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Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il capolavoro musicale dei Beatles. La storia personale dell’album che ha rivoluzionato il mio modo di pensare la musica.

Come a scuola si incomincia dall’asilo prima di approdare all’Università, così ho fatto anch’io a livello musicale. Un po’ me ne vergogno (ma poi, perché?) quando ricordo che la prima musicassetta che ho ascoltato e amato (manco fosse stata un primo amore) quando ero bambino era di Raoul Casadei e la sua Mazurka di periferia faceva capolino nelle mie orecchie durante le spensierate giornate di piccolo e tenero cucciolo di famiglia. Poi, arrivarono Antonello Venditti (ancora oggi mi fa impazzire “Penna sfera”), Baglioni (checce volete fa…), i Pink Floyd (mai amati) e i Beatles.

Inutile dire che quando i Fab Four si sono presentati alla porta delle mie orecchie poco aduse ai suoni incomprensibili e psichedelici, come quelli di Animals, decimo album dei Pink Floyd, pubblicato il 21 gennaio 1977, lo hanno fatto in punta di piedi, aspettando che io crescessi prima di propormi quei brani che allora sentivo di sottofondo dappertutto senza sapere che erano “cosa” loro.

Il motivetto che mi affascinò in quegli anni era, col senno di poi, piuttosto bruttino e lo cantava il meno dotato del gruppo. S’intitolava “I wanna be your man” ed era un modesto rock’n roll nella quale non si riusciva proprio a nascondere la voce nasale di Ringo Starr. Tuttavia, allora mi piaceva e con i Beatles, quei Beatles, io ho trascorso i primi migliori anni della mia vita.

Poi, si cresce, si cambia abitazione, ci si sposta di località. L’amore per la musica lascia il posto all’arrivo della primavera (non intesa come stagione dell’anno ma di quella della vita) e la ricerca di una compagna si permeava di sottofondi musicali diversi. I Beatles, però, non se ne erano andati. Avevano semplicemente deciso di farmi maturare a sufficienza prima che, durante quelle che una volta venivano chiamate “prove tecniche di trasmissione” di una radio che avrebbe aperto i battenti a pieno regime soltanto qualche mese dopo, le nostre strade s’incrociassero un’altra volta. La radio, in sequenza, trasmetteva una scaletta, oggi si chiamerebbe “playlist”, in cui c’erano canzoni bellissime che non avevo mai ascoltato e che mi ricordavano terribilmente le voci e le atmosfere che conoscevo bene. Tempo prima ero riuscito a procurarmi una rivista, non rammento nemmeno quale, che trattava di gossip. Per me era diventata preziosa in quanto al suo interno era contenuto il “fotoromanzo dei Beatles”. Ebbene, grazie a quella che a quei tempi era la wikipedia dei bambini (la carta stampata) provai a dare dei titoli a quei pezzi e giurai che due di essi rispondevano a “While my guitar gently weeps” e “I am the walrus”.

Da allora, scoprì che il mio gruppo preferito aveva scritto pagine sonore memorabili tanto che, senza alcun ritegno, ero pronto a dire: “I wanna be your man”… scansati. È arrivato di meglio. Da adolescente con i primi stipendi potei coronare il mio sogno e, complice un negozio in Via Vigone a Pinerolo, cominciai ad acquistare tutti gli album dei miei eroi insieme e nelle loro carriere soliste. Ovviamente, questa decisione non comportò nessuna delusione. Ogni LP (allora si chiamavano così) era più bello del precedente.

Uno spettacolo nello spettacolo.

