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“Valentina pirata” di Guido Crepax: eros, fantascienza e visionarietà in un tesoro ritrovato

C’è un momento, per chi ama profondamente il fumetto d’autore, in cui la carta stampata torna a battere il cuore. È quando un’opera dimenticata, smarrita nei meandri del tempo, viene restituita ai lettori in una veste degna della sua grandezza. È esattamente ciò che accade con Valentina pirata di Guido Crepax, in uscita in libreria il prossimo 17 giugno. Un volume che si annuncia come un evento editoriale per chi, come me, ha sempre considerato l’universo di Valentina uno dei vertici dell’erotismo a fumetti — e non solo.

Questo nuovo volume, che fa parte della prestigiosa collana “Mondo Crepax”, è molto più di una semplice ristampa: è una vera e propria edizione ragionata, un atto d’amore critico e filologico. All’interno troviamo raccolte alcune delle storie più affascinanti ambientate in uno scenario fantascientifico, fra cui spicca L’astronave pirata, autentico gioiello mai più ristampato dal lontano 1968. Già solo questo basterebbe a giustificare l’acquisto, ma c’è molto di più.

L’apparato critico che accompagna il volume è firmato da Boris Battaglia, che non è certo un nome qualsiasi nel mondo degli studi sul fumetto. Il suo contributo aiuta a leggere queste storie non solo come prodotti di una fantasia debordante, ma anche come frammenti preziosi di un discorso più ampio, che coinvolge la storia del fumetto italiano, l’evoluzione dell’immaginario erotico e perfino la cultura visiva del secondo Novecento.

Ma lasciatemi dire: per quanto si possa parlare dell’alto valore intellettuale e artistico delle storie di Valentina — e io sono il primo a difenderlo a spada tratta — non bisogna mai dimenticare che si tratta di racconti straordinariamente godibili. Sono narrazioni magnetiche, viscerali, avvincenti. E, sì, anche molto divertenti. Valentina pirata, nonostante il titolo che farebbe pensare a un’avventura alla Salgari in guêpière, è in realtà una space opera sorprendentemente moderna. Rileggerla oggi fa venire i brividi per la sua capacità visionaria: anticipa certi elementi di Star Wars e Dune, ma lo fa con l’eleganza grafica e la sensualità che solo Crepax sapeva dare al tratto.

Ed è proprio qui che si manifesta il genio dell’autore milanese. Perché Crepax non si limitava a disegnare belle donne in pose ammiccanti. Costruiva mondi. Mondi complessi, stratificati, dove l’erotismo non era mai gratuito, ma parte integrante di un linguaggio espressivo profondamente colto e raffinato. E Valentina — giornalista, fotografa, amante, viaggiatrice del tempo e dello spazio — non era mai solo un oggetto del desiderio, ma una protagonista consapevole, una donna vera, fragile e fortissima insieme, che cresceva e invecchiava con il suo autore.

Ripercorrere le pagine di Valentina pirata è un viaggio anche dentro la storia personale e artistica di Guido Crepax. Nato a Milano nel 1933 e scomparso nel 2003, Crepax è stato uno dei più grandi innovatori del fumetto italiano, forse il più noto a livello internazionale quando si parla di graphic novel per adulti. Dopo la laurea in architettura, scelse il disegno come vocazione, realizzando copertine di dischi e campagne pubblicitarie per marchi che hanno fatto la storia del costume italiano, da Campari a Shell, da Esso a Rizzoli.

Ma è nel 1965, sulle pagine della rivista “Linus”, che tutto cambia. Nasce Valentina. Un personaggio rivoluzionario sotto ogni punto di vista: la prima eroina del fumetto erotico a essere raccontata nella sua complessità psicologica, e l’unica, probabilmente, a invecchiare con grazia e autenticità insieme al suo creatore. In quarant’anni di attività, Crepax ha realizzato oltre 5.000 tavole, tradotte in più di 200 edizioni in tutto il mondo. Ma ha fatto anche molto di più: ha illustrato libri, lavorato per il teatro e il cinema, disegnato per la moda e il design, sempre mantenendo una coerenza stilistica e concettuale che oggi ci appare ancora più straordinaria.

