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Dylan Dog. Cagliostro: il gatto più magico del fumetto torna protagonista in un volume celebrativo

Ci sono compagni di viaggio che non hanno bisogno di parole per farsi amare. Non indossano mantelli, non impugnano pistole e non lanciano incantesimi a voce alta. A volte, basta un battito di coda, uno sguardo carico di mistero e un passo felpato per rubare la scena persino al più iconico degli investigatori dell’occulto. Parliamo, ovviamente, di Cagliostro, il grosso gatto nero dagli incredibili poteri magici che accompagna Dylan Dog in alcune delle sue avventure più affascinanti e inquietanti. Il 13 giugno arriva in libreria e fumetteriaDylan Dog. Cagliostro, un volume celebrativo che ci invita a ripercorrere due memorabili episodi firmati dal maestro Tiziano Sclavi e disegnati da Luigi Piccatto. Un’occasione perfetta per scoprire (o riscoprire) uno dei personaggi più enigmatici e potenti dell’universo creato da Sclavi. Due storie — “Cagliostro!” e “Maelstrom!” — che ci trascinano in un viaggio fra magia, amore e caos, con una postfazione di Franco Busatta che impreziosisce ulteriormente questo imperdibile volume.

Ma chi è davvero Cagliostro? Qual è la sua storia? E perché è diventato una figura così amata e ricorrente nella saga dell’Indagatore dell’Incubo?

L’incontro con Cagliostro: un viaggio newyorkese tra sogni e presagi

Il nostro viaggio inizia con l’albo “Cagliostro!”, il numero 18 di Dylan Dog, pubblicato per la prima volta nel marzo del 1988. In quell’occasione troviamo Dylan e il suo inseparabile Groucho in trasferta a New York, immersi in un’atmosfera onirica e carica di presagi. Delitti inspiegabili, stranezze inquietanti e un senso costante di smarrimento avvolgono la metropoli americana, rendendo ogni angolo una potenziale trappola.

Al centro di questo caos c’è lui, Cagliostro: un imponente gatto persiano nero, compagno della giovane strega Kim. Cagliostro non è un semplice animale da compagnia. Secondo Kim, i suoi poteri sono tanto vasti da poter materializzare i propri sogni… o addirittura far sparire l’intero mondo se solo lo desiderasse. Un essere dotato di un potere così sconfinato non può che destare timore e reverenza. E come tutti i veri felini, Cagliostro ama giocare con il caos senza uno scopo preciso, lasciando dietro di sé una scia di mistero.

In “Cagliostro!”, Dylan si trova invischiato in un intrigo dove le forze cosmiche si scontrano e gli occultisti di tutto il mondo vengono assassinati da un misterioso angelo sterminatore. In questa situazione disperata, dovrà decidere se fidarsi della bella Kim… e soprattutto del suo scontroso e potentissimo gatto. Perché conquistare l’affetto di un felino è già difficile di per sé, figuriamoci se si tratta di un essere magico con un caratteraccio leggendario. Ma, come ci insegna Cagliostro, una volta ottenuta la sua fiducia, è per sempre.

Cagliostro e Kim: un legame spezzato, un nuovo inizio

La storia di Cagliostro si intreccia profondamente con quella di Kim. Il loro rapporto, però, subirà un colpo devastante in “Maelstrom!”, l’albo numero 63. Kim si innamora di Dylan, e come vuole la crudele legge del mondo magico, una strega innamorata perde i propri poteri. A quel punto, Cagliostro è costretto ad abbandonarla, segnando un momento struggente e poetico della serie. Il gatto sparisce, ma la sua storia è tutt’altro che finita.

Il ritorno e la consacrazione: da aiutante a compagno di vita

Cagliostro riappare nel numero 119, “L’occhio del gatto”, dove gioca un ruolo fondamentale nell’aiutare Dylan a risolvere un caso particolarmente insidioso. Da lì in avanti, il suo coinvolgimento nella saga si fa sempre più profondo. La svolta definitiva arriva con la doppia avventura contenuta nei numeri 241 e 242 — “Xabaras” e “Nel nome del padre”, firmata da Paola Barbato e illustrata da Bruno Brindisi, in occasione del ventennale della serie.

In questa epica storyline a colori, apprendiamo che Cagliostro ha poteri addirittura superiori a quelli di Morte stessa, riuscendo a salvare il padre di Dylan. Dopo la tragica morte di Kim, Cagliostro stringe con Dylan un patto di sangue, scegliendolo come nuovo padrone e andando a vivere con lui al famoso numero 7 di Craven Road. Da quel momento, il gatto magico diventa un personaggio fisso della serie, un vero e proprio membro della “famiglia” di Dylan.

Tra citazioni e curiosità: un albo iconico

Il fascino di “Cagliostro!” va oltre la semplice trama. L’albo è un tripudio di omaggi e citazioni che faranno la gioia di ogni nerd e cinefilo. Dai richiami a Psycho, Arsenico e vecchi merletti, Taxi Driver, Ghostbusters, a suggestioni lovecraftiane e riferimenti al cinema noir, ogni pagina è un piccolo scrigno di riferimenti culturali.

Inoltre, proprio grazie all’ambientazione newyorkese, l’albo anticipa in modo sottile quello che sarà il crossover tra Dylan Dog e Martin Mystère, mostrandoci personaggi come il commissario Travis, Martin, Java e Diana, anche se in quell’occasione non incontrano direttamente Dylan.

Non stupisce che “Cagliostro!” sia stato ristampato numerose volte, diventando uno degli albi più amati e collezionati della serie. La sua magia, letteralmente e narrativamente, continua a incantare generazioni di lettori.

Un legame che resiste al tempo

Cagliostro non è soltanto un comprimario. È un personaggio con una propria storia, un’anima che evolve insieme a Dylan Dog. Il loro rapporto, nato da circostanze drammatiche, si trasforma in una profonda alleanza, fatta di rispetto e affetto reciproco. In un mondo dove nulla è certo e ogni ombra può celare un orrore indicibile, sapere di avere accanto un alleato come Cagliostro è forse la più grande consolazione per l’Indagatore dell’Incubo.Con l’uscita del volume celebrativo Dylan Dog. Cagliostro“, abbiamo finalmente l’opportunità di rivivere due delle sue avventure più significative, apprezzando ancora una volta l’incredibile contributo di Tiziano Sclavi e Luigi Piccatto nel costruire questo personaggio affascinante e complesso.

E ora tocca a voi, lettori nerd e geek di ogni angolo della rete: qual è il vostro rapporto con Cagliostro? Qual è la vostra storia preferita con protagonista il misterioso gatto magico? Vi invito a condividere le vostre opinioni e a far conoscere questo articolo ai vostri amici appassionati di Dylan Dog. Postate, commentate e fate volare la magia di Cagliostro sui vostri social network. L’incubo è solo l’inizio… e il mistero vi aspetta!

Il Segreto delle Fusa dei Gatti è nel DNA: la Scoperta che Cambia per Sempre il Mondo dei Gattari

Nel vasto e affascinante universo della nerd culture c’è un tema che, forse inaspettatamente, unisce appassionati di fantascienza, giochi di ruolo, serie TV e amanti degli animali: i gatti. E quale comportamento felino affascina di più di quel magico ronronare che i nostri amici a quattro zampe emettono? Le fusa. Quella vibrazione sottile e ipnotica, un po’ motore di starship, un po’ mantra zen, che riesce a calmare anche il cuore più impavido dopo un’intensa maratona di Doctor Who o dopo una sessione frustrante su Elden Ring.

Ma c’è un mistero che da sempre fa arrovellare la mente di ogni gattaro nerd: perché alcuni gatti fanno fusa rumorose e continue, mentre altri sembrano più discreti, quasi timidi nel comunicare questo loro stato di beatitudine? Bene, preparatevi a un plot twist degno delle migliori saghe fantasy, perché finalmente la scienza ha risposto a questa domanda e la risposta, manco a dirlo, è scritta nel codice genetico dei nostri mici.

Il Mistero delle Fusa Svelato: la Ricerca Giapponese che Rivoluziona il Mondo Felino

A lanciarsi in questa avventura da veri scientific adventurers è stato un team di scienziati del Wildlife Research Center dell’Università di Kyoto, che ha deciso di portare la questione delle fusa feline dal regno della leggenda urbana al laboratorio. Il loro studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One, ha coinvolto ben 280 gatti domestici, tutti rigorosamente meticci e sterilizzati, per garantire risultati quanto più imparziali e affidabili possibili.

L’obiettivo? Scoprire quali meccanismi genetici regolano la capacità di un gatto di fare le fusa e la sua tendenza a comunicare vocalmente con noi umani. E i risultati non hanno deluso: i ricercatori hanno infatti identificato una variante specifica del gene del recettore degli androgeni, un vero e proprio “interruttore” delle fusa, ribattezzato in modo irresistibilmente nerd gene purrfect. Solo il nome basterebbe per farci innamorare della scoperta!

Una Questione di Lunghezza: la Battaglia fra Short-Type e Long-Type

Il team giapponese ha condotto un’analisi approfondita del DNA felino, incrociandola con questionari dettagliati compilati dai proprietari dei gatti. E qui arriva la parte da manuale di game design: i ricercatori hanno scoperto che i gatti portatori dell’allele short-type del gene Ar erano decisamente più inclini a fare fusa rispetto ai loro simili con l’allele long-type.

Ma la faccenda si complica, come in ogni good story arc che si rispetti. Nei gatti maschi, la variante short-type non solo aumentava la frequenza delle fusa, ma li rendeva anche più loquaci nei confronti degli umani. Le femmine, invece, con lo stesso allele tendevano a mostrare una maggiore aggressività verso gli estranei. Insomma, la lunghezza di questo gene si comporta come un modulatore comportamentale degno di un power-up: regola non solo la dolcezza sonora delle fusa, ma anche il modo in cui i nostri amici felini si relazionano con il mondo che li circonda.

