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“Together”: l’horror romantico che farà a pezzi il tuo cuore (e il tuo stomaco) arriva al cinema

Quando ho visto per la prima volta il trailer italiano di TOGETHER, il nuovo film horror di Michael Shanks in arrivo nelle sale italiane il 1° ottobre 2025, ho avuto quella sensazione strana che si prova solo quando qualcosa ti sfiora il cuore e contemporaneamente ti stringe lo stomaco. E non sto parlando solo della meravigliosa coppia protagonista – Alison Brie e Dave Franco – che nella vita reale è tanto affiatata quanto sullo schermo. No, qui parlo proprio della natura del film, di quella promessa viscerale e crudele racchiusa in un semplice titolo: TOGETHER.

Immaginate una storia d’amore. Di quelle che ci fanno sospirare, sognare, piangere, urlare. Poi immaginate di immergerla in un calderone ribollente di body horror alla Cronenberg, dove la carne si trasforma, il corpo si ribella, la mente vacilla. E infine, spingete tutto all’estremo, fino al punto in cui l’amore non è più un concetto romantico ma un vincolo di carne, ossa e sangue. Questo è TOGETHER, e sì, preparatevi: fa male. Fa male in senso fisico, emotivo, mentale. Fa male perché ci obbliga a guardare negli occhi le nostre paure più profonde sul legame di coppia, sul confine sottile tra me e te, sul rischio di perdere noi stessi dentro l’altro.

Non è un caso se il film ha già fatto scalpore nei festival più iconici del circuito indie: Sundance, SXSW, Biografilm di Bologna e Taormina Film Festival. Ovunque sia passato ha lasciato dietro di sé una scia di applausi e commenti entusiasti, tanto da guadagnarsi uno straordinario 100% di recensioni positive su Rotten Tomatoes. E credetemi, da appassionata di cinema horror e di pop culture, so bene quanto sia raro vedere un consenso simile su un film che non fa sconti a nessuno, né al pubblico né ai personaggi.

La storia è semplice ma devastante: Tim, un musicista, e Millie, un’insegnante, decidono di trasferirsi in una sperduta cittadina tra i boschi per ritrovare sé stessi e dare un nuovo respiro alla loro relazione. Ma quel paesaggio bucolico che dovrebbe guarire le ferite diventa presto una prigione. Una forza misteriosa, soprannaturale, s’insinua tra loro e li stringe sempre più, fino a renderli letteralmente inseparabili. Ma non in senso metaforico: qui si parla di fusione fisica, di carne che si unisce, di identità che si smarginano.

Michael Shanks, che oltre a dirigere ha anche scritto la sceneggiatura, lo ha detto chiaramente: TOGETHER è un film sull’orrore insito nell’amore, sull’ansia di condividere la vita con qualcuno, sulla codipendenza, sulla monogamia e su quel momento fatale in cui non capisci più dove finisci tu e dove inizia l’altro. E lo fa usando il linguaggio più esplicito, crudele e magnetico che il cinema conosca: quello del body horror.

Chi ama il genere riconoscerà omaggi e riferimenti al maestro David Cronenberg, ma anche un tocco personalissimo e contemporaneo. La regia di Shanks è un concentrato di tensione: ci porta per mano dentro un incubo sempre più claustrofobico, ci fa percepire l’oppressione attraverso la fotografia satura, il design sonoro disturbante, la scenografia rurale che diventa una gabbia. Nulla è lasciato al caso, nemmeno l’uso beffardo di “Happy Together” dei Turtles nel trailer, che trasforma un motivetto spensierato in una sinistra colonna sonora per immagini sempre più disturbanti.

Il bello è che TOGETHER non è solo un film per amanti del gore o per chi cerca l’adrenalina a buon mercato. È un’opera che parla dritta al cuore, con una sincerità spietata. L’alchimia tra Alison Brie e Dave Franco è palpabile, autentica, e dà una profondità rara ai personaggi. Si percepisce il loro coinvolgimento anche dietro le quinte – sono produttori del film – e questo rende ogni scena ancora più intensa. Ci sono momenti in cui il film ti lacera con un colpo di violenza grafica e altri in cui ti scioglie con un dettaglio emotivo minuscolo, ma devastante.

Non stupisce che Neon, la casa di distribuzione americana famosa per puntare su progetti indipendenti e di qualità, abbia sborsato ben 17 milioni di dollari per assicurarsi i diritti globali. Ha battuto giganti come A24, Apple TV+ e Amazon MGM Studios, portando a casa uno dei deal più chiacchierati del Sundance. Questo ci dice tutto sul potenziale cult del film, che già sulla carta sembra destinato a diventare una pietra miliare per chi ama un cinema che osa.

L’Italia non poteva mancare all’appello. I Wonder Pictures porterà TOGETHER nelle nostre sale proprio all’inizio di ottobre, in perfetto tempismo per Halloween. Sarà un’occasione imperdibile per chi ama farsi trascinare nell’oscurità, per chi cerca nel cinema non solo intrattenimento ma anche una sfida, un’esperienza sensoriale totalizzante, un confronto con le zone più oscure dell’animo umano.

Personalmente, non vedo l’ora di sedermi al cinema, spegnere il cellulare e farmi inghiottire da questa storia d’amore e terrore. E quando dico “farmi inghiottire” lo intendo nel senso più nerd, più appassionato, più viscerale possibile. Perché TOGETHER non è solo un film da guardare: è un film da vivere, da attraversare, da sentire sulla pelle.

E tu? Sei pronto a guardare negli occhi il lato più oscuro dell’amore? Sei pronto a chiederti fino a che punto saresti disposto a fondere la tua vita con quella dell’altro? Raccontamelo nei commenti, condividi le tue aspettative, le tue paure, le tue curiosità. Condividi questo articolo sui tuoi social e prepariamoci insieme a vivere TOGETHER: perché l’amore, a volte, è l’orrore più grande di tutti.

Gremlins 2 – La nuova stirpe compie 35 anni: tra citazioni, umorismo e follia a Manhattan

“Gremlins 2 – La nuova stirpe” compie 35 anni e, nonostante non abbia mai raggiunto la stessa fama del suo predecessore, è diventato un cult del cinema anni ’90. Diretto da Joe Dante e distribuito nelle sale italiane il 13 luglio 1990, il sequel di “Gremlins” (1984) si distacca dal classico horror per famiglie, abbracciando una comicità più demenziale e parodistica, e sfruttando appieno le potenzialità degli effetti speciali dell’epoca. Il film, purtroppo, non ottenne il successo sperato al botteghino, ma è rimasto nella memoria degli appassionati per la sua irriverente visione del mondo e per la galleria di nuove e grottesche creature che popolano il suo universo.

A distanza di sei anni dall’originale, Joe Dante porta di nuovo sul grande schermo il piccolo Gizmo e i suoi malefici simili, stavolta in una frenetica e caotica Manhattan. La trama di “Gremlins 2 – La nuova stirpe” ci riporta a New York, dove Billy (Zach Galligan) e Kate (Phoebe Cates) lavorano nella Clamp Enterprises, un grattacielo che diventa teatro di disastri quando i gremlins fanno il loro ritorno. La storia si sviluppa attorno a un evento tragicomico: l’anziano signor Wing muore e il negozio che custodisce Gizmo viene abbattuto per far posto all’edificio della Clamp. All’interno di questo grattacielo si nasconde ancora il mitico mogwai, e quando finisce nelle mani sbagliate, inizia una catena di eventi che porterà alla nascita di una nuova generazione di gremlins, ancora più pericolosi e inaspettati.

Un cambiamento significativo rispetto al primo film riguarda l’umorismo. Se “Gremlins” si affidava a un tono più cupo, arricchito da un’ironia nera, il sequel si orienta verso un linguaggio più leggero e decisamente campy. Dante infatti non si limita a continuare la storia, ma la rielabora in chiave meta-cinematografica, usando la trama per fare satira sul fenomeno dei sequel, dei remake e dei fenomeni mediatici dell’epoca. In questa versione, l’ironia si fa pungente, prendendo in giro personaggi pubblici come Donald Trump, magnati dei media come Ted Turner, e l’intero sistema della televisione via cavo, per non parlare delle citazioni a film iconici come “Il mago di Oz” e “Il maratoneta”.

La novità assoluta di questo capitolo risiede nel suo approccio al gore e al comico, che, pur mantenendo l’anarchia tipica della serie, abbandona la violenza dark per virare su uno stile più spinto nelle gag e nei riferimenti culturali. Le mutazioni dei gremlins, da vampiro a pipistrello, da intellettuale a ragno gigante, non sono solo bizzarre ma anche un esplicito omaggio all’evoluzione dei generi cinematografici e agli effetti speciali. Grazie al lavoro di Rick Baker, premio Oscar per il trucco e gli effetti speciali, “Gremlins 2” ci regala una straordinaria serie di trasformazioni che, seppur grottesche, affascinano per la loro innovazione visiva.

Ma nonostante questi pregi, “Gremlins 2” non riesce a eguagliare il fascino dell’originale. Il primo film aveva il merito di mescolare perfettamente umorismo nero e horror, riuscendo a mantenere il tono giusto anche durante le scene più inquietanti. Al contrario, il sequel spesso sfocia nel puro nonsense, creando un’atmosfera più da cartone animato che da film di genere, tanto che alcuni spettatori si sono trovati spiazzati da un cambiamento di tono così radicale. La critica ha accolto il film con recensioni contrastanti, e la pellicola ha fallito al botteghino, rimanendo un episodio isolato nella saga.

Il vero cuore di “Gremlins 2” risiede nella sua capacità di ridicolizzare il concetto stesso di sequel, con una serie di riferimenti e citazioni che non solo mettono alla berlina il fenomeno hollywoodiano, ma offrono anche una riflessione sulla proliferazione di film che puntano su più franchise per attrarre il pubblico. Dante, con il suo stile unico, non ha mai nascosto il suo amore per il cinema e per l’assurdo, e questo sequel si conferma come una delle sue opere più personali, pur essendo meno “importante” del primo film.