In un tempo in cui tutto sembra gridare, la voce di Crepax sussurra. Ma lo fa con una forza che spacca il silenzio. Valentina pirata è una di quelle opere che ti rimangono dentro, che ti fanno sentire il desiderio di esplorare non solo altri pianeti, ma anche gli abissi dell’anima. È un’opera che parla al lettore adulto, ma non smette mai di stimolare lo sguardo curioso e meravigliato del bambino interiore che, almeno per me, ogni tanto ha bisogno di perdersi tra le stelle… in compagnia di una pirata bellissima, libera e inafferrabile.

E tu, lettore del CorriereNerd.it, che rapporto hai con Valentina? Hai mai letto le sue avventure o sei tra coloro che stanno per scoprirla per la prima volta? Raccontamelo nei commenti o condividi questo articolo con chi, come te, ama viaggiare tra le galassie del fumetto e del desiderio.

Le grandi imprese dell’uomo di Dino Battaglia: una raccolta imperdibile

Edizioni NPE sta per pubblicare un volume che ogni appassionato di fumetti e storia non può perdere: Le grandi imprese dell’uomo di Dino Battaglia. Questo straordinario lavoro raccoglie per la prima volta in un unico libro le indimenticabili storie che hanno segnato un’epoca, cambiando per sempre il modo di raccontare le vicende dell’uomo e i suoi conflitti.

Con ben quindici storie, accompagnate da numerose illustrazioni, l’opera esplora una varietà di temi che spaziano dalla guerra all’umanità, riuscendo a toccare corde emotive che trascendono il tempo. Realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta, queste storie sono state pubblicate inizialmente sulle riviste Corriere dei Piccoli, Corriere dei Ragazzi e Sgt. Kirk, ma non erano mai state raccolte in un volume completo. Alcune di esse non erano nemmeno più state ripubblicate da tempo, rendendo questa edizione ancora più preziosa.

Un altro grande nome del fumetto italiano, Milo Milani, che all’epoca usava gli pseudonimi Eugenio Ventura e Piero Selva, ha curato i testi di quasi tutte le storie, portando il suo stile unico e profondo che ha saputo dare voce a temi universali. Il risultato è una narrazione che, seppur radicata in un contesto storico preciso, rimane attuale e capace di toccare temi universali come l’umanità, la lotta e la speranza, temi che nessuna guerra può cancellare.

Questa raccolta si inserisce nella collana dedicata a Dino Battaglia di Edizioni NPE, giunta al suo diciannovesimo volume, e sarà disponibile in libreria a partire dal 13 dicembre. Per gli appassionati del maestro e del fumetto in generale, Le grandi imprese dell’uomo rappresenta un’occasione unica per rivivere una parte fondamentale della storia del fumetto italiano. Non perdere questa straordinaria occasione di immergerti in storie che hanno fatto la storia del fumetto e continuano a parlare al cuore dei lettori.

Il mago Wiz (Wizard of Id) compie 60 anni: storia e segreti della striscia cult che ha stregato il mondo

Era il 9 novembre 1964. Negli Stati Uniti spopolavano i Beatles, si parlava di guerra fredda e le strisce a fumetti erano uno dei modi più popolari per iniziare la giornata con un sorriso. È in questo contesto, carico di fermento culturale e sociale, che due menti geniali — Johnny Hart e Brant Parker — decisero di unire le forze per dare vita a qualcosa di diverso, un piccolo miracolo su carta: Il Mago Wiz (The Wizard of Id). Sessant’anni dopo, quella striscia è ancora qui con noi, brillante, tagliente, più attuale che mai, con la sua pungente ironia capace di colpire dritto al cuore delle contraddizioni umane.

Per chi non lo conoscesse (e se leggete il CorriereNerd.it dubito che possiate esserne del tutto ignari), The Wizard of Id è una serie di strisce a fumetti ambientata in un regno medievale chiamato Id. Ma non fatevi ingannare dal contesto pseudo-storico: dietro castelli, cavalieri e maghi si cela una satira feroce, modernissima, che gioca con la società contemporanea, le sue assurdità e le sue idiosincrasie.