Il Potere dei Meticci: i Veri Maestri delle Fusa

Lo studio ha inoltre messo in luce un dettaglio particolarmente intrigante per chi, come tanti nerd, adora l’underdog — o in questo caso, l’undercat. La variante short-type è infatti molto più diffusa nei gatti meticci rispetto a quelli di razza. Questo potrebbe spiegare perché i gatti di strada, spesso abituati a vivere in ambienti complessi e a interagire con una moltitudine di esseri umani, sono autentici campioni di comunicazione vocale.

Forse, nel corso della loro vita randagia, hanno evoluto una capacità superiore di dialogare con noi bipedi, un’abilità che può fare la differenza fra ottenere una coccola, un pasto caldo o finire ignorati. I gatti di razza, al contrario, selezionati principalmente per tratti estetici, potrebbero aver perso nel tempo parte di questa abilità sociale innata. Una piccola rivincita genetica dei randagi, che conquista il cuore dei gattari nerd con la forza del loro “purr power”!

Evoluzione delle Fusa: Un Viaggio dal Selvaggio al Domestico

E la storia non finisce qui, anzi, diventa ancora più affascinante se guardiamo alla storia evolutiva del gene purrfect. I ricercatori giapponesi hanno confrontato il gene Ar dei gatti domestici con quello di undici specie di felini selvatici, tra cui il suggestivo gatto leopardo e il misterioso gatto pescatore.

La scoperta è stata sorprendente: in natura, tutte queste specie presentano solo la variante short-type. Ciò suggerisce che la versione long-type sia emersa unicamente durante il processo di domesticazione e di selezione artificiale. In altre parole, le nostre coccole e preferenze estetiche hanno modificato nei secoli anche il modo in cui i gatti comunicano con noi. Le fusa, da semplice comportamento ancestrale, sono così diventate uno strumento evolutivo raffinato, un vero e proprio linguaggio interspecie che continua a evolversi.

Implicazioni Future: Verso un Traduttore Universale delle Fusa?

Oltre ad essere una curiosità da condividere durante le sessioni di Dungeons & Dragons o tra una partita a Magic: The Gathering, questa scoperta apre scenari affascinanti anche per il benessere dei nostri amati felini. Comprendere le basi genetiche della comunicazione nei gatti potrebbe infatti aiutare veterinari e proprietari a interagire in modo più empatico ed efficace con i loro animali.

Sapere in anticipo se un gatto è predisposto a essere più comunicativo o più schivo potrebbe trasformare l’esperienza di convivenza in qualcosa di ancora più armonioso. Immaginate un futuro in cui esistono veri e propri traduttori universali delle fusa, capaci di decifrare con precisione cosa il nostro micio ci vuole comunicare. Non è fantascienza: la ricerca sul gene purrfect potrebbe essere il primo passo in quella direzione.

E voi, cari lettori nerd e gattari, avete mai notato differenze nel comportamento vocale dei vostri mici? Vi è mai sembrato che alcuni abbiano un vero e proprio “turbo-fusa” mentre altri si mantengono più discreti? Condividete le vostre esperienze nei commenti e, se l’articolo vi ha intrigato, non esitate a condividerlo sui vostri social: il mondo ha bisogno di sapere che dietro ogni fusa potrebbe celarsi un piccolo segreto genetico… degno della miglior saga nerd!

Cat Quest III – I gatti pirati salpano anche su Apple: un viaggio tra isole, cannoni e magia nella Purribean

È arrivato il momento di salpare verso nuove avventure feline! Cat Quest III, conosciuto anche come Cat Quest: Pirates of the Purribean, è l’ultima chicca del 2024 firmata dai talentuosi sviluppatori di The Gentlebros e pubblicata da Kepler Interactive. Dopo aver conquistato i cuori dei gamer su console e PC, questo action RPG pieno di miagolanti sorprese si prepara a fare il grande balzo su dispositivi Apple: iPhone, iPad e Mac saranno ufficialmente arruolati nella ciurma a partire dall’8 agosto 2025. E per i più impazienti, il preordine è già disponibile sull’App Store. Pronti per la purrrr-ventura?

Ma prima di imbarcarci verso questa nuova rotta, facciamo un salto indietro per esplorare ciò che rende Cat Quest III una vera perla del panorama indie.

La saga dei felini coraggiosi era già ben nota agli amanti degli RPG leggeri, ma questa terza iterazione fa il salto di qualità sia in termini di gameplay che di ambientazione. Ambientato nel coloratissimo arcipelago della Purribean, il gioco ci catapulta in un mondo dove ogni isola nasconde dungeon pieni di insidie, tesori e battaglie mozzafiato contro altri temibili pirati. La missione principale ruota attorno alla mitica North Star, un leggendario tesoro in grado di esaudire i desideri di chiunque riesca a impossessarsene. Una reliquia che fa gola a molti… e tu sei uno di loro.

Come in ogni buon action RPG che si rispetti, avremo a disposizione una vasta gamma di attacchi e magie. Il nostro eroe felino potrà infatti combattere corpo a corpo con spade e armi varie, oppure scegliere uno stile più strategico con pistole, bacchette magiche e incantesimi capaci di infliggere effetti debilitanti ai nemici. A rendere il tutto ancora più dinamico ci pensa il sistema di navigazione, che ci permette di spostarci tra le isole a bordo di navi armate di cannoni. Sì, hai capito bene: le battaglie navali sono un altro punto forte del gioco, e scontrarsi con le navi pirata nemiche è tanto divertente quanto visivamente appagante.

La mappa esplorabile è vasta e piena di segreti, con side quest ben scritte e spesso piene di umorismo (spesso a base di irresistibili giochi di parole gatteschi) che arricchiscono ulteriormente l’esperienza. E se ti senti solo nella tua caccia al tesoro, sappi che puoi reclutare un compagno grazie alla modalità cooperativa locale. Collegando due controller su console o su Apple device compatibili, potrai vivere questa epopea felina in compagnia, esplorando dungeon e affrontando boss in tandem.

Parlando proprio della versione Apple, è interessante notare come questa non sia una semplice conversione frettolosa: The Gentlebros hanno progettato un adattamento curato nei minimi dettagli, con controlli touch ottimizzati, piena integrazione con Game Center e, ciliegina sulla torta, l’acquisto universale. In pratica, lo compri una volta e puoi giocarci su tutti i tuoi dispositivi Apple. Comodo, no?

Per chi ha già spolpato il gioco su altre piattaforme, c’è una piacevole novità: l’introduzione della modalità Mew Game, pensata per offrire un ulteriore livello di sfida e rigiocabilità. E in un gioco dove l’umorismo è un punto forte, partire da capo non è mai noioso.

La critica non è rimasta indifferente a questo piccolo gioiello. Su Metacritic il titolo ha ottenuto una media altissima, con l’86 su Nintendo Switch, l’84 su Xbox Series X|S e valori simili anche su PC e PlayStation 5. Nintendo Life ha definito Cat Quest III uno dei migliori indie dell’anno, elogiandone lo stile visivo, le quest e il combattimento, mentre Nintendo World Report si è spinto ancora oltre con un 9.5/10, lodando l’umorismo e l’esplorazione, pur sottolineando una durata un po’ breve. Anche Shacknews ha apprezzato soprattutto i boss e la scrittura brillante, piena di battute feline che strappano più di un sorriso.

Come ciliegina sulla torta, Cat Quest III ha ricevuto una prestigiosa nomination ai D.I.C.E. Awards come “Family Game of the Year”. Una testimonianza dell’amore e della cura con cui è stato sviluppato, pensato per essere godibile da giocatori di tutte le età, in solitaria o in compagnia.

Insomma, se sei un fan degli RPG leggeri ma pieni di personalità, se ami i mondi colorati e pieni di segreti, se non resisti all’ironia (e ai gatti con la benda sull’occhio), Cat Quest III è il gioco che fa per te. Che tu sia un giocatore incallito su console o un amante del gaming in mobilità con Apple, non hai più scuse per non imbarcarti nella tua prossima avventura nella Purribean.

E tu? Hai già messo le zampe su Cat Quest III? Raccontaci le tue impressioni nei commenti o condividi l’articolo con la tua ciurma nerd sui social! La Purribean ti aspetta!

“Gli Occhi del Gatto”: un sogno surreale disegnato da Moebius, scritto da Jodorowsky

C’è un momento, tra la veglia e il sonno, in cui tutto appare sfocato ma tremendamente vivido. È lì che vive Gli occhi del gatto, un’opera che non è un semplice fumetto, ma un’esperienza. Un sussurro visivo e narrativo, pubblicato per la prima volta nel 1978 sul primo numero della mitica rivista Métal Hurlant, dove due maestri assoluti della Nona Arte – Alejandro Jodorowsky e Moebius – si sono incontrati per creare qualcosa di irripetibile.

La storia, all’apparenza esile, si svolge in un mondo spoglio, apocalittico, onirico. Un paesaggio che sembra sospeso nel tempo e nello spazio, come se fosse emerso direttamente dai sogni più profondi e simbolici dell’inconscio umano. Qui, in silenzio quasi religioso, si muovono tre creature: un bambino, un’aquila – Méduz – e un gatto. Non comunicano tra loro come faremmo noi, non si cercano apertamente, ma sono destinati a incrociarsi in un’architettura narrativa tanto semplice quanto potentemente evocativa.

