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The Legend of Zelda: il live action prende vita – e il web impazzisce

Un silenzio carico di tensione ha invaso il web pochi istanti prima che Nintendo sganciasse la bomba: le prime immagini ufficiali del film dedicato a The Legend of Zelda, il progetto cinematografico che più di ogni altro sta incendiando l’immaginazione dei fan. Bastano tre scatti per trasformare anni di speculazioni in qualcosa di concreto, quasi tangibile, come il primo bagliore dell’alba su Hyrule.

Il duo protagonista appare finalmente in versione cinematografica. Benjamin Evan Ainsworth presta il volto a Link, ritratto in un costume che sembra scolpito direttamente dall’iconografia classica della saga, con la tunica verde reinterpretata con eleganza e un’aura ruvida da guerriero errante. Bo Bragason, invece, incarna una Zelda sospesa tra regalità e delicatezza, avvolta in un abito che richiama i toni celesti e raffinati di Breath of the Wild. Sullo sfondo, un frammento delle selvagge vallate della Nuova Zelanda offre un primo assaggio dell’Hyrule che sta prendendo forma, scolpita tra montagne, vento e leggende.

Le immagini sembrano anche confermare la veridicità dei filmati trapelati nel weekend precedente, un dietro le quinte circolato freneticamente sui social e ora, di fatto, legittimato.


Nintendo punta al cinema: la nuova era delle sue leggende

Il progetto nasce da una visione chiara: portare sul grande schermo una delle saghe più amate e riconoscibili della storia del videogioco. Dopo l’enorme successo del film di Super Mario Bros., Nintendo ha deciso di alzare ulteriormente l’asticella, scegliendo non solo di produrre, ma di finanziare in modo significativo l’adattamento di Zelda. Un investimento massiccio, metà del quale coperto direttamente dalla casa di Kyoto, che testimonia un’ambizione nuova.

Per la prima volta, Nintendo entra in una collaborazione monumentale con Sony Pictures Entertainment, sfidando gli equilibri storici dell’industria. A guidare la regia troviamo Wes Ball, lo stesso cineasta che ha firmato la trilogia di Maze Runner e il recente Kingdom of the Planet of the Apes. La sua sensibilità per i mondi immensi, feroci e simbolici sembra il terreno ideale per trasformare la saga creata da Shigeru Miyamoto in una mitologia cinematografica.

Accanto a lui c’è Avi Arad, nome che i fan dei cinecomic conoscono da sempre. Vederlo collaborare fianco a fianco con Miyamoto non è semplicemente sorprendente: è quasi surreale. È la collisione di due forme di narrazione pop, due scuole diverse ma complementari che provano a forgiare un’epopea capace di parlare sia ai gamer sia a chi, per la prima volta, sentirà riecheggiare la parola Triforza in una sala cinematografica.


Bo Bragason e Benjamin Evan Ainsworth: le nuove icone di Hyrule

Gli appassionati stanno scandagliando ogni dettaglio del volto di Bo Bragason, cercando quella luminosità interiore che ha reso Zelda un simbolo di saggezza e resilienza. L’attrice, ancora poco nota al grande pubblico, si trova improvvisamente al centro di una discussione globale, come se l’intero fandom dovesse decidere, collettivamente, se sia lei la principessa che hanno immaginato fin dall’infanzia.

Per Ainsworth la sfida è diversa ma altrettanto titanica. Link non è un protagonista qualunque: è un eroe che comunica più con gli sguardi che con le parole. La sua forza narrativa sta nel silenzio, nel gesto, nel coraggio ostinato. Qualunque scelta faranno sceneggiatori e regista sulla sua eventuale voce sarà destinata a generare dibattito, teorie, passioni.


Le riprese tra le terre della Nuova Zelanda: Hyrule prende forma

La produzione è partita da poche settimane a Wellington, luogo che negli ultimi decenni è diventato sinonimo di fantasy cinematografico. Le colline cangianti, la luce tagliente e i paesaggi primordiali sembrano fatti apposta per trasformarsi in pianure, boschi e montagne di Hyrule. Il set rimarrà attivo fino ad aprile 2026, mentre l’uscita è fissata per il 7 maggio 2027, data che già vibra nei calendari degli appassionati come un rito laico collettivo.


Il mito riscritto per il grande schermo

Nintendo ha rilasciato la prima sinossi ufficiale del film, un testo che profuma di leggenda e richiama immediatamente la struttura narrativa classica della saga. Link, giovane guerriero destinato a proteggere il regno di Hyrule, affronta le forze oscure guidate da Ganon, tiranno assetato della Triforza, reliquia capace di piegare il destino stesso. Il viaggio dell’eroe passa attraverso dungeon, mostri, simboli antichi e prove spirituali che rappresentano, come in ogni capitolo della serie, un percorso di crescita prima ancora che un’odissea d’azione.

Ogni dettaglio riecheggia l’essenza di Zelda, quella miscela di avventura, contemplazione e malinconia che ha definito la saga da A Link to the Past fino a Tears of the Kingdom. La domanda che rimbalza tra le community è semplice e gigantesca: che volto avrà questa storia?


La sfida di Wes Ball: trasformare l’inesprimibile

Tradurre Zelda significa confrontarsi con un immaginario che vive nei movimenti del giocatore, nelle pause davanti a un tramonto, nelle melodie che emergono come ricordi di vite precedenti. Wes Ball dovrà trovare un equilibrio tra epica e intimità, senza cadere nella tentazione di trasformare Hyrule in un semplice scenario action.

C’è chi sogna un adattamento fedele di Ocarina of Time, chi invece brama le atmosfere mistiche di Twilight Princess. I fan di Breath of the Wild sperano in una narrazione più libera e dilatata. E altri ancora immaginano una storia completamente originale, in grado di riunire tutto senza tradire nulla.

Una cosa è certa: il film dovrà catturare quella sensazione particolare che solo Zelda sa offrire, quel momento sospeso in cui il vento sfiora le foglie e l’ombra di un mistero antico sembra chiamare per nome.


La febbre dei fan: teorie, fanart, hype

Il fandom sta vivendo l’attesa come un rituale. Ogni frame diffuso viene analizzato come un indizio, mentre le fanart esplodono sui social con migliaia di reinterpretazioni dei personaggi. YouTube si riempie di video-analisi che ricostruiscono timeline, connessioni, possibili rimandi ai vari giochi della serie.

Questo slancio collettivo è la dimostrazione di quanto Zelda sia più di un titolo. È un’eredità emotiva che accompagna generazioni diverse, un linguaggio condiviso che riesce a unire giocatori esperti, nuovi fan e chi, semplicemente, ama i grandi racconti epici.


Hyrule chiama: la community risponde

Ora la parola passa a voi, lettori di CorriereNerd.it. Quale versione di Zelda vorreste vedere sul grande schermo? Una principessa guerriera, una guida spirituale o un’eroina capace di unire forza e dolcezza? E Link: dovrebbe mantenere il suo silenzio iconico o parlare per la prima volta nella storia della saga?

Raccontateci la vostra visione nei commenti: il dibattito è già acceso e la community è pronta a costruire insieme l’attesa per il 7 maggio 2027.

Quel giorno, nelle sale di tutto il mondo, l’arpa di Zelda tornerà a vibrare. Le luci si abbasseranno, l’avventura inizierà e ognuno di noi sentirà di essere di nuovo lì, davanti alla stessa promessa antica: seguire il richiamo della Triforza e perdersi ancora una volta nei sentieri di Hyrule.

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Christopher Nolan porta The Odyssey al cinema: data, visione e mito. E noi nerd siamo già in mare aperto

Segnatela bene, come un simbolo inciso sulla prua della nave Argo o una profezia lasciata cadere dalle labbra della Sibilla: 17 luglio 2026. È la data in cui la cultura pop, il cinema e forse anche un pezzetto del nostro immaginario collettivo verranno riscritti da un uomo che ha fatto dell’impossibile un metodo, della complessità una forma d’arte, del tempo una materia da piegare come creta. Christopher Nolan torna e lo fa scegliendo il mito dei miti, la leggenda da cui è nata la narrazione occidentale, la storia che tutti conosciamo ma che nessuno ha mai visto così: The Odyssey. La rivelazione arriva dalle pagine di Empire, che svela in anteprima mondiale le prime immagini del nuovo kolossal del regista britannico, mostrandoci un Matt Damon-Odisseo che sembra uscito da un bassorilievo antico modellato però con la grinta granitica delle grandi epopee cinematografiche moderne. Dietro di lui, come un tuono fermo nel tempo, campeggia il gigantesco cavallo di Troia, costruito davvero, in legno e ferro, perché Nolan non si accontenta mai della percezione: vuole materia, peso, respiro.

Nolan, il mito e la leggenda: perché l’Odissea è la sua storia definitiva

Sono anni che ci chiediamo quale potesse essere il prossimo territorio inesplorato per un autore che ha già affrontato la guerra, lo spazio interstellare, i paradossi temporali e persino la nascita dell’era atomica. La risposta non è un semplice passo avanti, ma un salto quantico: il viaggio di Odisseo. Perché l’Odissea è un codice sorgente della nostra civiltà, uno dei primissimi open world della storia umana, un racconto che parla di astuzia, dolore, famiglia, desiderio, nostalgia, identità. Tutti temi che Nolan ha scomposto e ricomposto per vent’anni nei suoi film, quasi preparandosi, inconsciamente, a questo momento.

Se Interstellar chiedeva cosa significhi amare oltre il tempo, e Tenet cosa accade quando il tempo stesso diventa un campo di battaglia, l’Odissea domanda una cosa ancora più profonda e universale: che cos’è davvero il ritorno? Odisseo non vuole solo tornare a casa. Vuole ritrovare se stesso.

Un cast che sembra un’Olimpo costruito con le mani dei fan

Universal Pictures conferma un ensemble che farebbe tremare anche Zeus in persona. Matt Damon, alla sua performance forse più sfidante, è un Odisseo imponente, intelligente, stanco e irresistibilmente umano. Attorno a lui ruota un pantheon di volti che sembrano scelti direttamente da un fan con il potere di un dio: Charlize Theron, Zendaya, Robert Pattinson, Anne Hathaway, Jon Bernthal, Tom Holland, Mia Goth, Lupita Nyong’o e un mosaico di interpreti che disegnano un mondo vivo, brutale, seducente.

Tom Holland ha definito la sceneggiatura “la migliore che abbia mai letto”. Un’esagerazione? Forse. Ma quando si parla di Nolan, anche le iperboli sembrano improvvisamente modeste.

