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“Scissione” – Un viaggio disturbante tra identità e libertà personale

Quando “Scissione” (titolo originale Severance), la serie creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle, ha fatto il suo debutto su Apple TV+ il 18 febbraio 2022, è stato chiaro fin dai primi minuti che ci trovavamo di fronte a qualcosa di profondamente insolito. Questa non è solo una serie televisiva: è un esperimento narrativo che seziona la coscienza umana come la Lumon Industries seziona le vite dei suoi dipendenti. Con un’estetica asettica e opprimente, un ritmo lento ma chirurgico, e una tensione psicologica costante, Scissione è una delle opere di fantascienza più perturbanti e filosoficamente stimolanti dell’ultima decade.

Il cuore della serie è una domanda tanto semplice quanto devastante: e se potessimo separare la nostra vita lavorativa da quella privata, creando due versioni di noi stessi completamente inconsapevoli l’una dell’altra? In un’epoca dominata dal burnout, dal culto della produttività e dalla fusione tossica tra lavoro e identità personale, Scissione non offre risposte, ma una distopia inquietantemente familiare.

La Lumon Industries, azienda fittizia ma spaventosamente verosimile, ha messo a punto una procedura medica – la “severance” – che divide la coscienza di un individuo in due: l’“innie”, che esiste solo sul luogo di lavoro, e l’“outie”, che vive il resto della vita. Questa cesura non è metaforica. È fisica. I ricordi non passano da una parte all’altra. Si entra in ufficio e si diventa qualcun altro. Chi non ha mai sognato di lasciare lo stress della vita personale fuori dalla porta dell’ufficio – o viceversa? Scissione prende questo desiderio e lo trasforma in un incubo.

Il protagonista, Mark Scout (interpretato magistralmente da Adam Scott), è un uomo spezzato. Il suo outie vive nel dolore per la perdita della moglie, e ha scelto volontariamente di sottoporsi alla procedura per non dover convivere con quel lutto durante il lavoro. Ma il suo innie, ignaro della tragedia personale che lo ha spinto lì, si ritrova imprigionato in una routine alienante, in un luogo senza tempo né contatti con il mondo esterno. La sua vita è un ciclo infinito di corridoi bianchi, numeri da “raffinare”, e pause caffè svuotate di senso. La sua esistenza è ridotta a una bolla artificiale, dove ogni gesto è regolato da protocolli bizzarri e culti aziendali mascherati da training motivazionale.

Eppure, è proprio in quella bolla che germoglia il seme della ribellione.

La serie è un lento e magistrale crescendo. Introduce gradualmente i comprimari – Helly R. (Britt Lower), Irving B. (John Turturro), Dylan G. (Zach Cherry) – e costruisce con pazienza un microcosmo disturbante in cui ogni dettaglio, dai “waffle party” ai quadri inquietanti di Irving, è carico di significati simbolici. Il compartimento MDR (Macrodata Refinement) in cui lavorano non ha un vero scopo riconoscibile: separano numeri “spaventosi” da quelli “sicuri”, ma nessuno sa davvero perché. È una satira feroce sul lavoro moderno, dove spesso ci si perde nei meccanismi senza comprendere il senso più ampio di ciò che si fa.

Il personaggio di Helly – che si scoprirà poi essere Helena Eagan, figlia del CEO della Lumon – è l’elemento detonante della stagione. Lei non accetta la prigionia dell’Innie. Lei si ribella. Lei ci ricorda che, sebbene i nostri ambienti possano addomesticarci, la scintilla dell’autodeterminazione è sempre pronta a riaccendersi. Il suo gesto finale, nel corso di un evento pubblico, è uno dei momenti televisivi più potenti e liberatori degli ultimi anni: una ribellione trasmessa in diretta, un grido che rompe il silenzio artificiale costruito dalla Lumon.

Al centro emotivo della serie troviamo anche la struggente storia d’amore tra Irving e Burt (Christopher Walken), un rapporto fatto di sguardi rubati, pause silenziose e un’umanità fragile che lotta per esistere all’interno di un ambiente disumanizzante. È una delle trame più poetiche della stagione, perché dimostra che l’amore può nascere persino in un luogo costruito per impedirlo. Irving, nella sua vita esterna, è un uomo solo, ossessionato dalla vernice nera, simbolo inconscio del trauma subito dall’Innie. Eppure è proprio lui, nel finale, a cercare di riconnettere i fili tra le sue due esistenze, guidato dall’affetto per Burt.

Anche Dylan, che scopre di avere un figlio nel mondo esterno, si trasforma. Il suo gesto estremo – tenere aperto il meccanismo che consente agli innies di prendere temporaneamente il controllo delle loro controparti outie – è un atto eroico che trasforma un personaggio inizialmente comico in un simbolo di resistenza.

E poi c’è Mark, il cuore lacerato della serie. Il colpo di scena finale – la scoperta che sua moglie Gemma è viva e lavora anch’essa per Lumon sotto il nome di Ms. Casey – è un pugno nello stomaco. Un gesto di puro orrore narrativo che riapre tutte le domande sulla manipolazione dei ricordi e sull’etica della sperimentazione aziendale. L’amore, il dolore, la verità… tutto viene sezionato e ricomposto dalla Lumon con la freddezza di un bisturi.

La regia di Ben Stiller, affiancata da Aoife McArdle, è un altro punto di forza. Gli ambienti geometrici e opprimenti, i corridoi che sembrano infiniti, la luce fredda, la musica ipnotica: tutto contribuisce a creare un senso di claustrofobia mentale. Non ci sono effetti speciali plateali, ma ogni scena è costruita con un’attenzione maniacale al dettaglio. Il mondo di Scissione è uno specchio distorto del nostro, dove la cultura aziendale si è trasformata in religione, e il lavoro è diventato una prigione esistenziale.

In conclusione, la prima stagione di Scissione è un capolavoro di introspezione distopica, una riflessione brillante sulla fragilità dell’identità e sulla pericolosa volontà di rinunciare al dolore in nome della comodità. È una serie che ti lascia addosso una sensazione di disagio persistente, ma anche una voglia bruciante di sapere cosa accadrà dopo. Il cliffhanger con cui si chiude è perfetto, perché non chiude nulla: spalanca un abisso.

Nel panorama attuale delle serie TV, Scissione è un faro solitario, originale, disturbante e necessario. Una di quelle storie che non si dimenticano, perché ci parlano di ciò che siamo e di ciò che potremmo diventare, se lasciamo che qualcun altro decida cosa dobbiamo ricordare.

Dai nostri utenti

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