Méduz vola nel cielo alla ricerca di prede, non per sé, ma per nutrire il desiderio – o forse la vendetta – del bambino. Il gatto, silenzioso e sornione, attraversa questo paesaggio con la noncuranza tipica di chi è già oltre il giudizio morale. E intanto l’occhio del lettore – che poi diventa anch’esso occhio del gatto – si perde in questa danza visiva tra predatori, vittime e testimoni muti. Il tutto si compone di tavole quasi mute, spesso costituite da una sola immagine a pagina intera, capaci di comunicare emozioni profonde con il solo potere dell’immagine.

La forza dell’opera non risiede tanto nella trama – che potremmo riassumere in una frase – quanto nella sua atmosfera, nella sensazione di straniamento e mistero che ci accompagna fin dalla prima tavola. È come guardare un frammento di mito o un antico racconto allegorico sussurrato da una voce dimenticata dal tempo. L’assenza quasi totale di parole amplifica l’impatto delle immagini, costringendoci a rallentare, a soffermarci su ogni dettaglio, a interrogarci su quello che stiamo vedendo.

Moebius, al secolo Jean Giraud, regala qui una dimostrazione magistrale del suo talento visionario. Le sue illustrazioni, rigorose e fluttuanti allo stesso tempo, tracciano un universo che pare vivere di luce propria, dove ogni tratto è pensato per essere contemplato. Jodorowsky, dal canto suo, porta nel racconto la sua visione mistica, psichedelica, a tratti crudele ma sempre profondamente poetica. La loro unione, nata per caso da un progetto mai concretizzato – la leggendaria versione cinematografica di Dune – ha dato vita a un sodalizio artistico che avrebbe cambiato per sempre la storia del fumetto.

Lo stesso Jodorowsky racconta nella prefazione che fu il caso a farli incontrare, ma che la forza che li ha spinti a collaborare fu qualcosa di più grande, forse addirittura magico. E come dargli torto? Gli occhi del gatto sembra davvero scaturito da un incantesimo: pochi elementi, eppure capaci di evocare un intero universo narrativo. È l’archetipo del racconto breve che lascia dentro una fame inespressa, quella sensazione a metà tra l’inquietudine e la meraviglia che ci spinge, alla fine, a sussurrare: “ne voglio ancora”.

Edizioni BD, che già aveva riportato in auge capolavori come La Pazza del Sacro Cuore, ha deciso di restituire nuova vita a questo gioiello perduto, proponendolo in una raffinata edizione cartonata, disponibile dal 27 maggio in libreria, fumetteria e online. Un volume da collezione, certo, ma anche da leggere, rileggere e contemplare come si fa con le opere d’arte. Perché Gli occhi del gatto è proprio questo: arte.

Curioso anche l’aspetto formale dell’opera. La narrazione si sviluppa in un doppio binario visivo: a sinistra vignette più piccole che scandiscono il ritmo come battiti di tamburo, a destra tavole a piena pagina, vere e proprie “splash page” che amplificano l’impatto emotivo di ciò che vediamo. È un’alternanza che ipnotizza, quasi fosse una sorta di rito visivo. Non è un fumetto nel senso convenzionale del termine, ma un’esperienza visiva e sensoriale che trascende le categorie.

Gli occhi del gatto è inquietante e affascinante, grottesco e malinconico, semplice e profondissimo. È un viaggio breve ma memorabile dentro un angolo dimenticato dell’immaginazione, dove parole e immagini si fondono in qualcosa che somiglia più a un sogno lucido che a una storia.

E voi, lettori del CorriereNerd.it, avete mai incrociato lo sguardo di quel misterioso gatto? Se sì, raccontateci la vostra esperienza. E se non lo avete ancora fatto… è tempo di aprire quella copertina e perdervi, almeno per un momento, in quel mondo desolato e meraviglioso. Condividete l’articolo, parlatene con i vostri amici nerd, e fateci sapere: cosa avete visto voi negli occhi del gatto?

Gatti – Leggende & Misteri: quando il misticismo felino incontra l’arte illustrata di Paolo Barbieri

Ci sono creature che, più di altre, sembrano sfuggire alle leggi della realtà quotidiana. Creature che camminano silenziose tra i mondi, che osservano oltre il velo della materia e ci fissano con occhi carichi di enigmi. Stiamo parlando, naturalmente, dei gatti. Nel corso dei secoli, questi affascinanti animali hanno ispirato miti, leggende, racconti e superstizioni in ogni angolo del pianeta. La loro eleganza misteriosa, il loro comportamento a volte indecifrabile, il modo in cui sembrano avvertire ciò che noi non percepiamo… Tutto questo ha contribuito a costruire un’aura quasi magica attorno alla figura del gatto. Ed è proprio questo affascinante universo esoterico e simbolico che il libro illustrato “Gatti – Leggende & Misteri”, edito da Lo Scarabeo, ci invita a esplorare, grazie alle suggestive illustrazioni di Paolo Barbieri e alle parole dense di significato di Daniele Palmieri.

Il legame occulto tra l’uomo e il gatto

L’opera si presenta come un vero e proprio bestiario magico, un viaggio che attraversa culture, epoche e tradizioni per raccontarci il ruolo che i gatti hanno ricoperto – e continuano a ricoprire – nell’immaginario umano. Si parte dalle sabbie dorate dell’Antico Egitto, dove il gatto era considerato una divinità vivente, incarnazione della dea Bastet, protettrice della casa e simbolo della fertilità. La sua figura si staglia anche nella Roma imperiale, dove i felini venivano accolti con rispetto quasi religioso, creature totemiche capaci di portare equilibrio nelle dimore e nei templi.

Ma il Medioevo, con il suo bagaglio di superstizione e timori oscuri, trasforma il gatto in una creatura ambigua, sospesa tra la protezione e la maledizione. È il tempo delle streghe, dei sabba e degli inquisitori, e proprio in questo contesto il gatto – specialmente quello nero – diventa compagno dei maghi, emissario notturno, essere mutevole capace di assumere forma umana o spiritica. Palmieri, con la sua penna erudita e ispirata, ci racconta come gatti e streghe condividessero un legame profondo: spesso, infatti, erano gli stessi gatti a sorvegliare il villaggio per conto delle loro padrone, agendo come occhi silenziosi dell’occulto.

Un immaginario che corre tra oriente e occidente

La ricchezza culturale del volume è straordinaria. Oltre all’Occidente medievale e classico, troviamo echi felini nella letteratura orientale, dove il gatto assume un ruolo sacro anche nell’Islam. Dalla Persia fino al mondo arabo, viene visto come un essere puro, degno della compagnia dei profeti, capace di vegliare sulla casa e sulle anime.

Il viaggio tocca anche le pagine della letteratura moderna e fantasy, con citazioni che fanno la gioia degli appassionati: da Tolkien, che rappresenta il gatto come un emissario oscuro nelle trame di Sauron, al grande Algernon Blackwood, che lo inserisce come alleato del suo detective dell’occulto John Silence, sempre pronto a fronteggiare minacce provenienti da altri piani della realtà.

La visione artistica di Paolo Barbieri

Ma ciò che davvero rende Gatti – Leggende & Misteri un’opera unica è la parte visiva, affidata al genio visionario di Paolo Barbieri. I suoi gatti non sono semplici illustrazioni: sono presenze. Creature eteree che sembrano uscire dalle pagine per fissarti nell’anima, che danzano tra le ombre e la luce, tra sogno e realtà.

Barbieri, già noto per aver illustrato copertine di autori come Ursula K. Le Guin, George R. R. Martin e Licia Troisi, ma anche per le sue iconiche rappresentazioni de L’Inferno di Dante e i Tarocchi, si conferma ancora una volta un maestro nel dare forma al soprannaturale. Con uno stile che miscela arte classica, suggestioni fantasy e un pizzico di surrealismo, riesce a catturare la vera essenza del gatto: quella soglia tra mondi che molti cercano di attraversare, ma che solo i felini sembrano poter abitare davvero.

“Crescendo con i gatti – racconta Barbieri – ho sempre percepito che vedono e sentono ciò che a noi sfugge. Ho voluto mostrare attraverso le mie immagini ciò che credo loro percepiscano davvero”. E in questo libro, ci riesce. Eccome se ci riesce.

Daniele Palmieri e il suo universo felino

Accanto alle illustrazioni, le parole di Daniele Palmieri arricchiscono ogni pagina di significato. Filosofo e scrittore, classe 1994, Palmieri ha fatto dei gatti il centro del suo universo narrativo. Il suo “Diario di un cinico gatto” è diventato un piccolo cult, una saga letteraria che negli anni ha raccolto un seguito appassionato. In Gatti – Leggende & Misteri porta tutto il suo bagaglio simbolico, antropologico e filosofico per raccontarci non solo storie e leggende, ma anche il significato più profondo che questi animali assumono nei nostri sogni, nei riti, nelle paure.

Lo Scarabeo: l’editore del mistero

Il volume è pubblicato da Lo Scarabeo, casa editrice torinese da sempre legata al mondo dell’esoterismo, dei tarocchi e dell’arte illustrata. Nata nel 1987, l’etichetta è ormai un punto di riferimento internazionale nel panorama della divinazione e dell’editoria illustrata. Al Salone Internazionale del Libro di Torino 2025, Lo Scarabeo si presenta con una serie di novità editoriali, tra cui anche Gatti – Leggende & Misteri, posizionandosi come voce autorevole nel mondo dell’immaginario magico e simbolico.

Un libro da collezione, da leggere e da contemplare

Gatti – Leggende & Misteri non è solo un libro, è un portale. Un oggetto da collezione per chi ama i gatti, ma anche per chi è affascinato dai misteri, dalle tradizioni occulte, dall’arte illustrata. È un’opera che si presta a essere letta, sfogliata, meditata. Che ci spinge a guardare i nostri amici felini con occhi nuovi, più attenti, più consapevoli.

Quante volte ci siamo chiesti cosa stiano guardando, fermi nel vuoto, in piena notte? E se davvero vedessero qualcosa che noi non possiamo nemmeno immaginare?


