Nel vasto universo dei K-Drama, Squid Game ha fatto più che imporsi: ha scardinato ogni confine tra fiction e realtà, tra critica sociale e spettacolo, tra innocenza infantile e brutalità adulta. Ma c’è un elemento, spesso sottovalutato rispetto alla trama o ai personaggi, che merita un’analisi nerd appassionata e dettagliata: l’architettura. Già, perché se c’è una cosa che Squid Game ha saputo fare in maniera chirurgica è usare lo spazio – architettonico, visivo, mentale – come leva narrativa, come trappola visiva e simbolica, come riflesso spietato della nostra società.
Guardando attentamente ogni ambiente della serie, si entra in un labirinto visivo di citazioni, riferimenti e suggestioni che pescano a piene mani tanto dalla storia dell’arte quanto dall’architettura contemporanea. In effetti, Squid Game non si guarda: si esplora. Si decifra. Si subisce, in un certo senso, come si subiscono gli spazi troppo grandi o troppo piccoli, troppo geometrici o troppo colorati per sembrare innocui.
La Muralla Roja: la Casbah postmoderna che diventa incubo
Partiamo da uno degli elementi più iconici e immediatamente riconoscibili: la scalinata labirintica dove i partecipanti vengono condotti, uno dopo l’altro, verso i giochi. Questo ambiente, con i suoi muri rosa, gialli, verdi e blu, ha fatto impazzire i fan su internet per la sua estetica pop, quasi da videogioco, ma il riferimento reale è ben chiaro agli occhi di chi conosce un minimo di architettura: La Muralla Roja di Ricardo Bofill. Situata a Calpe, in Spagna, questa struttura degli anni ’70 fonde il brutalismo geometrico con la sensualità architettonica delle casbah nordafricane.
In Squid Game, questa fonte d’ispirazione viene distorta e accentuata, creando un effetto straniante. I colori pastello – normalmente associati a serenità e gioco – vengono piegati a generare inquietudine, perché lo spettatore sa che dietro ogni angolo si cela una potenziale morte. In questa scala senza fine, dove i corridoi sembrano moltiplicarsi all’infinito, ogni passo è un salto nel vuoto. Letteralmente e metaforicamente.
Escher e il Panico del Disorientamento
La disposizione stessa delle scale richiama prepotentemente l’opera Relativity di M.C. Escher. Non è solo una citazione estetica: è una dichiarazione di poetica. Quelle scale impossibili, che sfidano la logica della gravità e della direzione, diventano un simbolo visivo della perdita di punti di riferimento dei personaggi. I partecipanti, ma anche noi spettatori, siamo costantemente disorientati. È il trionfo del non-luogo, dello spazio come trappola. Uno spazio che si fa labirinto mentale, dove la logica cede il passo all’assurdo. E in questo assurdo, la violenza si normalizza, diventa quasi inevitabile.
Simboli Geometrici e la Tirannia delle Forme
Ma non è solo la disposizione degli ambienti a parlare: sono anche i simboli. Cerchio, triangolo, quadrato. Forme pure, essenziali, ma che nel contesto della serie diventano emblemi di un potere cieco e impersonale. Chi ha il cerchio? È l’ultimo gradino della gerarchia. Il triangolo è il braccio armato. Il quadrato comanda. Un linguaggio visivo così semplice, quasi infantile, diventa la grammatica del controllo. È l’ennesimo colpo di genio della scenografia: rendere il potere qualcosa che si può letteralmente leggere nello spazio, sulle maschere, sui muri.
Il Dormitorio: Magazzino di Umanità
Prendiamo il dormitorio, per esempio. Una stanza immensa, spoglia, dove i letti a castello si accumulano su più livelli, come scaffali di un magazzino. Qui, l’individuo si perde nel mucchio, diventa numero, carne anonima pronta al macello. L’architettura diventa funzionale alla disumanizzazione. Non c’è comfort, non c’è privacy, non c’è bellezza. Solo ripetizione, simmetria, freddo industriale. Eppure, anche questo spazio comunica. Dice: “Qui non sei più una persona. Sei un pezzo.”
Le Arene: Infanzia Deformata e Grottesca
E poi ci sono le arene. Quegli spazi che, a prima vista, sembrano un parco giochi, ma che in realtà sono teatri di morte. Il Gioco Uno – “Un, due, tre, stella” – si svolge in un paesaggio fittizio che imita un prato sereno, incorniciato da mura dipinte con cielo azzurro. Eppure, al centro di tutto, c’è lei: la bambola gigante, fredda e meccanica, con le telecamere al posto degli occhi. È il Grande Fratello dell’infanzia corrotta, la sentinella dell’innocenza svenduta. È una delle immagini più disturbanti dell’intera serie.
Il Gioco Due rincara la dose: scivoli, altalene, nuvole da cartone animato, tutto fuori scala, tutto volutamente assurdo. Il contrasto tra estetica infantile e violenza è così violento da destabilizzare. Ogni elemento, ogni angolo, sembra urlare: “Ricordi quando giocavi? Ecco, ora muori.”
Il Gioco Tre, con il tiro alla fune su una piattaforma sospesa, gioca invece con l’architettura del vuoto. Il pavimento è quasi un’illusione, la caduta è sempre dietro l’angolo. La scala cromatica – giallo squillante contro il nero dello sfondo – rende la scena quasi teatrale, come se la tragedia fosse uno spettacolo già scritto.
Il Gioco Quattro ci porta in una pseudo-villaggio coreano: case tradizionali, viuzze, tutto avvolto da una luce rossa che sa di sangue e memoria. Qui, la nostalgia diventa campo minato. La familiarità è un inganno.
E infine il famigerato ponte di vetro. Una passerella illuminata come un circo, dove ogni passo può essere l’ultimo. È qui che l’architettura si fa beffa del giocatore. Ti offre due opzioni, ma nessuna certezza. Ti chiede di avere fede nel vetro. Ma la fede, in questo mondo, è una condanna.
L’Architettura come Critica Sociale
Tutti questi ambienti non sono solo belli – o inquietanti – da vedere. Sono dichiarazioni politiche. Ogni stanza, ogni corridoio, ogni scala, è un commento sulla società contemporanea: la disuguaglianza, l’illusione del merito, la spersonalizzazione, il controllo sistemico. L’architettura di Squid Game parla la lingua della distopia, ma con accenti ben riconoscibili nel mondo reale.
Come un Panopticon moderno, la fortezza dei giochi osserva tutto e tutti. I partecipanti sono sorvegliati, manipolati, schedati. Ma noi spettatori, con la nostra fame di spettacolo, siamo davvero diversi?
Quando il Set è il protagonista
Alla fine dei giochi – letteralmente – resta l’impressione che l’architettura di Squid Game non sia solo ambientazione. È un personaggio, con un ruolo attivo nella narrazione. È lei a creare la tensione, a evocare il passato, a deformare la realtà. È lo specchio della psicologia dei protagonisti e delle dinamiche che li annientano. È il grande motore visivo della serie.
E voi, avete mai guardato SSquid Game pensando alle sue architetture? Qual è l’ambiente che vi ha disturbato di più? Vi siete sentiti più prigionieri o spettatori?
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