Alla fine, nonostante i suoi difetti, “Gremlins 2” rimane una perla da riscoprire per chi ha voglia di divertirsi con una satira fuori dagli schemi, capace di parlare con intelligenza del cinema, della cultura popolare e del fandom, mentre esplora il caos e la follia che solo i gremlins possono creare. Il film, pur non avendo ottenuto il successo sperato, si è guadagnato nel tempo uno status di culto, soprattutto tra gli appassionati di cinema nerd e di horror demenziale, che lo apprezzano per la sua bizzarria e il suo spirito dissacrante.

Predator – Tra Fantascienza e Antropologia: Il Mito dello Yautja Analizzato nel Nuovo Saggio Nerd

Quando si parla di Predator, inevitabilmente si pensa a quell’iconico mostro alieno dotato di mandibole spaventose, tecnologia invisibile e un codice d’onore da far invidia a qualunque guerriero samurai. Ma il mito dello Yautja è molto più di un semplice cattivone hollywoodiano. È una creatura che incarna una visione sorprendentemente profonda del confronto tra civiltà, tecnologia e ritualità. E oggi, grazie al saggio “Predator – Un mito tra fantascienza e antropologia” firmato da Andrea Guglielmino, Gianmarco Bonelli e Guglielmo Favilla ed edito da Weird Book nella collana Insomnia, possiamo finalmente scavare a fondo nella filosofia e nell’eredità culturale di uno dei franchise più affascinanti della storia della fantascienza.

Nel lontano 1987, quando Predator fece la sua comparsa nei cinema di tutto il mondo, il pubblico si aspettava un puro action movie muscolare con Arnold Schwarzenegger come mattatore assoluto. Il marketing, infatti, puntava tutto sulla presenza carismatica dell’ex Mr. Olympia, nascondendo deliberatamente l’elemento alieno. Ma proprio lì, in quella scelta comunicativa, si nascondeva un colpo di genio: quando il mostro finalmente si mostrava, circa a metà film, lo spettatore veniva catapultato all’improvviso in un horror sci-fi con tinte esistenziali, del tutto inaspettato. Quel cambio di tono così repentino – dalla giungla militarista a uno scontro quasi mitologico tra Uomo e Altro – fu dirompente. Fu rivoluzione.

Da quel momento, lo Yautja – nome coniato successivamente nei fumetti – si è trasformato in molto più di una creatura cinematografica. È diventato un simbolo, una figura mitologica del nostro immaginario nerd. Un’entità che nel corso degli anni ha saputo reinventarsi tra film, libri, fumetti e videogiochi, espandendo il proprio universo narrativo ben oltre lo schermo. Da Predator 2 alle contaminazioni con l’universo di Alien, dai fumetti Dark Horse agli ultimi spin-off come Prey, ogni apparizione dello Yautja ha contribuito ad alimentarne il mistero e la profondità.

Ed è proprio su questo aspetto che il saggio pubblicato da Weird Book ci invita a riflettere. Predator – Un mito tra fantascienza e antropologia non è solo un’analisi filmografica, ma un vero e proprio studio culturale che guarda oltre le lenti del pop. Il libro indaga i simbolismi e le stratificazioni tematiche del franchise: lo scontro tra culture, il rapporto fra natura e tecnologia, il concetto di caccia rituale come forma di passaggio e iniziazione, l’onore come valore morale assoluto in una società guerriera. Gli autori trattano lo Yautja non come un semplice villain, ma come un archetipo: un moderno “uomo selvaggio” tecnologico che esprime attraverso la caccia e il rito una struttura sociale sorprendentemente vicina a quelle delle civiltà tribali umane.

Il testo è arricchito da interviste inedite e coinvolgenti: il regista John McTiernan (autore del primo film), Stephen Hopkins (dietro la macchina da presa di Predator 2) e il fumettista Chris Warner, uno dei creatori visivi più influenti dell’universo Predator nei fumetti. Le loro testimonianze aggiungono un livello di autenticità e profondità al volume, illuminando retroscena creativi e riflessioni autoriali su ciò che lo Yautja rappresenta davvero. Il tutto è impreziosito da illustrazioni originali realizzate da artisti di fama, che restituiscono visivamente l’aura mitologica e brutale della creatura.

Quello che emerge è il ritratto di una saga che ha saputo trascendere la sua apparenza da blockbuster estivo per diventare una riflessione sofisticata sulla violenza, sul rispetto, sull’incontro e sullo scontro tra civiltà. Una lettura nerd, sì, ma anche una lettura necessaria per chiunque voglia esplorare il lato antropologico della fantascienza. Perché dietro le termocamere e le spalline laser, Predator parla di noi. Delle nostre paure, delle nostre tradizioni, del nostro bisogno di ritualizzare la morte e la conquista. Parla della giungla primordiale che ancora oggi ci portiamo dentro, anche se viviamo in città illuminate al neon.

Il libro – 156 pagine nel pratico formato 15×22 cm, dal prezzo di copertina di 25,90 €, ISBN 979-12-81603-31-8 – è disponibile dall’11 giugno 2025. Non è solo una lettura per appassionati, ma un vero e proprio strumento di analisi per chi vuole capire perché lo Yautja continui, dopo quasi quarant’anni, ad affascinare intere generazioni di nerd, geek, appassionati di cinema, e persino antropologi culturali.

E voi? Avete mai pensato al Predator come a uno specchio oscuro delle società tribali umane? Cosa vi ha colpito di più nel suo codice d’onore o nel suo stile di caccia? Condividete l’articolo sui vostri social e fateci sapere quale incarnazione dello Yautja è la vostra preferita… quella del primo film cult anni ’80? L’inquietante cacciatore urbano di Predator 2? O magari il giovane guerriero in cerca di gloria di Prey? La caccia è aperta… e stavolta tocca a voi parlare!

4 Luglio, come non festeggiare guardando Independence Day?

Finalmente possiamo esultare, cari Nerd, perché oggi è il 4 luglio, il giorno in cui gli Stati Uniti d’America festeggiano l’Indipendenza! E cosa c’è di meglio per celebrarlo se non dedicare un articolo al film “Independence Day”? Sì, quello di Roland Emmerich che uscì nel lontano 1996. Questo film, con Will Smith, Bill Pullman, Jeff Goldblum e una miriade di altri attori bravi e famosi, narra la storia di una invasione aliena che minaccia la Terra. Ma non è una semplice invasione, no! Gli alieni decidono di iniziare distruggendo i simboli della grandezza americana, come l’Empire State Building, la Casa Bianca e persino la Library Tower di Los Angeles. Che gentiluomini, veramente!

E come se non bastasse, il film fece un botto al botteghino, incassando la bellezza di 306.169.268 dollari solamente negli Stati Uniti e 817.400.891$ in tutto il mondo. Battendo Twister e Mission: Impossible come film di maggior incasso del 1996. C’è da dire che i soldi da nerd che non si vedono!

Ma tornando al film. All’inizio, la colonna sonora del film voleva essere “Everybody Wants to Rule the World” dei Tears for Fears. Ma poi hanno pensato che era meglio scegliere un brano dei R.E.M. intitolato “It’s the End of the World as We Know It (And I Feel Fine)”. Perché sì, c’è un pericolo oscuro e imminente che la Terra avrebbe dovuto affrontare. Quindi prendiamo una canzone divertente per prendere in giro l’apocalisse!

La trama del film è abbastanza semplice, ma con grandi effetti speciali che ci lasceranno a bocca aperta. La mattina del 2 luglio 1996, il SETI (il programma di Ricerca di intelligenze extraterrestri) rileva un segnale strano proveniente dallo spazio, che sembra indicare la presenza di una forma di vita aliena. Poco dopo, viene individuato un enorme oggetto in avvicinamento alla Terra, con una massa pari a un quarto di quella della Luna. L’ipotesi che si tratti di un meteorite viene scartata quando l’oggetto rallenta e si separa in 36 frammenti, ognuno delle dimensioni di 27 chilometri di diametro. Questi frammenti si posizionano sopra le principali città del mondo, compresa New York, Washington D.C. e Los Angeles. Il protagonista, David Levinson, uno specialista in telecomunicazioni, riesce a interpretare il segnale anomalo e capisce che gli alieni stanno utilizzando la rete di satelliti terrestre per coordinare un attacco. Insieme al padre Julius, si reca a Washington per informare il presidente Thomas Whitmore dell’imminente pericolo. Tuttavia, quando le astronavi aliene aprono il fuoco, gran parte delle città viene rasa al suolo. Nel frattempo, vengono inviati degli squadroni di aerei militari per contrastare l’attacco, ma le astronavi aliene sono dotate di uno scudo che respinge i colpi delle armi terrestri. Solo il capitano Steven Hiller sopravvive al combattimento aereo e cattura un alieno vivo. Nel frattempo, David e il presidente Whitmore scoprono che il governo sapeva dell’esistenza degli alieni fin dal 1947, ma non ha agito per impedire l’attacco. Si dirigono quindi verso l’Area 51, dove incontrano il direttore della struttura, il dottor Okun, che rivela loro la presenza di navicelle aliene e dei corpi dei piloti recuperati.

Proprio studiando l’alieno catturato, David e Steve sviluppano un piano per disabilitare gli scudi protettivi delle astronavi aliene. Utilizzando una navetta precipitata a Roswell, riescono a infettare l’astronave madre con un virus informatico, che si diffonde a tutte le altre navicelle. Nel frattempo, un gruppo di piloti guidati dal presidente Whitmore attacca le astronavi restanti e riesce a abbatterle. David e Steve si sacrificano lanciando un missile nucleare all’interno dell’astronave madre, prima di fuggire. Gli alieni vengono sconfitti e la Terra viene salva. I protagonisti atterrano nel deserto dove gli attendono i loro cari e assistono alla caduta dei detriti dell’astronave madre come una sorta di fuochi d’artificio in celebrazione della vittoria dell’umanità.