E ora, la parola a voi! Avete mai sentito storie misteriose sui gatti? Qual è la leggenda felina che vi ha colpito di più? Avete già sfogliato questo libro al Salone del Libro? Raccontatecelo nei commenti qui sotto e condividete l’articolo con i vostri amici sui social: ogni storia condivisa è un passo in più nel labirinto magico dei misteri felini! 🐾

“Il Gatto dai sette nomi”: Federico Santaiti e il ritorno del Gattaro del web in un romanzo che accarezza l’anima (e i baffi)

C’è un momento nella vita di ogni lettore in cui si desidera mettere da parte l’invadenza del rumore quotidiano per rifugiarsi in una storia che sappia scaldare, consolare e far riflettere senza troppi clamori. “Il Gatto dai sette nomi”, il nuovo libro di Federico Santaiti edito da Bur Rizzoli, è proprio quel tipo di lettura. Disponibile dal 27 maggio 2025 in tutte le librerie fisiche e digitali, e già preordinabile online, questo romanzo rappresenta un tuffo nella delicatezza del quotidiano filtrato dallo sguardo magnetico e silenzioso di un gatto nero che – come suggerisce il titolo – vive molteplici vite, cambiando forma, nome e padroni, ma conservando un’unica essenza: quella dell’amore incondizionato e misterioso tipico dei felini.

Federico Santaiti, regista, videomaker e webstar da milioni di click, è noto al grande pubblico come il “Gattaro del web”, un titolo che non è solo un vezzeggiativo ma una vera e propria dichiarazione d’amore verso il mondo felino. Dopo il successo del suo primo libro “Fatti i Gatti tuoi” (2019), Santaiti torna con una nuova storia che non è solo un romanzo, ma un vero viaggio iniziatico nel cuore dell’umano attraverso la lente – affilata e compassionevole – di un gatto nero con un piccolo ciuffo bianco sotto il collo. Un dettaglio non casuale, ispirato alla sua amata gatta Blacky, che entrò nella sua vita nell’estate del 2015 cambiandola per sempre.

Il protagonista del libro è dunque questo misterioso gatto nero che, attraversando sette vite differenti – o, meglio, sette umane esistenze – si trasforma in un simbolo mobile di speranza, cambiamento, rinascita. Ogni volta che compare nella vita di una persona, lo fa in silenzio, senza chiedere nulla, ma con una tempistica sorprendentemente perfetta: arriva quando è più necessario, come una carezza inattesa che sposta il corso degli eventi. Il romanzo segue questa traiettoria felina con delicatezza, tracciando storie che si intrecciano in modo quasi magico e che, nonostante siano apparentemente scollegate, si tengono per mano grazie alla presenza enigmatica di questo piccolo grande animale.

Ciò che colpisce ne “Il Gatto dai sette nomi” è la capacità di Santaiti di trattare temi complessi e universali con uno stile accessibile e profondo al tempo stesso. Si parla di bullismo, di amore ritrovato in età adulta, di crisi identitarie nel mondo del lavoro, di marginalità e sogni infranti, ma anche di vecchiaia e solitudine, tutti raccontati con l’eleganza narrativa tipica di chi osserva il mondo come farebbe un gatto: con attenzione, silenzio e rispetto. L’autore ci ricorda che non è necessario urlare per essere incisivi: spesso sono proprio le presenze più silenziose a lasciarci il segno più profondo.

Il gatto nero di Santaiti non è solo un simbolo narrativo, ma una creatura viva che attraversa le fragilità umane con la leggerezza tipica di chi conosce il dolore ma non si lascia schiacciare da esso. Ed è interessante il punto di partenza che ha ispirato l’autore: l’antico mito delle sette vite dei gatti, rielaborato in chiave narrativa come strumento per aiutare gli altri, piuttosto che per salvarsi. In questo senso, il gatto non è mai spettatore passivo: cresce, cambia, si evolve attraverso ogni incontro. Porta con sé non solo le cicatrici delle persone che incrocia, ma anche le sue. E ci insegna, pagina dopo pagina, che ogni ferita è anche un’apertura verso qualcosa di nuovo.

Santaiti sfrutta la sua popolarità da pet creator – uno tra i più amati d’Italia – per diffondere anche un messaggio culturale e sociale importante: la rivalutazione del gatto nero. Animale troppo spesso vittima di superstizioni e pregiudizi, qui viene presentato per ciò che è davvero: una creatura affettuosa, empatica, capace di cambiare la vita di chi incontra. Una figura totemica che invita a guardare oltre l’apparenza e a lasciarsi guidare dall’intuizione, come solo i veri amanti dei gatti sanno fare.

“Il Gatto dai sette nomi” è quindi molto più di un romanzo: è un manifesto per chi ama i gatti e per chi vuole riscoprire, nelle pieghe del quotidiano, la poesia delle piccole cose. È un libro che abbraccia, consola, accarezza, proprio come farebbe un micio arrampicandosi sulle ginocchia nel momento in cui ne abbiamo più bisogno. Una lettura consigliata non solo ai gattari convinti, ma a chiunque abbia bisogno di una storia che tocchi il cuore con grazia e intelligenza.

Federico Santaiti ha trovato il modo perfetto per raccontare il mistero e la bellezza del legame tra uomo e gatto, trasformando sette vite in sette specchi attraverso cui guardare – forse per la prima volta con occhi nuovi – la nostra. E nel farlo, ha scritto una carezza lunga 200 pagine.

Gatti, spiriti e segreti oscuri: arriva Tatari, il nuovo shonen tra azione, vendetta e folklore giapponese

C’è un nuovo manga all’orizzonte, e promette di stregare chiunque ami storie di spiriti, misteri, combattimenti epici e gatti dalle mille vite. Si chiama Tatari ed è pronto a debuttare in Italia dal 13 maggio grazie a J-POP Manga, che porterà in libreria, fumetteria e store online il primo volume di quella che già si preannuncia come una delle serie più intriganti dell’anno.

Ma non stiamo parlando del solito shonen d’azione: Tatari, firmato da Watari e pubblicato originariamente su Weekly Shōnen Sunday a partire dall’aprile 2023, è un’opera che mescola sapientemente il folklore giapponese, il dramma familiare e un’irresistibile atmosfera dark. Con già sette volumi pubblicati in Giappone al febbraio 2025, la serie ha conquistato critica e pubblico, tanto da guadagnarsi una nomination ai Next Manga Award 2024. Un biglietto da visita niente male per un autore che, con questa prima serializzazione a lungo termine, dimostra di avere tutte le carte in regola per lasciare un’impronta nella scena manga contemporanea.

La storia prende vita nella città di Kyoto, dove, mille anni fa, un potentissimo bakeneko — un gatto mutaforma del folklore nipponico — seminava il caos col nome di Tatari. Dopo essere stato imprigionato per secoli da uno sciamano, Tatari si risveglia in tempi moderni, indebolito e costretto a vivere come un randagio. A salvarlo dalla fame e dalla solitudine ci pensano Takeru e Yuki, due fratelli che, nonostante la povertà, gli offrono un tetto — seppur fatiscente — e qualcosa da mangiare. Un gesto semplice che dà il via a un legame profondo tra il bakeneko e i due umani.

La vita, per quanto dura, sembra finalmente sorridere a questo trio improvvisato. Ma come spesso accade nei manga dalle tinte più cupe, la felicità è effimera. Takeru viene brutalmente assassinato e Tatari, devastato dal dolore, prende una decisione sconvolgente: assumere l’aspetto del suo amico defunto e vendicarne la morte. Inizia così una missione che va ben oltre la vendetta personale, e che porta Tatari a confrontarsi con una guerra millenaria che vede coinvolti spiriti, clan e forze oscure ben più grandi di lui.

Il fascino di Tatari sta tutto nel suo protagonista: un gatto orgoglioso e cinico, che si presenta con la celebre frase “Wagahai wa neko de aru”, citazione ironica e raffinata dell’omonimo romanzo satirico di Natsume Soseki. Ma dietro la spavalderia si cela una creatura ferita, che ha conosciuto la prigionia, la perdita e ora la rabbia. E la trasformazione in umano non è solo un espediente narrativo: è il simbolo del suo bisogno di comprendere gli uomini e di proteggerli, a modo suo.

Quando Tatari rintraccia l’assassino di Takeru, la verità che scopre è degna di un thriller: il ragazzo era figlio illegittimo di un boss mafioso di Hong Kong, il cui testamento ha scatenato una corsa alla successione tra eredi assetati di potere. Il killer era stato inviato per eliminare uno dei potenziali pretendenti all’eredità. Una rivelazione che cambia radicalmente lo scenario e catapulta la storia in una dimensione internazionale e soprannaturale, dove a contendersi il potere non sono solo uomini, ma anche yokai.

E proprio qui Tatari si trasforma. Da semplice racconto di vendetta si evolve in una guerra fra fazioni che include mostri, spiriti e creature leggendarie. A Hong Kong, sette capi criminali si affrontano per il controllo dell’impero lasciato dal defunto boss, tra cui una misteriosa donna che sembra appartenere al mondo degli yokai. Tatari, nel corpo di Takeru, entra in questa scacchiera letale con un solo obiettivo: proteggere Yuki, la sorellina fragile del ragazzo, ora in pericolo tanto quanto lui.

Ciò che rende il manga di Watari davvero interessante non è solo l’intreccio narrativo, ma anche il modo in cui rielabora elementi del folklore giapponese in chiave moderna. Il bakeneko, spesso relegato al ruolo di antagonista o creatura ambigua, qui è protagonista e (anti)eroe. Il tratto di Watari, più cupo e drammatico rispetto ad altre sue opere come Kage to Kage, dà vita a una rappresentazione potente e malinconica del mondo soprannaturale, in cui anche i mostri hanno un cuore — e forse proprio per questo, fanno ancora più paura.