Il nome stesso della striscia è una genialata. “Id” non è solo un regno inventato: è un richiamo diretto alla teoria psicanalitica di Sigmund Freud. L’Id rappresenta quella parte della psiche umana primitiva, istintiva, egoista, la più animalesca. E Hart, con la sua penna, ha saputo cogliere proprio quella dimensione della natura umana, trasformandola in gag esilaranti che vanno ben oltre la semplice risata: parlano di noi, dei nostri difetti, delle nostre debolezze.

Johnny Hart, che già aveva ottenuto enorme successo con l’altra sua creatura preistorico-satirica B.C., non voleva semplicemente replicare la formula. Così chiese al talentuoso Brant Parker di disegnare Il Mago Wiz, conferendogli un tratto grafico differente, più morbido, grottesco, quasi caricaturale. E da quel sodalizio artistico nacque un mondo ricco di personaggi iconici, ognuno portatore sano di ironia e sarcasmo.

Il re di Id è forse il più rappresentativo: basso, tirannico, isterico e… eletto tramite schede truccate. Una satira neanche troppo velata del potere politico, dell’autoritarismo e della corruzione. Ma non è certo solo: c’è il mago Wiz, titolare della serie ma non sempre protagonista, un incantatore pasticcione dai poteri incostanti, che vive con la sarcastica e spesso sprezzante moglie Blanche. Poi troviamo Bung, il giullare alcolizzato, Sir Rodney, cavaliere codardo ma perennemente innamorato della dolce (ma furbissima) Gwendolyn, Spooky il prigioniero irsuto su cui si accanisce il secondino Turnkey, e ancora Robin Hood, il menestrello Troob, il viscido Duca e un esercito tanto inutile quanto tragicomico. Un cast che, pur affondando nella tradizione medievale, è straordinariamente moderno nei comportamenti e nei problemi.

La genialità di questa serie sta tutta nella sua struttura: una gag al giorno, spesso con un finale inaspettato e intelligente, in grado di strappare una risata amara, una riflessione o un sorrisetto complice. La striscia domenicale a colori, poi, ha reso tutto ancora più affascinante per generazioni di lettori in tutto il mondo.

Già, perché Il Mago Wiz non è rimasto un fenomeno americano. Nel 1966 arrivò anche da noi, in Italia, grazie alla rivista Linus, che ebbe l’intuizione — come spesso accadeva — di portare al pubblico italiano alcuni dei fumetti più brillanti e rivoluzionari dell’epoca. Le strisce vennero poi raccolte in volumi editi da Mondadori e Milano Libri, diventando veri e propri oggetti di culto per gli appassionati.

Nel corso degli anni, la matita è passata di mano: nel 1997 Brant Parker ha lasciato il testimone al figlio Jeff, già attivo nella realizzazione delle strisce. Dopo la scomparsa di Hart nel 2007, la penna è passata al nipote Mason Mastroianni, che continua ancora oggi a tenere viva la magia di Id. E non è un caso che nel 2002 Il Mago Wiz fosse pubblicata da più di mille quotidiani in tutto il mondo. Un vero e proprio record che testimonia la longevità e la forza comunicativa di un’opera apparentemente semplice, ma in realtà finemente cesellata.

Il successo della striscia risiede proprio nella sua capacità di rimanere sempre attuale. Le sue frecciate contro la politica, la religione, la burocrazia, il potere e l’ipocrisia della società non sono mai fuori luogo. Anzi, spesso sembrano scritte apposta per commentare i fatti di oggi. Ed è proprio questa brillante commistione di passato e presente, di medievale e contemporaneo, a rendere il regno di Id un posto così affascinante dove tornare, giorno dopo giorno, striscia dopo striscia. Lo stile dei disegni si è evoluto nel tempo, certo, ma il cuore pulsante della serie è rimasto immutato. Il re è ancora lì a lamentarsi dei sudditi, il mago a pasticciare incantesimi, il popolo a essere sfruttato, i personaggi a sfondare la quarta parete con sguardi complici al lettore. E noi, ogni volta, ci riconosciamo un po’ in quei volti buffi e grotteschi.

