C’è un certo tipo di cinema che non ti lascia mai. Non parlo di quelli che rivedi ogni Natale o che citi a memoria nei giochi da pub. Parlo di quei film che si infilano sotto la pelle, che sedimentano nel subconscio e rispuntano, prepotenti, nei momenti più imprevedibili. Per me, 28 giorni dopo è sempre stato uno di quelli. Non solo un film, ma un’esperienza sensoriale, quasi tattile, che ha cambiato il modo in cui guardo l’orrore sullo schermo. La corsa sfrenata di Cillian Murphy in una Londra vuota, la musica di John Murphy che monta come un’onda di panico, gli occhi rossi degli infetti: sono immagini che non si cancellano.
E ora eccoci qui, oltre vent’anni dopo, con 28 anni dopo. Un titolo che potrebbe sembrare una semplice operazione nostalgia – e invece no. Quello che Danny Boyle e Alex Garland ci regalano non è solo un sequel. È una riflessione lucida e spietata su cosa significhi vivere dopo la fine del mondo. E soprattutto: su cosa significhi essere ancora umani.
La cosa che mi ha colpito subito – ancor prima dei titoli di testa – è la consapevolezza del film di trovarsi in un mondo post-pandemico. Non parlo solo della narrazione, ma dello sguardo con cui ci osserva. 28 anni dopo sa benissimo che lo spettatore del 2025 ha conosciuto l’isolamento, la paura dell’altro, il silenzio improvviso delle città. Lo accoglie. Lo ingloba nella sua struttura. È come se il film ci dicesse: “Vi ricordate la finzione? Ora fa più paura perché sapete quanto sia vicina alla realtà.”
Il Regno Unito, nella finzione, è diventato un buco nero nella mappa. Nessun contatto, nessuna speranza. La vita resiste solo in forma di ruggine, muschio e sangue. E al centro di questo inferno c’è una famiglia spezzata. Jamie, interpretato da un Aaron Taylor-Johnson in stato di grazia, si è rifugiato con sua moglie Isla e il piccolo Spike su una di quelle isole sospese nel tempo e nelle maree. La malattia che corrode Isla non è il virus, ma qualcosa di ancora più crudele perché reale: una degenerazione senza nome, senza cura. E quando Spike decide di affrontare il mondo per cercare una salvezza impossibile, capisci che il film non parlerà solo di infetti. Parlerà di legami. Di speranze disperate. Di quanto siamo disposti a rischiare per chi amiamo.
La prima metà è un ritorno all’origine del genere. Boyle ha ancora quella furia visiva che ti incolla alla poltrona: la camera a mano che trema come il battito cardiaco, i tagli frenetici, la luce naturale che filtra tra le rovine. Ma ciò che impressiona di più è come l’universo degli infetti si sia evoluto. Non sono più solo corpi rabbiosi e incontrollabili. Sono diventati parte di un ecosistema. Lenti, veloci, mostruosi: ognuno ha una funzione. E guardandoli, non puoi non pensare al modo in cui anche i virus reali mutano, imparano, sopravvivono. C’è una logica fredda, una coerenza scientifica che rende tutto ancora più agghiacciante.
Ma è la seconda parte del film a sorprendermi davvero. Quando Spike e Isla si inoltrano verso il continente, il tono cambia. Non è più solo tensione. È poesia oscura. È viaggio interiore. Ho pensato a The Road, certo, ma anche a Cuore di tenebra, a Stalker di Tarkovskij. Si abbandonano le regole dell’action e si entra in un campo più rarefatto, più doloroso. Le rovine parlano. I silenzi diventano assordanti. Garland sa scrivere la paura non solo come minaccia esterna, ma come voragine dell’anima. E Boyle, con la sua regia istintiva ma calibrata, trasforma le immagini in meditazioni visive. Ogni inquadratura pesa, resta, scava.
Il cast è magnetico. Taylor-Johnson è una forza quieta: senti ogni sua scelta come una ferita. Jodie Comer, fragile e luminosa, regala una performance che spezza il cuore. E Ralph Fiennes – non so nemmeno da dove cominciare. Il suo Dr. Kelson è l’incarnazione del dubbio etico: è un medico? Un santone? Un sopravvissuto che ha perso l’anima? Ogni suo sguardo è un enigma. E poi c’è quel momento. Il viso sfocato di un infetto. Quegli occhi. Quella mascella. Non dicono nulla, ma lo sai. Sì, lo sai. Boyle e Garland non ti servono Cillian Murphy su un piatto d’argento. Ti fanno desiderare che ci sia. E temere che ci sia.
La produzione è sontuosa, ma non perde mai l’anima indie che ha reso grande il primo film. Ogni dollaro del budget – 75 milioni – è investito nel mondo, non nell’effetto. Ci sono immagini che mi porterò dietro: una città sommersa, un campo pieno di croci fatte con i rottami, un bambino che accende un fuoco nella notte. E poi il suono. I momenti di silenzio assoluto. I crescendo elettronici. La colonna sonora è una lama, e taglia nei momenti giusti.
E infine, c’è la promessa. Questo è solo l’inizio. 28 Years Later: The Bone Temple è già pronto. Nia DaCosta alla regia è una scelta coraggiosa e stimolante. Se manterranno questa coerenza, se continueranno a raccontare l’apocalisse con occhi umani e feriti, allora non ci troveremo di fronte a una semplice trilogia. Ma a una nuova mitologia.
28 anni dopo è un film che non spaventa per il sangue, ma per la verità. Perché parla di solitudini, di memorie, di futuri incerti. È un horror che riflette, che morde piano prima di affondare i denti. E io, da appassionata irriducibile del genere, non posso che sentirmi grata. Perché non è solo un grande film. È un grande sguardo sul mondo. Uno di quelli che, una volta che li hai incontrati, non ti abbandonano più.