La narrazione alterna momenti di tensione estrema a pause riflessive, esplorando le dinamiche familiari, il senso di colpa, la lealtà e la trasformazione. Non a caso, Tatari viene descritto come un “manga di battaglie oscure e bizzarre”, anche se la vera stranezza sta nel cuore della storia: un gatto che impara a essere umano per salvare ciò che resta della sua famiglia adottiva.

Con una scrittura intensa, personaggi magnetici e un universo narrativo che si arricchisce di colpi di scena a ogni capitolo, Tatari è la serie perfetta per chi ama gli shonen dal sapore dark, dove la magia incontra la tragedia e il coraggio nasce dal dolore.

Insomma, se vi piacciono i manga in cui spiriti e gatti si danno battaglia tra i vicoli del Giappone e le ombre della mafia internazionale, Tatari è il titolo che stavate aspettando. Non perdete l’uscita del primo volume in Italia con J-POP Manga, disponibile dal 13 maggio.

Il Gatto di Triora: un simbolo potente tra leggenda, redenzione e memoria

C’è un luogo, nascosto tra le montagne liguri, dove il tempo sembra essersi fermato. Un luogo intriso di antiche magie, di sussurri portati dal vento, di storie che oscillano tra la leggenda e la verità storica. Triora, il “paese delle streghe”, ha aggiunto un nuovo capitolo alla sua lunga e affascinante narrazione: il Gatto di Triora, una scultura monumentale che invita a riflettere su un passato di dolore e superstizione. Chi, come me, ama i miti, le leggende e le atmosfere sospese tra luce e ombra, non può non sentire un brivido attraversare la schiena dinanzi a quest’opera. Tre metri di bronzo, fusi in una creatura silenziosa e vigile, nata per chiedere perdono a chi, nei secoli bui, ha pagato il prezzo della paura e dell’ignoranza: gli animali, i gatti in particolare, troppo spesso vittime dimenticate della crudeltà umana.

Il Gatto di Triora: tra arte e memoria

Il Grand Pardon, come è stato battezzato, non è solo una scultura: è un messaggio potente scolpito nel metallo, una voce muta che parla ai visitatori di Triora. Il monumento, ideato da Svetlana Lin e Alexander Orlov, due residenti russi innamorati del borgo ligure, è stato affidato all’artista Elena Rede, che ha lavorato instancabilmente per quattro anni, sfidando anche le difficoltà della pandemia. La sua creazione non è casuale. Triora porta sulle spalle il peso di un passato tragico: tra il 1587 e il 1589, durante un processo tristemente noto, molte donne vennero accusate di stregoneria, due delle quali trovarono una morte atroce. In quei tempi oscuri, anche i gatti — soprattutto i neri — furono vittime della superstizione: associati al male, alla stregoneria, furono perseguitati e massacrati.La statua oggi troneggia fiera nei pressi del castello, come un guardiano silenzioso. Non solo ricorda, ma ammonisce: mai più ingiustizia verso chi non ha voce.

Un legame antico: streghe e gatti

Chiunque si sia mai immerso nei racconti popolari sa quanto il legame tra streghe e gatti sia antico e profondo. Non è solo una trovata narrativa: nelle credenze di molte culture, il gatto — specialmente quello nero — è considerato il compagno fedele delle donne dedite alla magia.In alcuni racconti, la strega stessa si trasforma in gatto grazie a un potere chiamato ailurantropia (dal greco aílouros, “gatto”, e -tropia, “trasformazione”). Un mito affascinante, che resiste ancora oggi nella cultura fantasy: basti pensare al magico Grattastinchi di Hermione Granger in Harry Potter o, se permettete una nota personale, al mio personaggio Brunella Quinti e al suo inseparabile gatto nero, Catullo.Questa associazione ha radici antichissime. Già nell’antico Egitto, la dea Bastet — signora della fertilità e della protezione — aveva sembianze feline. Più tardi, nel folklore europeo, il gatto divenne simbolo di ambiguità: libero, indipendente, sfuggente, come le donne che sfidavano i ruoli imposti dalla società patriarcale.

Sulla persecuzione dei gatti durante i processi alle streghe, la verità è meno chiara di quanto si pensi. Non esistono decreti ufficiali della Chiesa che ordinassero lo sterminio dei gatti, né dati numerici certi sulle vittime animali di quell’epoca. Tuttavia, la credenza popolare che vedeva i gatti come emissari del maligno era radicata a tal punto che anche l’arte sacra ne porta traccia: emblematico il dipinto della Basilica di San Salvatore a Pavia, dove un gatto nero tenta San Martino di Tours.È dunque importante, a mio parere, riconoscere che sebbene la base storica sia controversa, il valore simbolico del Gatto di Triora rimane potentissimo: non si tratta di riparare un torto preciso e documentato, quanto di ricordare una mentalità pericolosa, capace di trasformare la paura in odio e la differenza in condanna.

Il Gatto di Triora non è soltanto un’opera d’arte: è un invito a ricordare, a riflettere, a non smettere di interrogarsi. Un simbolo di redenzione che si carica di significati universali: rispetto per la vita, condanna della crudeltà, celebrazione della memoria.Se capitate a Triora, fermatevi davanti a questo maestoso guardiano di bronzo. Sentite il peso delle storie che porta sulle spalle e lasciatevi sfiorare dal soffio antico della leggenda.Io ci tornerò ancora, ogni volta che vorrò ricordarmi che anche i più piccoli e i più silenziosi meritano giustizia.

“She and Her Cat: Everything Flows”: quando l’anime diventa poesia (e arriva in Limited Edition!)

Cari lettori, respirate profondamente perché sto per parlarvi di un ritorno che – giuro – mi ha fatto letteralmente saltare dalla sedia. Avete presente quando scoprite che un vostro primo amore torna nella vostra vita, ma in una forma ancora più bella, più matura, più… emozionante? Ecco, She and Her Cat: Everything Flows (Lei e il gatto: Everything Flows) è proprio questo. Ed è Dynit a farcelo tornare tra le mani, a giugno, in una Limited Edition Blu-ray + DVD (sì, con i gadget!) e anche in una versione Standard per chi vuole andarci più piano con le emozioni. Ma io vi avverto: preparate i fazzoletti.

Questo anime, tratto da uno dei primissimi lavori del maestro Makoto Shinkai (sì, quello di Your Name, Suzume, Weathering With You… il poeta dell’animazione giapponese moderna), è un colpo al cuore per tutti noi otaku dal cuore tenero. E se amate i gatti, vi giuro che sarà come tornare a casa dopo una giornata storta, quando c’è il vostro micio ad aspettarvi sulla soglia. Ma tipo, in versione animata e con la magia visiva che solo Shinkai sa evocare. La storia è disarmante nella sua semplicità. Una ragazza, Daru il gatto, e una quotidianità che scorre come acqua di un ruscello in primavera. Ma che racchiude dentro di sé tutto, davvero tutto: la solitudine, le difficoltà della vita adulta, le piccole gioie quotidiane, la malinconia, il coraggio di ricominciare. Il tutto raccontato dal punto di vista… del gatto. E qui parte la standing ovation. Perché Daru non è solo il narratore. È il nostro filtro, il nostro alter ego peloso che osserva, commenta, riflette e – a modo suo – ama in silenzio. Ed è impossibile non affezionarsi a lui in due minuti netti.

Ogni episodio (sono quattro, brevissimi, come mini pillole di poesia animata) ti accompagna in una parte della loro vita condivisa. Non succede nulla di eclatante. Nessun portale dimensionale, nessun demone da abbattere, niente mech giganti o shinigami sexy. Solo vita vera. Solo emozioni. Solo quella sensazione che qualcosa dentro di te si è mosso, e non sai bene spiegare perché. Ma cavolo, lo senti. E qui c’è la magia. Perché non è solo un anime. È un’esperienza. È come se Shinkai avesse preso una giornata qualsiasi della nostra vita, ci avesse aggiunto il punto di vista di un gatto un po’ filosofo e avesse trasformato tutto in un viaggio dell’anima. Tutto scorre, sì, ma ogni secondo resta. E ti cambia.

A livello tecnico, siamo nel regno delle meraviglie: animazioni morbide, colori pastello che sembrano usciti da un sogno, ambientazioni iperrealistiche che ti fanno venir voglia di vivere lì dentro. La colonna sonora? Un sussurro che arriva dritto al cuore. E il doppiaggio italiano? Tenerissimo, con una voce per Daru che funziona davvero. Vi sembrerà di sentir pensare il vostro gatto mentre vi fissa immobile dalla finestra. (Che poi… chi non si è mai chiesto cosa cavolo pensano davvero?).

La nuova edizione Dynit è un must. Non sto esagerando. C’è il booklet da 16 pagine che profuma di collezione, card esclusive, videoclip musicale e persino le clip della versione TV. E poi, dai, l’idea di avere questa perla nel proprio scaffale anime è da pelle d’oca solo a pensarci.

Ma soprattutto, She and Her Cat è un anime che parla a quella parte di noi che non ha bisogno di parole roboanti. Parla al nostro bisogno di affetto, di presenza, di comprensione. E se hai mai amato un animale, se hai mai sentito quel legame silenzioso ma indistruttibile con un compagno a quattro zampe… beh, ti ritroverai completamente in questa storia.

Io l’ho vissuto tutto in un fiato. E quando sono arrivata all’ultimo minuto, dopo i titoli di coda, con quel piccolo extra finale che non ti aspetti… beh, non ve lo spoilererò. Ma vi dico solo questo: avevo il cuore che mi batteva come quando trovi una vecchia foto di te e il tuo gatto di tanti anni fa, e ti ricordi tutto. Ma proprio tutto.

