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Wake Up Dead Man: tutto sul ritorno di Benoit Blanc nel terzo Knives Out di Rian Johnson

Sono passati sei anni. Sei lunghissimi anni da quando abbiamo visto per l’ultima volta Benoit Blanc, l’elegantissimo e implacabile detective col baffo (metaforico) sempre in ordine e l’accento “Kentucky Fried” che ci ha stregati fin dal primo istante. E adesso, finalmente, eccoci qui: Wake Up Dead Man: A Knives Out Mystery è realtà. Sì, hai letto bene, il terzo capitolo della saga creata dalla mente geniale di Rian Johnson sta per arrivare, con tanto di data ufficiale: 12 dicembre 2025.

Non è un semplice ritorno, è un evento. Perché Benoit Blanc non è solo un personaggio, è diventato un simbolo per tutti gli amanti del giallo moderno. Quando nel 2019 uscì Cena con delitto (Knives Out), sembrava di assistere a un piccolo miracolo cinematografico: un whodunit vecchio stile, aggiornato però al nostro presente, capace di mescolare ironia, critica sociale, intreccio raffinato e un cast stellare. Daniel Craig, reduce dal suo 007, si reinventava detective, sfoderando una recitazione sopra le righe e un accento indimenticabile.

Poi arrivò Glass Onion, sequel caleidoscopico e satirico, ambientato tra ricconi viziati e misteri high-tech. Un film che alzava la posta, ma che lasciava intravedere che Johnson aveva ancora un asso nella manica. Ed eccoci a Wake Up Dead Man, un titolo che già da solo è un programma: evocativo, inquietante, intriso di quell’estetica gotica americana fatta di cimiteri abbandonati, chiese diroccate, ballate blues e segreti troppo a lungo rimasti sepolti.

Il primo trailer, lanciato da Netflix a giugno durante il TUDUM 2025, ha confermato tutte le nostre aspettative (e paure). In sottofondo risuona “O Death”, struggente canto popolare reso celebre anche dai fratelli Coen in O Brother, Where Art Thou?. E se già questo non ti fa venire i brividi, aspetta di vedere l’immagine promozionale con cui sono state annunciate la fine delle riprese, il 17 agosto 2024: un camposanto avvolto nella nebbia, con un cartello che ammonisce “Si prega di avere rispetto per le tombe”. Non servono altri indizi per capire che questa volta il tema della morte, e forse di ciò che la circonda o la supera, sarà centrale.

Ma veniamo alle grandi notizie freschissime: Wake Up Dead Man sarà presentato in anteprima mondiale come film d’apertura della 69ª edizione del BFI London Film Festival, in programma dall’8 al 19 ottobre. Un ritorno che sa di consacrazione, considerando che la saga aveva già calcato lo stesso festival nel 2019 con il primo film e nel 2022 con Glass Onion. Rian Johnson, entusiasta, ha dichiarato: “Siamo onorati di aprire il BFI London Film Festival con Wake Up Dead Man. Londra è la culla dell’età d’oro del giallo ed è un’emozione tornare!”.

Il cast? Da urlo. Daniel Craig, naturalmente, torna a vestire i panni del nostro Benoit Blanc, ma questa volta ad accompagnarlo c’è un vero e proprio dream team hollywoodiano. Glenn Close, regina indiscussa della tensione emotiva, ci fa già tremare al solo pensiero. Kerry Washington promette magnetismo e intelligenza tagliente. Jeremy Renner torna sullo schermo dopo un periodo personale difficile, mentre Josh Brolin porta in dote il suo carisma brutale. E ancora: Mila Kunis, nei panni (forse ambigui) di una poliziotta, Andrew Scott, l’indimenticato “Hot Priest” di Fleabag, enigmatico e affascinante come sempre. Josh O’Connor, giovane talento in rapida ascesa, è stato avvistato sul set in abito da sacerdote, accendendo speculazioni su una trama intrisa di religione o folklore. Cailee Spaeny, Daryl McCormack e Thomas Haden Church completano il quadro, ognuno con un ruolo che promette di essere decisivo nei mille colpi di scena che ci aspettano.

Il font del titolo, volutamente vagamente piratesco, ha già acceso le teorie più disparate: cacce al tesoro? Isole sperdute? Antichi misteri? E se pensiamo alla volontà di Johnson di spingere la saga verso “un’evoluzione naturale”, come lui stesso ha dichiarato, sembra chiaro che ci troviamo di fronte non a un semplice sequel, ma a un capitolo più ambizioso, oscuro e stratificato.

Wake Up Dead Man non vuole solo raccontare un’altra indagine, vuole portarci in un viaggio negli abissi dell’animo umano, là dove logica e paura si stringono la mano. Non sorprende quindi che la produzione, firmata ancora una volta da Johnson insieme a Ram Bergman per T-Street Productions, punti a un tono più gotico, più cupo, quasi autunnale. Un ritorno alle atmosfere del primo film, ma con un respiro ancora più ampio e inquietante.

La scelta di far uscire il film a dicembre non è casuale: ormai è tradizione che i casi di Benoit Blanc arrivino nelle sale (o su Netflix) durante le festività natalizie. Non c’è nulla di più perfetto del contrasto tra luci di Natale, cioccolata calda, coperta sulle ginocchia e un mistero da risolvere, pieno di segreti, inganni e rivelazioni capaci di toglierti il fiato.

Per noi nerd appassionati di cinema, serie TV, gialli, misteri e personaggi larger-than-life, l’attesa è già quasi insostenibile. Wake Up Dead Man sembra avere tutte le carte in regola per diventare il capitolo più memorabile della trilogia: un cast stellare, una regia ispirata, un’atmosfera da brividi e, al centro di tutto, Benoit Blanc, investigatore moderno eppure fuori dal tempo, capace di affascinarci con la sola forza della sua mente e del suo stile impeccabile.

E tu, sei pronto a svegliare il morto? Hai già le tue teorie sul ruolo di Glenn Close? Pensi anche tu che ci sarà un elemento sovrannaturale a scombinare le carte in tavola? Faccelo sapere nei commenti qui sotto! Condividi questo articolo con i tuoi amici investigatori su Facebook, X (Twitter) e Instagram e preparati con noi al grande ritorno del detective più elegante, stravagante e irresistibile del cinema contemporaneo. Perché quando Benoit Blanc entra in scena, nessun segreto è al sicuro… e noi non vediamo l’ora di scoprire quale mistero ci terrà svegli la notte questa volta.

Nezha 2 (Nezha Zhi Mo Tong Nao Hai): Il sequel dell’animazione cinese sta per conquistare anche gli States!

Se siete appassionati di cinema d’animazione, mitologia orientale e storie epiche capaci di tenervi incollati alla poltrona, preparatevi: Ne Zha 2 sta per arrivare sui nostri schermi. E non è una semplice uscita, è un evento, un fenomeno culturale che sta riscrivendo le regole dell’intrattenimento globale.  Distribuito da A24 e CMC Pictures, due nomi che ormai fanno venire gli occhi a cuoricino a chi ama il cinema indipendente e d’autore, Ne Zha 2 sbarcherà il 22 agosto 2025 negli Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, pronto a conquistare anche il pubblico di lingua inglese. E per farlo si è affidato a una vera e propria leggenda vivente: Michelle Yeoh, “l’imperatrice” del cinema internazionale, vincitrice di Oscar e regina incontrastata di film d’azione, drammi e avventure fantasy, sarà la voce protagonista nella versione inglese.

Michelle Yeoh ha dichiarato con entusiasmo:

Sono onorata di far parte di Ne Zha 2, una pietra miliare dell’animazione cinese e un potente promemoria di quanto possano essere universali le nostre storie. Condividere questo con il pubblico in inglese è una tale gioia e non vedo l’ora che tutti possano sperimentare la meraviglia, il cuore, la spettacolare arte e la magia di questo film sul grande schermo”.

Parole che non suonano come una fredda dichiarazione stampa, ma come il manifesto di un progetto che punta in alto, anzi altissimo.

Ma partiamo dalle basi: chi è Ne Zha?

Se non avete visto il primo film (Nezha Zhi Mo Tong Jiang Shi, uscito nel 2019), forse vi siete persi una delle più affascinanti riscritture della mitologia cinese degli ultimi anni. Ne Zha è un semidio ribelle, una figura leggendaria della tradizione popolare, dotato di poteri immensi e di un destino già scritto, chiamato a scontrarsi con forze antiche e distruttive per salvare l’umanità.

Ne Zha 2, diretto ancora una volta da Yang Yu, riprende proprio da dove il primo capitolo ci aveva lasciati, portandoci in un viaggio ancora più spettacolare e profondo. Nezha e Ao Bing, il suo rivale destinato a diventare alleato, vengono colpiti da un fulmine celeste che sembra condannarli alla fine. Ma la mitologia cinese ci insegna che nulla finisce davvero: grazie al loto dai sette colori, artefatto leggendario e potente, vengono riportati in vita da Taiyi, entità mistica che diventa figura chiave del nuovo capitolo. E da qui comincia il vero spettacolo: battaglie mozzafiato contro mostri marini, incontri con divinità, dilemmi esistenziali e sacrifici commoventi.

Il risultato? Un film che non è solo un sequel, ma una vera e propria consacrazione.

Ne Zha 2 ha già infranto ogni record in patria: 1,72 miliardi di dollari al botteghino cinese, superando persino Inside Out 2 di Disney Pixar. A livello globale si è piazzato all’ottavo posto tra i film più redditizi di sempre, entrando nel pantheon insieme a titani come Avatar di James Cameron. Un traguardo che non può essere liquidato come semplice fortuna: è il segno che il cinema d’animazione cinese è ormai maturo, audace, pronto a parlare al mondo intero. Non è solo questione di numeri, però. L’animazione di Ne Zha 2 è qualcosa che fa brillare gli occhi: i dettagli delle sequenze d’azione, la fluidità dei movimenti, la palette di colori che unisce tradizione e innovazione. Si percepisce la voglia di confrontarsi con i giganti del settore, Pixar e DreamWorks in primis, ma senza mai perdere l’anima profondamente cinese. La colonna sonora, epica e avvolgente, e il sound design preciso e immersivo completano un quadro visivo ed emotivo che incanta.

Ovviamente, non mancano le critiche. Alcuni recensori hanno sottolineato che certe scelte narrative risultano prevedibili e che il pathos legato alla morte di alcuni personaggi può sembrare forzato. Ma diciamocelo: quando si parla di opere che devono piacere a pubblici enormi, il rischio di cadere in cliché è sempre dietro l’angolo. E, onestamente, a giudicare dai punteggi stellari sui siti internazionali, pare che il pubblico abbia scelto da che parte stare.

Quello che rende Ne Zha 2 così importante, al di là del singolo film, è il segnale che lancia all’industria globale. La Cina non è più soltanto un mercato in crescita, è un produttore culturale capace di dettare tendenze e ridefinire l’immaginario collettivo. Se Ne Zha 2 riuscirà a sfondare anche nei mercati internazionali, superando magari il miliardo di dollari fuori dai confini nazionali, assisteremo a un vero e proprio cambio di paradigma. Non più solo Occidente che esporta storie, ma Oriente che racconta e conquista.

Come nerd, fan di animazione e appassionata di mitologie, non posso che essere entusiasta all’idea di vedere questo film sul grande schermo. È raro trovare opere che sappiano unire azione, emozione e radici culturali in un mix così potente. Ne Zha 2 non è solo un film, è un invito a esplorare mondi, leggende e storie che spesso nei nostri cinema arrivano filtrati o semplificati.

E allora, vi chiedo: lo andrete a vedere? Avete amato il primo capitolo? Che cosa vi aspettate da questo secondo film? Vi invito a raccontarmelo, a commentare, a condividere questo articolo con i vostri amici sui social. Perché se c’è una cosa che il cinema sa fare, è unire le persone, e Ne Zha 2 sembra avere tutte le carte in regola per diventare un nuovo punto di incontro per fan di tutto il mondo.