Sì, il film ha avuto critiche perché la trama sembrava banale e stereotipata. Ma chi se ne frega! Abbiamo visto navicelle spaziali da 27 chilometri di diametro distruggere tutto, e questo è tutto ciò che conta per noi Nerd. E abbiamo anche vinto un Oscar per gli effetti speciali, quindi adesso che ci dicono? Quindi, cari Nerd, oggi festeggiamo l’Indipendenza guardando il nostro amato “Independence Day” e godendoci gli effetti speciali spettacolari e la trama che non si prende troppo sul serio. E ricordate, quando gli alieni arrivano, non dimenticate di lanciare un virus informatico. Funziona sempre!

L’aereo più pazzo del mondo compie 45 anni: il volo demenziale che ha rivoluzionato per sempre la comicità al cinema

C’è un prima e un dopo Airplane!. O, come lo conosciamo noi nerd italiani, L’aereo più pazzo del mondo. Il 2 luglio del 1980 atterrava nelle sale americane una pellicola destinata a diventare leggenda. In Italia sarebbe arrivata solo a fine ottobre dello stesso anno, ma bastarono pochi istanti dalla comparsa dell’auto-pilota gonfiabile Otto per capire che nulla sarebbe stato più come prima. A quarantacinque anni dal suo debutto, quest’opera firmata dal trio Zucker-Abrahams-Zucker continua a far ridere, a ispirare e a influenzare intere generazioni di spettatori, cineasti e comici. Una parodia esilarante che ha preso il volo trasformando il genere disaster movie in un luna park di gag, giochi di parole e nonsense assoluto.

Siamo negli anni ’70, l’epoca d’oro dei film catastrofici. Airport, Airport ’75, Airport ’77 e via dicendo. L’aereo diventa metafora del destino umano, del pericolo, del dramma in alta quota. Ma poi arriva Airplane! e decide di mandare tutto all’aria. E lo fa sul serio. Letteralmente. Il trio ZAZ — Jim Abrahams e i fratelli Zucker — prende di mira questi film e li smonta scena dopo scena, trasformando la tensione in delirio, il dramma in slapstick, il panico in comicità pura. Non si tratta solo di una parodia: è l’inizio di una nuova grammatica della risata.

La trama di per sé è un pretesto, un filo conduttore per scatenare il caos comico: Ted Striker, un ex pilota traumatizzato dalla guerra e mollato dalla sua ex, si ritrova a dover pilotare un aereo di linea dopo che l’equipaggio è stato messo KO da un’insalata di pesce mal conservata. Il tutto mentre un auto-pilota gonfiabile cerca di mantenere la rotta, una torre di controllo piena di idioti cerca di aiutare e una sfilza di passeggeri assurdi mette a dura prova qualsiasi logica narrativa. È il nonsense portato al massimo della sua potenza, ma con una precisione millimetrica. Il caos è pianificato, il ridicolo è studiato, l’assurdo è calcolato al centesimo di secondo. Ogni battuta ha un tempo comico perfetto, ogni gag visiva una costruzione meticolosa.

Il cast è un altro dei colpi di genio del film. Nessun attore comico di professione, ma volti noti per ruoli drammatici, scelti proprio per la loro serietà. È questo il segreto: la comicità nasce dallo scarto tra l’espressione impassibile e ciò che accade intorno. Lloyd Bridges, Robert Stack, Peter Graves… e soprattutto lui, Leslie Nielsen. Il suo dottor Rumack è una delle interpretazioni comiche più iconiche della storia del cinema, nonostante — o forse grazie a — quell’assoluta serietà con cui pronuncia frasi assurde come la leggendaria “I am serious… and don’t call me Shirley”. Da qui partirà la sua seconda vita artistica, che lo porterà a dominare il cinema comico anni ’80 e ’90, soprattutto con la saga di Una pallottola spuntata.

Ma da dove nasce tutto questo? Paradossalmente da un film serissimo: Zero Hour! del 1957. Un dramma aereo in bianco e nero, piuttosto dimenticabile, che i ZAZ scoprono per caso facendo zapping. L’idea: usare la sceneggiatura praticamente tale e quale, ma riscrivendola con gag al posto delle battute serie. Pagano perfino i diritti per 2500 dollari, così da mettersi al riparo da possibili grane legali. Il copione inizialmente non interessa a nessuno, finché il trio non ottiene visibilità con lo show Ridere per Ridere. Da lì, l’interesse di Michael Eisner e Jeffrey Katzenberg fa decollare il progetto. Il resto è storia.

Il film è una festa continua per chi ama la cultura nerd e pop: ci trovi dentro riferimenti al Saturday Night Live, parodie di spot pubblicitari, scene che sfottono apertamente John Travolta in La febbre del sabato sera, e persino Kareem Abdul-Jabbar, icona NBA, che interpreta un pilota… solo per rivelarsi Kareem Abdul-Jabbar stesso in una rottura della quarta parete che all’epoca era qualcosa di clamorosamente geniale.

E poi c’è il doppiaggio italiano. Per molti versi un’opera a sé stante. Alcune battute sono state adattate in dialetti o modi di dire tipicamente italiani, come il celebre slang jive trasformato in un napoletano inventato che ha fatto rotolare dalle sedie generazioni di spettatori. Una scelta azzardata? Forse. Ma ha funzionato. Tanto da rendere immortali alcune frasi anche nella nostra lingua.

Quello che rende L’aereo più pazzo del mondo ancora oggi un capolavoro della comicità è la sua capacità di fondere umorismo verbale, gag visive e una totale anarchia narrativa. È un film che vive di eccessi, che si prende gioco del buon senso, della fisica, del decoro e anche del politically correct — che all’epoca era ancora un concetto lontano. Alcune scene, rivedendole oggi, potrebbero apparire problematiche. Ma proprio questa irriverenza, questa libertà totale, era parte del suo fascino. In un’America che si stava prendendo terribilmente sul serio, Airplane! esplode come una bomba comica di proporzioni epiche, una satira travestita da demenzialità.

L’influenza del film è semplicemente incalcolabile. Senza L’aereo più pazzo del mondo, probabilmente non avremmo mai avuto i Simpson, Futurama, Scemo & più scemo, Tutti pazzi per Mary, Austin Powers, Scary Movie e mille altri esempi di comicità postmoderna che flirta con la parodia, l’assurdo e l’anti-realismo. Matt Groening ha dichiarato più volte di aver preso ispirazione diretta da Airplane! per la costruzione dell’umorismo surreale e tagliente delle sue creazioni animate. E anche se molti dei suoi epigoni non sono riusciti a replicarne il genio, l’impronta del film resta visibile in ogni angolo della comicità contemporanea.

A distanza di 45 anni, L’aereo più pazzo del mondo è ancora lì, a volare sopra le nostre teste, come un dirigibile impazzito carico di gag. È il film che ha avuto il coraggio di prendere un genere serio e farlo esplodere a colpi di umorismo slapstick, battute fulminanti e situazioni assurde. È una macchina comica perfetta, ma anche un manifesto contro ogni forma di serietà imposta. E in un’epoca in cui la comicità sembra spesso ingessata, addomesticata, timorosa di offendere, questo film resta un inno alla libertà creativa e alla risata più pura, anarchica, liberatoria.

Se non lo avete visto, è il momento di rimediare. Se lo avete già amato, riguardatelo. Vi sorprenderà di nuovo. Perché la risata, quando è fatta con intelligenza e coraggio, non invecchia mai.

E voi? Qual è la scena di L’aereo più pazzo del mondo che vi ha fatto ridere fino alle lacrime? Scrivetecelo nei commenti o condividete l’articolo sui vostri social con l’hashtag #CorriereNerd!

Total Recall (Atto Di Forza), il cult sci-fi con Schwarzenegger tra sogno e realtà, compie 35 anni!

Il 1° giugno 1990 (in Italia arriverà solo a dicembre dello stesso anno), esattamente 35 anni fa, debutta negli Stati Uniti Atto di Forza – Total Recall, un blockbuster che vede protagonista Arnold Schwarzenegger, all’apice della sua carriera da icona dei film d’azione. Ma sapevi che la realizzazione di Atto di Forza ha richiesto quasi 10 anni? La prima sceneggiatura risale ai primi anni ’80 e porta la firma di Dan O’Bannon e Ronald Shusett, noti per aver scritto Alien. I due si ispirarono al racconto We Can Remember It For You Wholesale di Philip K. Dick. Tuttavia, il percorso per ottenere un finanziamento fu lungo e tortuoso, con numerosi stop che portarono a circa 40 riscritture della sceneggiatura prima di arrivare al progetto finale.

A metà degli anni ’80 il produttore Dino De Laurentis acquisì i diritti e pensava di far ricoprire il ruolo del protagonista, Douglas Quaid, a Richard Dreyfuss o in alternativa a Patrick Swayze, arrivo ad annunciare l’uscita come produzione di lancio della De Laurentis Entertainment, ma anche questo progetto fallì. Fu poi il turno di David Paul Cronenberg a cui De Laurentis affido la sceneggiatura redatta dai due autori di Alien, anche Cronenberg ci mise del suo e in anno fece dodici stesure della sceneggiatura, la visione del film che aveva Cronenberg era una sorta di “Spider su Marte” e contrastava con quella di Shusett che invece vedeva il film più come “I Predatori dell’Arca Perduta su Marte”, le divergenze divennero insanabili al punto che Cronenberg lasciò il progetto. Tuttavia è proprio nelle stesure del regista di che prese vita l’idea dei mutanti marziani, di Kuato, vittime delle radiazioni “dolose” questa è la parte che si discosta maggiormente dal racconto di Dick oltre al fatto di svolgersi su Marte.

L’ennesimo colpo al progetto del film viene poi con il fallimento della De Laurentis Entertainment, ma e proprio questo il punto di svolta, Arnold Schwarzenegger venuto a conoscenza del progetto si era già proposto come protagonista ma senza successo, lavorando al film “Predator” propose il progetto al produttore Joel Silver, anche questo progetto non prese mai il via. Arnold non si arrende e riprova con la Carolco Pictures, a cui propone anche la regia di Paul Verhoeven che Schwarzenegger reclutò, poi, personalmente per dirigere il film essendo rimasto colpito da RoboCop, finalmente il film arriva nelle sale nel 1990!