Empire svela le prime immagini: sabbia, legno, lacrime e destino

L’immagine più iconica, quella che Empire piazza in copertina come una dichiarazione di guerra cinematografica, mostra Odisseo fiero e ferito, illuminato da una luce che sembra quella dell’aurora sul Mediterraneo, con il cavallo di Troia che troneggia come un monumento a un inganno assoluto. La versione per abbonati, ancora più intrigante, ritrae guerrieri trascinare il colosso di legno sotto il mantello della notte, avvolti in un’atmosfera che profuma di fatalità e presagio.

Il fatto che il cavallo sia reale e non digitale è un dettaglio che ci dice tutto: Nolan vuole che lo spettatore senta la presenza della storia, che percepisca il legno, la corda, la fatica. Nessuna scorciatoia. Solo verità.

Due milioni di piedi di pellicola: Nolan porta l’IMAX oltre i limiti

Il regista conferma a Empire di aver girato oltre due milioni di piedi di pellicola, un numero che fa tremare sia i tecnici sia gli archivisti. Ogni inquadratura è stata catturata con macchine IMAX di ultima generazione, alleggerite e modificate appositamente per affrontare location in giro per il mondo, dal Mediterraneo all’Atlantico, passando per deserti, scogliere, isole e villaggi costruiti da zero.

Non è solo un film girato in IMAX. È un film pensato per l’IMAX, costruito come un’esperienza immersiva totale, quasi rituale. L’epica non è più solo raccontata. È vissuta.

Le creature, gli dei, il soprannaturale: Nolan non fugge dal mito, lo abbraccia

La cosa forse più sorprendente è che Nolan non intende “razionalizzare” il mito. Non avremo ciclopi spiegati scientificamente o sirene reinterpretate come metafore psicologiche. Ci saranno davvero. O almeno, saranno trattate come entità che Odisseo percepisce come reali, in tutta la loro potenza, ambiguità e magnificenza.

È qui che Nolan torna al suo lato più magico, quello di The Prestige e Inception: non dice mai apertamente se un fenomeno è letterale o simbolico. Lascia che sia lo spettatore a decidere. L’Odissea sembra essere un terreno perfetto per questa poetica dell’incertezza.

Un viaggio geografico, emotivo e culturale

Le riprese hanno attraversato Grecia, Marocco, Italia, Malta, Islanda e Scozia, inseguendo paesaggi che sembrano nati per ospitare la leggenda. Un turismo cinematografico che, però, non ha il sapore della cartolina, ma quello della ricerca antropologica. La sabbia è sporca e ruvida, i venti sono taglienti, i mari non perdonano. È come se Nolan avesse voluto restituire la fisicità dell’antico mondo mediterraneo, con le sue luci spietate, i suoi silenzi e le sue tempeste improvvise.

Il ritorno dell’epica nel contemporaneo: perché “The Odyssey” potrebbe riscrivere le regole

Viviamo un’epoca in cui il cinema è spesso intrappolato tra franchise, sequel, prequel, universi condivisi e algoritmi predittivi. Il fatto che un autore come Nolan scelga di adattare un poema epico antico di quasi tremila anni ha il sapore di una rivoluzione gentile ma potentissima. L’Odissea è già stata raccontata in mille modi, ma mai con la sensibilità filosofica e tecnologica del regista di Tenet, né con la voglia di rimettere l’uomo, il mito, la famiglia e il destino al centro della scena.

È un aggiornamento del firmware dell’immaginario collettivo. È un reset. È un ritorno alle origini per spingere di nuovo in avanti tutto il cinema.

E ora, nerd della community: quale sarà la scena che aspettate di più?

La magia dell’attesa vive anche qui, tra queste righe e nei vostri commenti. Quale sarà il momento che vi farà tremare la sala? L’attacco del Ciclope? L’incanto di Circe? Il canto delle Sirene che inchioda al destino? Il riconoscimento finale tra Odisseo e Penelope, una delle sequenze emotive più potenti della storia dell’umanità?

Io ho già la pelle d’oca.

Raccontatecelo nei commenti, condividete le vostre teorie, le fan-cast alternative, i collegamenti nerd tra Omero e i videogiochi, gli anime, le saghe epiche moderne. Qui, su CorriereNerd.it, la navigazione non finisce mai. E mentre aspettiamo il 17 luglio 2026, possiamo fare quello che l’epica ci insegna da tremila anni: sognare insieme.

Perché Itaca non è un luogo. È una promessa.

Ebenezer: A Christmas Carol – Ian McKellen e Johnny Depp riscrivono Dickens nel dark fantasy di Ti West

Quando la letteratura immortale incontra il cinema d’autore più visionario, nascono opere che sembrano appartenere a un universo parallelo. E stavolta quel mondo alternativo prende forma nel gelo vittoriano di Ebenezer: A Christmas Carol, la nuova rilettura del classico di Charles Dickens prodotta da Paramount Pictures. È ufficiale: dopo settimane di rumor, Johnny Depp è in trattative finali per vestire i panni di Ebenezer Scrooge, mentre Ian McKellen è entrato ufficialmente nel cast, suggellando un incontro che ha già scatenato brividi e hype tra cinefili e appassionati di cultura gotica. Ma non si tratta dell’ennesimo adattamento natalizio: questa è la versione che promette di riportare alla luce — o forse nelle tenebre — l’anima più tormentata, umana e spettrale del capolavoro dickensiano.

Il fantasma di Dickens sotto la lente di Ti West

Ti West, nome culto per chi ama l’horror psicologico e le atmosfere retrò, è la chiave di volta del progetto. Dopo aver riscritto le regole del cinema di paura con la trilogia composta da X, Pearl e MaXXXine, il regista americano si prepara a varcare una nuova soglia: quella che separa il gotico vittoriano dal thriller metafisico. A Christmas Carol, nelle sue mani, diventa un viaggio nella mente umana, una discesa tra colpa e redenzione che mescola spiritualismo, incubo e poesia.

La sceneggiatura è firmata da Nathaniel Halpern, mente dietro Legion e Tales from the Loop, due serie che hanno ridefinito i confini tra fantascienza e introspezione. Halpern non intende limitarsi a ripercorrere le tappe del racconto originale, ma a scavare nelle pieghe dell’animo di Scrooge, trasformando i fantasmi del Natale Passato, Presente e Futuro in manifestazioni di un trauma personale, quasi psicoanalitiche. Il risultato promesso è un film che vibra come una seduta spiritica collettiva, capace di far risuonare la voce di Dickens attraverso la sensibilità perturbante di West.

Johnny Depp: il ritorno di un’anima perduta

Per Johnny Depp, Ebenezer rappresenta molto più di un ruolo: è una rinascita simbolica. Dopo anni di ombre e controversie, l’attore torna al centro della scena mondiale con un personaggio che sembra cucito su misura per lui. Scrooge è un uomo divorato dal rimorso, dall’isolamento, dalla paura di amare — temi che risuonano profondamente nel percorso artistico e personale di Depp. La sua interpretazione potrebbe unire la ferocia di Sweeney Todd alla malinconia onirica del Jack Sparrow più umano, restituendoci un attore che ha sempre saputo trasformare l’oscurità in arte.

Accanto a lui, la presenza di Ian McKellen aggiunge un’aura quasi mitologica. Non è difficile immaginarlo nei panni di uno degli spiriti, o forse in un ruolo inedito, sospeso tra guida e giudice. La sua voce, capace di attraversare epoche e dimensioni, sarà la bussola morale di un film che vuole parlare al cuore ma anche alla paura più primitiva.

E nel cast si aggiunge anche Andrea Riseborough, già candidata all’Oscar per To Leslie, attrice camaleontica che incarna quella sottile linea tra empatia e follia che tanto piace a West. Un trio d’eccezione per un racconto che non teme di ribaltare l’immaginario natalizio.

Il Canto di Natale come horror esistenziale

Quella di Dickens è una storia che appartiene alla memoria collettiva: un uomo avaro che, nella notte più lunga dell’anno, affronta i fantasmi del proprio passato per riscoprire il valore della compassione. Ma sotto la patina morale del racconto originale si nasconde un’anima gotica, quasi horror. Dickens parlava di spettri, di rimorsi, di redenzione — e lo faceva in un’Inghilterra che viveva tra rivoluzione industriale e disuguaglianze sociali, dove i fantasmi erano metafore reali. West sembra voler riportare in superficie proprio quella materia oscura: la paura della solitudine, la colpa, la perdita dell’umanità.

Il Natale di Ebenezer non sarà fatto di luci e fiocchi di neve, ma di ombre, fumo, nebbia e candele tremolanti. Una Londra che sembra uscita da un incubo di Hieronymus Bosch, dove i fantasmi non bussano alla porta, ma vivono nelle crepe della coscienza. Eppure, tra tanta oscurità, il messaggio rimane quello di sempre: la possibilità di cambiare, di salvarsi, anche all’ultimo istante.

Una sfida tra autori del terrore

Come se non bastasse, Ebenezer: A Christmas Carol si prepara a competere con un altro progetto in arrivo: una versione firmata da Robert Eggers, regista di The Lighthouse e Nosferatu, che potrebbe avere Willem Dafoe nel ruolo di Scrooge. Due maestri del cinema d’autore, due visioni complementari: l’uno più mistico e simbolico, l’altro più realistico e psicanalitico. Una doppia rivisitazione del mito che renderà il 2026 un anno cruciale per gli amanti del dark fantasy e dell’horror filosofico.

La sfida tra West ed Eggers, tra Depp e Dafoe, tra Paramount e Warner, promette di essere una delle più intriganti nella storia recente del cinema. Una sorta di “duello tra spettri” dove a vincere sarà, forse, chi saprà restituire al pubblico non solo la paura, ma anche la meraviglia.

Un nuovo classico per la cultura pop gotica

Dietro la produzione troviamo Emma Watts, garanzia di equilibrio tra qualità autoriale e appeal mainstream. L’uscita americana è fissata per il 13 novembre 2026, in tempo per trasformare il film in un evento pre-natalizio di risonanza globale. Se tutto andrà come previsto, Ebenezer: A Christmas Carol potrebbe diventare il nuovo punto di riferimento per un pubblico che ama le storie dove l’horror incontra la poesia, e dove la redenzione è un atto di coraggio interiore più che un miracolo.

E allora, preparatevi a un Natale diverso, più inquieto e più vero, in cui le catene che tintinnano nella notte non sono solo quelle di Marley, ma anche le nostre. Johnny Depp e Ti West ci invitano a guardarci dentro, a scendere nel gelo per ritrovare il calore.