Superman ritorna: James Gunn riaccende la speranza nel nuovo DC Universe

Io sbaglio di continuo, è questo che mi rende umano! La speranza Lex è che tu un giorno lo capisca!”

A seguito della prima visione per la Stampa questa frase pensiamo possa essere presa come elemento maggiormente riassuntivo di Superman di James Gunn. Ma andiamo con ordine.

Dopo anni di incertezze, reboot confusi e universi narrativi che non riuscivano a trovare una vera direzione, l’attesa per il ritorno di Superman sul grande schermo è finita. Oggi, 9 luglio 2025, l’Uomo d’Acciaio è tornato a volare nei cieli cinematografici mondiali, aprendo ufficialmente le porte del nuovo DC Universe con il film “Superman”, diretto e sceneggiato da James Gunn, il visionario regista già dietro al successo della trilogia dei Guardiani della Galassia.

Ma attenzione: questo non è un semplice reboot. È il primo tassello di un mosaico narrativo ambiziosissimo, che porta il nome di “Chapter One: Gods and Monsters”, il primo capitolo della rinascita firmata DC Studios, ora guidati dallo stesso Gunn e da Peter Safran. L’obiettivo? Riscrivere da zero l’universo cinematografico DC, puntando su una narrazione coerente, emozionante e fortemente radicata nello spirito dei personaggi iconici della casa editrice.

Siamo sicuri di una cosa: “Chapter One: Gods and Monsters” dividerà il fandom tra coloro che non accettano versioni alternative a quella definita “preferita” e coloro consapevoli che nell’universo narrativo dell’uomo d’acciaio non si è nuovi a grandi rivisitazioni, come già accaduto nel 1985 con i fumetti della serie “Crisi sulle Terre infinite”. L’operazione di Gunn per dare il via ad una nuova epoca d’oro DC ha del grande potenziale.

Già il primo trailer ufficiale del nuovo Superman non aveva tardato a far parlare di sé. Tre minuti densi di emozioni, azione e suggestioni visive che ci mostrano un Clark Kent giovane, riflessivo, ma profondamente umano, animato da una compassione disarmante e da una fiducia incrollabile nella bontà dell’umanità. Non è il Superman arrogante o cinico che spesso abbiamo visto negli ultimi anni: è il simbolo della speranza, proprio come dovrebbe essere. E forse come non lo vedevamo dai tempi di Christopher Reeve.

Se da un lato infatti il film nelle sale riprende dal passato molteplici elementi tipici dei fumetti, dall’altro rompe con il passato cinematografico saltando completamente il classico incipit: la storia di Kal-El in fasce lanciato, dai propri genitori, in direzione della Terra a bordo di una navetta durante il collasso del suo pianeta natale Krypton è ormai nota al pubblico. Gunn ci ha salvati dal vedere qualcosa di già visto così che il film inizia nel bel mezzo dell’azione… con la prima sconfitta di Superman!

A vestire il mantello rosso sarà David Corenswet, già visto in Hollywood e nel prossimo Twisters. Il suo look e la sua presenza scenica richiamano in modo quasi commovente l’indimenticabile Reeve, restituendo al pubblico un Superman solare e possente, ma mai distaccato. Al suo fianco ci sarà Rachel Brosnahan nei panni di Lois Lane, la brillante giornalista del Daily Planet, carismatica e determinata. A far tremare Metropolis ci penserà invece un inedito Lex Luthor, interpretato da Nicholas Hoult: il suo villain, a detta di chi ha visto le prime proiezioni test, è sopra le righe e potenzialmente divisivo, ma sicuramente memorabile. Per chi non ha, fino ad oggi, avuto esperienza con il mondo fumettistico di Superman il personaggio di Lex infatti potrebbe non convincere completamente. Gunn infatti come già detto si è ispirato al mondo comics ed agli elementi più classici. Luthor è un genio, è strategico e analitico, odia e prova invidia per Superman. Nel suo piano diabolico crea tecnologie di guerra, mutazioni, portali dimensionali e un universo tasca sfruttando tutto ciò al contempo all’interno di una strategia basata sul diffondere dubbio e paura. È Lex Luthor a tutti gli effetti.

Siamo di fronte ad un prodotto onesto con il pubblico, il film è un cine-comic in piena regola e non aspira ad essere altro. Non confonde. Non mancano ovviamente allusioni a tutte le epoche storiche dello sviluppo del personaggio, anche televisive e cinematografiche: primo elemento degno di nota è la ripresa del tema musicale che ci fa sognare ancor oggi e sviluppato quasi 50 anni fa da John Williams; la ripresa di uno dei leit motiv di Luthor “Il cervello batte i muscoli”; la ormai nota presenza del cane Krypto, ideato nel 1955 e da alcuni trovato “fuori luogo”; Kara Zor-El, cugina di Kal-El e qui interpretata in un cameo da Milly Alcock (Rhaenyra Targaryen nella serie televisiva HBO House of the Dragon), è un personaggio conosciuto dal 1959.

La pellicola presenta inoltre un cast da capogiro: Nathan Fillion è il lanterna verde Guy Gardner, Isabela Merced interpreta Hawkgirl, Anthony Carrigan è Metamorpho, e Edi Gathegi da il volto ad un eccezionale Mister Terrific. Tra i tanti comprimari spiccano anche Skyler Gisondo, Sara Sampaio, María Gabriela de Faría, Wendell Pierce, Alan Tudyk, Pruitt Taylor Vince e Neva Howell.

L’estetica del film pesca a piene mani da alcune delle run più amate di Superman, in particolare dall’epica “All-Star Superman” di Grant Morrison e Frank Quitely, da cui eredita il tono lirico e la profonda introspezione del personaggio. Ma c’è anche un omaggio visivo evidente al “Kingdom Come” di Alex Ross, soprattutto nel nuovo simbolo del costume, che richiama quel senso di nobiltà e responsabilità che è alla base del mito di Kal-El nonché omaggiando l’albo di Waid e Ross con una scena apertamente ispirata alla copertina.

Il cuore della narrazione non è fatto solo di pugni e raggi laser. Al centro c’è il conflitto interiore di Superman, diviso tra la sua eredità kryptoniana e l’amore per la Terra. Si percepisce in Kal-El il peso della sua eredità ma anche il desiderio di vivere come un uomo normale, accanto a Lois. Il senso di dover essere qualcosa di più si scontra con le “conseguenze delle sue azioni” in chiave di una politica internazionale che trova nel suo intervento l’origine di squilibrio e danno, ma per altri resta un faro per l’umanità. Un dilemma eterno, che James Gunn promette di esplorare con sensibilità e profondità, offrendo finalmente una visione complessa e matura dell’eroe più iconico di tutti senza tralasciare un linguaggio moderno figlio dell’arrowverse: “Fa piacere che i metaumani non ti preoccupano, sono loro a dettare le regole ora.”

Le prime proiezioni test avevano acceso anche qualche campanello d’allarme. Se la trama ha convinto il pubblico generalista, gli effetti visivi sono ancora acerbi in alcune sequenze, in particolare quelle ambientate nella Fortezza della Solitudine che si riduce ad essere costituita da uno spazio molto limitato seppur polifunzionale, e il design del villain principale che è stato definito “comico” da alcuni spettatori. Ma la post-produzione ha fatto un buon lavoro e certi “effetti” sono probabilmente voluti per non confondere il pubblico. Le prime impressioni potrebbero quindi cambiare radicalmente durante la prima settimana di uscita.

Come se non bastassero le sfide artistiche e narrative, c’è anche una grana legale in corso. Mark Peary, nipote di Joe Shuster, co-creatore di Superman, ha avviato un’azione legale che potrebbe complicare la distribuzione del film in paesi come Regno Unito, Canada, Australia e Irlanda. Un ostacolo non da poco, che aggiunge ulteriore tensione a un progetto già carico di aspettative.

Eppure, nonostante tutto, c’è una sensazione nuova nell’aria. Una sensazione di rinascita, di ottimismo, di promessa. James Gunn sembra avere una visione chiara e rispettosa, e “Superman” potrebbe davvero essere la scintilla che riaccende l’amore del pubblico per l’universo DC, traghettandolo verso una nuova epoca d’oro. Difatti il discorso finale di Superman a Luthor sconfitto mette in luce tutte le possibili caratteristiche umane dell’uomo d’acciaio. Ricorda che seppur geneticamente è alieno “le sue scelte, le sue azioni, fanno di lui ciò che è!” e come da citazione iniziale, Superman fa errori di continuo, ci si deve confrontare, prendersene la responsabilità e rimediare come un uomo illuminato è giusto che faccia. E nonostante lui veda il marcio che c’è ha scelto di vivere nella speranza che ogni uomo possa comprendere e vedere le proprie potenzialità, persino Lex!

Il 9 luglio 2025 non sarà ricordata solo come la data di uscita di un nuovo film. Sarà, potenzialmente, il giorno in cui il mito di Superman tornerà a splendere come non mai, pronto a ispirare una nuova generazione di spettatori. Che ne pensate voi? Questa nuova incarnazione del figlio di Krypton vi ha già conquistati o restate ancora scettici? Parliamone nei commenti o condividete l’articolo con i vostri amici nerd sui social!

Il film è diretto e sceneggiato da James Gunn presentato da DC studios in collaborazione con DOMAIN ENTERTAINMENT e produzione TROLL COURT ENTERTAINMENT / THE SAFRAN COMPANY. La pellicola è distribuita da Warner Bros. Pictures.

Produttori esecutivi di “Superman” sono Nikolas Korda, Chantal Nong Vo e Lars Winther.

Dietro la macchina da presa, Gunn si è avvalso del lavoro di suoi collaboratori fidati, tra cui il direttore della fotografia Henry Braham, la scenografa Beth Mickle, la costumista Judianna Makovsky e il compositore John Murphy, oltre al compositore David Fleming (“The Last of Us”), ai montatori William Hoy (“The Batman”) e Craig Alpert (“Deadpool 2”, “Blue Beetle”). Superman è un personaggio DC ideato da Jerry Siegel e Joe Shuster.

Operazione Vendetta: il thriller di spionaggio che accende l’estate nerd su Disney+

Se anche voi, come me, avete un debole per i thriller che sanno mescolare azione ad alta tensione con intelligenza narrativa, tenetevi pronti: Operazione Vendetta è in arrivo e promette scintille. Il 17 luglio 2025 sarà una data da segnare con un evidenziatore rosso fuoco sul calendario, perché il nuovo film targato 20th Century Studios sbarca in streaming su Disney+, pronto a conquistare chi ama le storie di spionaggio, i misteri globali e gli eroi insospettabili. E fidatevi, questo è uno di quei film che ti fa battere il cuore e frullare il cervello allo stesso tempo. Diretto da James Hawes, nome noto per aver diretto episodi di serie come Black Mirror e Slow Horses, Operazione Vendetta è una bomba a orologeria narrativa che esplode scena dopo scena, incastrando lo spettatore in una tela fittissima di tensione emotiva e azione strategica. Non si tratta del classico thriller action dove i muscoli risolvono tutto: qui a dominare sono i neuroni, il dolore profondo e una vendetta così fredda da diventare quasi arte.

Al centro della storia troviamo Charlie Heller, interpretato da un sempre più magnetico Rami Malek. E no, non è il solito agente segreto addestrato al combattimento corpo a corpo e agli inseguimenti impossibili. Charlie è un decodificatore della CIA, un uomo che vive immerso nei numeri, nei codici e nei segnali nascosti del mondo. Una di quelle menti brillanti ma introverse, abituate a risolvere problemi seduto davanti a uno schermo piuttosto che in campo. Ma quando un attacco terroristico a Londra gli porta via la moglie, il mondo crolla. E qualcosa dentro di lui si spezza per sempre.