Tutto continuò fino a che incocciai in una loro produzione del 1967. I Fab Four hanno realizzato quell’album quando avevo due anni. Pensa un po’… Ricordo benissimo quei momenti. Avevo appena acquistato il disco ed ero tornato a casa. Prima di ascoltarlo mi colpì la copertina. Piena zeppa di colori. Nemmeno una confezione di matite colorate ne ha così tanti e quei bei disegni, la costruzione del puzzle di immagini che la compone era qualcosa che non avevo mai visto. Ci sono personaggi incredibili che riconosco: Tony Curtis, Oliver Hardy, Marlon Brando, Marilyn Monroe, Fred Astaire, Marlene Dietrich, Bob Dylan, Edgar Allan Poe, William Burroughs, H. G. Wells, Albert Einstein, Carl Gustav Jung, Karl Marx. La leggenda narra che ci fosse anche l’immagine di Gandhi ma la EMI la tolse per timore di turbare i rapporti con l’India. In verità, temeva che un po’ tutti potessero far causa alla Casa Discografica ma i Fab Four promisero che avrebbero pagato gli eventuali danni richiesti.

Naturalmente, mai nessuno fece causa. Anzi…

Prima di parlare della magistrale Opera musicale contenuta in quei solchi debbo raccontare un’altra leggenda, tutt’altro che metropolitana. Si narra che nonostante il battage pubblicitario della Decca Records per imporre all’opinione pubblica un dualismo tra i Beatles e i Rolling Stones tra i due gruppi non vi fu mai alcuna rivalità tanto che ancora oggi si possono visionare dei filmati fatti durante le riprese dal vivo di “All you need is love” di poco tempo dopo. Mick Jagger si nota tranquillamente seduto insieme a tutti gli ospiti in studio durante la mondovisione. Chi riteneva invece i Fab Four dei nemici da sconfiggere, qualcuno da seppellire a forza di note, era il leader degli americani Beach Boys, che si chiuse per lungo tempo in studio per creare l’album della vita da consegnare ai posteri e col quale intendeva spodestare dallo scranno più alto della popolarità musicale Lennon & McCartney. Quando lo terminò convocò una conferenza stampa. Peccato che durante la stessa, un giornalista gli chiese se avesse ascoltato un disco appena arrivato d’importazione. Si intitolava Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Inutile dire che dopo l’ascolto di questo capolavoro, il nostro trascorse un lungo periodo in clinica per riaversi dal duro colpo appena subito dalla sua ambizione.

Il giornalista aveva ragione. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è un album quasi perfetto. L’unica sua imperfezione è talmente incastonata bene da sembrare quasi un suo punto di forza, un neo sul viso che ne aumenta l’appeal.

Va bene, mettiamolo sul piatto.

Lato A

  1. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – 2:00 (Lennon-McCartney)
  2. With a Little Help from My Friends – 2:43 (Lennon-McCartney)
  3. Lucy in the Sky with Diamonds – 3:26 (Lennon-McCartney)
  4. Getting Better – 2:47 (Lennon-McCartney)
  5. Fixing a Hole – 2:35 (Lennon-McCartney)
  6. She’s Leaving Home – 3:33 (Lennon-McCartney)
  7. Being for the Benefit of Mr. Kite! – 2:35 (Lennon-McCartney)

Durata totale: 19:39

Lato B

  1. Within You Without You – 5:05 (Harrison)
  2. When I’m Sixty-Four – 2:37 (Lennon-McCartney)
  3. Lovely Rita – 2:41 (Lennon-McCartney)
  4. Good Morning Good Morning – 2:42 (Lennon-McCartney)
  5. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise) – 1:19 (Lennon-McCartney)
  6. A Day in the Life – 5:34 (Lennon-McCartney)

Durata totale: 19:58.

Quasi quaranta minuti, di musica e di emozioni.

L’Opera che si ascolta fin dall’inizio non è una raccolta di canzoni com’era stata fin da allora confezionata dai Beatles ma inaugurava un nuovo genere, una nuova idea. Era il primo esempio di quello che in seguito verrà definito come “concept album”. Insomma, i Fab Four avevano deciso di comporre sinfonie anziché canzonette e così stavano dicendo al mondo di essere dei veri compositori e non dei menestrelli che seguivano le mode del momento allo scopo di diventare sempre più ricchi. Il brano rock che apre il disco non è il migliore dell’album ma, come prima traccia, funziona alla perfezione, quasi a spiazzare l’ascoltatore per quel che seguirà. Il secondo pezzo, pur se cantato da Ringo Starr, è talmente perfetto che il batterista cantante avrebbe potuto esser sostituito dal primo stonato che s’incontra per la strada senza che il risultato cambiasse di una virgola.