Distopico come pochi, considero Total Recall come uno dei film più iconici e interessanti subito alle spalle dei monumentali Star Wars, Blade Runner, un film fortemente voluto da tanti e per tanto, a cominciare proprio da Arnold, buona azione per tutto il film, lascia con il dubbio di chi sia stato e di cosa abbia fatto veramente, questo forse l’unico vero significativo punto di contatto insieme all’impianto della memoria con il romanzo a cui si ispira.

Nel 2084, Douglas Quaid, un operaio edile tormentato da sogni ricorrenti su Marte, decide di rivolgersi alla Rekall, un’azienda che impianta false memorie di viaggi. Sceglie l’esperienza di essere un agente segreto su Marte, ma durante l’operazione si risveglia in preda al panico, rivelando inconsciamente di avere già subito un precedente innesto. Tornato a casa, Quaid viene attaccato da uomini misteriosi e scopre che la moglie Lori è una spia. Costretto a fuggire, riceve aiuto da un uomo che gli consegna una valigetta con denaro, documenti falsi e un video di Carl Hauser, un uomo identico a lui, che gli rivela di essere un ex agente di Cohaagen, il dittatore di Marte. Quaid si reca su Marte, dove si unisce ai ribelli e incontra Melina, la donna dei suoi sogni. Dopo una serie di scontri, scopre l’esistenza di un reattore alieno capace di produrre ossigeno per l’intero pianeta, nascosto da Cohaagen per mantenere il controllo sulla colonia. Dopo essere stato catturato, Quaid apprende che tutto il suo viaggio faceva parte di un piano orchestrato da Hauser e Cohaagen per infiltrarsi tra i ribelli. Tuttavia, riesce a liberarsi, uccidere Cohaagen e attivare il reattore, terraformando Marte. Mentre il cielo diventa blu e l’aria respirabile, Quaid si chiede se tutto ciò sia reale o solo un sogno, prima di baciare Melina.

Come ogni film che lascia il segno, ci sono delle immagini che rimarranno sempre nella mia memoria, facile pensare alla donna del locale a Venusville (come chiamare un quartiere a luci rosse su un pianeta rosso?) con tre seni, probabilmente questa immagine l’hanno impressa in molti in testa, proprio a proposito di testa ecco le altre due immagini che mi hanno sempre fatto effetto memoria di questo film, l’estrazione del dispositivo di rilevamento dalla narice e l’apertura della maschera da donna indossata all’arrivo su Marte, con la sua apertura a strati, idea meravigliosa.

Di idee, ispirazioni questo film ne ha date diverse, inizialmente doveva esserci un sequel, ispirato sia ai mutanti marziani, sia ad un altro romanzo di Philip K. Dick ( Rapporto di minoranza) non se ne fece nulla ma spinse sulla realizzazione di “Minority Report” con Tom Cruise. L’altro film ispirato, o meglio dovrei dire dell’ispirato regista Paul Verhoeven, è Basic Istinct, furono proprio le scene di lotta tra Schwarzenegger e Sharon Stone a suggerire un film in cui ci fosse un donna forte e passionale come Lori, la moglie di Quaid.

Aggiungo, infine, un po’ di curiosità raccolte nel web riguardo il film.

  • Schwarzenegger aveva sopranominato la Stone “Female Terminator”. Ci sono voluti 15 burattinai per controllare Kuato, Il trucco era così ben fatto che le persone si avvicinavano all’attore Marshall Campana per chiedere se avesse veramente un gemello-freak.
  • Arnold Schwarzenegger ha subito diversi infortuni durante le riprese. Si è rotto un dito della mano destra e la maggior parte delle scene girate successivamente sono state realizzate con la mano ferita fuori dallo schermo.
  • All’inizio il film era stato vietato X-rating dalla MPAA (Motion Picture Association of America) per l’eccessiva violenza. Sono state editate alcune scene per togliere la censura. Una delle scene ri-editate per ottenere un R-rating è stata la sparatoria in cui Quaid usa un corpo umano per ripararsi dai proiettili.
  • Durante la produzione tutto l’equipe si è ammalata a causa di un’intossicazione alimentare, con l’eccezione di Arnold Schwarzenegger e Ronald Shusett. Schwarzenegger mangiava cibo americano perché tre anni prima si era ammalato durante la produzione di Predator, in Messico. Shusett aveva preso precauzioni particolari come lavarsi i denti con acqua bollita o in bottiglia e insistendo nell’avere ogni settimana la vitamina B12. Il cast lo prendeva in giro per questo… finché si sono ammalati tutti.

Marco Martelozzo

tratto da

Top Gun 3: Tom Cruise ritorna in cabina di pilotaggio – ed è solo l’inizio di un nuovo decollo ad alta quota

Sembrava impossibile superare il mito, e invece Top Gun: Maverick ci è riuscito con uno stile che ha lasciato il segno nei cieli (e nei botteghini) di tutto il mondo. Il sequel dell’iconico film del 1986 ha fatto molto di più che rinverdire la gloria del suo predecessore: ha incassato oltre 1,5 miliardi di dollari globalmente, conquistato sei nomination agli Oscar (tra cui quella per il Miglior Film) e riacceso la passione per le storie di caccia e velocità nei fan vecchi e nuovi. Era solo questione di tempo prima che qualcuno dicesse: “Signore e signori, preparatevi per Top Gun 3“.

Ebbene sì, è ufficiale: Top Gun 3 è in lavorazione, e stavolta non dovremo attendere altri 35 anni per tornare a volare accanto a Pete “Maverick” Mitchell. La conferma arriva direttamente da Paramount Pictures, ma a suggellarla con un sorriso da cocky pilot è stato proprio Tom Cruise, che durante un’intervista promozionale per Mission: Impossible – The Final Reckoning ha parlato apertamente del progetto. L’attore ha rivelato che insieme al team creativo stanno “pensando e parlando di molte storie diverse”, e che il nuovo capitolo di Top Gun è una delle priorità sul tavolo.

A fianco di Cruise, torna anche una squadra di volti noti e talenti consolidati: Ehren Kruger, già co-sceneggiatore di Maverick, è al lavoro sulla sceneggiatura di questo terzo episodio, mentre Jerry Bruckheimer e David Ellison si occuperanno nuovamente della produzione. Non mancano all’appello nemmeno Miles Teller, alias Rooster, e Glen Powell, il carismatico Hangman, anche se non sono stati ancora annunciati ufficialmente. E anche se la regia non è ancora stata confermata, tutto lascia pensare che Joseph Kosinski, regista del secondo capitolo, sarà coinvolto almeno in veste di produttore.

Quello che per ora resta avvolto nella nebbia – o dovremmo dire tra le nuvole – è la data d’uscita. Considerando i tempi di sviluppo e produzione, è probabile che Top Gun 3 non arrivi nelle sale prima del 2026. Ma l’entusiasmo è già alle stelle, perché stavolta nessuno vuole lasciarsi sfuggire il prossimo decollo di Maverick.

Ma c’è di più. Le parole di Cruise aprono spiragli su altri potenziali ritorni, come un sequel di Days of Thunder, altro cult motoristico degli anni ’90 con lo stesso spirito adrenalinico. E nel frattempo, l’instancabile attore sta coltivando un altro sogno: diventare il primo a girare un film nello spazio in collaborazione con la NASA. Un progetto tanto ambizioso quanto fitting per una star che ha fatto della velocità, della sfida e dell’incredibile il proprio marchio di fabbrica.

Tutto questo avviene in un momento cruciale della carriera di Cruise, che a 61 anni si conferma come una delle personalità più dinamiche e influenti di Hollywood. Recentemente ha firmato un accordo – non esclusivo – con Warner Bros. Discovery per lo sviluppo di nuovi film e franchise, rompendo di fatto la sua lunga esclusiva collaborazione con Paramount, casa madre tanto di Top Gun quanto di Mission: Impossible. Una mossa strategica, che potrebbe segnare l’inizio di una nuova era per l’attore e produttore.

Nel frattempo, Hollywood continua a evolversi in un panorama dove le fusioni tra studi – come quella ipotizzata tra Warner Bros. Discovery e Paramount – potrebbero cambiare le carte in tavola per molte delle saghe più amate. Sarà curioso vedere se Top Gun 3 uscirà sotto un nuovo vessillo o se rimarrà fedele all’aquila dorata di Paramount. Ma una cosa è certa: con incassi miliardari, premi importanti e un fandom agguerrito, questa saga non poteva fermarsi al secondo volo.

Per ora non ci resta che attendere notizie ufficiali su trama, cast e data di rilascio, ma l’hype è già decollato. E se l’adrenalina del secondo film ci ha insegnato qualcosa, è che Top Gun non è solo un film: è uno stile di vita, un richiamo costante alla velocità, al rischio calcolato e al fascino eterno del cielo infinito.

E voi? Siete pronti a tornare in cabina di pilotaggio con Maverick? Quali sono le vostre aspettative per Top Gun 3? Parliamone nei commenti e condividete l’articolo con i vostri amici nerd: il bisogno di velocità è contagioso!

Cuore Selvaggio torna al cinema: il tributo visionario a David Lynch che ci riporta nel cuore nero dell’America

C’è qualcosa di magico, disturbante e irripetibile in Cuore Selvaggio (Wild at Heart), il film di David Lynch che nel 1990 incendiò il Festival di Cannes conquistando la Palma d’Oro e dividendo il pubblico come solo un’opera d’arte autentica sa fare. Oggi, a distanza di oltre trent’anni, il film ritorna sul grande schermo in un ciclo di dieci proiezioni-evento, accompagnate da alcuni cortometraggi inediti, per rendere omaggio al regista recentemente scomparso. Un’occasione imperdibile per rituffarsi in quell’universo surreale e sovversivo che solo Lynch sapeva costruire con tanta coerenza e follia. E per celebrare degnamente uno dei cineasti più influenti, coraggiosi e inclassificabili della storia del cinema contemporaneo.