Da quel momento, l’intera esistenza di Charlie si trasforma in una caccia. Non una vendetta cieca e rabbiosa, ma una vera e propria “operazione” – e non è un caso che il titolo originale sia The Amateur. Perché Charlie, da analista in ombra, si evolve in qualcosa di diverso. Guidato dal veterano agente CIA Henderson, interpretato dall’inossidabile Laurence Fishburne, intraprende un viaggio che lo porterà a sfidare il sistema stesso per ottenere giustizia.

Il film, basato sul romanzo di Robert Littell – un maestro del genere spionistico – si poggia su una sceneggiatura scritta da Ken Nolan (Black Hawk Down) e Gary Spinelli (American Made), una combinazione che garantisce sia precisione narrativa che profondità nei dialoghi. E si sente. Non ci sono momenti sprecati o battute buttate lì per riempire. Ogni scena, ogni parola, ogni sguardo di Malek serve a costruire quel sottile filo di tensione che tiene lo spettatore incollato allo schermo.

E che dire del resto del cast? Una vera parata di nomi da nerd-stellare: la talentuosa Rachel Brosnahan, la magnetica Caitríona Balfe, il carismatico Jon Bernthal. Tutti perfettamente calati in ruoli che non sono mai macchiette ma personaggi con carne, sangue, dubbi e cicatrici. È proprio questo il punto: Operazione Vendetta non è un film che cerca scorciatoie. Non ti dà personaggi stereotipati, non ti illude con effetti speciali sfarzosi fine a sé stessi. Ti fa entrare in un mondo dove ogni scelta ha un costo, ogni mossa una conseguenza, e nessuno è davvero al sicuro.

La regia di James Hawes è chirurgica. Sfrutta ambientazioni internazionali mozzafiato – tra Londra, Berlino, Istanbul e chissà cos’altro – per creare quella sensazione di globalità che ogni thriller moderno dovrebbe avere. La fotografia è cupa ma raffinata, perfetta per restituire quell’atmosfera da spy story contemporanea dove ogni angolo può nascondere una minaccia e ogni volto può celare un tradimento. Il comparto tecnico, in generale, alza ulteriormente l’asticella: montaggio serrato, effetti visivi misurati ma d’impatto, e una colonna sonora (ancora misteriosa nei dettagli) che sembra già puntare dritta allo stomaco.

Il tema della vendetta – da sempre uno dei preferiti di noi nerd che amiamo le trame cerebrali e le trasformazioni emotive – viene trattato qui con una profondità rara. Charlie non si trasforma in eroe per caso. La sua metamorfosi non è gratuita. È una risposta a un sistema che ha deciso di restare immobile. È la scelta di un uomo che ha perso tutto e che, nel caos, trova l’unica via possibile: agire. E in questo percorso, tra dolore, razionalità, rabbia e senso di giustizia, Operazione Vendetta diventa qualcosa di più di un semplice film d’azione. Diventa una riflessione sul potere della mente, sull’importanza delle emozioni e sulla capacità dell’essere umano di risorgere dalle proprie ceneri.

Se siete appassionati di thriller psicologici, di spy movie intelligenti, se amate quei film che non solo vi tengono svegli ma vi fanno anche pensare, allora questo è il titolo da non perdere. Non è un caso che sia già stato definito da Deadline come “un avvincente thriller di spionaggio globale”. E io, dopo averne visto la clip ufficiale e aver studiato ogni dettaglio del trailer, non posso che confermare.

Operazione Vendetta non sarà solo uno dei migliori film estivi su Disney+, ma potrebbe diventare uno dei riferimenti del genere per il 2025. Un’opera capace di unire emozione, riflessione e azione, senza mai sacrificare la qualità narrativa. Insomma, il sogno di ogni nerd cinefilo con la passione per l’intreccio perfetto. Che ne pensate del ritorno di Rami Malek in un ruolo così profondo e intenso? Scrivetemelo nei commenti e condividete l’articolo sui vostri social per scoprire chi tra i vostri amici è pronto a lanciarsi nell’Operazione Vendetta insieme a voi. Perché ricordate: nel mondo dello spionaggio, ogni informazione è potere… e ogni film è una missione da vivere fino all’ultimo frame.

Wildwood: il ritorno epico di Laika Studios e la rivoluzione della stop-motion

Dopo un silenzio durato fin troppo a lungo per noi appassionati di cinema d’animazione e, in particolare, per chi ha nel cuore la magia artigianale della stop-motion, Laika Studios sta finalmente per tornare sotto i riflettori. E non con un progetto qualunque, ma con quello che promette di essere uno dei film più ambiziosi della sua storia: “Wildwood”, una fiaba oscura, emozionante e tecnicamente rivoluzionaria, attesa nelle sale nel 2026.

Per chi conosce Laika, basta il nome per evocare mondi incantati e visioni straordinarie. Questo studio, nato ufficialmente nel 2005 grazie all’iniziativa di Travis Knight, regista e attuale CEO, ha ridefinito i canoni della stop-motion con film come Coraline e la porta magica (2009), ParaNorman (2012), The Boxtrolls, Kubo e la spada magica e Missing Link. Cinque opere che, ognuna a suo modo, hanno lasciato il segno, unendo l’estetica del cinema artigianale a una narrazione sempre profonda e innovativa.

Ma dopo il pur bellissimo Missing Link, premiato ai Golden Globe ma accolto tiepidamente al botteghino, Laika ha dovuto affrontare un periodo di riflessione. Come ha raccontato il Chief Marketing Officer David Burke in una recente intervista a IndieWire, lo studio ha affrontato momenti difficili, accentuati dalla pandemia che ha bloccato numerosi progetti in fase di sviluppo. Un periodo di stallo, certo, ma anche di riorganizzazione e rilancio. Perché Laika non è mai stata solo un semplice studio d’animazione: è un laboratorio di sogni in movimento.

E adesso, quel sogno si chiama Wildwood.

Un viaggio tra foreste incantate e creature indimenticabili

Diretto da Travis Knight e tratto dal romanzo omonimo di Colin Meloy, illustrato da Carson Ellis, Wildwood ci trasporterà in un mondo al confine tra realtà e incanto, dove natura e magia si fondono in un equilibrio tanto delicato quanto pericoloso. Il libro, pubblicato nel 2011, è stato un piccolo cult tra gli amanti del fantasy per ragazzi, e Laika ha deciso di trasformarlo in un’opera visiva che, stando alle anticipazioni, promette di superare tutto ciò che lo studio ha realizzato finora.

La storia segue le avventure di Prue McKeel e Curtis Mehlberg, due giovani amici che si addentrano in una foresta misteriosa per salvare Mac, il fratellino di Prue, rapito da un esercito di corvi al servizio di una donna enigmatica di nome Alexandra. Il viaggio che i due intraprenderanno non sarà solo fisico, ma profondamente simbolico: un percorso di crescita, di confronto con le proprie paure e di scoperta di sé stessi. Una trama che richiama i temi cari a Laika, da Coraline a Kubo, dove l’infanzia si confronta con un mondo sconosciuto, oscuro e affascinante.

Una produzione monumentale

Come ha raccontato Travis Knight, Wildwood è il progetto più complesso mai affrontato dallo studio. E se già la stop-motion è di per sé un’impresa che richiede pazienza certosina e soluzioni tecniche d’avanguardia, qui si è dovuto andare ancora oltre. Battaglie epiche, voli mozzafiato, animali parlanti come l’imponente aquila mentore di Prue: ogni dettaglio ha richiesto anni di progettazione, animazione e perfezionamento. Alcuni personaggi, ha rivelato Knight, sono vere e proprie sfide ingegneristiche, costruiti per simulare movimenti naturali con una fluidità mai vista prima nel genere.

Anche il comparto vocale è da kolossal animato. A prestare le voci ai protagonisti ci saranno Peyton Elizabeth Lee (Prue), Jacob Tremblay (Curtis), Carey Mulligan, Mahershala Ali, Angela Bassett, Awkwafina, Jake Johnson, Charlie Day, Amandla Stenberg, Jemaine Clement, Tom Waits e Richard E. Grant. Un cast stellare che testimonia l’ambizione dietro Wildwood, ulteriormente impreziosita dalla colonna sonora firmata da Dario Marianelli, già collaboratore di Knight in Kubo e la spada magica.

Una Laika rinnovata, ma sempre fedele a se stessa

Nonostante le difficoltà recenti, Laika non si è mai fermata del tutto. Durante il periodo di pausa, lo studio ha investito tempo ed energie per ripensarsi, esplorando nuovi formati e strategie. Ha rilanciato Coraline in versione 3D, ottenendo un grande successo al botteghino, e ha annunciato la riedizione di ParaNorman nel 2025, accompagnata da un nuovo cortometraggio intitolato ParaNorman: The Thrifting. Ma non solo: sono in fase di sviluppo anche nuovi progetti, tra cui adattamenti live-action e l’adattamento del romanzo Atmosphere di Taylor Jenkins Reid, che sarà diretto da Anna Boden e Ryan Fleck, i registi di Captain Marvel.

Laika guarda anche al futuro dell’animazione con occhi diversi: consapevole che l’attenzione del pubblico è oggi più frammentata che mai, ha iniziato a esplorare strategie digitali, social media e contenuti interattivi per raggiungere nuove generazioni. Iniziative come la mostra “Hidden Worlds”, già allestita a Seattle e in arrivo all’Academy Museum nel 2026, e contenuti TikTok con i dietro le quinte di Coraline e The Boxtrolls, sono solo un esempio di come lo studio stia ampliando il proprio universo narrativo.

Wildwood: una fiaba dark per un nuovo capitolo dell’animazione

L’uscita di Wildwood, fissata per il 2026, non sarà solo il ritorno di Laika. Sarà un nuovo capitolo nella storia del cinema d’animazione. Un’opera che, se riuscirà a mantenere le promesse, ridefinirà cosa significa fare animazione oggi, mescolando poesia visiva, innovazione tecnica e una narrazione profonda, quasi letteraria.

Laika non vuole semplicemente adattarsi ai tempi: vuole essere pioniera, vuole riaffermare la sua unicità, il suo essere diversa in un panorama sempre più omologato. E in un mondo dove i blockbuster animati si affidano spesso alla computer grafica e a formule narrative già viste, Laika continua a parlare con la voce dell’artigianato, del rischio creativo, della meraviglia autentica.

Ci resta solo da attendere e sperare che Wildwood sia davvero all’altezza di un’attesa lunga più di dieci anni. Ma conoscendo lo studio, c’è da scommettere che ci ritroveremo ancora una volta a bocca aperta, immersi in un mondo che non vorremo più lasciare.

Pretty Babies: il lato oscuro del sogno hollywoodiano raccontato da una nuova voce femminile del cinema indie

C’è un nuovo film all’orizzonte che promette di scuotere gli animi e accendere il dibattito, soprattutto tra chi conosce la doppia faccia scintillante e crudele della macchina dei sogni hollywoodiana. Si intitola Pretty Babies ed è un progetto indie al femminile che si preannuncia tanto potente quanto disturbante, un viaggio emotivo nella parte più oscura dell’America dello spettacolo. Un road movie contemporaneo che si nutre di disillusione, desideri infranti e soprattutto di quella fame insaziabile di identità e successo che muove — e consuma — le giovani generazioni.

Al centro di Pretty Babies ci sono due adolescenti in fuga dalla monotonia del Texas, dirette verso l’abbagliante miraggio della California. Non cercano semplicemente una carriera, ma una forma di libertà, un riconoscimento, la sensazione di esistere davvero. Ma quello che trovano non è un tappeto rosso o i riflettori di un set cinematografico: è l’abisso della prostituzione, una spirale di abusi, illusioni e sopravvivenza, che le risucchia nell’oscuro sottobosco dell’industria del sesso.

La regia è firmata da Tyler-Marie Evans, al suo debutto nel lungometraggio dopo una serie di corti che avevano già mostrato il suo sguardo originale e crudo. Pretty Babies non è un film “facile”, e non vuole esserlo. La stessa Evans lo ha descritto come “una lettera d’amore alla vecchia Hollywood”, ma è evidente che si tratta di una lettera amarissima, carica di inquietudine e disincanto. Qui non ci sono le luci dorate degli anni ’50 o le dive in technicolor, ma piuttosto le ombre che si nascondono dietro ogni sogno venduto a caro prezzo. È un omaggio rovesciato, un tributo disilluso al mito del cinema, in cui la macchina da presa si trasforma in lente impietosa.