Perché in fondo, come scriveva Dickens, “non c’è nulla al mondo di più inaridito di un cuore che non sa più donare”.


E voi, cari lettori di CorriereNerd.it, siete pronti a tornare nel regno degli spiriti con Johnny Depp? Vi affascina di più la visione oscura di Ti West o quella ultrarealista che promette Robert Eggers? Raccontatecelo nei commenti e unitevi alla discussione sui nostri canali social ufficiali: Instagram, Threads, Telegram e Facebook.
Il confronto tra appassionati è il cuore pulsante della nostra community — e ogni opinione è una scintilla che tiene accesa la magia del Natale… anche quello più oscuro.

Resident Evil: il ritorno dell’incubo – il reboot Sony arriva al cinema nel 2026

C’è qualcosa di ironico nel fatto che Resident Evil, il franchise più virale della storia del videogioco, continui a risorgere come una delle sue stesse creature. Ogni volta che pensiamo di aver chiuso la porta della Spencer Mansion per sempre, ecco che qualcuno la riapre. Stavolta tocca a Sony Pictures, che ha annunciato ufficialmente la data d’uscita del reboot cinematografico: 18 settembre 2026, una scelta non casuale che coincide con il 30° anniversario del primo capitolo Capcom. E sì, sarà di nuovo Raccoon City a diventare teatro dell’incubo, innevata e spettrale come mai prima d’ora. Le prime foto dal set, scattate a Praga, mostrano interi quartieri trasformati nella città simbolo del disastro Umbrella: autobus con targhe del Colorado, auto della polizia, vetrine abbandonate e una coltre di neve artificiale che amplifica il senso di isolamento. Dietro la macchina da presa troviamo Zach Cregger, già autore del disturbante Barbarian e del recente Weapons. Il suo nome non è una semplice scelta di stile: è una dichiarazione d’intenti. Cregger vuole riportare Resident Evil alle sue radici survival horror, restituendogli quella paura claustrofobica e quella tensione psicologica che i film di Paul W.S. Anderson avevano sostituito con fiumi di proiettili e acrobazie digitali.


Un ritorno alle origini (senza nostalgia sterile)

“Non voglio raccontare la storia di Leon o Jill, quella esiste già nei giochi”, ha dichiarato Cregger in un’intervista a Variety. “Il mio film sarà fedele alla lore, ma racconterà qualcosa di completamente nuovo”.

Una frase che suona come una presa di posizione netta contro il fan service vuoto. Resident Evil (2026) non sarà un remake né una cronaca di eventi noti, ma una storia inedita immersa nello stesso universo narrativo. Un mondo in cui l’Umbrella Corporation continua a giocare con la biotecnologia e l’etica, e in cui l’orrore nasce prima di tutto dal controllo e dalla manipolazione.

La pellicola promette quindi un equilibrio tra rispetto e rinnovamento, e questa potrebbe essere la chiave del successo. Dopo l’esperimento del 2021, Welcome to Raccoon City, che cercò di comprimere due giochi in novanta minuti con risultati modesti, Sony punta a un approccio più autoriale e più atmosferico.


Sony contro tutti: la guerra dei diritti

Il ritorno di Resident Evil non è stato un percorso lineare. Per assicurarsi il franchise, Sony ha dovuto combattere su più fronti, evitando che colossi come Warner Bros. e Netflix ne acquisissero i diritti. Una mossa che dimostra quanto la saga Capcom resti ancora un asset culturale e commerciale di enorme valore.

Dal debutto del primo gioco nel 1996, Resident Evil ha ridefinito l’horror videoludico e ispirato generazioni di sviluppatori, artisti e registi. I nomi di Leon S. Kennedy, Jill Valentine e Chris Redfield sono diventati archetipi, eroi tragici in un mondo dove la scienza ha superato la morale.

Eppure, il nuovo film farà a meno di loro: Cregger preferisce esplorare nuovi personaggi, nuovi orrori, nuove prospettive. “Il terrore nasce quando non conosci le regole”, ha spiegato in un panel a Los Angeles. “E voglio che lo spettatore torni a sentirsi vulnerabile, proprio come la prima volta che ha varcato la porta della villa Spencer.”


La squadra dietro l’incubo

A scrivere la sceneggiatura, insieme a Cregger, c’è Shay Hatten, già autore di John Wick 4 e Army of the Dead: due garanzie di ritmo e tensione visiva. La produzione coinvolge Vertigo Entertainment, PlayStation Productions e Constantin Film, la stessa casa che produsse la saga con Milla Jovovich.

Il presidente di Sony Pictures Motion Picture Group, Sanford Panitch, ha definito Cregger “uno dei registi emergenti più promettenti” e l’unico capace di “ridare vita a un franchise che si era trasformato in un cadavere ambulante”. Una definizione perfettamente in linea con lo spirito del progetto.


Un’eredità di sangue e pixel

Dal 2002 al 2016, i sei film diretti da Paul W.S. Anderson hanno incassato oltre 1,2 miliardi di dollari, consacrando Resident Evil come la saga videoludica più redditizia di sempre. Ma il prezzo fu alto: nel passaggio dal videogioco al cinema, l’essenza del survival horror si diluì in una spettacolarità ipertrofica, più vicina a Matrix che a Capcom.

Negli anni successivi, il franchise ha continuato a vivere attraverso serie animate, film CGI come Resident Evil: Death Island (2023) e reboot vari, ma senza mai ritrovare quella miscela di paura e curiosità che aveva reso il titolo originale un’esperienza quasi sensoriale.

Cregger, in questo senso, si trova davanti alla missione più difficile: riportare la paura vera. Quella fatta di passi che si avvicinano nel silenzio, di munizioni contate, di porte che scricchiolano troppo lentamente.

Vuole un horror intimo, non pirotecnico; un incubo che non esplode, ma si insinua.


L’incubo secondo Cregger

Le riprese notturne, previste tra il 29 ottobre e il 2 novembre, dalle 15 alle 3 del mattino, sembrano un manifesto estetico. Lavorare nel buio, nella neve finta e tra le luci spente di una città fantasma, è quasi un rituale per evocare l’atmosfera giusta.

Secondo i rumor, Cregger avrebbe chiesto agli attori di girare alcune scene senza colonna sonora, per enfatizzare il suono ambientale: il vento che fischia tra i vicoli, i passi sull’asfalto ghiacciato, il ronzio elettrico delle insegne. Tutto contribuisce a restituire quella sensazione di isolamento e minaccia costante che definisce Resident Evil da quasi trent’anni.


Un rischio (e una speranza) da 30 anni

Il reboot di Resident Evil è più di un nuovo film: è un esperimento di memoria collettiva. Un tentativo di riscoprire la paura nell’era degli effetti speciali onnipresenti.

Il 18 settembre 2026, quando le luci in sala si spegneranno, non vedremo solo l’ennesimo adattamento da videogioco: assisteremo a un ritorno alle origini dell’orrore, un viaggio nella mente di chi ha imparato che la curiosità può essere letale e che aprire una porta, a volte, è la peggiore delle scelte.

E tu? Sei pronto a tornare a Raccoon City?
Scrivilo nei commenti… ma ricordati: la Umbrella osserva sempre.

100 Nights of Hero: la fiaba queer che riscrive Le Mille e una Notte

C’è un filo invisibile che attraversa i secoli e le culture, unendo le leggende orientali di Le Mille e una Notte alle graphic novel contemporanee e al cinema più visionario. Quel filo oggi prende forma in 100 Nights of Hero, il film scritto e diretto da Julia Jackman che trasporta sul grande schermo l’universo creato da Isabel Greenberg, una delle voci più originali del fumetto britannico.
Presentato in anteprima mondiale alla Settimana Internazionale della Critica dell’82ª Mostra del Cinema di Venezia, 100 Nights of Hero si preannuncia come una delle opere più sorprendenti e divisive del 2025: una fiaba queer e femminista, un mosaico di storie che si intrecciano come fili di seta e sangue.

Il romanzo grafico di Greenberg – pubblicato nel 2016 e rapidamente diventato un cult tra gli appassionati di fumetto d’autore – era già una dichiarazione d’intenti: un racconto sul potere della narrazione come strumento di libertà. Con illustrazioni che ricordano l’arte medievale e un tono insieme ironico e commovente, The One Hundred Nights of Hero reinterpretava il mito di Sherazade da una prospettiva tutta femminile, in cui il racconto diventa resistenza, la parola un’arma, la memoria un atto politico. Julia Jackman, regista e sceneggiatrice britannica al suo primo grande progetto internazionale, ha deciso di ampliare quell’universo visivo e concettuale portandolo nel linguaggio del cinema, trasformando la graphic novel in una vera e propria space opera gotica e sensuale, a metà tra Poor Things di Yorgos Lanthimos e The Love Witch di Anna Biller.

Un cast da sogno, un amore proibito

Nel regno del dispotico Birdman, la giovane Cherry (interpretata da Maika Monroe) vive intrappolata in un matrimonio infelice con Jerome (Amir El-Masry). L’unica luce nella sua esistenza è Hero (Emma Corrin), la sua serva e amica, membro della Lega delle Segrete Narratrici, una società che tramanda le storie dimenticate delle donne cancellate dalla Storia.
Quando Jerome parte per un lungo viaggio, Cherry viene affidata alle “cure” di Manfred (Nicholas Galitzine), un uomo affascinante e pericoloso, con cui il marito ha scommesso che riuscirà a sedurla in cento notti. Ma Cherry e Hero nascondono un segreto: sono innamorate. E attraverso cento notti di racconti, bugie e incantesimi, trasformano il desiderio in difesa, la parola in rivolta, il corpo in libertà.

Accanto a loro un cast che mescola star hollywoodiane e icone pop: Richard E. Grant nei panni del misterioso Birdman, Charli XCX nel suo debutto cinematografico come musa lunare e Felicity Jones come voce narrante, incarnazione della Luna stessa. Un ensemble che unisce eleganza, ironia e una certa dose di follia estetica, in perfetto equilibrio tra cinema d’autore e cultura geek.

Una produzione audace e visivamente rivoluzionaria

Le riprese, durate poco più di un mese tra settembre e ottobre 2024, si sono svolte interamente nel Regno Unito. La fotografia ipnotica di Xenia Patricia e le musiche di Oliver Coates – già collaboratore di Mica Levi – creano un universo sospeso tra sogno e incubo, dove ogni colore, suono e movimento evocano la potenza della narrazione orale.
Il montaggio firmato da Amélie Labrèche e Oona Flaherty dona ritmo e fluidità a un’opera che alterna momenti di lirismo contemplativo a sequenze di sensualità esplicita, ma sempre poetica.
È un film che non chiede di essere compreso, ma sentito. Un racconto che si muove per immagini simboliche, citazioni letterarie e stratificazioni visive, mantenendo intatta la sua anima fumettistica.