Nel mondo nerd, dove la nostalgia ha il sapore di un volume ingiallito o di una striscia letta mille volte ma sempre capace di sorprenderti, Il Mago Wiz è un pezzo di storia che continua a vivere. Non solo per chi ama i fumetti, ma per chiunque cerchi uno sguardo ironico, cinico e allo stesso tempo tenero sull’animo umano. E voi, nerd di tutte le età, ricordate la prima volta che avete letto Il Mago Wiz? Avete un personaggio preferito, una striscia che vi ha fatto piegare in due dalle risate o riflettere a lungo? Raccontatelo nei commenti qui sotto o condividete l’articolo sui vostri social per far scoprire questo capolavoro a chi ancora non lo conosce. Perché ridere — anche della nostra parte più istintiva — è sempre un atto rivoluzionario.

Jacovitti in pillole, alla scoperta del genio anarchico del fumetto italiano: tra salami, cavalli parlanti e sogni in technicolor

C’è un angolo del fumetto italiano dove ogni cosa è possibile. Dove i salami camminano, i cavalli bevono camomilla, i poliziotti si chiamano Cip e i pistoleri sono più surreali di un sogno di Dalí dopo una scorpacciata di spaghetti alla chitarra. È l’universo psichedelico e irresistibilmente assurdo di Benito Franco Giuseppe Jacovitti, meglio conosciuto da generazioni di lettori semplicemente come Jacovitti. Un nome che, per chiunque abbia avuto tra le mani il leggendario Diario Vitt, scatena subito un’ondata di ricordi coloratissimi, risate incontenibili e quel pizzico di nostalgia che solo i veri maestri sanno lasciare.

Jacovitti è stato molto più di un fumettista: è stato un visionario, un umorista, un caricaturista, un provocatore gentile e dissacrante, capace di spingere il linguaggio del fumetto verso territori inaspettati, grotteschi e brillanti, senza mai perdere la capacità di parlare a tutti, dai bambini ai lettori più smaliziati. La sua matita ha attraversato più di mezzo secolo di storia italiana, raccontandola con ironia, spirito critico e una vena surreale che non ha eguali nella storia del fumetto mondiale.

Nato a Termoli nel 1923, Jacovitti scopre molto presto la sua vocazione per il disegno. Da giovanissimo inizia a pubblicare le sue prime vignette umoristiche e, nonostante un fisico così esile da valergli il soprannome “Lisca di pesce”, mostra fin da subito un talento gigantesco. Una delle sue prime grandi avventure creative è con Il Vittorioso, settimanale dell’editrice cattolica AVE, con cui instaura un sodalizio durato trent’anni. Proprio su quelle pagine nascono alcuni dei suoi personaggi più iconici: dall’onorevole Tarzan al detective Tom Ficcanaso, passando per Zorry Kid, Gionni Galassia e la Signora Carlomagno.

Ma è nel 1957, sulle pagine de Il Giorno dei Ragazzi, che prende vita colui che diventerà la sua creatura più celebre: Cocco Bill, un cowboy fuori di testa che beve camomilla al posto del whisky e spara battute quanto pallottole. Cocco Bill è il perfetto esempio dell’arte di Jacovitti: una parodia vivace e dissacrante del western americano, un inno al nonsense e alla fantasia più sfrenata, popolato da cavalli antropomorfi, banditi improbabili e dialoghi esilaranti.

Il mondo visivo di Jacovitti è inconfondibile: tavole affollatissime, vere e proprie esplosioni grafiche dove ogni centimetro è occupato da personaggi, oggetti fuori posto, elementi surreali e gag visive. Chiunque abbia sfogliato anche solo una delle sue pagine si è imbattuto almeno una volta in salami con le gambe, vermi con gli occhiali, serpenti sorridenti o lumache espressive. Ogni vignetta è una miniatura delirante, un universo parallelo in cui la logica è sovvertita e dove tutto sembra animato da una vitalità contagiosa.