Quando parliamo di Cuore Selvaggio, parliamo di un’opera che brucia. Brucia nei colori, brucia nei sentimenti, brucia nella carne viva dei suoi personaggi. Nicolas Cage e Laura Dern sono Sailor Ripley e Lula Pace Fortune, due amanti in fuga da un mondo che non ha spazio per l’amore, la libertà e il sogno. Una coppia che sembra uscita da una ballata rockabilly scritta da un poeta maledetto: lui con la giacca di pelle di serpente simbolo della sua individualità, lei una moderna Dorothy catapultata non a Oz ma in un’America marcia, violenta e lisergica.

Il film nasce dall’incontro tra la penna pulp di Barry Gifford e l’immaginario disturbante di Lynch. Il romanzo da cui è tratto è un noir sporco e senza speranza, ma è proprio la mente visionaria del regista a trasformare questa storia in un’epopea gotica moderna. Quella di Cuore Selvaggio non è una fuga normale: è un viaggio psichedelico attraverso l’inconscio di un paese che ha smarrito la sua identità, popolato da assassini grotteschi, madri isteriche, cowboys decadenti e fatine che appaiono tra le fiamme per rivelare verità interiori.

Ogni fotogramma è intriso di contrasti. La bellezza dei sentimenti si scontra con la brutalità degli eventi. Il kitsch diventa poesia. La colonna sonora spazia da Elvis Presley al metal estremo, da Chris Isaak a sonorità industriali, creando un tappeto sonoro che amplifica l’assurdo e accompagna lo spettatore in un’altalena emotiva senza respiro. La celebre scena dell’incidente notturno, accompagnata da Wicked Game, è una delle più potenti e strazianti mai realizzate: un momento sospeso tra amore e morte, dove il confine tra sogno e incubo si dissolve in un gioco crudele.

David Lynch, reduce all’epoca dal successo planetario di Twin Peaks, imprime in questa pellicola tutti i suoi temi più ossessivi. L’inquietudine che si cela dietro la facciata rassicurante dell’America di provincia. Il contrasto tra il desiderio di redenzione e l’inevitabilità della dannazione. L’idea che l’amore – quello vero, totalizzante, animalesco – sia l’unica forza capace di opporsi al caos. Ma Cuore Selvaggio non è solo un film d’amore. È una favola nera che si nutre di citazioni, simbolismi e deformazioni. È Il mago di Oz riscritto da un autore horror sotto l’effetto di acido. Con tanto di strega cattiva (una straordinaria Diane Ladd, madre nella finzione e nella realtà di Laura Dern) e di fata buona che guida Sailor verso la riconciliazione.

A differenza dei lavori successivi di Lynch, come Mulholland Drive o Inland Empire, qui la trama segue un filo (relativamente) lineare. Ma è solo un’illusione. Ogni scena nasconde sottotesti, allegorie, rimandi culturali. La figura di Bobby Peru, interpretata da un Willem Dafoe grottesco e inquietante, incarna la corruzione, il male che seduce e devasta. È il cuore nero dell’America, ciò che resta quando si spengono le luci del diner e i sogni si fanno incubi.

Eppure, nonostante tutto, il film rimane profondamente umano. Sailor e Lula, nella loro goffa spontaneità, nella loro fragilità, sono due ribelli romantici. Il loro amore non è perfetto, ma è autentico. E forse è proprio questo che rende Cuore Selvaggio così potente: la capacità di raccontare l’orrore e il meraviglioso con lo stesso sguardo innamorato. Di mostrarci che anche in un mondo dominato dalla violenza, dalla follia e dalla morte, può esistere una possibilità di salvezza. Anche solo per un istante.

Rivedere oggi Cuore Selvaggio al cinema è un atto di resistenza contro l’omologazione culturale. È un rito collettivo, un ritorno a un tempo in cui il cinema sapeva ancora essere scandaloso, imprevedibile, poetico. È un’occasione per riscoprire il genio di David Lynch, per esplorare i suoi mondi deformati e per lasciarsi travolgere dalla sua capacità unica di raccontare l’indicibile. E in un’epoca dove tutto è spiegato, razionalizzato, semplificato, il mistero lynchiano è più necessario che mai.

Se anche tu hai amato Sailor e Lula, se hai urlato davanti allo schermo quando Cage canta Love Me Tender, se ancora sogni deserti infuocati e fate buone in abito da sera, non puoi perdere questo appuntamento. E se Cuore Selvaggio è per te una scoperta, lasciati sedurre da questo viaggio estremo e senza compromessi. Non è un film per tutti. Ma è un film che, se ti entra dentro, non ti lascia più andare.

Parliamone insieme: che ricordo avete di Cuore Selvaggio? Lo avete visto all’epoca o sarà la vostra prima volta sul grande schermo? Condividete le vostre emozioni, i vostri ricordi e le vostre interpretazioni nei commenti qui sotto o sui vostri social, taggando @CorriereNerd.it. Lynch si nutre dei nostri sogni… e dei nostri incubi.

Caffè 80: il bar di Brindisi che trasforma “Ritorno al Futuro” in un’esperienza anni ’80

Immaginate di fare un salto nel passato, non solo nel tempo ma anche nell’immaginario di una generazione che ha vissuto l’apice degli anni ’80. Siamo a Brindisi, in Puglia, dove il Caffè 80 ha trasformato una semplice attività in un omaggio straordinario al film cult “Ritorno al Futuro”. Questo bar, incastonato tra Brindisi e Lecce, è un vero e proprio tempio della nostalgia, dove ogni angolo racconta la storia di Marty McFly, Doc Brown e delle loro incredibili avventure temporali.Federica Fanciullo, la giovane proprietaria, ha fatto del suo locale un angolo dedicato a una delle pellicole più amate di tutti i tempi, creando un ambiente che non è solo un bar, ma un vero e proprio museo. La passione per “Ritorno al Futuro” le è stata trasmessa dal padre sin da bambina, e oggi questa eredità è diventata il cuore pulsante del suo progetto. Gli avventori che varcano la porta del Caffè 80 non si trovano solo davanti a un caffè, ma si immergono in un viaggio sensoriale che li porta direttamente nel 1985, l’anno in cui il film fece il suo ingresso trionfale nei cinema.

Nel locale, ogni dettaglio è pensato per far rivivere l’atmosfera unica del film. Tra oggetti da collezione, memorabilia e riferimenti visivi sparsi in ogni angolo, si può ammirare una riproduzione fedele della Torre dell’Orologio, l’oggetto simbolo delle avventure di Marty. Ma il vero gioiello del bar è la DeLorean, l’iconica macchina del tempo utilizzata dai protagonisti, che non manca di incantare chiunque la veda. La DeLorean è custodita gelosamente nel garage adiacente al bar, ed è un vero e proprio pezzo da collezione per gli appassionati. L’auto, mantenuta in perfette condizioni, permette ai visitatori di vivere un’esperienza da “viaggiatori nel tempo”, almeno per qualche minuto, con tanto di foto ricordo.

Federica ha deciso di trasformare il suo bar in un punto di riferimento per tutti i fan del film.

“Ci chiamavano Caffè 80 e avevamo la DeLorean, così ho avuto un’idea lampo, proprio come ‘Doc’ nel film, e ho deciso di rivoluzionare il bar… Abbiamo cominciato a esporre tutta l’oggettistica per sognare ancora, l’unica cosa che sembra essere rimasta gratis…”. 

Il Caffè 80 è un vero e proprio rifugio per chiunque abbia un legame con la cultura degli anni ’80 e con il film che ha segnato un’intera generazione. Da action figures a t-shirt, passando per portachiavi e gadgets a tema, il bar è una vera e propria miniera di oggetti che evocano ricordi e citazioni indimenticabili. “Grande Giove!” è solo uno degli slogan che riecheggiano tra i tavoli, e non mancano i clienti che, magari sorseggiando un cappuccino, si lasciano andare a battute come quelle che i protagonisti del film ripetevano a memoria. Federica, con un entusiasmo contagioso, continua a portare avanti la tradizione, affermando che il bar non è solo un modo per celebrare il film, ma anche un luogo dove i fan possono vivere la loro passione in modo tangibile. Non solo un bar, dunque, ma una vera e propria macchina del tempo, che, pur senza il flusso canalizzatore, riesce a far rivivere l’emozione di un’epoca d’oro del cinema. Il Caffè 80 è il posto perfetto per chi desidera scoprire o riscoprire la magia di “Ritorno al Futuro”, un viaggio nel passato che non ha bisogno di una DeLorean per essere vissuto.

Ragazze a Beverly Hills: Una Nuova Vita per l’Iconica Cher Horowitz

È incredibile come, a trent’anni di distanza dal suo debutto, Ragazze a Beverly Hills (Clueless), il film cult del 1995 diretto da Amy Heckerling, continui a essere un faro luminoso nella cultura pop degli anni ’90. Un classico senza tempo che ha segnato l’adolescenza di intere generazioni, Clueless ha non solo reinventato la commedia teen, ma ha anche lanciato un intero vocabolario di slang giovanile, uno stile inconfondibile e, naturalmente, un’icona della moda per ragazze di ogni età: Cher Horowitz. Il film, liberamente ispirato al romanzo Emma di Jane Austen, ha reso famosi i volti di Alicia Silverstone, Stacey Dash, Donald Faison e Brittany Murphy, mentre il suo spirito spensierato e l’intelligente critica sociale non sono mai passati di moda.

Ma cosa è successo a Cher e ai suoi amici di Beverly Hills dal 1995? La risposta arriva in un annuncio che ha fatto impazzire i fan: una nuova serie di Clueless è in fase di sviluppo per Peacock, con il ritorno trionfale di Alicia Silverstone nei panni della protagonista. E, sebbene i dettagli sulla trama siano ancora avvolti nel mistero, la prospettiva di rivivere le disavventure di Cher e dei suoi compagni è un sogno che si fa realtà.