Con il terzo brano entriamo in un’atmosfera di canzoni che finiscono con l’inizio della successiva o che ne sono la naturale continuazione sonora e melodica fino a diventare un corpo unico. Non sto a dilungarmi sulla chiave di lettura delle parole del titolo che vedrebbe un’allusione all’uso di una certa sostanza stupefacente perché tale è il risultato musicale da far dimenticare qualsiasi altro ragionamento. “Getting better” e “Fixing a Hole” possono sembrare a un’analisi superficiale la stessa canzone ma in realtà sono due perle incastonate in uno scrigno d’oro e preparano al brano successivo: “She’s leaving” home, struggente atto di accusa nei confronti della società degli adulti che vede perdere i suoi figli che se ne vanno perché non possono più convivere con loro.

Il brano più bello in assoluto del primo lato (così come del secondo) è l’ultimo. Si tratta di una carrellata di suoni attorno a una melodia accattivante che ricrea sonorità tipiche del Luna Park.

Il lato B si apre con il peggior brano dell’Opera. Il tentativo di George Harrison di ricreare atmosfere indiane non è riuscito appieno ma lo scoppiettante prosieguo delle canzoni risistema le cose innalzando l’asticella sempre più in alto. I successivi tre brani e mezzo praticamente non hanno una fine ma s’incastrano con l’inizio del successivo e lo completano.

Magistrale è la versione breve e reprise (molto più ritmica e veloce) del brano iniziale che dà il titolo all’album.

Manco a dirlo, la migliore canzone è quella con cui si chiude il sipario: “A day in the life”. Il pezzo sembra che sia nato quasi per caso ma appartiene alla Storia del Rock. Lennon non aveva il ritornello di una canzone mentre a McCartney mancavano le strofe di una accattivante melodia. George Martin, il loro Direttore Artistico, nonché co-produttore, suggerì al duo di unire le due incompiute in un’unica canzone e fu subito un’apoteosi.

Quando arrivai alla fine dell’ultimo solco dell’album mi resi conto che dopo aver ascoltato Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band avrei definitivamente seppellito la “Mazurka di periferia”.

Da quel giorno la musica per me non è mai più stata la stessa e accontentarsi men che meno il verbo riflessivo che avrebbe influenzato il mio presente e il mio futuro. Spero che possa accadere anche a tutti i lettori che vorranno concedersi quei quasi 40 minuti di ascolto che un album così merita.

Un saluto a tutti e anche ai Fab Four. Due sono ancora con noi. Gli altri due, da lassù staranno certamente applaudendomi per ringraziarmi per le splendide (! ndr) parole che ho usato. Tuttavia, l’applauso più grande è quello che faccio io ogni volta che apro le mie orecchie al suono di qualunque cosa è MUSICA.

Ciao John, George, Paul, Ringo. Grazie per aver educato la mia mente al meglio del meglio…

di Piergiorgio Tomatis

Pier Giorgio Tomatis è nato nel 1965, a Torino e vive a Cantalupa, una graziosa cittadina vicina ai monti. Scrive da sempre, racconti e sceneggiature. Ha collaborato in qualità di giornalista pubblicista con il settimanale il monviso e il periodico il piccolo di pinerolo. E’ stato direttore del bollettino comunale di saluggia e presidente dell’associazione di volontariato culturale e sociale gruppo sisifo. E’ promotore dell’associazione to.ta.le. per la diffusione dei libri e delle performance di autori a km zero… Redattore dei progetti la lettura è magia e 10 piccoli autori, è stato un educatore scout. Attualmente è titolare della casa editrice pinerolese hogwords.

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