Il cast è un piccolo gioiello di talento e versatilità, con quattro giovani attrici che si stanno facendo strada tra cinema e TV con grinta e carisma. Ashley Benson, indimenticabile nei panni di Hanna in Pretty Little Liars e protagonista del cult Spring Breakers, torna in un ruolo drammatico e spigoloso, dopo essere apparsa anche nel recente thriller McVeigh, presentato al Tribeca Film Festival. Al suo fianco c’è Madelaine Petsch, nota soprattutto per Riverdale, che si sta affermando nel panorama cinematografico con film come The Strangers – Chapter 2 e la commedia romantica Maintenance Required. E poi ancora Emily Alyn Lind, protagonista del successo Amazon We Were Liars, già vista in Doctor Sleep e nel recente Ghostbusters: Frozen Empire. Completa il quartetto Sadie Stanley, che molti ricorderanno come la Kim Possible in carne e ossa del film Disney, oggi più matura e intensa grazie a ruoli in Cruel Summer e Karate Kid: Legends.

Ma Pretty Babies non è solo un film di volti giovani e promettenti. Dietro le quinte c’è una squadra tecnica di alto profilo, con il production designer Jonathan Guggenheim (American Fiction), il montatore Benjamin Rodriguez Jr. (Oh, Canada) e la direttrice della fotografia Lauren Guiteras (Dandelion), nomi che garantiscono uno standard visivo e narrativo da vero cinema d’autore.

Prodotto da Christine Vachon di Killer Films (una vera icona del cinema indipendente americano) e Jordan Wagner di Wagner Entertainment, il film vede anche Ashley Benson in veste di produttrice. L’entusiasmo attorno al progetto è palpabile: Wagner ha raccontato che l’incontro con Tyler-Marie Evans è stato folgorante, colpito dalla sua visione personale e potente. “C’è qualcosa di speciale in lei, una voce che merita di essere ascoltata”, ha dichiarato.

Dal punto di vista narrativo, Pretty Babies si inserisce in quella tradizione americana di storie di fuga e scoperta — ma lo fa tagliando netto con la retorica del sogno americano. Qui, la strada verso la celebrità è un sentiero disseminato di pericoli, una trappola fatta di promesse vuote, sfruttamento e silenzi. Non è un film che accarezza lo spettatore, ma uno che lo mette di fronte a una realtà scomoda, con l’intento di scuotere, interrogare e, forse, anche spingere a riflettere sulle dinamiche tossiche dell’industria dell’intrattenimento.

Il titolo Pretty Babies — che richiama inquietanti echi al film controverso di Louis Malle del 1978 — non è scelto a caso. È provocatorio, destabilizzante, perfetto per un’opera che vuole esplorare la sessualizzazione precoce, la vulnerabilità delle ragazze e l’ambiguo confine tra consapevolezza e manipolazione. E anche se può sembrare duro da digerire, è proprio attraverso questa crudezza che il film punta a raccontare con autenticità l’esperienza femminile in un sistema che spesso divora le sue stesse muse.

L’uscita del film è prevista per i prossimi mesi, e c’è grande attesa nel circuito festivaliero, dove già si vocifera che potrebbe diventare uno dei titoli più discussi della stagione. E non solo per la sua tematica: Pretty Babies è anche un manifesto di cinema fatto da donne, sulle donne, e per una nuova generazione di spettatori e spettatrici che non vuole più favole, ma verità.

E voi, siete pronti ad affrontare il lato oscuro di Hollywood? Vi incuriosisce questa nuova visione al femminile del mito del successo? Avete seguito il percorso delle attrici protagoniste in altri ruoli? Fatecelo sapere nei commenti, raccontateci cosa ne pensate e condividete l’articolo sui vostri social: il confronto tra nerd, cinefili e sognatori è appena cominciato!

Jurassic World: La Rinascita: una vedova nera alla corte dei Dinosauri

Avevo dieci anni quando vidi per la prima volta un brachiosauro (dalla testa enorme!) sollevare il collo e masticare lentamente le foglie di un albero che pareva antico quanto il tempo. Era il 1993, e “Jurassic Park” di Steven Spielberg fece esplodere il mio immaginario come un meteorite in pieno Cretaceo. Quel film non era solo cinema: era un portale verso l’impossibile, una macchina del tempo che ti portava dritto nel cuore pulsante della meraviglia e della paura. Trentadue anni dopo, sono entrata in sala con la stessa trepidazione bambina, le mani sudate strette al bracciolo, pronta a farmi stupire ancora. E sì, “Jurassic World: La Rinascita” ci prova. A volte ci riesce. Ma più spesso inciampa sulle stesse impronte fossili del passato.

Sotto la direzione di Gareth Edwards, già regista dell’ottimo Rogue One, e con la penna dello storico David Koepp, lo stesso che scrisse Jurassic Park e Il Mondo Perduto, questo nuovo capitolo della saga non è un sequel qualunque. Vuole essere – e lo dichiara fin dal titolo – una “rinascita”. Una nuova era giurassica. Un’evoluzione, insomma. Ma cosa nasce davvero, alla fine della visione?

Il fascino del passato… e il peso del presente

Il film è ambientato nel 2027, cinque anni dopo il caos globale di Jurassic World: Il Dominio. I dinosauri, ormai, non sono più celebrità da safari o minacce urbane: sono ritornati ad abitare spazi tropicali remoti, dove la natura li tollera e l’uomo li dimentica. Ma ovviamente, come in ogni storia che porta la firma di Koepp, la scienza non dorme mai e il profitto nemmeno. Così entra in scena Zora Bennett, interpretata da una sorprendente Scarlett Johansson, che dona al personaggio un mix tra eroina d’azione e antieroina disillusa. Zora è un’agente sotto copertura al soldo della potente multinazionale farmaceutica guidata dal subdolo Martin Krebs (un Rupert Friend tanto affascinante quanto viscido), incaricata di recuperare DNA da tre dinosauri iconici: Titanosaurus, Mosasaurus e Quetzalcoatlus. L’obiettivo? Creare un farmaco rivoluzionario. L’etica? Rimandata a data da destinarsi.

Al suo fianco troviamo il paleontologo Henry Loomis, interpretato con delicatezza e intelletto da Jonathan Bailey, e il veterano Duncan Kincaid, portato sullo schermo da Mahershala Ali, che trasuda carisma e gravitas. Insieme, questi personaggi costituiscono un trio interessante, che si muove tra giungle tailandesi, metropoli postmoderniste e pericoli antichi. La loro dinamica funziona, anche se non sempre la sceneggiatura offre loro il respiro necessario.

Il senso dello stupore… perso nella giungla

Edwards, bisogna ammetterlo, sa come maneggiare la tensione. Le prime sequenze hanno un sapore quasi horror, tra mostruosità geneticamente modificate e atmosfere cupe da film di serie B anni ’50 – un omaggio riuscito, per quanto inaspettato. La colonna sonora di Alexandre Desplat rielabora con rispetto il tema immortale di John Williams, aggiungendo note sinistre e toni metallici. È un inizio promettente, che lascia presagire un film coraggioso, differente.

Ma poi… qualcosa si inceppa.

Il problema principale di La Rinascita è che, nonostante tutte le premesse di novità, finisce per ripercorrere troppo fedelmente la struttura del primo Jurassic Park. La scena in cui Zora e Loomis si trovano davanti a una mandria di Titanosauri dovrebbe essere l’equivalente moderno del famoso “Welcome to Jurassic Park”, e invece manca completamente di quel contatto emotivo. È girata dall’alto, come un drone senz’anima: nessuno sguardo, nessuna meraviglia filtrata attraverso gli occhi dei personaggi. Solo CGI che ruggisce nello spazio. E questo, per una fan che si è emozionata vedendo il Brachiosauro in piedi sulle zampe posteriori nel ‘93, fa male.

La sottotrama dei naufraghi: occasione sprecata

Il film introduce anche la famiglia Delgado – padre (Manuel Garcia-Rulfo) e due figlie (tra cui la convincente Luna Blaise) – finiti sull’isola per puro caso. La loro presenza, però, è un’aggiunta narrativa che sembra esistere solo per acchiappare il pubblico più giovane, ma che poco aggiunge all’intreccio. Non interagiscono in modo significativo con la trama principale e, se anche non ci fossero stati, il film avrebbe potuto scorrere allo stesso modo. Non è una critica al cast, che è valido, ma alla sceneggiatura, che non sa bene cosa fare con loro.

Il dinosauro mutante: mostro o metafora?

E poi c’è l’ibrido mutante, una creatura mezza kaiju mezza incubo darwiniano, che compare a singhiozzo. Non ha nemmeno un nome, e forse è giusto così, perché è più un’idea che un personaggio. Inquietante, sì, ma anche incostante, la sua presenza scenica cambia a seconda della necessità: gigante in una scena, “ridimensionato” in un’altra. È una minaccia, ma non una nemesi. Sembra progettato per terrorizzare, ma senza una vera motivazione narrativa. Un’occasione persa per farne il simbolo stesso dell’arroganza umana.

La Rinascita ha il merito di toccare tematiche importanti: il cambiamento climatico, l’etica della scienza, la mercificazione della natura. Ma lo fa senza mai affondare il colpo. A differenza del primo Jurassic Park, dove il messaggio era chiaro – “la natura trova sempre una via” – qui la morale è più confusa. L’idea che il dinosauro non sia più solo “mostro” o “attrazione”, ma anche risorsa genetica, è interessante, ma non viene sviluppata fino in fondo. I dialoghi provano a sollevare dubbi etici, ma spesso si perdono in spiegoni pseudoscientifici o banalità già sentite.

Una rinascita a metà

A questo punto, potresti pensare che non mi sia piaciuto La Rinascita. Ma il punto è proprio l’opposto: mi è piaciuto… abbastanza. E forse, da fan della saga, è proprio questo il problema. Avrei voluto amarlo, avrei voluto uscire dalla sala con gli occhi lucidi e il cuore in gola, come quando ero bambina. Invece, mi sono ritrovata a pensare che questa nuova era giurassica, pur ben confezionata, non osa davvero rinascere. Non osa essere nuova. È più un “Jurassic Park: Remix” che una rivoluzione. Edwards ha talento, e in certi momenti lo dimostra. Ma sembra trattenuto da una produzione che ha più paura di perdere il pubblico che desiderio di sorprenderlo. Ci sono sequenze memorabili, sì, e momenti di sincero brivido – ma mancano quell’incanto, quella semplicità emotiva, quel senso del “mai visto prima” che rendeva il primo film un capolavoro senza tempo.

Jurassic World: La Rinascita è un film che merita di essere visto. Soprattutto in sala, perché lo spettacolo visivo c’è. Ha un cast eccellente, un comparto tecnico curato e alcuni momenti che – da sola – giustificano il prezzo del biglietto. Ma per chi, come me, ha vissuto per più di trent’anni all’ombra di un cancello che si apre su un mondo perduto, questa rinascita lascia il sapore dolceamaro di un sogno che sfuma prima dell’alba. E voi? Che dinosauri siete? Nostalgici che vogliono solo sentire di nuovo il ruggito del T-Rex o esploratori pronti per una nuova rotta evolutiva? Raccontatemelo nei commenti, condividete questa recensione con i vostri gruppi nerd e fate sapere al mondo se la vostra era giurassica è davvero finita… oppure appena cominciata. 🦖💥🌿

Bugonia: il nuovo film sci-fi di Yorgos Lanthimos con Emma Stone tra alieni, api e follia cospirazionista

Nel panorama del cinema contemporaneo, ci sono alcuni registi che riescono a creare un linguaggio completamente proprio, un mondo riconoscibile al primo fotogramma, fatto di stranezza, ironia nerissima, personaggi disturbanti e situazioni al limite dell’assurdo. Tra questi, Yorgos Lanthimos è senza dubbio uno dei più inafferrabili e magnetici. E ora, dopo il successo di pellicole come The Favourite, Povere Creature! e Kinds of Kindness, il cineasta greco si prepara a tornare con Bugonia, una commedia fantascientifica così bizzarra che potrebbe tranquillamente essere trasmessa da un canale interdimensionale alieno.