Quindi sì, raga, questo è un invito ufficiale a lasciarvi andare. Guardate She and Her Cat: Everything Flows. Vivetelo. Piangeteci pure, se serve. Ma non lasciatevelo scappare. Perché è una di quelle storie piccole che lasciano un segno enorme.

E ora tocca a voi. Avete mai vissuto qualcosa di simile? Avete mai avuto un Daru nella vostra vita? Scrivetemelo nei commenti, raccontatemi i vostri momenti da anime slice of life vissuti con il vostro gatto o con chi vi ha dato conforto nei momenti più fragili. E ovviamente, condividete l’articolo sui vostri social, nei gruppi anime, nei forum, ovunque. Perché certe storie vanno fatte girare, come un miagolio che riecheggia nel cuore.

Il nuovo trend virale? Umanizzare i propri animali domestici con l’AI. Ed è irresistibile.

Chi ha un animale domestico lo sa: il legame che si crea è una di quelle connessioni silenziose, intense, che non ha bisogno di parole per essere reale. Ma cosa succederebbe se potessimo vedere il nostro amico a quattro zampe come se fosse umano? È questo il cuore pulsante del nuovo trend che sta letteralmente facendo impazzire i social: umanizzare il proprio pet con l’AI, grazie a ChatGPT e agli strumenti di generazione immagini. Dopo l’onda di immagini in stile Studio Ghibli, le action figure da collezione custom e le ritrattazioni sacre, arriva la nuova moda: trasformare il tuo cane, gatto o coniglietto… in una persona in carne e ossa (virtuale), mantenendo intatti lo sguardo, l’atteggiamento, la personalità. Con risultati che vanno dal poetico al comico, passando per il profondamente toccante.


Come nasce il trend

Tutto parte da una semplice curiosità: “E se il mio animale fosse umano, che tipo di persona sarebbe?” Da lì, il salto è breve. Gli utenti iniziano a caricare le foto dei propri pet su ChatGPT o altri tool di AI con capacità visive, chiedendo, ad esempio:

Crea una foto realistica di questo gatto se fosse un essere umano. Il gatto è maschio maturo tra i 7 e 9 anni.

al che lo stesso ChatGPT ti chiederà:

Per creare la versione umana realistica di questo gatto, mi servono solo poche informazioni in più:

  1. Stile dell’immagine: realistico anche per questo?

  2. Tratti da mantenere: il colore degli occhi (anche se non si vedono bene, puoi indicarmelo tu), i capelli simili al pelo rosso/arancio, espressione seria o curiosa?

  3. Ambientazione: vuoi che sia nella stessa stanza della foto (divano, cuscino, coperta) oppure in un altro contesto?

Infine, basterà rispondere:

1. stile realistico 2. il colore degli occhi e i capelli simili al pelo e l’espressione curiosa. 3. falla nel contesto della foto, sul divano. grazie

Nel giro di pochi attimi, l’intelligenza artificiale genera ritratti iper-realistici di esseri umani che incarnano il pet: colore degli occhi, taglio dei capelli simile al manto, pose, ambientazioni e anche espressioni che sembrano davvero specchiare l’anima animale. Sui social, il fenomeno esplode. Hashtag come #PetHumanized, #MyPetAsHuman o #UmanoMaConLeZampe iniziano a collezionare milioni di visualizzazioni su TikTok e Instagram. E la rete si popola di gatti affascinanti seduti su scooter, cani che sembrano pronti a offrirti una birra al pub, e criceti dallo sguardo contemplativo, trasformati in piccoli filosofi urbani.

Una nuova forma di narrazione emotiva

Ma cosa rende questo trend così potente? Non è solo il divertimento del “vedere come sarebbe il mio animale in forma umana”. È il desiderio di raccontare qualcosa in più su di loro. Gli utenti scrivono caption poetiche, intime, quasi da diario:

“Il mio cane diventerebbe quel tipo di amico leale che si presenta a casa tua con la pizza quando hai avuto una giornata no.”

“Il gatto? Lui sarebbe l’amico un po’ snob ma irresistibilmente affascinante. Quello che ama le conversazioni profonde alle tre di notte.”

Dietro ogni immagine c’è una storia, un’affezione, un modo per rendere visibile quel legame invisibile ma fortissimo. È come se l’AI diventasse uno specchio affettuoso, in grado di restituirci non solo il nostro pet, ma anche il modo in cui lo vediamo, lo viviamo, lo amiamo.

Tra ironia, psicologia e una punta di magia

Certo, ci sono anche le versioni meme: bulldog trasformati in boscaioli tatuati, gatte siamesi in eleganti dive parigine, pappagalli in DJ con occhiali da sole. Ma anche in quei casi, c’è una forma di gioco identitario molto interessante. Psicologi e esperti di comunicazione digitale stanno già iniziando a studiare il fenomeno come una forma di “proiezione affettiva digitale”: usare l’AI per estendere l’identità del proprio animale, per esplorarne dimensioni che altrimenti resterebbero solo immaginate.E non dimentichiamo un ingrediente fondamentale: la magia. Perché c’è qualcosa di profondamente fiabesco in tutto questo. Vedere il nostro gatto trasformato in una ragazza con gli stessi occhi intensi, o il nostro cane in un uomo con quel sorriso rassicurante, ci fa sognare un mondo dove parlare con loro, abbracciarli come persone, potrebbe davvero essere possibile.

Non è solo un gioco da social: molti artisti digitali stanno cavalcando l’onda, offrendo ritratti su commissione di animali “umanizzati”, mentre i brand del pet-care osservano con interesse. Potremmo presto vedere pubblicità con pet-avatar umani o persino chatbot costruiti con la “personalità” del tuo animale.Anche gli scrittori e creativi stanno sperimentando: storie illustrate, graphic novel, persino brevi film basati su versioni umane dei propri animali domestici. È una nuova forma di storytelling transpecie, dove i confini tra umano e animale si sfumano poeticamente.

In fondo, sono già umani… nel cuore

Alla fine, forse questo trend ci ricorda qualcosa di molto semplice: che i nostri animali, pur non parlando, ci capiscono più di chiunque altro. E immaginarli come esseri umani non li rende più speciali… ma solo più vicini a noi.Perché, anche se potessero diventare umani, conserverebbero quel qualcosa di inimitabile che li rende unici: la capacità di esserci, senza chiedere nulla. Di amarci con tutta l’anima.E allora sì, forse erano umani già da sempre. Solo con un po’ più di pelo, e un cuore che batte in silenzio accanto al nostro.

Hai già provato a umanizzare il tuo pet? Condividi la tua storia sui social con l’hashtag #PetAsHuman e raccontaci che tipo di persona sarebbe!

Mewgenics: il ritorno dell’incubo felino targato Edmund McMillen

Se c’è un modo per sconvolgere i sensi e il buonsenso di ogni giocatore nerd amante dei gatti, Edmund McMillen lo ha trovato. E lo ha chiamato Mewgenics. Immaginate un trailer che inizia con micetti impegnati in attività poco ortodosse, magari un numero musicale grottesco e qualche battuta che strizza l’occhio al peggior umorismo scatologico. E poi, d’improvviso, vi rendete conto che tutto questo ha senso. Perché dietro c’è la mente di Super Meat Boy e The Binding of Isaac, due titoli diventati cult proprio per la loro capacità di trasformare il grottesco in arte videoludica.

Mewgenics non è semplicemente un gioco. È una chimera tra strategia a turni, roguelike, simulazione di vita e follia genetica felina. Un ibrido impensabile tra Pokémon, The Sims e un esperimento scientifico andato male, dove i protagonisti sono gatti armati fino ai denti e afflitti da malattie degenerative. Eppure, ogni assurdità è perfettamente orchestrata da McMillen e dal co-sviluppatore Tyler Glaiel, con cui aveva già lavorato su The End Is Nigh.

L’epopea di Mewgenics è cominciata nel lontano 2012, quando fu annunciato da Team Meat come successore spirituale di Super Meat Boy. Quella versione originaria era profondamente diversa: una sorta di Tamagotchi infernale, con combattimenti a turni in arene, gatti partecipanti a gare di bellezza o congelati in criostasi, e un’anima da simulazione gestionale. L’ambizione era tanta, forse troppa. Dopo essere stata presentata senza essere giocabile al PAX Prime 2013 e poi mostrata in forma demo a PAX East 2014, la produzione collassò su sé stessa. Il gioco venne ufficialmente cancellato nel 2016, mentre McMillen e Tommy Refenes, le due anime di Team Meat, prendevano strade differenti.

Ma le buone idee non muoiono mai. Nel 2018 McMillen ottiene i diritti completi su Mewgenics (senza trattino) e riparte da zero insieme a Glaiel. Dopo svariati prototipi e test di gameplay – tra cui brawler e strategia in tempo reale, scartati perché troppo caotici – nasce la versione definitiva: un GDR tattico a turni con una visuale isometrica, impregnato di umorismo nero, genetica bizzarra e tanto amore (contorto) per i gatti.

Il gameplay si divide in due fasi principali. Nella prima, il giocatore controlla una squadra di quattro gatti, ciascuno con una propria classe – cacciatore, mago, guaritore e così via – dotati di statistiche, abilità passive e attive, riserve di mana e persino abiti e accessori che influiscono sulle performance. Le battaglie si svolgono su griglie generate proceduralmente, con un forte influsso ambientale: il meteo e la vegetazione non sono semplici scenari, ma elementi tattici fondamentali. Quando un gatto viene messo KO, non esce dalla battaglia ma resta sul campo, potenzialmente soggetto a effetti devastanti come danni cerebrali permanenti o morte se colpito ulteriormente. La posta in gioco è alta: perdere un gatto significa anche dire addio ai suoi oggetti, magari unici e irripetibili.