Un’Icona per Tutti i Tempi

Iniziamo con l’intramontabile fascino del personaggio di Cher, che ha rappresentato l’apice dell’adolescente privilegiata e un po’ superficiale, ma allo stesso tempo genuina e con un cuore d’oro. In un’epoca in cui i film adolescenziali sembravano un po’ stagnare dopo il periodo d’oro di John Hughes, Clueless ha dato nuova linfa vitale al genere. Non solo un film divertente, ma anche un’accurata riflessione sul materialismo, sull’identità e sulle dinamiche di potere tra giovani, il tutto condito con una risata e un outfit perfetto. La moda giocava un ruolo fondamentale, diventando a sua volta un personaggio che faceva da specchio alla protagonista: i completi tartan, i top a maniche corte e i tacchi, tutto contribuiva a creare un’epoca visiva che è rimasta nell’immaginario collettivo.

Non sorprende che Clueless abbia lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare. Così tanto che, nel 2015, la rivista Entertainment Weekly lo ha inserito tra i migliori 50 film ambientati in un liceo, al settimo posto. Eppure, ciò che rende Clueless davvero speciale non è solo il suo umorismo, ma l’incredibile capacità di Amy Heckerling di mescolare il moderno con l’antico, adattando un romanzo del 1815 alla vita spensierata e materialista di Beverly Hills.

Un Ritorno tra Vecchi e Nuovi Volti

A questo punto, però, ci siamo chiesti: cosa accadrà a Cher e ai suoi amici nella nuova serie? Quali volti vedremo di nuovo sul piccolo schermo? Alicia Silverstone, che ha reso celebre il personaggio di Cher, tornerà sicuramente per raccogliere la sfida di interpretare la sua famosa teenager, ma con il passare degli anni. Potremmo trovarla nei panni di una madre che, ironia della sorte, ha una figlia altrettanto “clueless” (sarebbe il colmo, vero?). Per quanto riguarda gli altri membri del cast, ci auguriamo un ritorno di Donald Faison, il leggendario Murray, e magari qualche cameo di personaggi che hanno arricchito la storia del film. Tuttavia, la tragica scomparsa di Brittany Murphy, che interpretava la dolce e un po’ maldestra Ty, rende impossibile il ritorno di quel personaggio.

Nonostante l’assenza di alcuni volti storici, come Paul Rudd, che probabilmente ha troppe cose in agenda per riprendere il ruolo di Josh (il passo-fratello di Cher e suo potenziale interesse amoroso), la serie promette di essere una rivisitazione fresca e divertente del mondo di Beverly Hills, con una trama che, si vocifera, potrebbe vedere Cher come una madre indaffarata ma sempre alla moda.

Un Nuovo Inizio per Clueless

È curioso pensare che questa non sia nemmeno la prima serie tv ispirata al film. Già nel 1996, un anno dopo l’uscita del film, Clueless era diventato una serie televisiva, con Rachel Blanchard nel ruolo di Cher. Sebbene la serie sia durata solo tre stagioni, essa ha avuto il merito di cementare ulteriormente il posto del film nell’immaginario collettivo. E ora, con il nuovo progetto targato Peacock, la serie promette una nuova visione della storia, con elementi innovativi che potrebbero rispecchiare meglio la società moderna pur mantenendo intatto il suo spirito ironico.

Siamo pronti per tornare nella lussuosa realtà di Beverly Hills, dove l’adolescenza e l’alta società si incontrano in un mix irresistibile di risate, moda e reflexion. Come andrà a finire questa nuova avventura? Non vediamo l’ora di scoprirlo, ma nel frattempo, ci godiamo il ritorno di un’icona. Cher, stiamo arrivando!

Guerre Stellari: la versione originale non alterata torna al cinema dopo 47 anni

Un ritorno galattico per il film che ha cambiato per sempre la storia del cinema nerd! Sembrava impossibile, e invece è successo. Forse Mustafar si è congelato, o magari la Forza ha deciso di fare un regalo ai fan di vecchia data: Star Wars Episodio IV nella sua versione originale del 1977 — sì, quella davvero originale, il film che abbiamo amato e chiamato per anni semplicemente “Guerre Stellari” priva di aggiunte digitali, Jabba CGI e Greedo che spara per primo — tornerà sul grande schermo. È la prima volta in quasi mezzo secolo. Secondo The Hollywood Reporter, l’evento epocale avverrà a giugno durante il Film on Film Festival organizzato dal British Film Institute, che aprirà proprio con la proiezione di questa rarissima pellicola Technicolor. Per intenderci: l’ultima volta che questa copia è stata mostrata in sala risale al dicembre 1978. Da allora, silenzio cosmico. E adesso, dopo ben 47 anni, eccola pronta a illuminare nuovamente lo schermo.

Ora, qualcuno potrebbe obiettare: “Ma come 47 anni? L’ultima volta che ho visto Star Wars così com’era era nel ’95!” Eh no, amici padawan: quelle VHS promosse come “l’ultima occasione per vedere la trilogia originale” non erano affatto le versioni originali. George Lucas aveva già iniziato a modificare il suono, i dialoghi, persino il mitico crawl iniziale: “Episodio IV: Una nuova Speranza” è stato aggiunto solo nel 1981, dopo l’uscita di L’Impero Colpisce Ancorea.

George Lucas contro… George Lucas?

E qui entriamo nel cuore della questione: George Lucas ha sempre avuto un rapporto conflittuale con la sua creatura. Per lui, la versione uscita nel ’77 era un “lavoro incompleto”, un bozzetto. Lo ha detto chiaramente in più interviste:

“La Special Edition è quella che volevo davvero far uscire. L’altra è su VHS, se proprio la volete. Non spenderò milioni per restaurarla, perché per me non esiste più.”

Un’affermazione che fa male, soprattutto a chi si è innamorato proprio di quel “film incompleto”. Ma è anche difficile non comprendere il suo punto di vista: Lucas ha sempre visto Star Wars come un’opera in evoluzione, un organismo vivo da perfezionare col tempo. È stato bersagliato di critiche per ogni cambiamento, e se deve essere criticato, vuole almeno esserlo per la sua visione definitiva.

Tuttavia, da fan e da giornalista nerd, non posso fare a meno di sottolineare che questa versione del ’77 ha un valore storico e culturale inestimabile. È il film che ha fatto esplodere la space opera al cinema, che ha ispirato generazioni di registi, scrittori, artisti e sognatori. È il vero inizio del mito, con tutti i suoi limiti tecnici e narrativi. È l’epopea che ha catturato l’immaginario collettivo prima che l’effetto digitale cominciasse a rimaneggiare ogni fotogramma.

Una galassia divisa

Negli anni, la community di Star Wars si è spaccata tra chi apprezza la “visione aggiornata” di Lucas (e sì, alcune scene effettivamente migliorano, come la battaglia nel canale della Morte Nera) e chi considera sacra la versione originale. E poi c’è il famigerato episodio di Greedo che spara per primo, che ancora oggi alimenta discussioni infinite nei forum, alle convention e persino a tavola durante le cene in famiglia.

La proiezione al BFI sarà un evento unico non solo per i fan britannici, ma per tutti noi. È il segnale che, forse, qualcosa sta cambiando. Che la Lucasfilm — ora proprietà Disney — possa concedere più spazio al passato, pur continuando a costruire il futuro. Magari è un esperimento, un test per vedere quanto interesse c’è ancora per queste “reliquie” cinematografiche. Magari è solo un’eccezione. Ma il fatto stesso che accada è un piccolo miracolo nerd.

George Lucas: genio, visionario… e contraddittorio

È impossibile parlare di questa notizia senza riflettere sulla figura titanica e controversa di George Lucas. L’uomo che ha inventato un universo, che ha trasformato il merchandising in un’arte e che ha rivoluzionato gli effetti speciali. Ma anche l’uomo che ha riscritto la propria opera tante volte da disorientare anche i fan più fedeli.Lucas è un artista che non ha mai voluto lasciare la sua opera “imperfetta”, e questo lo rende sia ammirabile che, a volte, frustrante. Ma senza di lui, senza il suo immaginario, le sue intuizioni (e anche i suoi errori), Star Wars non esisterebbe. Forse è davvero come dice lui: abbiamo amato un’opera incompleta. Ma forse è proprio in quella imperfezione che stava la sua grandezza.

In un’epoca in cui tutto viene restaurato, rifatto e filtrato, vedere il vero Guerre Stellari sul grande schermo sarà un’esperienza potente, quasi mistica. Non solo un tuffo nella nostalgia, ma un’occasione per riscoprire il film che ha fatto sognare il mondo, così com’era stato pensato nel 1977, prima di ogni aggiornamento, CGI o rimaneggiamento.

Speriamo che questa proiezione non resti un evento isolato, ma l’inizio di una nuova apertura verso il patrimonio cinematografico originale della saga. Che la Forza sia con chi custodisce la memoria… e con chi decide di condividerla.

“Beetlejuice 3” si farà davvero: il ritorno del caos burtoniano è alle porte (e io non sto più nella pelle)

Ok, lo ammetto. Quando ho letto la notizia, ero in piedi, davanti al frigorifero, con in mano un gelato al caramello e la playlist di Danny Elfman in sottofondo. Ho letto “Beetlejuice 3 è ufficialmente in fase di sviluppo” e ho urlato. Letteralmente. Il mio gatto è saltato dal divano come se avesse visto un sandworm di Dune nel salotto. Ma ditemi voi, come si può restare indifferenti di fronte al ritorno di uno dei personaggi più irriverenti, disturbanti e bizzarramente affascinanti dell’intera cinematografia gotico-pop degli anni ‘80? Sì, avete capito bene: dopo il successo planetario di Beetlejuice Beetlejuice del 2024 (che ha incassato oltre 450 milioni di dollari a livello globale, mica spicci!), la Warner Bros ha ufficialmente confermato lo sviluppo di un terzo capitolo della saga. E se il secondo film ci ha insegnato qualcosa, è che il mondo dello Spiritello Porcello è più vivo (e più morto) che mai.

Il ritorno dello spirito burlone

A parlare sono stati proprio i capi della Warner, Mike De Luca e Pamela Abdy, durante un’intervista a Deadline. “Forse l’inchiostro non si è ancora asciugato sugli accordi”, ha dichiarato De Luca, “ma lo sarà a breve.” E tra le righe, la promessa non detta è chiara: Beetlejuice tornerà. Ancora una volta. Ancora più folle. Ancora più… Beetlejuice.