Ma attenzione: Bugonia non è una creatura completamente originale. Il film è infatti il remake in lingua inglese del cult sudcoreano Save the Green Planet! di Jang Joon-hwan, uscito nel 2003. Un titolo che, già all’epoca, aveva sconvolto e affascinato il pubblico per la sua capacità di mescolare toni e generi come thriller, sci-fi, satira sociale e dramma psicologico. Il compito di riscrivere questa gemma è stato affidato a Will Tracy, già autore del graffiante The Menu, mentre la regia è passata da Jang allo stesso Lanthimos, con la produzione di Ari Aster — sì, proprio quello di Hereditary e Midsommar. Un dream team del cinema disturbante e visionario che ha tutte le carte in regola per regalarci un’esperienza fuori da ogni schema.

La trama, almeno in superficie, è semplice quanto folle: due giovani ossessionati dalle teorie del complotto rapiscono la potente CEO di una multinazionale farmaceutica perché convinti — anzi, certi — che sia un’aliena pronta a distruggere la Terra. Il mix tra paranoia, satira sociale e humor nero è già evidente, ma chi conosce Lanthimos sa che questo è solo l’inizio. Dimenticatevi la linearità: in Bugonia la realtà si distorce, i personaggi sfidano ogni logica, e la messa in scena sembra un incrocio tra un incubo psichedelico e una pièce teatrale assurda.

Nel cast ritroviamo due volti ormai familiari dell’universo lanthimosiano: Emma Stone e Jesse Plemons. Lei interpreta Michelle, la glaciale e carismatica dirigente che potrebbe (o potrebbe non) essere un’entità extraterrestre con piani catastrofici. Lui è Teddy, un apicoltore complottista dall’aria smarrita ma dallo sguardo febbrile, disposto a tutto pur di salvare il pianeta. E non si tratta solo di una scelta affettiva: Stone e Plemons hanno già dimostrato in passato di saper incarnare perfettamente l’ambiguità e la tensione emotiva richieste dalle opere di Lanthimos. A completare il cast troviamo anche Alicia Silverstone (sì, proprio lei, la nostra Cher di Clueless!), Aidan Delbis e Stavros Halkias.

Le riprese di Bugonia sono iniziate nell’estate del 2024 a High Wycombe, in Inghilterra, e si sono concluse nella primavera del 2025 in una delle location più suggestive d’Europa: la spiaggia di Sarakiniko sull’isola greca di Milos, famosa per le sue rocce bianche e l’aspetto lunare. Inizialmente, Lanthimos aveva chiesto di poter girare le scene finali all’Acropoli di Atene, ma il Central Archaeological Council ha rifiutato la richiesta, probabilmente temendo che la sacralità del sito potesse venire messa alla prova da un’invasione aliena in salsa arthouse.

A livello tecnico, Bugonia promette una fotografia mozzafiato grazie al lavoro di Robbie Ryan, storico collaboratore di Lanthimos e maestro della pellicola analogica. Il film è stato girato in 35mm con cineprese VistaVision, una scelta che non solo conferisce un’estetica rétro e onirica, ma che si sposa perfettamente con l’atmosfera sospesa tra il reale e l’irreale che da sempre caratterizza il regista.

Il trailer del film, rilasciato da Focus Features, non fa altro che aumentare la curiosità. In poco più di due minuti ci si ritrova catapultati in un mondo che pare una collisione tra Brazil di Terry Gilliam, Under the Skin e un episodio particolarmente delirante di Black Mirror. Lo stile surreale, i dialoghi stranianti, l’alternanza di toni comici e inquietanti: tutto sembra suggerire che Bugonia sarà uno di quei film da cui esci con mille domande e nessuna risposta chiara — ma con la voglia di rivederlo subito.

Focus Features ha acquisito i diritti di distribuzione globali (esclusa la Corea del Sud, dove resta in mano a CJ ENM) e ha annunciato una strategia di rilascio molto interessante: Bugonia arriverà negli Stati Uniti e in Canada il 24 ottobre 2025 con una limited release, per poi espandersi su larga scala il 31 ottobre — perfettamente in tempo per Halloween. Una data che, ammettiamolo, si sposa benissimo con una pellicola in cui l’orrore esistenziale si mescola con il grottesco.

A livello di scrittura, Will Tracy ha apportato alcuni cambiamenti importanti rispetto all’originale sudcoreano. Il più significativo è il cambio di genere del personaggio della CEO, che passa da uomo a donna. Una decisione narrativa e politica che apre nuovi livelli di lettura e che, grazie all’interpretazione di Emma Stone, promette di arricchire ulteriormente il sottotesto critico del film: in un mondo in cui il potere è sempre più impersonale e astratto, chi sono davvero gli “alieni” tra noi?

In conclusione, Bugonia si candida fin da ora a essere uno degli eventi cinematografici più attesi (e probabilmente più divisivi) del 2025. Un film che non cerca di piacere a tutti, ma che promette di far discutere, riflettere e — perché no — anche ridere in modo strano e un po’ inquietante. Un’opera che, come ogni vero cult, si ama o si odia visceralmente, ma che di certo non lascia indifferenti.

E ora tocca a voi: cosa ne pensate del ritorno di Yorgos Lanthimos con questa folle commedia sci-fi? Emma Stone potrebbe davvero essere un’aliena in incognito? Avete visto l’originale Save the Green Planet!? Scriveteci nei commenti o condividete l’articolo sui social per alimentare la discussione. La verità è là fuori… o forse è solo un’altra teoria del complotto?

Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo: il ritorno di una commedia cult che vuole ancora farci ridere (e commuovere)

Se c’è una cosa che il tempo non può cancellare, è l’affetto per quelle storie che ci hanno fatto ridere, riflettere e magari anche versare una lacrimuccia mentre ci trovavamo a vivere, almeno per un paio d’ore, dentro un film. E se parliamo di “Quel pazzo venerdì” – o Freaky Friday, per usare il titolo originale – ci troviamo di fronte a una di quelle pellicole che, nel lontano 2003, hanno segnato un’epoca per tantissimi giovani spettatori cresciuti tra i poster di High School Musical e le puntate di Lizzie McGuire. Ora, a distanza di oltre vent’anni, il sequel tanto atteso è finalmente realtà: Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo arriverà nelle sale italiane il 6 agosto 2025, e il nuovo trailer ufficiale, fresco di pubblicazione, promette scintille.

Ma andiamo con ordine, perché questa non è solo un’operazione nostalgia: è un vero e proprio ritorno in grande stile, un upgrade generazionale in cui le dinamiche comiche e familiari si intrecciano con un cast stellare e una regia che sa esattamente dove mettere le mani. Alla regia troviamo Nisha Ganatra, mentre alla produzione spiccano nomi come Kristin Burr, Andrew Gunn e le stesse Jamie Lee Curtis e Lindsay Lohan, che non solo tornano a interpretare Tess e Anna Coleman, ma ci mettono anche cuore e visione creativa.

Nel nuovo capitolo della saga, le due protagoniste non sono più solo madre e figlia alle prese con uno scambio di corpi accidentale, ma sono parte di un mosaico familiare ancora più intricato. Anna è diventata mamma e si appresta a sposare un uomo con una figlia adolescente, rendendo la sua vita una fiera di emozioni contrastanti e responsabilità quotidiane. Tess, ormai nonna, non ha perso la sua verve, e quando una nuova scintilla magica (o forse una vecchia maledizione?) scatena un altro scambio di corpi, le cose si fanno ancora più folli… e freaky. Il bello? Stavolta non si tratta solo di Tess e Anna. Anche la figlia e la figliastra vengono coinvolte nel caotico scambio, portando l’assurdità narrativa su un nuovo livello di deliziosa confusione.

“Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo” è una commedia che sa giocare con la memoria del pubblico. Chi ha amato il primo film ritroverà quei toni leggeri, quegli scambi di battute al vetriolo, quella comicità fisica e irriverente che faceva parte del DNA dei film teen targati Disney dei primi anni 2000. Ma il sequel non si limita a copiare la formula: la aggiorna. Il film parla di famiglie ricomposte, di nuove identità, di genitori che cercano di comprendere le proprie figlie in un mondo sempre più fluido e complesso. In poche parole, è una pellicola che fa ridere ma sa anche parlare con intelligenza del nostro presente.

Il cast è un altro punto di forza. Oltre a Jamie Lee Curtis e Lindsay Lohan, il film vede la partecipazione di Julia Butters, Sophia Hammons, Maitreyi Ramakrishnan, Manny Jacinto, Vanessa Bayer, Rosalind Chao, Chad Michael Murray (sì, proprio quel Jake che ha fatto impazzire mezza generazione) e Mark Harmon, che ritorna nel ruolo di Ryan, il compagno di Tess. Una combinazione di volti familiari e nuove promesse, capace di costruire una chimica intergenerazionale che funziona.

Uno degli aspetti più divertenti del film è proprio il ritorno di Jake, l’amore adolescenziale di Anna. Le nuove generazioni di personaggi decidono di rimetterlo sulla strada della protagonista, scatenando una serie di equivoci esilaranti degni di una commedia degli equivoci vecchio stampo. Immaginate Jake alle prese con una “Anna” dal comportamento bizzarro e incomprensibile (perché ovviamente, dentro il corpo c’è qualcun altro): il risultato è pura comicità slapstick, che non scade mai nel banale grazie a una scrittura brillante e a tempi comici impeccabili.

Il film è tratto ancora una volta dal libro “A ciascuno il suo corpo” di Mary Rodgers, la stessa fonte che aveva ispirato il primo adattamento. Ma anche qui, come per tutto il progetto, non si tratta di una semplice ripetizione: si avverte la voglia di raccontare qualcosa di nuovo, mantenendo però intatta l’anima di ciò che era. Una delle frasi simbolo del film è: “La fortuna può colpire due volte”. E guardando il trailer, sembrerebbe proprio di sì.

A impreziosire il tutto ci pensa la colonna sonora firmata da Amie Doherty, già nota per aver regalato atmosfere sonore capaci di toccare le corde dell’anima, mentre la regia di Ganatra promette ritmo e cuore, con inquadrature moderne ma non invasive, capaci di valorizzare la recitazione e i momenti chiave della storia.

In un’epoca in cui i sequel spesso sembrano operazioni pigre di marketing, Quel pazzo venerdì, sempre più pazzo si distingue per passione, cura e, soprattutto, consapevolezza. È un film pensato sia per chi c’era nel 2003 sia per chi oggi è adolescente e può ritrovare in questa storia un pezzetto della propria realtà quotidiana. Perché, in fondo, i rapporti tra genitori e figli sono universali. E cosa c’è di meglio che esplorarli attraverso un’inversione di ruoli tanto folle quanto illuminante?

Il 6 agosto 2025 è una data da segnare col pennarello rosso sul calendario. Non solo per i fan storici, ma anche per chi cerca una commedia che sappia davvero far ridere e riflettere allo stesso tempo. Un film che ci ricorda che, anche se il tempo passa, certe emozioni restano immutate. E magari, come Tess e Anna, anche noi potremmo scoprire che vivere un altro punto di vista – fosse pure per un solo giorno – può insegnarci molto su noi stessi.

Allora, ci vediamo al cinema? Ma prima diteci la vostra: qual è la scena che più vi è rimasta nel cuore del primo Quel pazzo venerdì? Condividete l’articolo, commentate sui social e fate sapere al mondo che siete pronti per tornare a essere un po’ freaky anche voi!