La prima mondiale del 6 settembre 2025 alla Mostra del Cinema di Venezia ha confermato le aspettative: standing ovation di oltre dieci minuti e recensioni entusiaste da parte della critica più attenta alle nuove voci del cinema femminile.
Non è solo un film: è un manifesto. 100 Nights of Hero parla di sorellanza, memoria e libertà attraverso una lente fantastica, invitando lo spettatore a riflettere su quanto le storie – vere o inventate – possano ancora cambiare il mondo.

La distribuzione nelle sale statunitensi inizierà il 5 dicembre 2025, ma l’eco di questa “nuova Sherazade queer” si è già propagata in rete, alimentata da fanart, discussioni e teorie che legano il film al movimento delle narrazioni femministe contemporanee.

Le storie come resistenza

Come la Sherazade delle origini, Cherry e Hero non combattono con la spada, ma con la voce. Le loro storie diventano scudi, le parole spade di luce contro l’oblio.
Jackman ci ricorda che ogni racconto è un atto di resistenza, che ogni voce femminile strappata al silenzio è una rivoluzione in miniatura. È un messaggio che risuona potente in un’epoca in cui le fiabe sembrano aver perso il coraggio di essere sovversive.

E allora sì, forse 100 Nights of Hero è davvero la nuova Le mille e una notte del nostro tempo: queer, punk, poetica e politicamente esplosiva.

Il resto – le altre novantanove notti – lo scopriremo insieme, sotto la luce mutevole della Luna.


E voi, nerd romantici e sognatori di storie, vi lascerete ipnotizzare da questo intreccio di amore, parola e rivoluzione?
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Nintendo punta alle stelle: in arrivo il film di Metroid Prime

C’è fermento nei corridoi di Kyoto. Dopo il successo colossale di Super Mario Bros. – Il Film e l’annuncio ufficiale del live action dedicato a The Legend of Zelda, Nintendo sembra pronta a compiere un nuovo, audace passo nel suo piano di espansione cinematografica. Secondo l’insider Daniel Richtman, la casa di Kyoto avrebbe messo in moto la macchina dei sogni per portare Metroid Prime sul grande schermo. Un progetto ancora avvolto nel mistero, ma sufficiente a scatenare il delirio dei fan: il ritorno di Samus Aran, la più enigmatica e potente cacciatrice di taglie dei videogiochi, potrebbe essere più vicino di quanto pensiamo. Nintendo, del resto, ci sta prendendo gusto. Dopo anni di prudente silenzio, la compagnia guidata da Shuntaro Furukawa ha finalmente aperto il suo sterminato universo videoludico a Hollywood. E se Super Mario Bros. ha portato a casa oltre un miliardo di dollari, il futuro promette ancora di più: Zelda è atteso per il 2027, ma tra le stelle si profila ora un’altra leggenda, fatta di solitudine, terrore cosmico e introspezione.

Samus Aran, l’eroina che sfida il vuoto

Per capire l’importanza di questo annuncio, bisogna tornare indietro nel tempo, al 1986. In quell’anno, Metroid per NES cambiava le regole del gioco, introducendo un’eroina silenziosa e letale in un universo infestato da alieni. Samus Aran, con la sua iconica Power Suit e il cannone integrato nel braccio, divenne presto un simbolo di forza e mistero. Ma fu Metroid Prime, nel 2002, a rivoluzionare davvero la serie: l’ingresso nella terza dimensione trasformò il titolo in un capolavoro atmosferico, a metà tra l’avventura e l’horror spaziale.

Il giocatore si ritrovava nei panni — o meglio, nell’armatura — di Samus su Tallon IV, un pianeta desolato e tossico in cui il Phazon, una sostanza mutagena, aveva corrotto ogni forma di vita. La missione? Fermare i Pirati Spaziali e distruggere la fonte del male prima che il contagio si espandesse nell’universo. Ogni passo era un misto di tensione e meraviglia: le rovine dei Chozo, le grotte infuocate di Magmoor, le distese gelate di Phendrana, le miniere intrise di follia e metallo. L’intera esperienza sembrava gridare cinema, con la sua regia implicita, la colonna sonora sospesa tra inquietudine e sacralità e quell’aura di mistero che ancora oggi fa scuola.

Un film tra fantascienza e orrore esistenziale

Ecco perché l’idea di un film su Metroid Prime appare tanto naturale quanto rischiosa. Nintendo, che da sempre protegge i propri brand come reliquie sacre, sa bene che Samus Aran non è solo una protagonista d’azione: è una figura complessa, solitaria, capace di incarnare paure e desideri ancestrali. Un’eroina che guarda il cosmo e vi trova il riflesso della propria umanità.

Il potenziale cinematografico è enorme. Metroid Prime non è solo un videogioco, ma una discesa nella psiche, un viaggio sensoriale che mescola le suggestioni di Alien, Blade Runner e 2001: Odissea nello Spazio. Portarlo sullo schermo significherebbe aprire un nuovo capitolo per Nintendo, più maturo, più oscuro, forse persino autoriale. Se Super Mario rappresenta la gioia dell’avventura e Zelda la poesia dell’epica, Metroid è il lato silenzioso e claustrofobico dell’esplorazione.

Non è un caso che molti fan abbiano da tempo un nome in mente per interpretare Samus: Brie Larson. L’attrice premio Oscar per Room e già volto di Captain Marvel non ha mai nascosto la sua passione per il personaggio, arrivando perfino a dichiarare pubblicamente di volerlo interpretare. Il suo carisma, unito all’esperienza nei ruoli d’azione e alla sensibilità emotiva, la renderebbe una candidata perfetta per incarnare la solitudine glaciale di Samus.

Nintendo e il cinema: una nuova era

Con Metroid Prime, Nintendo si spingerebbe in un territorio ancora inesplorato: quello del film per un pubblico adulto. Dopo la partnership con Universal per Mario e l’accordo con Sony Pictures per Zelda, la compagnia sembra determinata a diversificare il tono e lo stile dei propri adattamenti. E se l’universo di Samus Aran dovesse davvero approdare al cinema, potremmo assistere al primo vero esperimento di space horror firmato Nintendo.

Non si tratta solo di espandere un marchio, ma di ridefinire l’identità stessa del colosso giapponese. Shigeru Miyamoto, in un’intervista del 2023, aveva già anticipato che “non c’è dubbio” sul fatto che Nintendo stesse considerando diversi progetti cinematografici. Parole che oggi suonano come un manifesto d’intenti: la “Disney del gaming” vuole diventare anche una potenza narrativa transmediale, capace di dominare non solo console e giocattoli, ma anche il grande schermo.

L’attesa tra hype e mistero

Per ora non ci sono dettagli ufficiali su regia, cast o sceneggiatura. Ma il solo pensiero di un film dedicato a Metroid Prime basta a far tremare i polsi agli appassionati. Sarà un live action o un film d’animazione in stile Arcane? Vedremo Ridley e i Pirati Spaziali prendere vita in CGI iperrealista? E soprattutto: riuscirà il film a catturare quella sensazione di isolamento, di respiro sospeso tra la scoperta e la paura, che ha reso immortale il gioco?

Nintendo ci ha abituati a lunghe attese, ma anche a ricompense memorabili. E se il destino di Samus Aran dovesse davvero incrociare quello di Hollywood, potremmo trovarci davanti a qualcosa di straordinario. Un nuovo modo di intendere il cinema videoludico, dove la luce del blaster si confonde con quella delle stelle.

Nel frattempo, noi nerd restiamo in orbita, pronti a intercettare ogni nuovo segnale dal pianeta Tallon IV. Perché, diciamocelo: se qualcuno può riportare l’epicità silenziosa di Metroid Prime sul grande schermo… quella è solo Nintendo.

 

Something Is Killing the Children: Blumhouse porta il capolavoro horror di Tynion e Dell’Edera sul grande schermo (e in animazione)

Nel silenzio tagliente di una notte americana, tra le pagine intrise d’inchiostro e paura di Something Is Killing the Children, si sente un brivido nuovo: quello del cinema. Dopo anni di attesa, il capolavoro horror firmato da James Tynion IV e Werther Dell’Edera — edito da BOOM! Studios — è pronto a prendere vita grazie a Blumhouse Productions, la fabbrica degli incubi che ci ha regalato Get Out, The Black Phone e Five Nights at Freddy’s. Ma questa volta Jason Blum non si accontenta di un solo mondo: l’adattamento sarà doppio, con un film live-action e una serie animata per adulti sviluppati in parallelo.

Una mossa ambiziosa, degna di una saga che ha riscritto le regole del terrore contemporaneo. Perché Something Is Killing the Children non è solo una storia di mostri — è una ferita aperta, un grido che parla di perdita, paura e speranza.


La nascita di un cult

Pubblicata dal 2019 da BOOM! Studios e arrivata in Italia grazie a Edizioni BD, la serie nasce dall’incontro tra tre menti visionarie: James Tynion IV, lo sceneggiatore statunitense che ha lasciato il segno su Batman e The Department of Truth; Werther Dell’Edera, illustratore italiano dal tratto tagliente e cinematografico; e Miquel Muerto, colorista spagnolo capace di trasformare il buio in materia viva.

Inizialmente pensata come una miniserie di cinque numeri, Something Is Killing the Children è diventata un fenomeno globale grazie a un pubblico che non ne ha mai abbastanza di Erica Slaughter, la misteriosa cacciatrice di mostri dal mantello nero e dallo sguardo glaciale.

La trama, tanto semplice quanto viscerale, ruota attorno alla cittadina di Archer’s Peak, dove i bambini scompaiono e quelli che tornano raccontano storie impossibili: ombre con denti, presenze che divorano, adulti che non vogliono credere. Solo Erica ascolta. Solo lei vede. E solo lei può uccidere ciò che vive nel buio.


Dalla carta al sangue digitale

L’universo di Something Is Killing the Children era già finito nel mirino di Netflix, che nel 2021 aveva annunciato una serie TV curata da Mike Flanagan (Hill House, Midnight Mass). Ma divergenze creative hanno fatto deragliare il progetto, fino all’arrivo del duo Baran bo Odar e Jantje Friese — i creatori di Dark e 1899 — chiamati a ridare forma all’incubo.