Dopo il combattimento arriva il cuore pulsante (e geneticamente instabile) del gioco: l’allevamento. I gatti sopravvissuti tornano alla base, dove possono accoppiarsi tra loro. Da qui nasce una nuova generazione di felini, ciascuno con tratti ereditari che possono rivelarsi sia vantaggiosi che problematici. L’incesto genetico, ad esempio, dà luogo a mutazioni e difetti, mentre il passare del tempo simula l’invecchiamento, portando inevitabilmente alla morte dei membri più anziani del gruppo. Una sorta di microcosmo darwiniano governato dal caos.

Il ciclo di vita, morte e mutazione non è solo parte del gameplay: è la vera filosofia dietro Mewgenics. Il giocatore non controlla semplicemente un party, ma un intero lignaggio, una dinastia felina plasmata attraverso generazioni di battaglie, perdite e scelte discutibili. Ogni run influenza la successiva, ogni morte ha un peso. È un gioco che costringe a pensare a lungo termine, ma con l’imprevedibilità brutale del caso.

La nuova versione di Mewgenics è prevista per il 2025 su Steam, come annunciato nel 2022 con l’apertura della pagina ufficiale. E anche se l’attesa è lunga, il progetto è finalmente uscito dal limbo creativo in cui era rimasto per quasi un decennio. Per McMillen, questo è il progetto più ambizioso e personale mai affrontato. Un’opera mutante che evolve a ogni partita, dove l’amore per i gatti si intreccia con il sadismo meccanico tipico del suo autore.

Chiunque abbia apprezzato la profondità strategica di XCOM, la rigiocabilità ossessiva di The Binding of Isaac e l’umorismo disturbante di South Park, troverà in Mewgenics un gioco capace di far miagolare di gioia – e forse anche di disperazione. Perché in questo regno di coda, artigli e follia, nulla è sacro. Nemmeno un tenero micio.

Flow – Un mondo da salvare finalmente in streaming

Dal 6 marzo, il pluripremiato film di animazione “Flow – Un mondo da salvare” sarà disponibile in streaming su CGtv.it e su altre piattaforme di streaming di primo piano come Prime Video, Apple TV+, Google TV, YouTube, Timvision, Infinity e Chili. Questo film, diretto da Gints Zilbalodis, è pronto a conquistare il pubblico e a scrivere una nuova pagina nella storia del cinema d’animazione, con una candidatura agli Oscar® 2025 come Miglior Film d’Animazione e un cammino che l’ha portato a ottenere numerosi premi prestigiosi, tra cui il Golden Globe 2025 e il European Film Awards 2024.

“Flow” non è un film qualsiasi. È un’esperienza unica, un’opera che trascende il classico concetto di animazione, con una narrazione che mescola elementi di post-apocalisse e profonda riflessione sulla collaborazione tra esseri viventi. La pellicola, ambientata in un mondo sommerso dalle acque e privo di tracce di umanità, segue il viaggio di un gatto che, dopo un disastroso alluvione, si rifugia su una nave insieme ad altri animali. La loro sopravvivenza non dipende solo dalle risorse a disposizione, ma dalla loro capacità di superare le differenze e collaborare, un messaggio forte che risuona particolarmente in un periodo storico in cui la solidarietà globale è più che mai essenziale.

La scelta stilistica di Zilbalodis di escludere i dialoghi è una delle caratteristiche più affascinanti di “Flow”. La narrazione si sviluppa attraverso immagini mozzafiato, movimenti e suoni, creando un linguaggio universale che tocca ogni spettatore, indipendentemente dalla sua lingua o cultura. Questo approccio originale offre una visione puramente visiva e sensoriale, capace di trasmettere emozioni profonde senza il bisogno di parole. È una dimostrazione di come l’animazione possa parlare direttamente al subconscio, attraversando le barriere culturali e linguistiche, e diventando un medium straordinariamente universale.

Questa pellicola, realizzata con una produzione internazionale tra Lettonia, Francia e Belgio, è il frutto di un ambizioso progetto europeo che mira a ridefinire i confini dell’animazione. Non solo un capolavoro visivo, ma anche un’opera di grande valore culturale. “Flow” è stato presentato per la prima volta al Festival di Cannes 2024 nella sezione Un Certain Regard, dove ha ricevuto applausi entusiasti, per poi continuare il suo cammino nei maggiori festival di tutto il mondo, come il Festival di Annecy, dove ha trionfato, vincendo il Premio della Giuria, il Premio del Pubblico, il Gan Foundation Award e il Premio per la Migliore Musica Originale.

La pellicola, che ha già riscosso un incredibile successo, vantando un impressionante 100% di approvazione su Rotten Tomatoes, è una delle principali candidate a una serie di riconoscimenti prestigiosi: oltre agli Oscar® 2025, è stata nominata ai Premi César e ai Lumière Awards come Miglior Film d’Animazione, ed è in corsa per numerosi altri premi internazionali, tra cui il Golden Globe 2025 come Miglior Film d’Animazione. Con una distribuzione che abbraccia numerosi festival e il supporto di istituzioni come il National Film Centre of Latvia e il Centre national du cinéma et de l’image animée, “Flow” si sta affermando come una delle opere più importanti nel panorama dell’animazione contemporanea.

Il regista Gints Zilbalodis, che si è anche occupato della sceneggiatura, fotografia, montaggio e musica, è un talento emergente nel mondo dell’animazione. Nato nel 1994, Zilbalodis ha già stupito il pubblico con il suo primo lungometraggio, Away, che ha vinto il Best Feature Film Contrechamp Award al Festival di Annecy e ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. Con “Flow – Un mondo da salvare”, Zilbalodis conferma il suo talento nel raccontare storie universali che, attraverso l’animazione, vanno a toccare le corde più profonde dell’animo umano. La sua filosofia sull’animazione come linguaggio universale è ben espressa in una sua citazione: “Penso che l’animazione possa andare più in profondità nel subconscio degli spettatori di quanto riesca a fare un film ripreso dal vivo. L’animazione non è influenzata da barriere culturali o linguistiche, può essere molto più universale e primordiale.”

La trama di Flow è semplice, ma incredibilmente potente: un mondo devastato dall’acqua, un gatto e un gruppo di animali che lottano insieme per la sopravvivenza. Tra paesaggi naturali mozzafiato e minacce sempre incombenti, la storia invita a riflettere sull’importanza della cooperazione, della diversità e dell’adattamento a circostanze estreme. Il film non è solo un’avventura ecologista, ma un invito a riconoscere che, anche nelle situazioni più disperate, la solidarietà può diventare la chiave per la salvezza.

Disponibile dal 6 marzo in streaming, “Flow – Un mondo da salvare” è destinato a essere uno dei film più discussi e amati del 2024, un’opera che rimarrà nella memoria collettiva per la sua forza emotiva, la sua bellezza visiva e il suo potente messaggio universale. Se siete amanti dell’animazione e cercate qualcosa di veramente unico, questo film è assolutamente da non perdere.

“Divini felini – Il gatto nell’arte giapponese”: un viaggio nel cuore del Sol Levante tra arte e simbolismo felino

La cultura giapponese ha sempre nutrito un profondo amore per i gatti, creature eleganti e misteriose che hanno ispirato artisti di ogni epoca. Il volume “Divini felini – Il gatto nell’arte giapponese” rappresenta un’opera imperdibile per chiunque sia affascinato dai felini e dalla tradizione artistica del Giappone. Curato da Rhiannon Paget, specialista nelle arti visive giapponesi del XIX e XX secolo, il libro offre un’esplorazione visiva e culturale attraverso oltre 200 splendide immagini di opere provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo.

Il gatto, in Giappone, non è solo un compagno domestico, ma un simbolo di fortuna, magia e mistero. Dai celebri Maneki Neko, con la loro zampa alzata in segno di buon auspicio, alle rappresentazioni più tradizionali nelle stampe dell’ukiyo-e, i felini hanno sempre trovato spazio nell’arte nipponica. L’opera si sviluppa attraverso dipinti, paraventi, sculture e oggetti di vario genere, rivelando come il gatto sia stato ritratto nelle sue molteplici sfaccettature: enigmatico e giocoso, benevolo e talvolta inquietante.

Una delle figure più iconiche legate alla cultura pop giapponese è Hello Kitty, il celebre personaggio della Sanrio che ha conquistato il mondo con la sua semplicità e il suo design inconfondibile. Tuttavia, la presenza del gatto nell’arte nipponica affonda le sue radici ben prima della cultura contemporanea, trovando rappresentazione già nei rotoli dipinti medievali e nelle stampe di artisti come Utagawa Kuniyoshi, che ha saputo infondere nei suoi lavori un tocco di ironia e dinamismo.

Il libro, oltre ad essere un viaggio estetico, è anche un’opportunità per approfondire il significato simbolico del felino nella tradizione giapponese. I gatti sono spesso ritratti come protettori contro gli spiriti maligni, portatori di saggezza popolare o addirittura creature sovrannaturali dotate di poteri magici, come il leggendario Bakeneko o il Nekomata. Questa commistione tra folklore e arte rende “Divini felini” un volume affascinante, capace di affascinare sia gli appassionati d’arte che gli amanti della cultura giapponese.

Attraverso descrizioni dettagliate e testi coinvolgenti, il volume curato da Rhiannon Paget consente di comprendere appieno il ruolo e l’evoluzione dell’immagine del gatto nel panorama artistico giapponese. Le linee fluide e le forme eleganti che caratterizzano le rappresentazioni feline riflettono il gusto estetico nipponico, che valorizza la sintesi tra naturalezza e stilizzazione.