Una pallottola spuntata, il reboot con Liam Neeson uscirà il 30 luglio 2025

A distanza di più di trent’anni dall’ultima missione demenziale del tenente Frank Drebin, la polizia più sgangherata del cinema sta per tornare. Ebbene sì, “Una Pallottola Spuntata” (titolo originale: The Naked Gun) torna sul grande schermo il 30 luglio 2025 in Italia, pronto a farci sbellicare dalle risate in pieno stile slapstick. Ma attenzione: non si tratta di un remake qualsiasi. Questo nuovo capitolo è un sequel/reboot che continua la storia originale ma cambia rotta, protagonista e… baffi finti.

A raccogliere l’eredità dell’indimenticabile Leslie Nielsen c’è una scelta che definire “inusuale” è dire poco: Liam Neeson. Sì, proprio lui. L’eroe implacabile di Taken, l’uomo delle minacce al telefono, l’anima tormentata di mille drammi e action movie, qui interpreta Frank Drebin Jr., figlio del celebre tenente protagonista della trilogia originale. Una scelta azzardata? Forse. Ma anche geniale, considerando quanto la serietà granitica di Neeson potrebbe sposarsi perfettamente con l’umorismo nonsense e surreale che ha reso celebre la saga.

Un’eredità comica… a prova di banana

Per chi non lo ricordasse (e allora correte a recuperare i film!), “Una Pallottola Spuntata” nasceva come spin-off cinematografico della serie Police Squad! dei primi anni ’80, creata dal leggendario trio comico Zucker-Abrahams-Zucker. La comicità era al limite del delirio: giochi di parole, gag visive improbabili, e un ritmo comico serratissimo. A rendere il tutto ancora più divertente era proprio Leslie Nielsen, il cui volto serissimo era il veicolo perfetto per le assurdità più estreme.

Nel reboot/sequel 2025, lo spirito resta intatto, almeno a giudicare dal trailer rilasciato. Tra inseguimenti in segway, irruzioni maldestre, esplosioni (quasi tutte causate accidentalmente dalla polizia) e una scena esilarante in cui Neeson si traveste da bambina con un lecca-lecca esplosivo, le premesse sono promettenti. Il tono? Inconfondibilmente da Naked Gun.

Dietro la macchina da presa: comicità moderna e rispetto per il passato

A dirigere l’operazione c’è Akiva Schaffer, membro del collettivo The Lonely Island e regista di “Chip ‘n Dale: Rescue Rangers”, pellicola che ha dimostrato come si possa fare metacinema comico con intelligenza e originalità. La sceneggiatura è firmata da Dan Gregor e Doug Mand, duo noto per le loro scritture a metà strada tra demenzialità e cuore. Non un trio comico classico come ZAZ, certo, ma una squadra capace di maneggiare il materiale con rispetto e creatività.

Un cast improbabile ma irresistibile

Oltre a Liam Neeson, il cast è un mix esplosivo di volti noti e sorprese. Pamela Anderson interpreta un personaggio che richiama la Jane Spencer di Priscilla Presley: una donna affascinante e ambigua coinvolta in un delitto. Il suo carisma da icona anni ’90 si fonde con l’autoironia necessaria a un ruolo così assurdo. La chimica con Neeson nel trailer fa già scintille (e fa esplodere una torta nuziale…).

C’è anche Paul Walter Hauser, attore talentuoso e camaleontico (ricordate Richard Jewell?), che veste i panni del nuovo Capitano Ed, ruolo che fu dell’indimenticato George Kennedy. Con lui nel cast troviamo CCH Pounder, Kevin Durand, Cody Rhodes, Liza Koshy, Eddy Yu e Danny Huston, in una serie di ruoli probabilmente grotteschi, surreali e totalmente fuori controllo.

Perché Neeson? Perché no!

La scelta di Neeson ha fatto storcere qualche naso, ma anche sollevato molte sopracciglia per la curiosità. Lui stesso ha ammesso di essere nervoso all’idea di interpretare un personaggio comico, ma ha già dato prova del suo potenziale in ruoli autoironici (memorabile la sua comparsata nella serie Life’s Too Short e in The LEGO Movie). È proprio quella serietà inossidabile che, messa a confronto con l’assurdo, può far scattare la scintilla comica.

E poi, ammettiamolo: vedere Neeson inciampare su una buccia di banana mentre pronuncia con solennità “questa è una questione di Stato” è esattamente il tipo di cinema che non sapevamo di desiderare.

Una nuova generazione di risate

Il film non è solo un’operazione nostalgia. Pur mantenendo il cuore dell’originale, vuole avvicinare anche un pubblico giovane che magari non conosce la saga storica. L’umorismo demenziale, se ben fatto, è senza tempo. E in un’epoca in cui le commedie parodiche latitano (a parte rari casi come Scary Movie o Disaster Movie, ormai datati), un ritorno di Una Pallottola Spuntata può rappresentare un’occasione per rilanciare un genere.

Il tono sembra quello giusto, l’energia pure. Ora non resta che attendere di vedere il risultato finale.


E voi, nerd nostalgici e nuovi adepti della comicità assurda, siete pronti a tornare nella Squadra di Polizia più imbranata della storia del cinema?
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“Elio”: L’ultima speranza della Pixar arriva dallo spazio (e dal cuore)

C’è qualcosa di profondamente poetico in un titolo come Elio. Un nome semplice, diretto, quasi anonimo, come potrebbe essere quello del tuo compagno di banco alle medie o del vicino di casa. Eppure, dietro quelle quattro lettere si nasconde l’eroe più inaspettato dell’universo Pixar, l’ultimo baluardo di un’animazione capace di guardare alle stelle per parlare di noi, della nostra umanità e di come, a volte, sentirsi soli sia la più aliena delle emozioni.

Nel mondo del cinema dove ogni pellicola sembra dover appartenere a un universo condiviso, essere un sequel, un remake, un reboot o — peggio ancora — uno spin-off, Elio è un miracolo statistico. Non è tratto da nessun libro, fumetto, serie TV o franchise multimiliardario. È una storia originale, nata in casa Pixar, e come tale brilla di una luce che sembra ormai scomparsa nel panorama dell’animazione contemporanea. In un momento storico in cui il pubblico sembra preferire il comfort nostalgico di ciò che già conosce, Elio ha il coraggio di presentarsi come un’avventura nuova, unica e profondamente personale.

La premessa è da sogno nerd: un ragazzino introverso, con una fervida immaginazione e una passione smisurata per gli alieni, viene rapito — volontariamente! — e trasportato nel Comuniverso, una sorta di ONU galattica dove, per errore, viene scambiato per il rappresentante ufficiale della Terra. Ed è qui che comincia la vera avventura, tra incontri interstellari, creature bizzarre, scenari sci-fi degni dei migliori romanzi di Asimov e un percorso di crescita che parla direttamente al cuore.

Il regista Adrian Molina, che già ci aveva fatto piangere tutte le nostre riserve emotive con Coco, affiancato dalla sensibilissima Madeline Sharafian (La Tana), mette in scena un racconto che riesce a coniugare il fascino della fantascienza più pura con le emozioni tangibili del quotidiano. La produzione è firmata da Mary Alice Drumm, altra veterana della scuderia Pixar, e si vede: ogni fotogramma di Elio trasuda amore per il genere e cura per il dettaglio.

Ma parliamo del cuore pulsante del film: Elio stesso. Un ragazzino che, rimasto orfano, vive con la zia Olga (una splendida Alessandra Mastronardi nel doppiaggio italiano), ex astronauta che rinuncia al sogno delle stelle per crescere il nipote. Elio però non vuole rassegnarsi alla solitudine, si sente inadatto, fuori posto… quasi su un pianeta sbagliato. Così, con radio e mantello, cerca ogni giorno di mettersi in contatto con gli alieni. Fino a quando qualcuno, dall’altra parte del cosmo, risponde davvero.

Ed è così che inizia il suo viaggio nel Comuniverso, tra razze aliene che sembrano uscite da un sogno di Moebius e un’estetica che richiama il meglio della sci-fi anni ’80, rielaborata con la tavolozza cromatica e il tratto distintivo della Pixar. Alcuni hanno criticato i character design, definendoli datati — quasi da film del 2010 — ma forse, proprio in questa scelta visiva volutamente retro, c’è l’intento di evocare quella fantascienza “innocente” che parlava di pace, comprensione e diversità molto prima che diventasse un hashtag.

Tra i personaggi più riusciti c’è senza dubbio Glordon, il giovane alieno figlio di un conquistatore galattico che non vuole combattere. Anche lui si sente fuori posto nella sua società e la sua amicizia con Elio diventa il vero centro emotivo del film. Un viaggio parallelo fatto di scoperte, paure e scelte difficili. Entrambi i ragazzi sono “alieni” nei propri mondi, entrambi cercano un senso, entrambi vogliono essere visti per quello che sono davvero.

Il cast vocale italiano è di altissimo livello e arricchisce ulteriormente la visione. Andrea Fratoni dà voce a Elio con una delicatezza sorprendente, mentre Neri Marcorè è perfetto nei panni del Manuale Universale dell’Utente — sì, avete letto bene, c’è un manuale parlante! — aggiungendo un tocco di umorismo sornione. Adriano Giannini interpreta Lord Grigon, il villain affascinante e stratificato, e Lucio Corsi dà vita all’ambasciatore Tegmen con verve cosmica. Il doppiaggio è curato nei minimi dettagli, con la supervisione artistica di Lavinia Fenu e l’adattamento di Roberto Morville, due garanzie del settore.

Se Elio è visivamente un tripudio di creatività, narrativamente è un film che osa: parla di isolamento, di paura, di perdita… ma lo fa con leggerezza, senza mai diventare pesante. Riesce a essere commovente, mai melenso. A farci riflettere senza predicare. E anche se alcune trovate comiche non colpiscono nel segno quanto ci si aspetterebbe da una produzione Pixar, il film riesce comunque a toccare corde profonde, soprattutto grazie a una scena madre che — possiamo garantirvelo — farà fingere a molti adulti di avere qualcosa negli occhi.

Certo, non è un film perfetto. Alcuni momenti sembrano accelerati, come se mancasse qualche scena chiave che avrebbe potuto dare più profondità al racconto. E l’età anagrafica di Elio — tecnicamente pre-adolescente ma con comportamenti più infantili — può lasciare perplessi. Ma sono difetti che svaniscono davanti alla sincerità e al cuore che questo film riesce a mettere in scena.

E in un mondo in cui gli studi puntano sempre più sul sicuro, Elio è un atto di coraggio. È la dimostrazione che si può ancora raccontare qualcosa di nuovo, che si può parlare ai bambini e agli adulti senza paura di sembrare “troppo” o “non abbastanza”. È un film che non ha bisogno di nostalgia per emozionare, ma solo di uno sguardo sincero verso le stelle — e verso l’animo umano.

In un’epoca di remake, sequel e reboot, Elio è una stella solitaria ma luminosa nel firmamento cinematografico. Una fiaba intergalattica che ci ricorda quanto possiamo essere speciali anche quando ci sentiamo persi. Un messaggio potente, oggi più che mai.

E voi, siete pronti a farvi rapire da Elio? Lo andrete a vedere al cinema o aspetterete il suo arrivo in streaming? Quale messaggio vi ha colpito di più? Ma soprattutto: qual è il vostro film Pixar del cuore? Raccontatecelo nei commenti e condividete questo articolo con i vostri amici nerd sui social!

Return to Silent Hill: L’attesa del ritorno nell’oscurità al Cinema

Certi luoghi non si dimenticano. E se sei un appassionato di horror psicologico, sai bene che Silent Hill è uno di quei luoghi che, una volta esplorati, rimangono impressi come cicatrici nella mente. Ora, dopo anni di attesa e speranze sospese, possiamo finalmente dire che ci siamo: il ritorno è ufficiale. Il film Return to Silent Hill ha una data d’uscita — 23 gennaio 2026 — e promette di riportare sul grande schermo non solo una delle storie più cupe del panorama videoludico, ma anche tutta la potenza emotiva, disturbante e ambigua di un’opera che ha rivoluzionato l’idea stessa di paura interattiva. È un nuovo inizio, ma anche un omaggio. Una lettera d’amore — o forse una lettera maledetta — ai fan storici e ai neofiti pronti a perdersi tra le nebbie della città più inquietante della storia dei videogiochi.