Poi, nell’ottobre 2025, il colpo di scena: Blumhouse Productions entra in scena, acquisendo i diritti per sviluppare contemporaneamente un film live-action e una serie animata per adulti. Una scelta che promette di esplorare il mondo di Archer’s Peak da prospettive diverse — il realismo sporco del cinema da un lato, l’iperbole visiva e simbolica dell’animazione dall’altro.

Tynion IV e Dell’Edera saranno entrambi coinvolti nella produzione: James supervisionerà la serie animata come showrunner, mentre Werther si occuperà del design visivo e dell’atmosfera estetica. Jason Blum, CEO e fondatore di Blumhouse, produrrà il film insieme a Shaun Sutton e Ryan Turek, mentre Stephen Christy e Tynion rappresenteranno BOOM! Studios e Penguin Random House.


Parole da brivido

“È facile capire perché pubblico e critica abbiano amato Something Is Killing the Children,” ha dichiarato Jason Blum. “Tynion e Dell’Edera hanno creato un mondo che scava nelle nostre paure più profonde, regalandoci un’eroina che tutti vorremmo al nostro fianco quando cala il buio.”

Tynion, dal canto suo, non ha nascosto l’emozione: “Questo fumetto ha cambiato la mia vita. Trovare un partner come Blumhouse, che comprende davvero l’essenza del nostro universo, è un sogno. Nessuno sa raccontare l’orrore meglio di loro.”


Il futuro del massacro

Con il film e la serie in lavorazione, il franchise non accenna a fermarsi. BOOM! Studios ha appena annunciato Fall of the House of Slaughter, un nuovo arco narrativo che farà da ponte verso l’uscita del cinquantesimo numero prevista per il 2026.
Un traguardo storico per una saga che, in pochi anni, è passata da esperimento di nicchia a simbolo di una nuova generazione di horror autoriale.

E non c’è da stupirsi: Something Is Killing the Children è un racconto che parla della paura di non essere creduti, dell’oscurità che si nasconde nei luoghi più familiari, della necessità di guardare dentro l’abisso — e sopravvivere per raccontarlo.

Blumhouse, con la sua estetica spietata e il suo istinto per l’horror psicologico, sembra la casa perfetta per dare a Erica Slaughter un volto, una voce e, soprattutto, un coltello affilato con cui squarciare la notte.

Sleeping Dogs: Simu Liu riaccende la speranza per il film ispirato al cult videoludico di Hong Kong

Hollywood non ha mai smesso di flirtare con il mondo dei videogiochi, ma negli ultimi anni la relazione è diventata sempre più seria. Dopo The Last of Us e Sonic the Hedgehog, un altro titolo amatissimo potrebbe finalmente fare il grande salto sul grande schermo: Sleeping Dogs.
E stavolta a guidare il progetto è una star che i fan Marvel conoscono molto bene: Simu Liu, l’eroe di Shang-Chi nel MCU. L’attore ha infatti rivelato che la prima bozza della sceneggiatura dell’adattamento cinematografico è pronta, confermando che la trasposizione del videogioco open world del 2012 non è solo un sogno nel cassetto.

Dalle strade di Hong Kong a Hollywood

Quando Sleeping Dogs uscì nel 2012, non fu un semplice clone orientale di Grand Theft Auto, ma una sorpresa travolgente. Ambientato tra le luci e le ombre di una Hong Kong iperrealistica, raccontava la doppia vita di Wei Shen, un agente di polizia sotto copertura infiltrato nelle Triadi.
Il gioco miscelava parkour, combattimenti di arti marziali, inseguimenti in moto e una narrazione noir degna dei migliori film di John Woo. Un titolo che, pur ricevendo ottime recensioni e conquistando un pubblico di culto, non riuscì a ottenere il successo commerciale sperato. Il fallimento economico decretò la fine della serie, lasciando i fan orfani di un sequel e con la speranza che almeno il cinema potesse raccoglierne l’eredità.

Quella speranza sembrava concretizzarsi nel 2017, quando Donnie Yen — icona del cinema action asiatico e protagonista di Rogue One: A Star Wars Story — era stato scelto per interpretare Wei Shen. Il progetto, però, si arenò senza preavviso, travolto da anni di silenzi e rinvii. Fino a oggi.

Simu Liu prende in mano le redini del progetto

Nel 2024, Simu Liu ha deciso di riaccendere la fiamma. Sul suo profilo X (ex Twitter) ha pubblicato una foto che mostra la sceneggiatura ufficiale di Sleeping Dogs, accompagnata da un messaggio inequivocabile: la prima bozza è completata e pronta per la revisione.
Un dettaglio interessante? Il nome dello sceneggiatore è stato oscurato. Potrebbe trattarsi di un colpo di scena, magari un regista o uno sceneggiatore di fama coinvolto in gran segreto nel progetto.

La scelta di Liu come protagonista non è casuale: l’attore, reduce dalle riprese di Avengers: Doomsday, ha più volte dichiarato la sua volontà di produrre il film personalmente, spinto da un sincero amore per il videogioco. E non c’è dubbio che le sue abilità nelle arti marziali e il carisma già mostrato in Shang-Chi possano renderlo il candidato ideale per incarnare la duplice natura di Wei Shen: poliziotto e criminale, eroe e antieroe, luce e ombra della stessa città.

Un adattamento che può (finalmente) funzionare

Ma Sleeping Dogs non è un progetto semplice. Come molti adattamenti videoludici, il rischio principale è tradurre male l’esperienza di gioco: l’azione senza il pathos, il ritmo senza la tensione narrativa, la fedeltà senza emozione.
Il segreto, come dimostrano gli esempi virtuosi degli ultimi anni, sta nel trovare un equilibrio. The Last of Us ha insegnato che è possibile rispettare il materiale di partenza senza rinunciare alla profondità cinematografica. Sonic, invece, ha mostrato che il pubblico premia chi sa essere leggero ma coerente con il proprio universo.

Nel caso di Sleeping Dogs, il potenziale è enorme: un’ambientazione urbanistica viva e pulsante, le complesse dinamiche tra Triadi e forze dell’ordine, e soprattutto un protagonista lacerato tra dovere e sopravvivenza. Se trattati con la giusta sensibilità, questi elementi potrebbero dar vita a un film capace di mescolare azione, introspezione e spettacolarità, mantenendo intatta la tensione morale che ha reso unico il gioco.

L’energia di Hong Kong come co-protagonista

Uno dei punti di forza del videogioco era proprio la città stessa: una Hong Kong non solo scenografica, ma viva, respirante, dove ogni vicolo raccontava una storia. Ricrearla sul grande schermo sarà una sfida tecnica e artistica, ma anche un’occasione straordinaria per mostrare una metropoli raramente rappresentata in tutta la sua complessità.
Le luci al neon, le stradine affollate, il contrasto tra modernità e tradizione potrebbero diventare il vero cuore visivo del film, un teatro perfetto per le battaglie di Wei Shen e le tensioni che attraversano il confine tra legalità e corruzione.

Hollywood e la riscossa dei videogame

Negli ultimi anni l’industria cinematografica ha imparato una lezione fondamentale: i videogiochi non sono più materiale di serie B. Sono universi narrativi ricchi, dotati di fanbase globali e mitologie degne delle grandi saghe.
Dopo decenni di adattamenti deludenti, Hollywood sembra aver finalmente trovato la chiave per trasformare i giochi in film rispettosi e redditizi. Sleeping Dogs potrebbe essere il prossimo passo di questa evoluzione, una pellicola che unisce il fascino del cinema action orientale con l’estetica del crime moderno.

Il futuro di Wei Shen

Per ora, il progetto è ancora nelle prime fasi di sviluppo, ma l’entusiasmo dei fan è palpabile. L’annuncio di Simu Liu ha riacceso l’hype e, come un colpo di kung fu ben assestato, ha rimesso Sleeping Dogs sotto i riflettori.
Se tutto andrà per il verso giusto, potremmo trovarci di fronte a uno dei più promettenti adattamenti videoludici di sempre, capace di restituire alla saga il posto che merita nel pantheon dell’action moderno.

Hong Kong attende, le Triadi pure. E questa volta, forse, il sogno di vedere Wei Shen tornare in azione non è più un’illusione.

Frankenstein di Guillermo del Toro: il mito gotico rinasce al cinema

C’è qualcosa di profondamente magnetico nel vedere un regista come Guillermo del Toro mettere finalmente le mani su Frankenstein, il romanzo immortale di Mary Shelley che da due secoli continua a tormentare e ispirare generazioni di artisti. Dopo anni di voci, progetti accennati e rinvii, il film ha preso forma e si è mostrato per la prima volta in un trailer ufficiale che trasuda inquietudine e poesia. Non è un semplice adattamento, ma una vera e propria resurrezione cinematografica: un’opera che porta sul grande schermo la tragedia gotica per eccellenza, filtrata attraverso l’occhio visionario di uno dei maestri del fantastico contemporaneo.

La prima mondiale alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia ha avuto il sapore di un rito collettivo. Del Toro, che già nel 2017 aveva conquistato il Leone d’Oro con La forma dell’acqua, è tornato in Laguna con un film che ha tutta l’aria di essere un testamento artistico, una dichiarazione d’amore alla letteratura che lo ha nutrito fin da bambino, quando rimase folgorato dal Frankenstein di Boris Karloff del 1931. La sua creatura oggi respira di nuovo, pronta a terrorizzare e commuovere. L’uscita in sala è fissata per il 17 ottobre 2025, mentre su Netflix arriverà dal 7 novembre, trasformando l’autunno in una stagione gotica che difficilmente dimenticheremo.

Una tragedia in tre atti

Del Toro non cerca il brivido facile o l’horror convenzionale. Frankenstein si sviluppa in 149 minuti che assumono i contorni di una tragedia divisa in tre atti, sostenuta dalle musiche evocative di Alexandre Desplat. Al centro c’è la hybris di Victor Frankenstein, l’ambizione prometeica di superare i confini della natura, e la condanna che ne consegue. La Creatura, partorita dall’esperimento, non è soltanto un mostro: è uno specchio delle contraddizioni umane, desiderosa d’amore e appartenenza, ma al tempo stesso divorata da rabbia e disperazione.

Il cast: mostri e visioni in carne viva

Oscar Isaac dà vita a un Victor Frankenstein complesso, scienziato geniale e al tempo stesso vittima della sua stessa arroganza. Nei suoi occhi si legge già la caduta di un Prometeo moderno. Ma la vera sorpresa è Jacob Elordi, trasformato in una Creatura imponente e fragile insieme, icona di dolore e di bellezza spezzata. Ogni suo movimento sembra uscito dalle illustrazioni di Bernie Wrightson, come se il fumetto gotico degli anni ’80 fosse stato incarnato sullo schermo.