Jacovitti non fu mai allineato. Né artisticamente, né politicamente. Negli anni Settanta, la sua autonomia intellettuale e il rifiuto di piegarsi alle mode culturali dominanti gli costarono l’accusa infondata di essere un simpatizzante fascista, con il risultato che alcune collaborazioni editoriali gli vennero precluse. Ma il suo genio era troppo grande per essere messo a tacere. Continuò a disegnare, a sperimentare, a provocare, a ridere della realtà con il suo tratto grottesco e inimitabile. Nel 1977 pubblicò persino Kamasultra, un’opera satirica dal tono più esplicitamente adulto, in collaborazione con Marcello Marchesi, che mescolava erotismo e ironia in uno stile mai volgare, ma sempre caricaturale e sferzante.

Tra le sue mille attività, spicca anche la creazione del Diario Vitt, pubblicato ininterrottamente dal 1949 al 1980, una vera e propria icona della cultura scolastica italiana. Ogni anno milioni di studenti si tuffavano nelle sue pagine, trasformando il diario in un oggetto del desiderio più per le vignette di Jacovitti che per i compiti annotati. Un successo strepitoso, che superò i 100 milioni di copie vendute, consacrandolo definitivamente come uno dei fumettisti più amati dal grande pubblico.

La sua carriera fu un continuo rincorrersi di invenzioni, collaborazioni, esperimenti. Lavorò per Il Corriere dei Piccoli, Il Giornalino, Linus, Playmen, Il Giorno della Donna, realizzando personaggi come Joe Balordo, Chicchirino, Gamba di Quaglia, Microciccio Spaccavento e tanti altri. Persino Pinocchio, il burattino più famoso del mondo, venne reinterpretato da Jacovitti in almeno quattro versioni diverse, ogni volta con un taglio nuovo, personale, ricchissimo di intuizioni stilistiche e licenze poetiche.

Jacovitti fu anche autore di centinaia di campagne pubblicitarie, di strisce satiriche politiche, di caroselli televisivi. La sua arte contaminò ogni mezzo di comunicazione. Non si può dimenticare, ad esempio, la serie animata di Cocco Bill, prodotta nel 2001, a testimonianza della sua eterna attualità. La sua influenza si è fatta sentire anche tra gli autori più moderni: Leo Ortolani, Massimo Mattioli, Andrea Pazienza – solo per citarne alcuni – hanno tutti riconosciuto in Jac una fonte di ispirazione inesauribile.

Negli anni Novanta, ormai anziano, Jacovitti continuò a disegnare, aiutato da giovani autori come Nedeljko Bajalica, e persino a illustrare favole per bambini, mantenendo fino alla fine quello spirito giocoso e provocatorio che lo aveva sempre accompagnato. Si spense nel 1997, poche ore prima della moglie Floriana, in un epilogo quasi romanzesco, struggente e poetico. Ma il suo mondo, fortunatamente, non è mai morto.

Nel 2012, a Roma, è stata inaugurata una casa museo a lui dedicata, un omaggio doveroso a un autore che ha saputo colorare l’immaginario collettivo italiano con un’ironia che non ha mai fatto sconti a nessuno, ma che non è mai stata cinica. Purtroppo, nel 2025 è stata annunciata la chiusura di questo spazio, una notizia che ci colpisce profondamente e che ci ricorda quanto sia importante custodire la memoria dei nostri maestri.

Jacovitti non era solo un autore di fumetti. Era un artista totale, un giocoliere dell’assurdo, un poeta visivo dell’infanzia, un anarchico gentile che ci ha insegnato a non prendere troppo sul serio la realtà. In un mondo sempre più piatto e conformista, rileggere le sue storie è come fare una boccata d’aria fresca in un luna park dell’immaginazione.