Certo, la regia di Tim Burton non è ancora stata ufficialmente confermata, ma sarebbe difficile immaginare un nuovo viaggio nell’aldilà caotico e visionario senza il tocco barocco e malinconico del suo creatore. E anche se in passato Burton si è mostrato piuttosto scettico verso i sequel (una forma di coerenza che gli va riconosciuta), durante la première londinese di Beetlejuice Beetlejuice si era mostrato più aperto, a patto che i tempi di produzione fossero più rapidi. Forse l’entusiasmo del pubblico gli ha fatto cambiare idea? Io lo spero con tutto il cuore nerd che ho.

Michael Keaton: eterno Beetlejuice?

Un altro punto saldo (per fortuna!) è Michael Keaton, che dovrebbe tornare ancora una volta nei panni – anzi, nel completo a righe – di Beetlejuice. Il suo ritorno nel 2024 è stato un trionfo di nostalgia, talento e caos controllato. Keaton è uno di quegli attori capaci di incarnare perfettamente l’anima di un personaggio, tanto da rendere impossibile immaginare qualcun altro al suo posto. E Beetlejuice è il suo capolavoro anarchico: viscido, sopra le righe, irresistibile.

Del resto, anche nel secondo film il cast storico era tornato quasi al completo: Winona Ryder nei panni di una Lydia Deetz adulta, Catherine O’Hara sempre deliziosamente stramba, e la giovane e talentuosa Jenna Ortega (che ormai è diventata la nuova musa di Burton) nel ruolo di Astrid, la figlia di Lydia. E se tutto va bene, anche loro potrebbero tornare in questo terzo capitolo. Incrociamo le dita con forza cosmica.

Un franchise che non muore mai (letteralmente)

Facciamo un attimo un passo indietro, per chi si è perso qualche passaggio nel multiverso burtoniano. Tutto è iniziato nel 1988 con Beetlejuice – Spiritello porcello, una dark comedy dallo spirito ribelle e dall’estetica inconfondibile. La storia? Due sposini muoiono in un incidente e diventano fantasmi nella loro ex casa. Per sbarazzarsi dei nuovi viventi inquilini, si rivolgono a Beetlejuice, un bio-esorcista molesto e fuori controllo. Un’idea tanto folle quanto geniale, che ha fatto innamorare intere generazioni di outsider.

Quel film incassò 84,5 milioni di dollari su un budget di 15 milioni e vinse l’Oscar per il miglior trucco nel 1989. Ma più che per il successo commerciale, è diventato un cult per la sua capacità di raccontare l’aldilà in chiave surreale, divertente e profondamente umana. Da lì è nata una serie animata, un musical di Broadway e poi, decenni dopo, Beetlejuice Beetlejuice, il sequel del 2024 che ha saputo riaccendere la scintilla. Anzi, ha dato fuoco a tutto.

Perché Beetlejuice funziona ancora oggi?

Viviamo in un’epoca in cui la nostalgia è un carburante potente. Ma non è solo questo. Beetlejuice riesce a parlare a chi si sente fuori posto, ai freak, ai goth, agli emarginati, agli appassionati di mondi strani e regole tutte da riscrivere. E in tempi come i nostri, dove la realtà spesso somiglia più a una distopia che a un sogno americano, rifugiarsi nel caos creativo e sgangherato del mondo di Burton è quasi terapeutico.

In fondo, Beetlejuice è il simbolo del disordine che trova un equilibrio nel disastro. È la voce grossa del nostro inconscio più dark, la risata nella notte, il fantasma che ci dice: “Va tutto storto? Beh, tanto vale ballarci sopra.”

E ora?

Aspettiamo. Con ansia. Con entusiasmo. Con un po’ di terrore, perché si sa: i sequel sono sempre un azzardo, soprattutto quando si tocca un cult. Ma il fatto che la macchina sia già in moto, che Keaton sia pronto a tornare, e che il pubblico abbia dimostrato di essere ancora affamato di Beetlejuice, ci dà una speranza concreta.

E poi diciamolo: in un mondo dove i franchise si moltiplicano come Gremlins dopo la mezzanotte, se proprio dobbiamo scegliere una saga da portare avanti, io voglio che sia questa. Perché non c’è nulla di più bello che vedere i morti divertirsi più dei vivi.


E voi? Siete pronti a dire di nuovo il suo nome tre volte? Avete amato Beetlejuice Beetlejuice tanto quanto me? Parliamone nei commenti e, se vi va, condividete l’articolo sui social: più siamo, più fantasmi si uniscono alla festa!

Lo Squalo compie 50 anni: un anniversario che continua a fare onde nel cinema e nella cultura pop

Il 2025 segna un traguardo straordinario per uno dei film più iconici della storia del cinema: Lo Squalo (1975), diretto da Steven Spielberg, festeggia il suo cinquantesimo anniversario. A distanza di mezzo secolo dalla sua uscita, il film rimane una pietra miliare del genere thriller e horror, influenzando intere generazioni di cineasti e spettatori. Empire Magazine, per celebrare questo traguardo, ha dedicato al film due copertine speciali, che ritraggono l’iconico grande squalo bianco, insieme a una serie di interviste esclusive con registi di rilievo nel mondo dell’horror, che hanno riflettuto sull’eredità di questa pellicola indimenticabile.

Uscito nelle sale statunitensi il 20 giugno 1975 e in quelle italiane a dicembre dello stesso anno, Lo Squalo ha sconvolto il pubblico con la sua tensione palpabile, il ritmo incalzante e una colonna sonora che ancora oggi fa accapponare la pelle, composta da un John Williams in stato di grazia.

Il film racconta la storia di un  tranquillo villaggio di Amity, dove una giovane donna, Chrissie, viene brutalmente attaccata da uno squalo mentre nuota in mare, con i suoi resti ritrovati sulla spiaggia il giorno successivo. Dopo un’iniziale valutazione che suggerisce un incidente con un’elica, il neo-assunto capo della polizia, Martin Brody, interpretato da Roy Scheider, insiste per chiudere le spiagge, ma il sindaco Larry Vaughn, preoccupato per l’economia locale, lo convince a non fare nulla. Quando un ragazzino e un cane vengono uccisi, la tensione cresce e la madre del bambino offre una taglia per catturare lo squalo. L’ittiologo Matt Hooper (Richard Dreyfuss) arriva in città per indagare, confermando che si tratta di un grande squalo bianco. Nonostante l’abbattimento di uno squalo tigre, il vero predatore resta in circolazione. Hooper e Brody, insieme al pescatore locale Quint (Robert Shaw), intraprendono una pericolosa caccia in mare aperto. Lo squalo dimostra una forza straordinaria, sfuggendo a diversi tentativi di cattura. Durante un’esperienza che rivela i traumi di Quint, sopravvissuto al naufragio della USS Indianapolis durante la Seconda Guerra Mondiale, lo squalo colpisce la barca, danneggiandola gravemente.La battaglia culmina quando lo squalo, in un attacco furioso, distrugge la barca di Quint, che viene ucciso. Con il motore guasto e nessuna via di scampo, Brody e Hooper provano a uccidere lo squalo con una fiocina avvelenata, ma Hooper viene attaccato e la fiocina va persa. Il momento culminante si verifica quando lo squalo salta fuori dall’acqua e attacca, portando alla morte di Quint. Rimasto solo, Brody, con un’azione disperata, riesce a uccidere il mostro marino esplodendo una bombola di ossigeno nella sua bocca. Alla fine, Hooper riemerge sano e salva, e insieme a Brody nuotano verso la riva, lasciando finalmente Amity libera dalla minaccia dello squalo.

Nonostante le difficoltà produttive, tra cui il fallimento dei meccanismi per animare lo squalo, Spielberg ha saputo trasformare un film che inizialmente sembrava destinato a essere un B-movie in un capolavoro cinematografico.

La decisione di non mostrare subito la creatura, puntando piuttosto sulla suggestione e sulla minaccia imminente, ha conferito al film un’atmosfera unica. La colonna sonora, con il suo celebre tema che anticipa ogni apparizione dello squalo, è diventata un simbolo universale di paura. L’impatto commerciale e culturale di Lo Squalo è stato colossale. Al suo lancio, il film divenne rapidamente il maggiore incasso di tutti i tempi, mantenendo il primato fino all’arrivo di Guerre Stellari nel 1977. Oltre a tre premi Oscar (per il montaggio, il sonoro e la colonna sonora), il film consolidò la carriera di Steven Spielberg, che, a soli 28 anni, divenne una delle figure più influenti nel panorama cinematografico mondiale.

La trama di Lo Squalo è semplice ma avvincente unendo l’elemento horror a una denuncia sociale, con il sindaco dell’isola, interpretato da Murray Hamilton, che preferisce mantenere le spiagge aperte per motivi economici piuttosto che ascoltare gli avvertimenti dei protagonisti. La lotta per eliminare il predatore, tra confronti psicologici e fisici, culmina in una battaglia emozionante e iconica. Il finale, con Brody che riesce a uccidere lo squalo esplodendo una bombola di ossigeno, è diventato uno dei momenti più celebri del cinema mondiale.

Il film ha avuto una lunga scia di sequel, nessuno dei quali ha raggiunto nemmeno lontanamente la qualità dell’originale. Nonostante ciò, Lo Squalo ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, ispirando numerosi thriller e film horror che hanno tentato, con risultati più o meno riusciti, di replicare la sua formula vincente. Ma ciò che distingue il film di Spielberg dagli altri è la maestria con cui riesce a costruire suspense, utilizzando una narrazione tesa e il carisma dei suoi protagonisti.

In occasione del 50° anniversario, Lo Squalo ha ricevuto una nuova vetrina, con il ritorno in sala in formato tridimensionale. Universal, Amblin e IMAX hanno deciso di celebrare il film in modo speciale, riportandolo nelle sale in RealD 3D, permettendo ai fan di rivivere l’esperienza del grande schermo con una nuova prospettiva visiva, come sottolinea Travis Reid, presidente di Cinema RealD: “Tutto ciò che ha reso Lo Squalo un classico e un cult da quasi 50 anni verrà esaltato nel RealD 3D.”