Accanto a loro, Mia Goth porta magnetismo e dramma nel ruolo di Elizabeth, mentre Christoph Waltz e Charles Dance incarnano il potere e la razionalità con una presenza scenica che sembra scolpita nel marmo. A completare il mosaico troviamo Felix Kammerer e Christian Convery, nuove voci che contribuiscono a rendere il film un affresco corale.

Il laboratorio: una cattedrale di scienza e mito

Il lavoro scenografico di Tamara Deverell è uno spettacolo nello spettacolo. Il laboratorio di Frankenstein non è soltanto uno spazio, ma un personaggio a sé: una torre settecentesca dei Carpazi trasformata in una cattedrale profana dove architettura barocca, suggestioni steampunk e simbolismi alchemici convivono in un ventre oscuro che pulsa insieme alla Creatura. È il segno distintivo di del Toro: gli ambienti diventano organismi viventi, memoria e narrazione visiva.

Oltre l’horror: il gotico che fa piangere

Chi si aspetta salti sulla poltrona e inseguimenti frenetici rimarrà sorpreso. Frankenstein non punta al terrore puro, ma al dramma emotivo. L’orrore più grande non è nei fulmini che rianimano la carne, ma nella solitudine che divora chi non riesce a comunicare con il mondo. È un film che cerca di scalfire non solo la pelle, ma l’anima dello spettatore.

L’accoglienza a Venezia: tra estasi e critiche

Il debutto lagunare ha diviso la critica, con un solido 78% su Rotten Tomatoes nelle prime ore. Alcuni hanno sottolineato un ritmo disomogeneo e un lirismo talvolta eccessivo, altri l’hanno incoronato come la più intensa rilettura moderna del mito di Mary Shelley. La verità è che l’opera di del Toro non mira a piacere a tutti: vuole disturbare, commuovere, interrogare. È imperfetta, ma necessaria.

Frankenstein e l’ombra dell’Intelligenza Artificiale

Guardato con gli occhi del 2025, Frankenstein assume nuove sfumature. In un’epoca in cui l’umanità sperimenta intelligenze artificiali sempre più complesse e manipolazioni genetiche sempre più invasive, la domanda di Mary Shelley – chi è il vero mostro? – torna a risuonare con forza. Del Toro non dà risposte definitive, ma lascia lo spettatore sospeso in un dubbio che parla al nostro presente: dove si ferma l’uomo e dove comincia l’artificio? Alla fine della proiezione veneziana, la sala era divisa, ma tutti erano scossi. Questo è forse il trionfo più grande di Del Toro: creare un’opera che respira, soffre e ama come la sua Creatura. Un film che non cerca di essere perfetto, ma di essere vivo.

Cari lettori di CorriereNerd.it, siete pronti a varcare le soglie del laboratorio di Guillermo del Toro? Vi aspettate un film capace di rinnovare il mito o preferite le versioni classiche che hanno fatto la storia del cinema? Raccontateci le vostre impressioni nei commenti, nei gruppi social, nelle chiacchiere post-cosplay o dopo una sessione di GdR. Perché se è vero che “la verità abita i mostri”, allora il modo migliore per scoprirla è discuterne insieme. Novembre è dietro l’angolo: preparatevi, i fulmini stanno già lampeggiando.

Guillermo del Toro adatta The Buried Giant: lo stop-motion epico dal romanzo di Kazuo Ishiguro

Guillermo del Toro non è solo un regista, è un visionario. Un artista che ha saputo fondere l’orrore gotico, la fantasia fiabesca e una profonda umanità in opere che hanno ridefinito il cinema contemporaneo. Dopo aver incantato il mondo con il suo Pinocchio, vincitore di un Premio Oscar, il maestro messicano torna a far parlare di sé con un annuncio che ha scosso il mondo degli appassionati: un ambizioso e attesissimo adattamento in stop-motion de Il gigante sepolto (The Buried Giant), il romanzo fantasy del Premio Nobel Kazuo Ishiguro. Questa non è una semplice trasposizione, ma un connubio esplosivo tra due giganti della narrazione, destinato a riscrivere le regole del fantasy animato.


La notizia, emersa in un’intervista al The Telegraph dopo la première del suo attesissimo Frankenstein al Toronto Film Festival, ha fatto il giro del mondo in un lampo. Del Toro ha confermato di essere già al lavoro sulla sceneggiatura, in coppia con il drammaturgo e sceneggiatore Dennis Kelly, noto per il successo di Matilda the Musical. Descritto dal regista stesso come un progetto di proporzioni epiche, questo film non sarà di certo un cartone animato per bambini. Del Toro ha le idee chiare: vuole spingere lo stop-motion oltre i suoi limiti attuali, esplorandone le potenzialità espressive in modi mai visti prima per raccontare una storia adulta, complessa e densa di significato.

Prima di vederlo prendere forma, dovremo avere un po’ di pazienza. La produzione vera e propria è ancora lontana e dipenderà dall’approvazione di un “lookbook” di progettazione grafica. Del Toro ha stimato un avvio dei lavori tra un paio d’anni, visto anche un film in live-action che lo impegna ancora. Eppure, la passione e l’urgenza con cui ha parlato di questo progetto lasciano intendere quanto la storia di Ishiguro gli stia a cuore, quasi come se la sentisse una necessità artistica.


Pubblicato nel 2015, Il gigante sepolto è un’opera che sfida le convenzioni del fantasy. Ishiguro, maestro della memoria e del tempo, ha creato un’Inghilterra post-arturiana, dove Sassoni e Britanni convivono in una fragile pace, ma sono avvolti da una nebbia che cancella i ricordi, sia personali che collettivi. In questo scenario enigmatico, seguiamo Axl e Beatrice, una coppia di anziani che intraprende un viaggio alla ricerca del figlio. Ma la loro odissea non è solo un percorso fisico; è una battaglia contro l’amnesia, una ricerca della verità e un confronto con un passato doloroso e sconosciuto. La nebbia, infatti, non è un semplice espediente narrativo, ma una potente metafora del trauma storico, un velo che protegge ma al tempo stesso imprigiona.


La scelta di Dennis Kelly come co-sceneggiatore non è affatto casuale. Kelly ha dimostrato, in opere come Matilda, una rara capacità di mescolare ironia, dramma e una sensibilità profonda, rendendo accessibili storie complesse senza mai banalizzarle. La sua collaborazione con del Toro promette di infondere ulteriore spessore emotivo e profondità al viaggio di Axl e Beatrice, rispettando l’equilibrio tra mito e realtà che è il cuore del romanzo.

Del Toro ha già dimostrato con Pinocchio che lo stop-motion non è un genere minore, ma un linguaggio universale capace di trasmettere emozioni forti e complesse. Con il suo capolavoro premiato agli Oscar, ha elevato l’animazione a forma d’arte pari al cinema in live-action, dimostrando che il legno di un burattino può racchiudere un’anima più autentica di un attore in carne e ossa. Ora, con Il gigante sepolto, intende spingersi ancora oltre, trasformando la staticità della pietra in un’epica animata che osa affrontare temi adulti come la guerra, il dolore, la memoria e l’oblio.

Questo nuovo progetto sembra la perfetta sintesi delle ossessioni artistiche di del Toro, un’opera in cui le creature fantastiche de Il labirinto del fauno e i mostri di Pacific Rim si fondono con la poetica del tempo e della memoria. L’attesa sarà lunga e snervante, ma se c’è un autore che può trasformare un’ode alla memoria in un’epica visiva, quello è senza dubbio Guillermo del Toro. Con Il gigante sepolto, potrebbe non solo regalare un nuovo classico dell’animazione, ma anche ridefinire i confini stessi del cinema fantasy. La nebbia di Ishiguro è pronta a diradarsi e a svelare un’epica animata che i fan della cultura nerd aspettano da tempo.

Il Club dei Delitti del Giovedì: un giallo ironico, malinconico e profondamente umano

Dal 28 agosto 2025 è finalmente disponibile su Netflix Il Club dei Delitti del Giovedì, l’adattamento cinematografico del bestseller di Richard Osman che, già prima dell’uscita, aveva fatto esplodere l’entusiasmo dei fan. Le prime immagini diffuse online hanno acceso discussioni infinite tra lettori e curiosi, tutti uniti dalla stessa domanda: il film sarà davvero all’altezza del romanzo che ha conquistato milioni di persone?

Questa non è solo la trasposizione di un giallo di successo. È un esperimento narrativo che gioca con gli stereotipi del genere e li ribalta, scegliendo come protagonisti non giovani investigatori rampanti, ma quattro pensionati che vivono in una residenza di lusso per anziani. Il risultato è un racconto che intreccia mistero, ironia e riflessione esistenziale con un equilibrio sorprendente, capace di regalare al pubblico qualcosa di nuovo e fresco, pur rimanendo fedele allo spirito del libro.

La trama si sviluppa all’interno di Coopers Chase, un complesso residenziale costruito sulle rovine di un antico convento. Qui incontriamo Elizabeth, un’ex spia dal passato che non smette mai di riaffiorare; Ron, ex sindacalista dal temperamento battagliero; Ibrahim, raffinato psichiatra in pensione; e Joyce, ex infermiera apparentemente fragile, ma con un intuito capace di svelare più di quanto chiunque si aspetterebbe. Insieme hanno formato un club che si diverte a indagare su vecchi casi irrisolti. Ma quando un delitto reale colpisce proprio sotto i loro occhi, il gioco si trasforma in un’indagine pericolosa e avvincente, che metterà alla prova non solo le loro abilità, ma anche i loro limiti.

Dietro questa cornice da giallo classico, il film costruisce un ritratto molto più ampio e intimo. I protagonisti non sono mai figure stereotipate di “vecchietti arzilli”, bensì personaggi complessi che affrontano dolori e sfide reali. Elizabeth deve convivere con la malattia del marito, Joyce con la solitudine del lutto, Ron con i conflitti irrisolti con il figlio Jason, e Ibrahim con la fragilità che l’età impone. Tutti loro trasformano le proprie debolezze in risorse, rendendo la loro indagine non solo un puzzle investigativo, ma un viaggio dentro la memoria, il rimpianto e la resilienza.