E ora tocca a voi, lettori del CorriereNerd.it: qual è il vostro personaggio preferito di Jacovitti? Quale delle sue tavole vi ha fatto ridere fino alle lacrime o riflettere con un sorrisetto ironico? Avete anche voi un ricordo legato al Diario Vitt o a Cocco Bill? Raccontatecelo nei commenti qui sotto e, se amate questo straordinario artista tanto quanto noi, condividete l’articolo sui vostri social. Perché il mondo surreale di Jacovitti merita di continuare a vivere, pagina dopo pagina, sogno dopo sogno.

Satanik: l’antieroina che ha incendiato il fumetto italiano, tra eros, scienza e liberazione femminile

Nel 1964, in un’Italia ancora in bianco e nero, dove le donne venivano spesso relegate a ruoli accessori nella società e ancora più marginali nella narrativa popolare, esplose sulle edicole una figura che avrebbe rivoluzionato non solo il fumetto italiano, ma anche l’immaginario collettivo: Satanik. Il suo nome echeggia come un urlo di ribellione, un grido che squarcia il velo di ipocrisia borghese e maschilista di quegli anni. Dietro il volto bellissimo, ammaliante e crudele della protagonista, si cela Marny Bannister, una brillante biologa dal volto deturpato, simbolo di quella doppia identità – fisica e morale – che l’avrebbe resa l’icona di un’epoca e la madre di tutte le antieroine moderne.

Marny non è solo un personaggio di carta: è la proiezione oscura e affascinante di un’idea nuova e disturbante di femminilità. Creata dal genio provocatorio di Max Bunker (Luciano Secchi) e dal talento grafico rivoluzionario di Magnus (Roberto Raviola), Satanik non è una semplice “versione femminile di Kriminal”, come alcuni critici dell’epoca provarono timidamente a definirla. È qualcosa di più pericoloso, di più sovversivo. Una donna che prende il controllo della propria vita, del proprio corpo e del proprio destino, senza riserve e senza morale.

Il suo debutto avviene con l’albo La legge del male, pubblicato dall’Editoriale Corno nel dicembre del 1964. In un contesto culturale ancora profondamente segnato da moralismi e censura, Satanik si presenta come un pugno nello stomaco. Marny Bannister, deturpata da un angioma, scopre una formula chimica capace di rigenerare le cellule e trasforma se stessa in una bellezza irresistibile, avvenente e letale. Il prezzo? L’anima, o forse la liberazione da ogni vincolo etico. Non è più solo una scienziata: diventa una vampira moderna, una mantide religiosa che seduce, sfrutta e uccide uomini per raggiungere i suoi obiettivi.

L’eco del Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson è evidente, ma Satanik ribalta completamente il paradigma. Non c’è più una lotta tra Bene e Male, ma tra apparenza e verità, tra potere e impotenza. Marny, nella sua doppia forma, non combatte il male: lo incarna. E in un mondo dominato da uomini, decide che è lei a dettare le regole. Uccide senza rimorsi, manipola, seduce. È l’incarnazione del peggiore incubo maschile in un’epoca in cui le donne cominciavano a parlare di emancipazione, lavoro, autodeterminazione.

Nel corso della serie, che si protrarrà per 231 numeri fino al 1974, Marny evolve. Non solo esteticamente, grazie a trasformazioni sempre più sofisticate – dapprima chimiche, poi attraverso irraggiamenti laser – ma anche psicologicamente. Acquisisce un equilibrio che rispecchia, in modo quasi profetico, le conquiste della società femminile italiana di quegli anni. Nonostante la sua crudeltà, in fondo, Satanik è un personaggio tragico: sa che il suo aspetto magnifico è solo temporaneo, un’illusione destinata a svanire, una maschera che cela la solitudine e la frustrazione della vera Marny.

Il fumetto, nato all’ombra del successo di Kriminal e di Diabolik, prende presto una strada tutta sua. A differenza dei suoi “cugini” maschili, Satanik non ha una morale ambigua: ha una morale assente. I “buoni” non vincono, la legge è impotente, l’eroina è l’unica a uscirne sempre vincitrice. Un elemento che, insieme a tematiche horror, soprannaturali e un erotismo più esplicito e meno allusivo, scatenò una bufera di critiche e attacchi censori. Denunce, sequestri, interrogazioni parlamentari: il fumetto nero per adulti era considerato una minaccia ai costumi. Ma il pubblico non la pensava così.