Il fascino di Lo Squalo non si limita solo alla sua colonna sonora inconfondibile o alla spettacolarità degli effetti speciali (per l’epoca innovativi), ma affonda le radici nella capacità di Spielberg di creare tensione psicologica, nella caratterizzazione dei personaggi e nella costruzione meticolosa della storia. Il film, che all’inizio sembrava destinato a essere un semplice thriller marino, è diventato un pilastro della cultura cinematografica, influenzando registi come Leigh Whannell, che ha dichiarato: “Lo Squalo è un B-movie realizzato con un livello tecnico da serie A. Non avrebbe dovuto essere così riuscito.

Le parole di Whannell, che ha preso ispirazione dal film per The Invisible Man, mostrano quanto Lo Squalo abbia influenzato anche il cinema moderno. Ogni scena di suspense, ogni angolo di oscurità nell’acqua, ogni sospiro prima dell’attacco sono diventati modelli per le generazioni successive di cineasti. Lo Squalo non è solo un film horror, ma un capolavoro che ha cambiato per sempre il modo in cui il cinema racconta la paura. Con il suo cinquantesimo anniversario, questo film continua a dimostrare che, nonostante il passare degli anni, la paura dell’ignoto e la paura di ciò che si nasconde sotto la superficie non passeranno mai di moda. E forse, è proprio questo il motivo per cui Lo Squalo rimarrà una pietra miliare indimenticabile del grande schermo: perché, alla fine, nessuno di noi sarà mai davvero sicuro di cosa ci sia nell’acqua.

Parrot Kino and Gaming Lounge: il tempio romano per cinefili e gamer retrò

A Roma, nel leggendario quartiere universitario di San Lorenzo, tra strade che raccontano storie e locali che trasudano cultura, ha aperto i battenti un luogo che è destinato a diventare un punto di riferimento per gli appassionati della pop culture nerd. Si chiama Parrot Kino and Gaming Lounge, ed è molto più di un semplice locale: è un vero e proprio circolo culturale, un rifugio accogliente dove cinema e videogiochi retrò si incontrano, si contaminano e si celebrano.

Sotto le insegne al neon di via dei Bruzi 6, prende vita uno spazio dallo stile vintage, un mix tra sala proiezioni d’essai e sala giochi anni ’80, che promette serate indimenticabili tra proiezioni cult, birre artigianali, aperitivi e chiacchiere appassionate. La mente dietro tutto questo è Guido Milana, fondatore di Parrot Cinema, casa di produzione e distribuzione cinematografica indipendente nata per dare voce ai giovani talenti. Con Parrot Kino and Gaming Lounge, Milana ha deciso di andare oltre lo schermo, creando un luogo fisico dove la passione per la settima arte e quella per il gaming possano coesistere in armonia.

Il concept è semplice ma potente: offrire una nuova alternativa di intrattenimento a Roma, un posto dove potersi sedere a un tavolo con gli amici e sfidarsi ai grandi classici del retrogaming – da Street Fighter II a Pac-Man, passando per Metal Slug – sorseggiando una birra o gustando un aperitivo, magari poco prima di assistere alla proiezione di un film cult, di una pellicola indipendente o di un documentario che parla proprio del mondo nerd e videoludico.

Ma Parrot Kino non è solo un rifugio nostalgico per veterani del joypad: è anche uno spazio di incontro e confronto, un hub culturale dove il dialogo tra cinema e videogiochi viene esplorato e valorizzato. Lo stesso Milana sottolinea come queste due forme di narrazione visiva abbiano sempre più influenzato l’una l’altra, a partire dall’estetica e dalla costruzione delle trame. I videogiochi contemporanei prendono spunto dai film tanto quanto il cinema si lascia contaminare dalle meccaniche videoludiche, adottando inquadrature dinamiche e tecniche immersive che sembrano uscite da un FPS o da un open world.

E proprio questa convergenza è al centro della missione del Parrot Kino and Gaming Lounge. Il locale si propone come un contenitore fluido, capace di ospitare eventi, dibattiti, talk con personalità del mondo del cinema indipendente e del settore videoludico. Il calendario è ricco di appuntamenti che spaziano dalle proiezioni ai momenti di approfondimento, offrendo esperienze sempre nuove in una location che riesce a essere tanto accogliente quanto stimolante.

Milana, da regista esordiente qual è, ci tiene a ribadire che il suo locale non vuole essere elitario. Parrot Kino and Gaming Lounge nasce per attrarre un pubblico trasversale, fatto di cinefili incalliti ma anche di semplici curiosi, di gamer old school ma anche di chi non ha mai tenuto in mano un controller. Nessuna pedanteria, nessuna ostentazione. Qui la cultura non è mai noiosa, e l’intrattenimento non è mai “becero”. L’obiettivo è proprio quello di superare le barriere tra cultura alta e cultura pop, tra autore e blockbuster, tra indie e mainstream. L’idea è mettere lo spettatore al centro, senza etichette.

Il locale è aperto tutti i giorni tranne il lunedì. Dal martedì al giovedì e la domenica, si può entrare dalle 16:00 all’1:00, mentre il venerdì e il sabato si tira fino alle 2:00. L’ingresso è libero, ma per accedere al cineclub e partecipare alla programmazione è necessario tesserarsi. La tessera associativa costa solo 5 euro e apre le porte a un mondo di eventi, proiezioni ed esperienze condivise. Il Parrot Kino è infatti affiliato all’UICC, l’Unione Italiana dei Circoli del Cinema, garanzia di qualità e partecipazione attiva nel panorama culturale italiano.

Parrot Kino and Gaming Lounge è insomma un crocevia tra passato e futuro, un laboratorio creativo dove la nostalgia incontra la contemporaneità. È quel tipo di posto che mancava a Roma: uno spazio dove sentirsi a casa anche se non si conoscono tutte le battute di Pulp Fiction a memoria o i cheat code di Contra. Qui si viene per condividere passioni, per vivere storie e – perché no – per diventare protagonisti di una scena nerd in fermento. Una scena che, grazie a Parrot, ha trovato il suo nuovo quartier generale.

Not Just a Goof: Il Documentario su In viaggio con Pippo Celebra il 30° Anniversario della Pellicola Disney

Il 7 aprile 2025, Disney+ offrirà ai suoi abbonati un documentario imperdibile per tutti i nostalgici degli anni ’90 e per gli appassionati di animazione: Not Just a Goof, un viaggio emozionante dietro le quinte di una delle pellicole più amate di tutti i tempi, In viaggio con Pippo (A Goofy Movie). Questo documentario celebra il 30° anniversario dell’uscita di una delle più iconiche produzioni Disney, che ha saputo conquistare intere generazioni di spettatori con la sua storia di amicizia, avventura e crescita personale.

Il film, che ha visto protagonisti Pippo e suo figlio Max alle prese con un’avventura on the road attraverso gli Stati Uniti, è diventato un vero e proprio cult tra i Millennial. Chi non ricorda le indimenticabili canzoni di Powerline e i tentativi di Max di conquistare la sua crush, Roxanne? In viaggio con Pippo ha saputo raccontare in modo fresco e divertente i conflitti tipici dell’adolescenza, portando sul grande schermo due personaggi che, sebbene antropomorfi, sono riusciti a risuonare con il pubblico in modo incredibilmente umano e realistico. La pellicola ha regalato una serie di momenti indimenticabili, dal ballo di “Stand Out” a Powerline, che è diventato un fenomeno virale sui social network come TikTok, dove i fan continuano a riproporre la coreografia.

In occasione di questo importante anniversario, Not Just a Goof ci porta dietro le quinte della creazione di In viaggio con Pippo, esplorando la storia mai raccontata di come il giovane team creativo abbia affrontato la realizzazione del loro primo lungometraggio Disney. Tra le figure principali troviamo il regista Kevin Lima, che all’epoca non aveva esperienza come regista né come capo della storia, ma aveva una visione chiara: voleva realizzare un film che fosse un mix tra il classico Disney e il tipico film adolescenziale in stile John Hughes, ma con personaggi antropomorfi.

Il documentario non si limita a raccontare le fasi della realizzazione del film, ma svela anche alcune delle ispirazioni reali che hanno influenzato la trama e ci mostra il processo creativo attraverso le registrazioni vocali dei membri del cast. La partecipazione di Tevin Campbell, una delle star R&B più acclamate del periodo, ha contribuito in modo fondamentale a dare vita alle canzoni di Powerline, rendendo le musiche del film incredibilmente memorabili e contribuendo al successo della pellicola. Le musiche, ancora oggi, sono fonte di nostalgia per tutti coloro che hanno vissuto quegli anni, facendo sì che In viaggio con Pippo non fosse solo un film d’animazione, ma un vero e proprio punto di riferimento culturale per un’intera generazione.

Not Just a Goof non è solo una celebrazione del film, ma una dichiarazione d’amore verso l’animazione tradizionale e i valori che In viaggio con Pippo ha trasmesso: l’importanza di capire e accettare i propri genitori, l’adolescenza come periodo di sfide e cambiamenti, e la musica come strumento di espressione personale. Per tutti coloro che sono cresciuti con la Disney negli anni ’90, questo documentario rappresenta un’occasione unica per rivivere quei momenti di pura magia, scoprendo i retroscena di una delle pellicole che ha segnato la storia del cinema d’animazione.

Con Not Just a Goof, Disney+ ci offre un’opportunità imperdibile di scoprire la storia dietro le quinte di un film che, nonostante il passare degli anni, rimane un pilastro della cultura pop degli anni ’90. Un documentario che non solo racconta la genesi di In viaggio con Pippo, ma celebra l’eredità di un film che ha saputo conquistare i cuori di milioni di persone e che, a distanza di trent’anni, continua a emozionare e ispirare nuove generazioni. Non resta che segnare il 7 aprile sul calendario e prepararsi a immergersi in una storia che non smette mai di farci sorridere.