A prendere il timone di questa impresa non è un volto nuovo: Christophe Gans, regista del primo Silent Hill cinematografico del 2006, è tornato a dirigere e co-sceneggiare questo terzo adattamento, che si rifà direttamente a Silent Hill 2, pietra miliare della saga Konami. La sua visione è chiara: non si tratta di un sequel nel senso classico, ma di una reinterpretazione profonda e personale. Gans vuole scavare ancora più a fondo, spingendo lo spettatore in un abisso psicologico dove la paura non è solo dietro l’angolo, ma dentro di noi.

La trama, lo sappiamo, è quella che ha tormentato generazioni di gamer. James Sunderland, interpretato da Jeremy Irvine, riceve una misteriosa lettera dalla moglie Mary — o forse dovremmo dire dal suo fantasma? — che lo invita a tornare a Silent Hill, quella cittadina maledetta che si insinua nei sogni e nei ricordi come una presenza ossessiva. Quello che James troverà non è solo un paesaggio decadente e infestato, ma uno specchio distorto della sua anima. Ogni vicolo, ogni mostro, ogni suono metallico e nebbia densa raccontano un frammento della sua psiche. Ed è qui che il film promette di essere qualcosa di più: un viaggio interiore, una seduta di psicoanalisi fatta celluloide, dove i veri orrori sono quelli che ci portiamo dentro.

Accanto a Irvine troviamo Hannah Emily Anderson nei panni di Mary — o meglio, nelle sue molteplici incarnazioni — e Evie Templeton nel ruolo della misteriosa Laura. Curioso il fatto che Templeton abbia anche prestato le sue movenze per il motion capture del remake videoludico di Silent Hill 2, creando un’interessante continuità crossmediale. E poi c’è Akira Yamaoka. Serve davvero presentarlo? Il leggendario compositore giapponese, padre delle colonne sonore più iconiche della saga, torna a far vibrare i nostri nervi con musiche che saranno, come sempre, tanto poetiche quanto disturbanti.

La produzione non ha lasciato nulla al caso. Le riprese sono iniziate nel 2023 in location davvero evocative: Belgrado, Monaco, Penzing, Norimberga… città europee capaci di ricreare quella sensazione di decadenza sospesa nel tempo che è il marchio di fabbrica di Silent Hill. Grazie anche a un finanziamento di un milione di euro ottenuto dal programma tedesco FFY Bayern, il film ha potuto contare su una post-produzione di altissimo livello, capace di fondere location reali e CGI in un mix visivo che promette immersione totale. La nebbia, le creature, le deformità — tutto ciò che abbiamo amato temere — tornerà a farci compagnia, questa volta in una sala buia, con l’audio che martella come un battito cardiaco in crisi.

Ma non pensate che si tratti solo di fan service. Gans ha dichiarato esplicitamente che Return to Silent Hill è ispirato anche da quel piccolo gioiello maledetto che fu P.T., la celebre demo del defunto progetto Silent Hills firmato da Hideo Kojima e Guillermo del Toro. L’atmosfera claustrofobica, l’orrore psicologico, la sottile linea tra allucinazione e realtà: sono questi gli elementi che Gans vuole portare sullo schermo. Niente più jump scare gratuiti, ma un terrore che ti si insinua addosso, che ti osserva mentre guardi lo schermo, che ti accompagna quando le luci si riaccendono.

E poi c’è un dettaglio interessante, che non può passare inosservato: Return to Silent Hill uscirà pochi mesi dopo il lancio di Silent Hill f, il nuovo videogioco della saga Konami. È difficile pensare che si tratti di una semplice coincidenza. Piuttosto, sembra l’inizio di una nuova era per il franchise, un rilancio sincronizzato e ambizioso, con cinema e videogioco che dialogano in un modo che raramente abbiamo visto. Silent Hill sta tornando, sì, ma non come lo ricordavamo: è più maturo, più profondo, più inquietante.

Il film sarà il terzo capitolo cinematografico ufficiale dopo il già citato Silent Hill del 2006 e Silent Hill: Revelation del 2012, che aveva cercato — senza troppo successo — di tenere vivo il legame con i fan. Ora, però, le carte in tavola sono cambiate. Il team creativo è solido, il cast promettente, e l’atmosfera… be’, è quella. Quella vera. Quella che ti fa rabbrividire solo al pensiero di udire in lontananza la sirena dell’inferno, preludio a un’oscurità che tutto avvolge.

Per chi ha amato Silent Hill 2 — e parliamoci chiaro, è difficile non considerarlo uno dei migliori survival horror mai realizzati — questo film potrebbe rappresentare molto più di un semplice adattamento. Potrebbe essere una rinascita, una catarsi, un ponte tra passato e presente. Per chi, invece, non conosce ancora le strade di questa città nebbiosa, potrebbe essere il primo passo in un territorio dove il confine tra amore, colpa e paura è sottile come un filo spinato.

Insomma, Return to Silent Hill è molto più di un film in arrivo nel 2026. È un evento. È il richiamo di una città che non ha mai smesso di esistere nei nostri incubi. E voi, siete pronti a tornare là dove l’oscurità prende forma?

Se anche voi non vedete l’ora di rivivere le inquietudini di Silent Hill sul grande schermo, condividete questo articolo con gli amici nerd e commentate: qual è la scena o il mostro di Silent Hill 2 che vi ha traumatizzato di più? La nebbia ci osserva… e sta aspettando anche voi.

“Dragon Trainer” live-action: un remake affascinante, emozionante, ma… era davvero necessario?

C’è qualcosa di profondamente nostalgico e, al tempo stesso, straniante nel sedersi al cinema per assistere alla versione live-action di Dragon Trainer. Perché, diciamocelo subito: non è un nuovo film. È una replica. Un’ode al passato. Un calco lucente, vestito di carne, muscoli, piume sintetiche e CGI fotorealistica. Ma pur sempre un calco.

Dean DeBlois torna dietro la macchina da presa a distanza di quindici anni per dirigere il remake in carne e ossa (e pixel) del suo capolavoro animato del 2010. Una scelta che ha il sapore dell’autocitazione, certo, ma anche di un atto d’amore. Perché Dragon Trainer non è solo un film d’animazione tra i più belli dell’ultimo ventennio. È un racconto di formazione, una fiaba nordica intrisa di fuoco e sentimento, una ballata epica che ha saputo parlare al cuore di intere generazioni di spettatori – me compresa, che ancora oggi mi commuovo al solo sentire l’eco delle ali di Sdentato.

Ed è proprio qui che nasce il primo paradosso. Perché questa nuova incarnazione live-action è, senza troppi giri di parole, un remake pressoché shot-for-shot. Stesse inquadrature, stessi dialoghi (con qualche piccola aggiunta qua e là, giusto per ammiccare al sequel già in cantiere), stesso impianto narrativo. Un déjà vu continuo, che ti culla nel conforto della memoria… ma allo stesso tempo ti lascia con quella fastidiosa sensazione di star guardando qualcosa di inutile. Bello, emozionante, tecnicamente impeccabile. Ma inutile.

L’incanto visivo c’è, eccome

Nessuno può dire che Dragon Trainer versione 2025 non sia una festa per gli occhi. Berk prende vita in una maniera maestosa: scogliere che si tuffano nel mare tempestoso, vallate smeraldine accarezzate dal vento, villaggi scolpiti nella roccia come se fossero usciti da un sogno vichingo. E poi, ovviamente, i draghi. Tanti draghi. E quasi tutti sono stati reinventati in una veste più realistica, con una cura maniacale per dettagli come squame, ali, movimenti, comportamenti.

Quasi tutti, dicevo. Perché Sdentato… beh, Sdentato è rimasto uguale. Un adorabile cartoon incastonato in un mondo che invece cerca di sembrare reale. Il contrasto si nota, eccome. Non tanto per difetto tecnico – perché il lavoro di animazione su di lui è comunque straordinario – ma perché quella sua estetica pucciosa e fumettosa stona accanto a draghi che sembrano usciti da Il Trono di Spade. È come se un peluche si fosse infilato in una mostra di tassidermia.

Mason Thames e il problema del troppo “perfetto”

Il giovane Mason Thames veste i panni di Hiccup, e lo fa con un’intensità e una dedizione che non si possono non apprezzare. È bravo, è carismatico, è credibile… ma non è Hiccup. Almeno non quel Hiccup. Il ragazzo imbranato, troppo magro, troppo goffo, troppo insicuro per essere un eroe, quello che si trascina nella neve sognando di essere diverso. Thames è bello, aitante, con uno sguardo già maturo. Ha 17 anni, ma sullo schermo sembra già un guerriero affermato. Anche con un taglio di capelli orribile (scelta probabilmente fatta apposta per “rovinargli” un po’ il fascino), non riesce a convincere nel ruolo del disadattato di Berk.

Il film prova in tutti i modi a dirci che lui è fuori posto, che non si integra, che è diverso. Ma lo fa a parole. Lo spettatore, invece, lo vede e pensa: “Ma perché? È perfetto!”. E qui il paragone con il personaggio animato doppiato da Jay Baruchel diventa impietoso.

Il cast: una luce nell’ombra

Se Thames fatica a imporsi come un nuovo Hiccup iconico, il resto del cast riesce a colmare molte delle lacune. Nico Parker nei panni di Astrid è una rivelazione: intensa, fiera, combattiva. È il cuore pulsante della seconda metà del film e riesce a stabilire un legame emotivo sincero sia con Hiccup che con lo spettatore. Ma la vera, grandiosa sorpresa è Gerard Butler.

Il ritorno di Butler nel ruolo di Stoick il Vast è un colpo al cuore per chi ha amato l’originale. È come se il personaggio animato fosse uscito dallo schermo e avesse preso vita. Voce, gestualità, presenza scenica: tutto è coerente, potente, epico. Un gigante buono, un padre duro ma amorevole, una colonna portante della narrazione. La sua interpretazione da sola vale il prezzo del biglietto.

E poi c’è Nick Frost, che torna nei panni di Skaracchio, il fabbro pasticcione e filosofo di Berk, regalando i pochi momenti di comicità che davvero funzionano. Perché, va detto, Dragon Trainer live-action non fa ridere. O meglio, ci prova, ma raramente riesce davvero. La leggerezza ironica che caratterizzava l’originale qui si perde, forse affogata nella solennità delle immagini o nell’ansia di voler essere “adulto”.

Il ritmo: un drago che decolla tardi

Il film è lungo quasi due ore, e lo si sente. La prima parte è lenta, forse troppo. Ci mette un’eternità a decollare, come un drago che batte le ali nel fango. Nonostante conosciamo a memoria la storia, o forse proprio per quello, alcune sequenze sembrano più lente del dovuto. Fortunatamente la seconda metà cambia marcia: le emozioni esplodono, le battaglie prendono vita, il legame tra Hiccup e Sdentato ci tiene incollati allo schermo. Ma ci si arriva un po’ affaticati.

Ma quindi… perché rifarlo?

La domanda che continua a ronzarmi in testa, mentre scorrono i titoli di coda, è sempre la stessa: perché?

Perché rifare un film che era già perfetto? Un film che è invecchiato benissimo, che ancora oggi emoziona e incanta senza bisogno di ritocchi? La risposta, purtroppo, è semplice e poco poetica: per soldi. Con l’apertura del parco a tema Universal dedicato a How to Train Your Dragon, la casa di produzione aveva bisogno di un nuovo prodotto da vendere, da lanciare, da marchiare. E allora via con il remake.

E sia chiaro: funziona. È un bel film. È emozionante. I bambini lo adoreranno. Gli adulti lo apprezzeranno. Ma i fan di lunga data? Beh, loro usciranno dalla sala con un misto di gioia e malinconia. Perché questo Dragon Trainer è come un drago in gabbia: potente, ma privo della libertà di volare davvero.