Satanik arrivò a vendere 200.000 copie, con una cadenza quindicinale impressionante. Non era solo intrattenimento: era una forma di catarsi. Un’evasione per chi era stanco della morale ipocrita, dei romanzi lenti, dei racconti dove “non succede mai niente”, come scrisse Dino Buzzati, uno dei pochi intellettuali a comprendere la potenza narrativa di queste opere. E lo stesso Buzzati confessò di leggere quei fumetti, ammirandone “la rapidità e la sintesi” e l’efficacia nella narrazione visiva.

Altri intellettuali, come Leonardo Sinisgalli, coglievano in Satanik quel gusto grottesco e quella satira sociale che solo apparentemente erano camuffati da horror pulp. Ma soprattutto, dietro i tratti affilati di Magnus e i testi taglienti di Max Bunker, si nascondeva un grido d’allarme e insieme una profezia: le donne stavano cambiando, e con loro sarebbe cambiato anche il modo di raccontarle.

Con il passare del tempo, le atmosfere gotiche, l’estetica cupa e l’eros strisciante di Satanik hanno lasciato un’impronta indelebile. Non solo nel fumetto nero, ma anche in tutto il panorama fumettistico italiano. L’influenza di Satanik è evidente in opere successive, come Dylan Dog, che pesca a piene mani da quell’immaginario fatto di streghe moderne, creature inquietanti e ambiguità morale. Anche il fumetto erotico deve qualcosa a Marny Bannister, che ha aperto la strada a protagoniste sensuali, indipendenti e pericolose.

Un film ispirato al personaggio, uscito nel 1968, non riuscì a coglierne l’essenza. Troppo edulcorato, troppo limitato dai vincoli cinematografici dell’epoca. Ma il fumetto, quello sì, era libero. E per dieci lunghi, indimenticabili anni, Satanik è stata la regina incontrastata dell’oscurità.

Oggi, riguardando quelle copertine dai colori acidi, quei disegni visionari e quelle storie al limite del surreale, Satanik appare come una figura mitologica. Un’eroina maledetta, una Medea contemporanea che ha bruciato i ponti col passato per costruire – o distruggere – un nuovo futuro.

E voi, conoscevate già Satanik? Avete mai letto i suoi albi? Vi affascina il lato oscuro delle antieroine o siete più da supereroi tutto d’un pezzo? Raccontatecelo nei commenti e condividete questo viaggio nel lato più nero del fumetto italiano sui vostri social! Chi sa, magari anche tra i vostri amici c’è qualcuno pronto a lasciarsi sedurre dal fascino letale di Marny Bannister…

Addio a Johnny Hart, il genio delle strip preistoriche e medievali che ha fatto ridere il mondo

Immaginate di spegnervi mentre fate la cosa che amate di più. Non è forse il sogno di ogni artista, di ogni creativo, di ogni nerd che vive immerso nella propria passione? Johnny Hart, leggendario fumettista americano, è morto così: con la matita in mano, al tavolo da disegno, circondato dai suoi personaggi più iconici, mentre dava vita all’ennesima striscia di quel mondo assurdo e spassoso che ha costruito con genio e ironia a partire dal 1958. Aveva 76 anni, e se n’è andato come ha vissuto: disegnando. Il suo nome forse non è famoso quanto quello di altri giganti del fumetto mainstream, ma chiunque abbia amato le comic strip sa bene chi fosse Johnny Hart. È l’uomo che ha inventato B.C., la serie ambientata in una preistoria tutta da ridere, e che insieme al collega Brant Parker ha firmato The Wizard of Id, tradotto in Italia come Il Mago Wiz, un altro capolavoro che univa ironia, satira politica e comicità medievale.

