C’è un momento, nella vita di ogni appassionato di epica e tragedia, in cui si torna indietro. Si torna là dove tutto ha avuto inizio, dove le passioni si sono accese, le spade hanno trovato carne e le ambizioni si sono trasformate in ossessione. Spartacus – Gli dei dell’arena (Spartacus: Gods of the Arena) è quel momento. Non una semplice miniserie, ma un affondo nel cuore pulsante di Capua, tra sabbia, sudore e sangue, là dove gli uomini venivano trasformati in dei… o spezzati come animali. Starz decise di affrontare un bivio imprevisto. Andy Whitfield, l’indimenticabile protagonista della serie Spartacus: Blood and Sand, dovette abbandonare le riprese della seconda stagione a causa di un linfoma non Hodgkin. Un colpo durissimo, umano e narrativo. Ma da questa tragedia nacque una scintilla creativa: un prequel. Un ritorno alle origini della Casa di Batiato, una finestra spalancata sul passato degli eroi e dei mostri che avremmo imparato ad amare – o odiare – nella serie principale. Nasce così Spartacus – Gli dei dell’arena, miniserie in sei episodi che ci riporta a un’epoca in cui Spartacus non era ancora giunto alla palestra dei gladiatori di Capua.
Il protagonista stavolta è Gannicus, il primo vero campione della casa di Batiato. Un uomo impavido, con la spada come estensione dell’anima e il sorriso scanzonato di chi affronta ogni giorno come se fosse l’ultimo. E forse lo è davvero, in un mondo dove il valore si misura con il sangue versato e il rispetto si conquista con la lama. Accanto a lui, si muove un giovane e ambizioso Quinto Lentulo Batiato, desideroso di uscire dall’ombra del padre e di affermare la sua casa come la più potente tra i lanisti di Capua. Con lui c’è Lucrezia, interpretata da una sensuale e subdola Lucy Lawless, regina di intrighi e manipolazioni, complice fedele del marito in un gioco di potere che non conosce scrupoli. A far da cornice, un mosaico di volti noti e nuovi: il fedele Enomao, l’inesperto Crisso, il crudele Ashur, il brutale Barca, e il giovane Dagan. Figure che nel tempo diventeranno leggenda.
La serie si prende il suo tempo per raccontare non solo i combattimenti, ma anche la lenta e affascinante costruzione del nuovo anfiteatro, l’arena destinata a diventare il tempio della carne, della violenza e dello spettacolo. Un luogo sacro dove la morte danza e il pubblico acclama. Lì, uomini comuni diventano divinità… per un istante.
Ma Gods of the Arena non è solo sangue e acciaio. Anzi. Se Blood and Sand aveva già alzato l’asticella del connubio tra erotismo e violenza, qui la fusione è ancora più esplicita, più brutale, più disturbante. La regia non si limita a mostrarci combattimenti: ci conduce in un continuo parallelo tra il sesso e la guerra, tra il piacere e il dolore. I corpi si fondono sotto le lenzuola come nell’arena. Penetrazione è parola chiave, concetto violento e sensuale al tempo stesso, che unisce l’atto dell’amore e quello della morte.
Orge, tradimenti, lussuria e rapporti forzati: la miniserie non fa sconti e scava nel marcio dell’aristocrazia romana, dove ogni schiava può diventare giocattolo sessuale e ogni corpo è moneta di scambio. Il tutto con un’estetica che mescola il fumetto iperrealista e il teatro classico, tra ralenti esasperati, sangue digitale e corpi scolpiti come statue. Alla fine dei conti, questa miniserie non è un semplice “antipasto” in attesa della seconda stagione. È un affondo nel cuore oscuro dell’Impero, un racconto violento e sensuale che ci ricorda quanto fragili siano gli uomini quando vogliono diventare immortali. Perché nell’arena, come nella vita, non c’è spazio per i deboli.Dal punto di vista narrativo, la serie riesce a intrecciare abilmente le sue trame con quelle di Blood and Sand, offrendo backstory intriganti e approfondimenti sui personaggi che già conoscevamo. Tuttavia, a partire dal quarto episodio, qualcosa si incrina. La velocità con cui si tirano le fila e si anticipano alcuni eventi futuri rischia di smorzare l’impatto emotivo di certe scelte. Alcune storyline si concludono troppo in fretta, lasciando un retrogusto amaro e la sensazione che ci fosse ancora molto da esplorare. Eppure, Spartacus – Gli dei dell’arena resta un esperimento riuscito. Un ponte narrativo che tiene in vita l’entusiasmo dei fan, un prequel che si assume il compito di espandere un universo già denso di pathos e tragedia. Gannicus, con il suo carisma e la sua disperata leggerezza, riesce a catturare l’affetto del pubblico, lasciando il segno come uno dei personaggi più iconici dell’intera saga.
Girata in Nuova Zelanda, con scenografie già conosciute ma arricchite da nuove location (come i vicoli di Capua, teatro di cospirazioni e scontri clandestini), la miniserie mantiene un livello produttivo elevatissimo, dimostrando come Starz avesse ormai trovato la sua formula vincente: epica, erotismo, tragedia e un pizzico di anarchia narrativa.b In Italia, Spartacus – Gli dei dell’arena è arrivata su Sky Uno nell’agosto del 2011, con una doppia proposta: versione censurata in prima serata e quella integrale – molto più cruda – in seconda. Più tardi è approdata anche su Cielo, in chiaro, per stuzzicare la curiosità di un pubblico più ampio e meno avvezzo alle sabbie roventi di Capua.
Hai visto Gods of the Arena? Che ne pensi di Gannicus rispetto a Spartacus? Ti ha affascinato la costruzione del mito o hai trovato la miniserie meno incisiva del previsto? Raccontacelo nei commenti e condividi questo articolo sui tuoi social per far sentire la tua voce nella tribuna degli appassionati. Il Corriere Nerd è anche tuo: facciamolo vivere insieme!
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