Uno dei grandi meriti di questa trasposizione sta proprio nella sceneggiatura. Katy Brand e Suzanne Heathcote hanno scelto di non replicare pedissequamente la struttura del romanzo, ma di adattarla in modo da renderla più snella e cinematografica. I casi da risolvere passano da tre a due e alcuni personaggi vengono eliminati, ma il cuore rimane intatto: il ritmo è serrato, i colpi di scena sono ben calibrati e lo spettatore si trova costantemente in bilico tra la voglia di ridere e quella di commuoversi.

A dare vita a questo universo c’è un cast che sembra uscito direttamente dalle pagine del libro. Helen Mirren interpreta Elizabeth con eleganza e ironia, mentre Pierce Brosnan porta tutto il suo carisma nel ruolo di Ron. Ben Kingsley veste i panni di Ibrahim con una sensibilità unica, e Celia Imrie rende Joyce indimenticabile grazie al suo mix di dolcezza e astuzia. Ma la magia non si ferma ai quattro protagonisti: attorno a loro ruota un ensemble di volti noti e amatissimi, tra cui David Tennant, Naomi Ackie, Jonathan Pryce, Tom Ellis e Daniel Mays, che arricchiscono la narrazione e danno spessore a ogni interazione.

A orchestrare il tutto c’è Chris Columbus, regista che da sempre sa coniugare leggerezza e malinconia. La sua regia riesce a mantenere costante quell’equilibrio delicato tra mistero e commedia, evitando sia il rischio della farsa che quello del melodramma. Con il suo tocco, la vicenda assume un tono da fiaba noir, dove ogni indizio è un tassello e ogni scena porta con sé un sorriso amaro o una riflessione inattesa.

Il risultato finale è un film che va oltre il puro intrattenimento. Certo, il mistero funziona, le indagini catturano e il gioco del “chi è il colpevole?” tiene incollati fino alla fine. Ma ciò che resta davvero impresso è il messaggio sottile che attraversa la storia: la vita non smette mai di sorprenderci, nemmeno quando sembra avvicinarsi alla sua fase finale. E anche in un’età in cui la società tende a mettere da parte gli anziani, c’è ancora spazio per il coraggio, l’ironia e persino per nuove avventure.

Alla fine, Il Club dei Delitti del Giovedì non è un semplice giallo, ma una celebrazione della vita in tutte le sue sfumature, con le sue fragilità e i suoi colpi di scena. Non è un thriller adrenalinico, né vuole esserlo: preferisce essere un viaggio intimo e sorprendente, capace di lasciare lo spettatore con una sensazione dolceamara, quella di aver risolto un enigma ma anche di aver scoperto qualcosa di più profondo sull’umanità dei suoi protagonisti.

E se questo film dovesse aprire la strada a una saga, proprio come è accaduto per i libri di Osman, non c’è dubbio che il pubblico nerd e appassionato di crime avrà trovato un nuovo punto di riferimento. Perché, diciamolo, chi non vorrebbe far parte di un club che tra una tazza di tè, una fetta di torta e un paio di occhiali da lettura riesce a smascherare assassini con più classe e ironia di qualsiasi detective navigato?

Supercar: il film arriva con il team di Cobra Kai

E se vi dicessi che il mito di Supercar sta per tornare a ruggire sul grande schermo? No, non è uno di quei rumor che girano da anni e finiscono nel nulla. Questa volta sembra tutto vero, e i nomi coinvolti fanno venire voglia di urlare al cielo il classico “KITT, vieni a prendermi!”. Dopo aver riportato in auge Karate Kid con la serie evento Cobra Kai, il trio composto da Josh Heald, Jon Hurwitz e Hayden Schlossberg è pronto a salire a bordo della Pontiac più iconica degli anni ’80.

Dal dojo alla strada: la rinascita firmata Cobra Kai

Non è un caso che proprio loro siano stati scelti per l’impresa. Con Cobra Kai hanno dimostrato di saper fare la magia più difficile di tutte: prendere un franchise amato, ormai considerato parte della cultura pop “vintage”, e trasformarlo in una storia moderna capace di parlare a più generazioni. Sei stagioni, 65 episodi e un fandom che non ha mai smesso di crescere: la serie non solo ha omaggiato l’eredità di The Karate Kid, ma l’ha reinventata, portandola oltre i confini della nostalgia.

Ora il salto è inverso: se prima si trattava di un film diventato serie, stavolta il progetto è l’adattamento cinematografico di un telefilm leggendario. E il titolo scelto non poteva che essere Knight Rider, da noi conosciuto come Supercar.

Un mito su quattro ruote

Per chi non c’era (male, molto male!), Supercar è andato in onda dal 1982 al 1986 sulla NBC, per un totale di 90 episodi. Protagonista era David Hasselhoff nei panni di Michael Knight, ex poliziotto rimasto sfigurato in servizio, salvato e ricostruito grazie alla misteriosa Foundation for Law and Government (FLAG). Con una nuova identità e una missione nobile – combattere il crimine e proteggere gli innocenti – Michael non era però solo: al suo fianco (anzi, sotto di lui) c’era KITT, acronimo di Knight Industries Two Thousand.

KITT non era una semplice macchina, ma una Pontiac Firebird Trans Am nera dotata di un’intelligenza artificiale potentissima, capace di parlare, ragionare e, soprattutto, sfoggiare gadget che ancora oggi fanno impallidire James Bond. Negli anni ’80 era pura fantascienza. Oggi, con auto elettriche e sistemi di guida assistita, non sembra più così impossibile. Ed è proprio qui che il film potrebbe giocare la sua carta più interessante: raccontare come il sogno anni ’80 si inserisca nel nostro presente tecnologico.

La sfida della modernità

La difficoltà maggiore per gli sceneggiatori sarà trovare l’equilibrio tra rispetto della tradizione e aggiornamento del concept. L’intelligenza artificiale non è più roba da telefilm futuristico: viviamo immersi in assistenti vocali, algoritmi e macchine che guidano quasi da sole. Come rendere quindi di nuovo “wow” un’auto parlante? La risposta probabilmente arriverà proprio dalla sensibilità di Heald, Hurwitz e Schlossberg, maestri nel reinterpretare la nostalgia senza trasformarla in fanservice sterile.

Inoltre, non saranno soli: il progetto vedrà la produzione di Kelly McCormick e David Leitch (quello di The Fall Guy, altro revival di una serie cult degli anni ’80) sotto la loro etichetta 87North. E se pensiamo a come Leitch ha rivoluzionato il cinema action moderno con film come John Wick e Atomic Blonde, possiamo aspettarci che le sequenze di inseguimenti e acrobazie automobilistiche avranno un sapore spettacolare e ipercinetico.

Camei, speranze e aspettative

C’è già chi sogna un cameo di David Hasselhoff, magari come mentore o semplice comparsa nostalgica, e chi si chiede se la vecchia Pontiac farà almeno un’apparizione. Probabilmente KITT avrà un look più moderno, magari per esigenze di design e sponsor, ma l’augurio è che il cuore dell’auto – quella voce metallica, quell’ironia da compagno di avventure, quel led rosso che pulsa come un battito cardiaco – rimanga intatto.

D’altronde, Knight Rider non è mai stato solo un telefilm d’azione. Era il simbolo di un’epoca in cui bastava un eroe solitario, un’auto speciale e una missione impossibile per catturare milioni di spettatori davanti alla TV. Non a caso fu creato da Glen A. Larson, lo stesso genio dietro a Battlestar Galactica, Buck Rogers e Magnum, P.I.. Universal sta chiaramente battendo di nuovo sull’incudine Larson, cercando di replicare il successo di quelle storie che hanno plasmato l’immaginario di un’intera generazione.

Dal piccolo al grande schermo, finalmente

Va ricordato che nonostante il successo planetario, Supercar non ha mai avuto un vero film per il cinema. Ci sono stati film TV, tentativi di revival (come la serie del 2008 durata pochissimo), ma mai un blockbuster che riportasse KITT al centro dell’attenzione globale. Questo sarà dunque il primo vero tentativo di trasformare il mito televisivo in un’esperienza da sala, con tutto ciò che comporta in termini di spettacolarità e ambizione.

Un futuro costruito sul passato

Se il progetto riuscirà, Supercar potrebbe diventare per le nuove generazioni ciò che è stato per i ragazzi degli anni ’80: un’avventura che mescola amicizia, tecnologia, giustizia e azione sfrenata. Con la giusta dose di ironia e spettacolo, KITT e Michael Knight potrebbero tornare a essere icone pop anche in un mondo che ormai parla di intelligenza artificiale quotidianamente.

La domanda ora è una sola: siete pronti a tornare in strada con KITT? Perché quando quel led rosso comincerà a pulsare e quella voce metallica pronuncerà “Michael, devo avvertirti…”, sarà come se gli anni ’80 non se ne fossero mai andati.

Le Cronache di Narnia – Il nipote del mago: il reboot Netflix diGreta Gerwig tra magia, rock e Meryl Streep

La neve scricchiola sotto i piedi, il respiro si condensa nell’aria gelida e, oltre il lampione solitario, si intravede il profilo maestoso di un leone. Narnia sta per tornare. Ma questa volta non parliamo di un semplice revival nostalgico, né di una riproposizione scolastica buona solo per far cassa: ciò che Netflix sta preparando è un vero reboot epocale, pronto a ridefinire per sempre l’immaginario creato da C.S. Lewis.

E a guidarci oltre l’armadio più famoso della letteratura fantasy ci sarà una regista che negli ultimi anni ha dimostrato di saper trasformare mondi conosciuti in universi freschi, vibranti e sorprendentemente attuali: Greta Gerwig. Dopo aver conquistato pubblico e critica con Piccole Donne e scosso il box office mondiale con Barbie, la regista californiana si appresta a tessere un nuovo incantesimo, portandoci in una Narnia dove la magia si intreccia con la mitologia, l’epica sfiora la filosofia e lo stupore diventa esperienza collettiva.


Le prime immagini dal set: Londra, anni ’50… o quasi

Le riprese di Le Cronache di Narnia – Il nipote del mago sono ufficialmente iniziate, e il set scelto da Netflix è Londra. Non la Londra moderna, ma una metropoli ricostruita con cura per evocare un’epoca passata. Qui, però, emerge già la prima sorpresa: nel romanzo originale, la storia è ambientata nei primi del ’900, mentre le scenografie mostrate nelle prime foto trapelate ci trasportano negli anni ’50. Sulle strade compaiono insegne pubblicitarie vintage, tra cui un grande cartellone con l’immagine di un leone che fa inevitabilmente pensare ad Aslan.