Il cuore c’è, l’anima pure. Ma la magia… quella resta confinata nel 2010.

La Trama Fenicia: Wes Anderson torna con una nuova, coloratissima follia cinematografica

C’è un momento esatto, nella visione di La Trama Fenicia (The Phoenician Scheme), in cui ti rendi conto che sei di nuovo a casa. Non la tua casa reale, ovviamente, ma quella che esiste in un universo parallelo costruito interamente dalla mente di Wes Anderson. Un mondo dove ogni dettaglio è simmetrico, ogni parola ha il peso di una citazione letteraria, ogni movimento della macchina da presa è calcolato come un passo di danza, e dove il confine tra assurdo e sublime si fa sempre più sottile. Il regista texano è tornato e, diciamocelo, non ha intenzione di cambiare.

Uscito nelle sale italiane il 28 maggio 2025 e presentato in concorso al Festival di Cannes per la quarta volta, La Trama Fenicia è l’ultimo tassello di un mosaico cinematografico che, film dopo film, continua a dividere, incantare e – sì – anche esasperare. C’è chi non ne può più del suo stile ipercostruito, e chi invece lo aspetta come si aspetta il nuovo album della propria band preferita. Io faccio sicuramente parte della seconda categoria.

La trama di questo dodicesimo lungometraggio – tredicesimo, se si considera anche The Wonderful Story of Henry Sugar and Three More – si apre con la figura iconica di Zsa-zsa Korda, interpretato da un magistrale Benicio del Toro. Korda è uno degli uomini più ricchi d’Europa, un capitalista spietato e fiero evasore fiscale. Lo incontriamo mentre vola sul suo jet privato, sabotato misteriosamente da qualcuno che vuole vederlo morto. Esplode una parte dell’aereo, un sottoposto muore, ma lui sopravvive. È la sesta volta che accade. Inizia così una spy story dai tratti surreali, dove Korda, per sfuggire a un misterioso terrorista, viene messo agli arresti domiciliari. Una trama apparentemente semplice, ma che nelle mani di Anderson si trasforma in un intricato gioco di specchi, citazioni e derive oniriche.

Il film, come da tradizione andersoniana, è visivamente un gioiello. Questa volta a firmare la fotografia è Bruno Delbonnel, noto per le sue collaborazioni con Jeunet e Wright, che qui si cimenta per la prima volta con l’universo pastello del regista texano. Il risultato è un matrimonio artistico perfetto: le inquadrature sembrano dipinti viventi, dove ogni ombra e ogni bagliore raccontano qualcosa di più profondo. Il tutto girato su pellicola 35mm, per dare quel tocco artigianale e retrò che tanto piace al pubblico più cinefilo.

Il cast è, senza mezzi termini, spaziale. Al fianco di Del Toro troviamo Mia Threapleton nel ruolo della figlia suora Liesl – un personaggio che sembra uscito da Narciso Nero –, Michael Cera nei panni di un tutore alcolizzato, e una lunga lista di volti noti che sembrano sempre più parte integrante della compagnia teatrale privata di Anderson: Tom Hanks, Bryan Cranston, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Riz Ahmed, Rupert Friend, Richard Ayoade, Jeffrey Wright… una vera e propria parata di stelle che si muove con aggraziata leggerezza nel teatrino assurdo costruito dal regista.

Ma non è solo questione di attori o fotografia: La Trama Fenicia segna anche un ritorno alla narrazione univoca, dopo una serie di film – da The French Dispatch a Asteroid City – che sembravano più collage narrativi che storie compiute. Qui, invece, si percepisce un tentativo di racconto più compatto, diviso sì in capitoli, ma con una coerenza interna che rende il tutto più accessibile anche a chi non è ancora un “Wes-fan” di lungo corso. C’è perfino, e non è poco, una certa evoluzione psicologica nei personaggi. O almeno, quanto basta per renderli più tridimensionali rispetto ai bozzetti iper-stilizzati degli ultimi anni.

Le situazioni assurde si susseguono senza sosta: dal basket giocato per definire accordi d’affari, alle trasfusioni di sangue su navi mercantili, fino a un Aldilà in bianco e nero che sembra uscito da un sogno condiviso tra Dreyer e Bergman. I rimandi sono continui e stratificati, ma non soffocano mai la leggerezza surreale che è il marchio di fabbrica del regista. Anche la colonna sonora, affidata come sempre ad Alexandre Desplat, accompagna la narrazione con un tocco di eleganza senza tempo, sottolineando le emozioni senza mai sopraffarle.

La produzione, una collaborazione tra Stati Uniti e Germania con il supporto dei leggendari studi Babelsberg, riflette la vocazione sempre più internazionale del cinema di Anderson. È interessante notare come, nonostante lo sciopero degli sceneggiatori del 2023, il regista avesse già completato la sceneggiatura prima dello stop, dimostrando ancora una volta una visione progettuale molto chiara e coerente.

Ma la vera domanda è: La Trama Fenicia potrà piacere anche a chi da tempo ha abbandonato l’universo andersoniano? Forse sì. Non perché Anderson abbia cambiato registro – al contrario, continua a dipingere lo stesso albero con la stessa palette – ma perché stavolta lo fa con una consapevolezza nuova, quasi autocritica. È come se stesse dicendo: “Sì, so benissimo cosa vi aspettate da me. Ecco, ve lo do. Ma in un modo che non avete ancora visto del tutto.”

In un momento storico in cui tanti registi tentano disperatamente di reinventarsi, Anderson resta fedele alla sua poetica. E per quanto possa sembrare statico o ripetitivo, in un panorama cinematografico dominato dall’uniformità, la sua coerenza diventa quasi rivoluzionaria.

Se siete tra quelli che hanno amato Moonrise Kingdom, Il treno per il Darjeeling o Grand Budapest Hotel, non potete mancare all’appuntamento con La Trama Fenicia. Se invece avete sempre trovato il suo cinema troppo manierato, troppo autoreferenziale, beh… questo film potrebbe sorprendervi. Magari non cambierà del tutto la vostra opinione, ma vi farà sorridere, riflettere, e forse – perché no – vi conquisterà con un semplice, inaspettato dettaglio.

E ora tocca a voi: siete pronti a tornare nel mondo meravigliosamente assurdo di Wes Anderson? Avete già visto La Trama Fenicia o lo state aspettando con impazienza? Parliamone nei commenti e, se vi è piaciuto l’articolo, condividetelo sui vostri social per far conoscere questa nuova avventura cinematografica anche ai vostri amici nerd!

Ballerina: il mondo di John Wick si tinge di rosa… e di sangue

Hollywood, si sa, non resiste alla tentazione di spremere i franchise fino all’ultimo proiettile. È così che siamo arrivati a Ballerina, lo spin-off della saga di John Wick, che in teoria dovrebbe ampliare l’universo narrativo e offrire nuovi punti di vista sul mondo degli assassini più stilosi del cinema contemporaneo. In pratica? Beh, un po’ più complicato.

Ana de Armas, fresca di candidatura all’Oscar per Blonde, veste i panni (e le scarpette da punta) di Eve Macarro, ballerina e letale killer cresciuta nella Ruska Roma, quella scuola di ballerine/assassine che già avevamo intravisto in John Wick 3 – Parabellum. Il film è ambientato temporalmente tra il terzo e il quarto capitolo della serie madre e vede la nostra eroina intraprendere un percorso di vendetta personale che la porterà a sfidare nientemeno che un culto di assassini guidato dal gelido e calcolatore Chancellor interpretato da Gabriel Byrne.

L’incipit è suggestivo: un manipolo di sicari che emergono lentamente dalle acque, armati fino ai denti, pronti a fare strage in una villa isolata. Subito dopo ci ritroviamo a seguire Eve, la cui vita è stata segnata dall’uccisione del padre e dalla tragica perdita della madre. Come ogni buona storia di vendetta che si rispetti, la nostra protagonista decide di abbracciare la violenza, sottoponendosi a un durissimo addestramento. Se vi viene in mente Hanna, non siete fuori strada.

Len Wiseman, regista con esperienza più televisiva che cinematografica (lo ricordiamo per Underworld e Live Free or Die Hard), fa un buon lavoro sul piano tecnico, aiutato anche dalla supervisione di Chad Stahelski, il vero architetto dell’action di tutto l’universo di John Wick. La mano di Stahelski si sente: le coreografie dei combattimenti sono curate nei minimi dettagli, la fotografia è elegante, ogni colpo di pistola o calcio risuona con il giusto impatto visivo e sonoro.

Peccato che la trama non sia altrettanto affilata. Lo sviluppo narrativo si rivela piuttosto banale e prevedibile, un semplice pretesto per inanellare scontri a fuoco e duelli corpo a corpo. A tratti, sembra quasi che il film dimentichi che tipo di storia vuole raccontare. In un universo come quello di John Wick, dove la costruzione del mondo è parte del fascino, Ballerina non riesce davvero ad aggiungere qualcosa di nuovo o interessante.

Un esempio emblematico? La rivelazione che la spietata Lena, nemica di Eve, sia in realtà la sua sorella perduta. Colpo di scena telefonato e che non riesce a suscitare la minima sorpresa. Allo stesso modo, l’introduzione della cittadina di Hallstatt, roccaforte del culto, avrebbe potuto offrire un’ambientazione inquietante e suggestiva, ma rimane più un fondale che un vero personaggio narrativo.

Dal punto di vista del cast, ci sono momenti luminosi. Ana de Armas è una presenza magnetica e si conferma in grado di sostenere le scene d’azione con grande fisicità. Il suo personaggio è meno iconico di quello di John Wick, ma la sua vulnerabilità emotiva aggiunge un tocco umano interessante.

I comprimari storici della saga fanno capolino qua e là: Ian McShane nei panni dell’enigmatico Winston, Anjelica Huston come la direttrice della Ruska Roma (purtroppo penalizzata da un accento russo davvero poco convincente), e il compianto Lance Reddick, che ci regala il suo ultimo commovente cameo come Charon. E sì, c’è anche Keanu Reeves, ma il suo John Wick entra in scena un po’ troppo tardi e in maniera quasi superflua, come a ricordarci che questo è pur sempre un film ambientato nel suo universo.

Non mancano sequenze degne di nota, come l’adrenalinica scena di combattimento in una cucina — un momento che riesce a bilanciare violenza e ironia — e la suggestiva caccia tra le nevi delle Alpi, che offre un contrasto visivo piacevole rispetto ai soliti ambienti urbani notturni tipici della saga.

Sul fronte estetico, qualche scelta lascia perplessi. I tatuaggi dei membri del culto e dei clan di assassini sembrano usciti da un set di cosplay low budget, privi di quel senso di vissuto che abbiamo ammirato in film come Eastern Promises. Un dettaglio minore, forse, ma che contribuisce a spezzare l’immersione.

Nel complesso, Ballerina è un prodotto che punta tutto sull’azione e sulla spettacolarità visiva, ma che fatica a lasciare il segno sul piano narrativo ed emozionale. Se siete fan irriducibili di John Wick e non vi stanca mai vedere combattimenti coreografati con stile, il film saprà intrattenervi. Se invece cercate qualcosa che espanda realmente l’universo della saga o che aggiunga nuove sfumature alla mitologia dei Continental e delle società segrete, potreste restare un po’ delusi.

In definitiva, Ballerina è un balletto di sangue ben coreografato ma senza l’anima che ha reso iconico il personaggio di John Wick. Un blockbuster estivo perfetto per passare due ore di evasione ad alto tasso di adrenalina, ma che probabilmente non rimarrà nella memoria come i migliori capitoli della serie.

E voi, cosa ne pensate di questo nuovo capitolo del Wick-verse? Vi è piaciuto il personaggio di Eve? O avreste preferito un film che osasse di più? Diteci la vostra nei commenti o condividete l’articolo sui vostri social!