“Divini felini – Il gatto nell’arte giapponese” si impone quindi come una lettura imprescindibile per chi desidera immergersi in un universo dove arte, mitologia e amore per gli animali si intrecciano in un affresco visivo di straordinaria bellezza. Che si tratti di scoprire le origini dei celebri gatti della fortuna o di ammirare le illustrazioni più iconiche della tradizione giapponese, questo volume offre un viaggio senza tempo tra le pennellate delicate e le narrazioni suggestive di un popolo che ha sempre venerato il misterioso fascino dei felini.

Neko No Hi: La Giornata dei Gatti in Giappone e le sue Curiosità

In Giappone, il 22 febbraio è una data speciale: si festeggia il “Neko no Hi” (猫の日), ovvero “Il Giorno del Gatto”. Questa celebrazione è un omaggio ai nostri amici felini, considerati animali portafortuna e simboli di prosperità nella cultura giapponese. Ma perché proprio il 22 febbraio? La scelta della data deriva da un gioco di parole: in giapponese, il numero 2 si pronuncia “ni”, e la sequenza 2-2-2 richiama il suono “nyan nyan nyan”, che è l’onomatopea giapponese per il miagolio dei gatti. Un’idea semplice ma efficace, che ha reso questa giornata una ricorrenza amata da tutti i cat lovers del Sol Levante.

Il gatto è sempre stato una figura centrale nella cultura giapponese. Sin dall’antichità, questi animali erano apprezzati per la loro capacità di tenere lontani i topi, proteggendo i raccolti e i preziosi bachi da seta. Col tempo, il loro ruolo si è evoluto: da semplici cacciatori di roditori a veri e propri simboli di fortuna e benessere economico. Basti pensare alla popolarità di Hello Kitty, ai numerosi anime e manga con protagonisti felini, o ancora al celebre romanzo di Natsume Soseki, “Io sono un gatto”, in cui un micio osserva e racconta il mondo degli umani con arguta ironia.

Un altro esempio emblematico della venerazione giapponese per i gatti è il “Maneki Neko” (招き猫), la statuetta del gatto che alza la zampa in segno di invito. Questa figura è onnipresente nei negozi e nelle attività commerciali, dove viene collocata per attirare clienti e portare fortuna. Le origini del Maneki Neko si intrecciano con affascinanti leggende. La più celebre narra di un samurai, Li Naotaka, che, sorpreso da un temporale vicino al tempio di Gotokuji, fu attirato all’interno dal cenno di un gatto. Poco dopo, un fulmine colpì l’albero sotto cui si trovava. Convinto che il felino gli avesse salvato la vita, il samurai donò al tempio una grande somma di denaro, contribuendo alla sua espansione.

Un’altra leggenda è legata al santuario di Imado, a Tokyo. Si racconta che un’anziana signora, costretta dalla povertà a separarsi dal suo gatto, lo vide apparirle in sogno. Il felino le suggerì di modellare statuette con la sua immagine e di venderle per guadagnarsi da vivere. La donna seguì il consiglio e i suoi Maneki Neko in ceramica divennero presto popolari, assicurandole un futuro prospero.

Chiunque visiti Tokyo può esplorare i luoghi legati a queste storie. Il tempio Gotokuji, situato in un’area tranquilla della città, è un’oasi di pace, adornata da centinaia di statuette di gatti portafortuna. Per raggiungerlo, basta prendere la linea Odakyu Odawara e scendere alla stazione Gotokuji. Anche il santuario di Imado, vicino ad Asakusa, merita una visita: qui si trovano statuette raffiguranti coppie di gatti, simbolo di felicità coniugale e prosperità.

Il Neko no Hi è una celebrazione che unisce tradizione e passione per i gatti, un giorno speciale in cui i felini vengono coccolati più del solito e in cui i social si riempiono di immagini e omaggi a questi animali così amati. Se amate i gatti e la cultura giapponese, questa è senza dubbio una festa da segnare in calendario!

Tevildo, il Principe dei Gatti: L’oscuro signore dimenticato della Terra di Mezzo

Nella grande sinfonia della creazione, dove il destino degli uomini e degli elfi si intreccia alle ombre di antichi terrori e alla luce di eroi immortali, vi sono nomi e figure che, pur essendo ormai sepolti sotto il velo del tempo, risuonano ancora nei canti degli aedi più eruditi. E tra queste leggende dimenticate, nella Festa Nazionale del Gatto, ci rivolgiamo a una creatura singolare, forgiata nelle primissime trame della mitologia di Arda: Tevildo, il Principe dei Gatti, oscuro signore di una progenie feroce e astuta, il cui nome echeggiava nei primordi della Prima Era come uno degli araldi del male.

Nei giorni antichi, quando il mondo era ancora giovane e il potere di Morgoth si estendeva come un’ombra strisciante da Angband sino ai confini estremi della terra, vi erano molte creature sotto il suo dominio. E tra esse, prima che il crudele Sauron emergesse a compiere le sue tetre macchinazioni, vi fu un altro signore, il cui regno era fatto di silenzio e oscurità, di artigli che squarciavano la notte e di occhi fiammeggianti nella tenebra. Costui era Tevildo, il primo e più potente dei gatti, colui che regnava su un’orda di fiere dalle zampe furtive e dai denti aguzzi come pugnali.

Il suo nome, Tevildo, giunge dalle antiche lingue elfiche, laddove il Quenya gli attribuisce il titolo di “Principe dei Gatti” e nelle lingue più arcaiche, come il Gnomico, veniva evocato con appellativi quali Bridhon Miaugion, Tifil Miaugion e Vardo Meoita, tutti riecheggianti la sua sovranità sul popolo felino. Ma chi era realmente questa enigmatica creatura, il cui ricordo svanì nelle nebbie del tempo, soppiantato da malvagità ancor più terribili?

Si narra che Tevildo fosse un essere di potere e malignità singolari. Il suo corpo era avvolto da una pelliccia nera come la notte senza stelle, così fitta e scura da sembrare un frammento di tenebra vivente. I suoi occhi, due fessure ardenti, brillavano di riflessi vermigli e verdi, mentre le sue lunghe vibrisse grigie erano affilate come lame d’acciaio. Nessun suono si udiva quando camminava, eppure il suo respiro risuonava come il brontolio dei tamburi di guerra, e le sue fusa si propagavano nell’aria come un sussurro inquietante, simile al vento tra le rovine di un regno caduto.

La sua dimora si ergeva in un luogo oscuro e nascosto, una fortezza segreta celata nelle ombre di Angband, dove i suoi servitori, gatti malvagi e famelici, si aggiravano come spettri, servendo il loro principe con zelo crudele. Pochi osavano avvicinarsi ai suoi domini, e nessuna creatura osava sfidarlo – fatta eccezione per un solo avversario: Huan, il grande mastino di Valinor, il cui destino sarebbe stato intrecciato con quello di Lúthien, la più bella tra le figlie degli elfi.

“Tevildo sedeva dinanzi a tutti ed era un gatto potente e nero come il carbone e d’aspetto terribile. Aveva occhi a mandorla, allungati e molto stretti, dai quali uscivano luccichii rossi e verdi, e le sue grandi vibrisse grigie erano forti e affilate come aghi”

Beren e Lúthien, “Il racconto di Tinùviel”

E così il nome di Tevildo si lega indissolubilmente a uno dei racconti più antichi della Terra di Mezzo: la leggenda di Beren e Lúthien, i cui destini furono posti sotto la luce e l’ombra di grandi potenze. Nei tempi in cui Beren, uomo tra i più nobili del suo tempo, si avventurò nelle terre proibite nel tentativo di conquistare il cuore della figlia di Thingol, egli venne infine catturato dagli Orchi di Morgoth. Fu portato innanzi a Tevildo, il quale, compiacendosi della sua prigionia, lo condannò a servire nelle cucine della sua oscura roccaforte, riducendolo a un misero schiavo tra i vapori e il fetore delle sue sale.

Ma l’amore di Lúthien era una fiamma che non si spegneva. Con l’astuzia e la determinazione di coloro che sfidano il destino, ella si presentò dinanzi al Principe dei Gatti, fingendo di essere una fuggitiva in cerca di rifugio. Con parole dolci come il miele e false come l’inganno, ella lo persuase a lasciarsi avvicinare, mentre nell’ombra Huan attendeva il momento propizio. E quando infine la trappola scattò, la battaglia fu breve ma feroce. Huan, possente e indomito, si scagliò contro Tevildo, i suoi denti affondarono nel nero manto del nemico e i suoi artigli squarciarono le carni del Principe dei Gatti. Ferito e umiliato, Tevildo fuggì, rifugiandosi sui rami più alti di un albero maledetto, dove tremò per la prima volta in vita sua.

Alla fine, sapendo che la sconfitta era inevitabile, Tevildo cedette. Con riluttanza, egli consegnò a Lúthien il suo collare d’oro, un gioiello dal potere arcano che era fonte della sua forza. E con esso, rivelò la formula per spezzare l’incantesimo che proteggeva la sua dimora. Così Beren fu liberato, e il dominio del Principe dei Gatti si infranse per sempre. Umiliato e spogliato della sua gloria, Tevildo scomparve dalle cronache, e mai più si udì il suo nome nelle terre di Arda.

Ma il suo ricordo non perì del tutto. Poiché quando Tolkien rielaborò i suoi scritti, affinando la sua mitologia e rendendo più solido il tessuto narrativo del Silmarillion, il ruolo di Tevildo venne infine rimpiazzato da Sauron, la cui figura oscura avrebbe retto il vessillo del male per epoche a venire. Eppure, in quegli angoli dimenticati dei Racconti Perduti, ove risuonano ancora gli echi delle storie primigenie, il Principe dei Gatti continua a camminare, con passi silenziosi e occhi fiammeggianti, tra le ombre della leggenda.