In alcune inquadrature rubate si vede Greta Gerwig impegnata a dare indicazioni con il suo inconfondibile mix di precisione e entusiasmo, mentre in un’altra appaiono due giovanissimi attori che potrebbero essere i nuovi volti di Digory Kirke e Polly Plummer, i protagonisti di questa prima avventura.


Un cast che promette scintille

Netflix ha già confermato due nomi di grande richiamo: Emma Mackey, nota per Sex Education e Barbie, e Carey Mulligan, capace di trasformarsi in ogni ruolo con magnetismo assoluto. Le indiscrezioni però si spingono oltre, parlando di trattative con Daniel Craig e Meryl Streep.

E qui il rumour più esplosivo: Meryl Streep come Aslan. Un’interpretazione del genere riscriverebbe la percezione stessa del personaggio, trasformandolo non solo in guida e simbolo, ma in una presenza quasi mistica capace di far tremare l’aria con un ruggito e commuovere con un solo sguardo. Un’Aslan al femminile potrebbe diventare uno dei momenti più memorabili nella storia del fantasy al cinema.

C’è poi chi sussurra che Greta Gerwig potrebbe coinvolgere ancora una volta la sua musa, Saoirse Ronan, creando così un ponte diretto tra la sensibilità autoriale della regista e l’anima poetica dell’universo di Lewis.


Una Narnia “rock and roll”

Tra le dichiarazioni più enigmatiche arrivate finora, spicca quella della produttrice Amy Pascal, che ha promesso una Narnia “tutta incentrata sul rock and roll”. L’affermazione ha già acceso la fantasia dei fan: significa forse una colonna sonora elettrica e inaspettata? Un ritmo narrativo più frenetico? Costumi e scenografie con una vena glam?

Immaginate un Mr. Tumnus che suona la chitarra elettrica in un bosco innevato o una Strega Bianca che avanza tra fumi e luci da concerto rock. Visioni audaci, certo, ma chi conosce Greta Gerwig sa che la sua forza sta proprio nel sovvertire le regole senza tradire l’essenza delle storie che racconta.


Perché iniziare da Il nipote del mago

Scelta tutt’altro che casuale, quella di partire non da Il leone, la strega e l’armadio, ma da Il nipote del mago. Pubblicato nel 1955 ma cronologicamente primo nella saga, questo romanzo svela le origini di Narnia: la creazione del mondo, il primo incontro con Aslan, la nascita del lampione nel bosco e la storia dell’armadio magico.

È una decisione che potrebbe rivelarsi vincente, offrendo al pubblico un’esperienza di scoperta totale, simile a quella che Peter Jackson seppe dare con Il Signore degli Anelli.


Un progetto monumentale

Netflix ha acquisito i diritti di tutti i sette libri già nel 2018, ma solo nel 2022 l’annuncio di Greta Gerwig alla regia ha trasformato il sogno in un piano concreto. Inizialmente si parlava di due film, ma ora circolano voci su un progetto molto più ampio: otto pellicole per raccontare l’intera saga, con la possibilità di approfondire alcuni volumi in più tempo.

Il budget stimato supera i 200 milioni di dollari, con una campagna marketing che potrebbe aggiungerne altri 100. Obiettivo dichiarato: superare i 450 milioni di incassi globali, sfidando i colossi del fantasy e puntando al cuore di due pubblici distinti ma complementari: i nuovi spettatori e chi è cresciuto tra le pagine di C.S. Lewis.


Un’uscita “fuori dagli schemi” per Netflix

La data da segnare in agenda è il Giorno del Ringraziamento 2026. In un’inedita mossa strategica, Netflix distribuirà il film in esclusiva nelle sale – anche in formato IMAX – per due settimane prima di portarlo in streaming. Una scelta che dimostra l’ambizione di questo progetto e la fiducia nel richiamo del grande schermo.


L’attesa e l’hype

Le prime riprese in esterni a Londra sono previste per settembre, subito dopo la partecipazione di Greta Gerwig alla Mostra del Cinema di Venezia con Jay Kelly, il nuovo film di Noah Baumbach in cui lei stessa recita. Intanto, nei reparti tecnici, luci ed effetti visivi sono già in fermento.

Ogni foto rubata dal set, ogni voce di casting, ogni dichiarazione misteriosa alimenta l’hype. Il portale per Narnia si sta riaprendo, e questa volta promette un’avventura che potrebbe ridefinire il fantasy al cinema per la prossima generazione.


E ora la parola passa a voi: vi piacerebbe vedere Meryl Streep nei panni di Aslan? L’idea di una Narnia “rock” vi intriga o vi spaventa? E quale libro della saga vorreste vedere sullo schermo dopo Il nipote del mago? Raccontatelo nei commenti: il viaggio oltre l’armadio è appena iniziato, e sarà ancora più emozionante se lo affronteremo insieme.

“The Life of Chuck”: Quando Stephen King incontra l’anima di Mike Flanagan – e qualcosa dentro di noi si accende

Il trailer italiano ufficiale di The Life of Chuck è finalmente arrivato, e per chi, come me, vive di pane, Stephen King e cinema, è stato come ricevere un colpo al cuore e una carezza allo stesso tempo. Questo film, interpretato da Tom Hiddleston e diretto da Mike Flanagan, non è semplicemente un adattamento cinematografico di un racconto. È una dichiarazione d’amore alla vita, alla memoria, a quei dettagli minuscoli eppure sconvolgenti che rendono ogni esistenza degna di essere raccontata. Sarà nei cinema italiani dal 18 settembre, distribuito da Eagle Pictures, e già dalle prime immagini capiamo che non ci troviamo davanti al solito horror kinghiano, ma a qualcosa di molto più raro: un viaggio emotivo dentro l’essere umano.

Per chi conosce Mike Flanagan – e qui parlo a voi, fedeli spettatori di The Haunting of Hill House, Midnight Mass, Doctor Sleep – il suo nome accanto a quello di Stephen King non è solo una collaborazione. È un incontro di anime affini. Flanagan non è il tipo di regista che si limita a portare in scena fantasmi o case stregate; lui si muove con delicatezza dentro il dolore, la perdita, la redenzione, come un autore che sa che dietro ogni terrore si nasconde una ferita umana. Per questo l’annuncio di The Life of Chuck ha fatto saltare sulla sedia tanti appassionati: qui non si parla di mostri sotto il letto o entità maligne che spuntano dagli angoli bui. Qui si parla di vita. Quella di Charles Krantz – per gli amici Chuck – ma, inevitabilmente, anche la nostra.

Il racconto originale, incluso nella raccolta Se scorre il sangue del 2020, è tra le opere più enigmatiche e toccanti di King. Strutturato al contrario, parte dalla fine del mondo e arriva fino all’infanzia di un uomo comune. Sembra assurdo? Lo è. Ma è anche straordinariamente umano. Quando ho saputo che Flanagan voleva portarlo al cinema, la mia reazione è stata un misto di entusiasmo e ansia. Perché trasporre una storia così intima e sfuggente è un rischio: non basta ricostruirla, bisogna sentirla. E poi è arrivato quel trailer, con le prime note malinconiche, Hiddleston che cammina assorto in un centro commerciale semideserto, e quella frase che mi ha stesa: “L’universo è grande e contiene moltitudini, ma… contiene anche me.”

Tom Hiddleston, inutile negarlo, è perfetto. Ha quella dolcezza fragile, quel fascino quasi etereo che lo rende capace di raccontare mondi interiori con un solo sguardo. Lo avevamo amato come Loki, certo, ma qui abbandona ogni maschera divina per diventare uomo. Un uomo qualunque, al centro di qualcosa di straordinario. Attorno a lui, un cast che fa venire i brividi (quelli belli): Karen Gillan, Chiwetel Ejiofor, Jacob Tremblay, Mark Hamill. Non sono solo nomi da locandina, sono interpreti che sanno sussurrare emozioni, anche quando il copione è fatto di silenzi e di piccoli gesti.

La struttura del film ricalca quella del racconto, in tre atti distinti, e anche se non voglio spoilerarvi nulla – davvero, questa è una storia che va vissuta in prima persona – vi posso dire che ogni segmento è un tassello di un mosaico più grande. Solo alla fine, o forse all’inizio, ci accorgiamo di avere tra le mani l’immagine completa di una vita. Le riprese, svoltesi in Alabama durante lo sciopero SAG-AFTRA, hanno paradossalmente accentuato l’atmosfera sospesa del film, fatto di tempo che si dilata e memorie che si sfaldano. E la colonna sonora dei Newton Brothers – storici complici di Flanagan – è un sussurro continuo, un filo emotivo che lega le scene con delicatezza.

Personalmente, seguo Mike Flanagan da anni, e ogni volta resto colpita dalla sua capacità di parlare di dolore e amore come facce della stessa medaglia. In The Haunting of Hill House ci ha insegnato che i fantasmi sono spesso i nostri rimpianti. In Midnight Mass ci ha fatto riflettere sulla fede, sull’abbandono, sull’eternità. In Doctor Sleep ha preso un classico come Shining e ci ha trovato dentro redenzione e perdono. Con The Life of Chuck sembra aver compiuto un passo ulteriore: non c’è bisogno del soprannaturale per raccontare l’infinito. Basta una vita. Una qualsiasi.

La presentazione al Toronto International Film Festival ha confermato tutto questo: standing ovation, lacrime, cuori infranti e pieni allo stesso tempo. Non è horror. Non è nemmeno, forse, un dramma come lo intendiamo di solito. È un viaggio meditativo dentro ciò che ci rende umani, fragile e splendente insieme. Un film che ci ricorda quanto siamo piccoli e, proprio per questo, immensi.

C’è una frase, nel racconto di King, che mi ossessiona da giorni: “Ogni vita è un universo. Ogni morte, una fine del mondo.” Ecco perché The Life of Chuck è così importante. Perché ci restituisce la prospettiva perduta. Perché ci costringe a guardarci allo specchio e a chiederci: cosa resterà di me? Un sorriso? Un abbraccio? Una musica che si spegne piano?

Io, intanto, conto i giorni che mi separano dal 18 settembre. So già che andrò al cinema con una scorta di fazzoletti, pronta a lasciarmi travolgere da questa storia intima e universale. E lo dico senza vergogna: sono pronta a ballare anche io nell’universo di Chuck, a ricordarmi che, in fondo, ogni vita è un miracolo.

E voi? Siete pronti a immergervi in questo viaggio emozionante? Fatemelo sapere nei commenti o condividete questo articolo sui vostri social. Voglio sapere cosa pensate, voglio leggere le vostre storie, voglio sapere se anche voi, come me, avete già iniziato a sentirvi un po’ Chuck.