mondo della distribuzione di cortometraggi. Con il supporto di WeShort, Roth intende dare visibilità a nuovi registi e giovani talenti dell’orrore, proprio come aveva fatto con Cabin Fever, il suo primo film che ha visto la luce grazie anche ai fondi raccolti attraverso la distribuzione di questi corti.

La collaborazione con WeShort non è solo una celebrazione di The Rotten Fruit, ma anche una porta aperta per il futuro dell’industria dell’horror e del cortometraggio. Roth e Belson, con la loro visione spietata e creativa, hanno dimostrato che anche il formato breve può essere una piattaforma potente per esplorare temi inquietanti e innovativi. E chissà, se The Rotten Fruit avrà il successo che merita, potrebbe anche esserci una reunion della band di frutta più scatenata della storia.

Se siete fan dell’ironia più nera, delle storie che sfidano le convenzioni e dell’animazione che non ha paura di andare oltre i limiti del gusto, The Rotten Fruit è un viaggio che non potete perdere. Tra le mani di Eli Roth e Noah Belson, questo progetto ribelle e dissacrante ha una potenza inaspettata, capace di farvi ridere, riflettere e, soprattutto, restare colpiti. Un’animazione che non si limita a intrattenere, ma che scuote davvero lo spettatore, facendo di ogni episodio un’esperienza intensa e memorabile. Non è solo una serie, è un cult che sta aspettando di essere riscoperto da una nuova generazione.