La città proibita di Gabriele Mainetti è arrivato su Netflix, e lasciatevelo dire da un’appassionata nerd di pop culture come me: non avete davvero più scuse per non guardarlo. Seriamente, non potete. È uno di quei film che, nel bene o nel male, va visto, discusso, amato o odiato — ma ignorato, no. Perché La città proibita non è solo un film: è un atto di coraggio nel desolante paesaggio della cinematografia italiana, troppo spesso ingessata tra commedie fotocopia, drammi sociali e biopic dal respiro corto.
Gabriele Mainetti, per chi ancora non lo conoscesse (vergogna!), è il regista che ha sdoganato il superhero movie in salsa trasteverina con Lo chiamavano Jeeg Robot e che ha flirtato con l’epica circense e il fantasy storico in Freaks Out. Con La città proibita, il nostro eroe della regia italiana ha deciso di fare il passo più lungo della gamba — e ci è inciampato, ma lo ha fatto con uno stile e una faccia tosta che meriterebbero una standing ovation.
Il film racconta l’incontro tra Mei, una misteriosa ragazza cinese interpretata dalla straordinaria Liu Yaxi (stuntwoman di Liu Yifei nel live action di Mulan, mica pizza e fichi), e Marcello, un giovane cuoco romano, figlio di un ristoratore in bancarotta, incarnato da Enrico Borello, qui al suo debutto da protagonista. Siamo nel cuore pulsante e contraddittorio di Piazza Vittorio, a Roma, una babele di lingue, volti, odori e tensioni. Mei arriva nella Capitale alla ricerca della sorella scomparsa; Marcello, schiacciato dai debiti e dai fantasmi familiari (il padre Alfredo, interpretato da Luca Zingaretti, ha mollato tutto per un’altra donna), cerca un senso, una via d’uscita. Insieme si troveranno a fronteggiare il lato oscuro della città: criminalità, sfruttamento, razzismo, ma anche i propri demoni interiori.
A fare da cornice (o da detonatore) ci sono personaggi memorabili: Sabrina Ferilli nei panni di Lorena, la madre ferita ma non spezzata; Marco Giallini come Annibale, amico di famiglia e autentico bastardo, un razzista maschilista da manuale che ha un debole mai sopito per Lorena. Il mix di talenti italiani e internazionali dà vita a un film che sembra quasi un miracolo: il cinema italiano che osa fondere kung fu, noir, humour nero, pulp, romance e denuncia sociale, in un pastiche che altrove sarebbe considerato cool e qui da noi diventa quasi un azzardo esistenziale.
Mainetti, insieme agli sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino, ha firmato un’opera originale e spiazzante. Il titolo, che può far pensare al film omonimo di Zhang Yimou del 2006, in realtà si riferisce a quel luogo sospeso tra realtà e simbolismo, segretezza e rivelazione, che è al centro del racconto. Roma non è solo uno sfondo: è un organismo vivente, violento e poetico, che si trasforma in un’arena dove si combattono battaglie fisiche e morali.
E qui arriviamo alla nota dolente. Il film ha avuto un disastroso flop al botteghino: poco meno di 2 milioni di euro a fronte di un budget di 17 milioni. Colpa di Mainetti? Secondo me no. Colpa, piuttosto, di un marketing disastroso: trailer uscito tardi, promozione insipida, affidata a influencer poco convincenti e incapaci di comunicare il vero spirito del film. Una disfatta annunciata, che stride ancora di più se pensiamo a quanto bene fosse stato promosso Lo chiamavano Jeeg Robot ai tempi. Il pubblico italiano, diciamocelo, è spesso refrattario a queste operazioni coraggiose, preferendo lamentarsi della solita minestra riscaldata e poi ignorare chi cerca di fare qualcosa di diverso.
Eppure, in questo film c’è tutto quello che un nerd di pop culture potrebbe amare. Le coreografie di combattimento, ideate da Lian Yang (già fight coordinator di Deadpool & Wolverine), sono da togliere il fiato. Liu Yaxi è magnetica e regala a Mei una fisicità potente e struggente. I riferimenti nerd sono ovunque: dalla commedia all’italiana al cinema di Bruce Lee, passando per Kill Bill e persino Vacanze Romane. Mainetti ha dichiarato apertamente di venerare Tarantino, e si vede: la miscela di generi, i dialoghi sopra le righe, la violenza stilizzata, l’ironia amara, tutto rimanda al cinema postmoderno che gioca con le icone per raccontare storie umane.
Il Nastro d’Argento 2025 come Miglior Regia è un riconoscimento sacrosanto, ma non basta a consolare chi, come me, ha visto questo film come l’ennesima occasione persa per il nostro cinema. Perché, e lo dico senza peli sulla lingua, La città proibita è proprio quel tipo di film che “tutti dicono di volere ma poi non vanno a vedere”. Lo stesso pubblico che invoca originalità, che si lamenta dei sequel, dei remake, delle commedie da supermercato, poi al momento di mettere mano al portafogli sparisce.
Ora che il film è approdato su Netflix e in home video, però, le carte in tavola cambiano. È a portata di clic, accessibile a chiunque. Non ci sono più alibi. Vi piacciono le storie di redenzione, di vendetta, di amore e giustizia? Vi piacciono i film che mescolano mondi e culture, che parlano di identità, di appartenenza, di famiglie spezzate ma non distrutte? Siete curiosi di vedere cosa succede quando un regista italiano decide di sdoganare il kung fu nel nostro cinema? Allora buttatevi su La città proibita. Sarà perfetto? No. È imperfetto, sgangherato, a tratti eccessivo. Ma è vivo, pulsante, sincero. E in un panorama cinematografico dove spesso si gioca sul sicuro, questo è un valore inestimabile.
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