Le sue strisce sono state pubblicate in tutto il mondo, tradotte in decine di lingue e lette da milioni di persone. Un successo planetario che dura da più di sessant’anni e che, come ha confermato Richard Newcombe della Creators Syndicate, continuerà anche dopo la sua scomparsa. Sì, perché Johnny non ha lasciato solo una montagna di disegni e idee nei cuori dei fan, ma anche un gigantesco archivio digitale di materiale inedito su cui continueranno a lavorare i suoi familiari, in particolare la moglie Bobby e le figlie Patti e Perry, da anni già coinvolte nella gestione delle sue creazioni.

Johnny Hart nasce a Endicott, nello stato di New York, il 18 febbraio del 1931. Inizia a disegnare durante il servizio militare nella guerra di Corea, firmando vignette per lo Stars and Stripes, il quotidiano dei militari americani. Tornato negli Stati Uniti, collabora con riviste del calibro di The Saturday Evening Post e Collier’s Weekly, fino a quando nel 1957 ha l’illuminazione: creare un fumetto ambientato nell’età della pietra. Nasce così B.C., pubblicato per la prima volta il 17 febbraio 1958, e da quel momento tutto cambia. Il mondo della comic strip non sarà più lo stesso.

Con B.C., Hart inventa un universo assurdo dove uomini delle caverne filosofeggiano su Dio, la politica, il senso della vita, il tutto con un umorismo che spesso sfocia nel surreale. A metà degli anni Sessanta, con l’amico Brant Parker, dà vita a The Wizard of Id, ambientato in un regno medievale dove un mago frustrato, un re tirannico e una serie di personaggi eccentrici fanno da specchio, grottesco e geniale, alla società contemporanea. La prima striscia uscì il 9 novembre 1964 e il successo fu immediato.

Non era solo un fumettista, Hart. Era anche un appassionato di jazz: nel 1972 disegnò la copertina dell’album Live at Butler University with The Stan Kenton Orchestra dei The Four Freshmen, poi riutilizzata nel 1999 per l’album Still Fresh. Ma forse l’aspetto più interessante e controverso della sua vita emerse nel 1977, quando insieme alla moglie Bobby si unì alla chiesa presbiteriana evangelica della sua cittadina. Un risveglio spirituale che influenzò profondamente le sue opere, soprattutto le strisce di B.C., che da quel momento iniziarono a trattare con sempre più insistenza temi religiosi e cristiani.

Questa svolta però non fu indolore. Alcune vignette vennero contestate per il loro contenuto teologico o per presunte allusioni religiose giudicate offensive. La più celebre è quella del 15 aprile 2001, pubblicata a Pasqua, in cui Hart mise in scena una menorah e una croce cristiana in dissolvenza: fu accusato di revisionismo teologico da parte di organizzazioni ebraiche. Lui si scusò, spiegando che non intendeva offendere nessuno. Un’altra vignetta, pubblicata nel 2003, fece infuriare il Council on American-Islamic Relations, che interpretò un gioco di parole come una velata offesa all’Islam. Anche in quel caso Hart negò qualsiasi intento provocatorio.

Nel bene o nel male, Johnny Hart non lasciava indifferenti. Aveva una visione, una voce personale, e un umorismo che non temeva di affrontare i grandi temi della vita con leggerezza ma anche con coraggio. La sua eredità artistica è enorme: ha ispirato generazioni di fumettisti e vignettisti in tutto il mondo, e ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi come il Reuben Award, il Premio Yellow Kid e numerosi premi della National Cartoonists Society, tra cui quello come miglior autore di strip umoristiche.

Fino agli ultimi giorni della sua vita, Hart ha continuato a disegnare. E proprio lì, al tavolo da lavoro della sua casa di Nineveh, nello stato di New York, ha esalato l’ultimo respiro. Come un cavaliere medievale che muore in battaglia. Come un druido che scompare nella nebbia. O, più semplicemente, come un artista che non ha mai smesso di credere nel potere di una vignetta per far ridere, pensare, sognare.

La sua penna ha smesso di muoversi, ma le sue strisce continueranno a parlare.