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“Ritrovarsi a Tokyo”: un film struggente sul Giappone, la paternità perduta e la speranza nei silenzi di Tokyo

Ci sono film che mi scelgono. Non quelli che semplicemente guardo, ma quelli che sento bussare dentro, prima ancora che comincino i titoli di testa. Ritrovarsi a Tokyo di Guillaume Senez è uno di quei film. E lo dico da spettatrice che da anni si lascia affascinare da ogni pellicola che riesca a raccontare il Giappone non come un semplice sfondo, ma come un personaggio vivo, contraddittorio, e profondamente umano. Quando ho scoperto questo film, già il titolo mi ha toccata. Ritrovarsi. Non “ritrovare”, ma un verbo riflessivo, che parla di ricongiungimenti e identità. E poi Tokyo: la città che sogno da sempre, che conosco attraverso mappe mentali, racconti, haiku, e naturalmente film. Tokyo è per me la metropoli più densa di emozioni al mondo, un luogo dove la solitudine diventa architettura, dove la distanza è regolata con gentilezza e le emozioni vengono nascoste come origami sotto il cuscino. Ed è esattamente questa Tokyo che Senez ci regala: non quella degli anime o dei templi dorati, ma quella vissuta, vera, quella delle corse in taxi, dei palazzi grigi, degli incroci infiniti.

La storia di Ritrovarsi a Tokyo ruota attorno a Jérôme, interpretato da un Romain Duris che non avevo mai visto così vulnerabile. Ex cuoco francese diventato tassista nella capitale giapponese, Jérôme è alla ricerca di sua figlia Lily, che non vede da nove anni. Dopo la fine del suo matrimonio con una donna giapponese, a causa della legislazione locale ha perso ogni diritto genitoriale. In Giappone, infatti, il concetto di affido congiunto non esiste: uno dei due genitori viene scelto, l’altro viene… cancellato. Una realtà brutale che non conoscevo nel dettaglio, e che ho scoperto proprio grazie a questo film.

Jérôme non vuole arrendersi. Ogni giorno guida per le strade infinite della città, in silenzio, osservando volti, sperando. Come donna, come spettatrice e come amante della cultura giapponese, ho provato un’inquietudine costante nel seguire questo personaggio, perché sentivo che dietro ogni suo gesto c’era una domanda universale: cosa siamo disposti a fare per non perdere chi amiamo?

E poi succede. In uno di quei momenti che sembrano nati per essere ricordati, Lily entra nel taxi del padre. Non lo riconosce. Eppure il loro incontro – casuale, banale quasi, come sanno essere certi momenti decisivi nella vita – è il punto in cui il film cambia. Non esplode in lacrime o abbracci, ma si contrae, si carica di quella tensione dolceamara che solo il cinema europeo riesce a trattare con questa eleganza.

Quel giorno che passano insieme è un concentrato di emozioni taciute. Perché Jérôme non può dire di essere suo padre. E Lily non può ricordare chi fosse, davvero, quell’uomo. Ma qualcosa si muove, silenzioso. E io, seduta nella mia poltrona, ho pianto senza accorgermene. Non per compassione, ma per quel senso di verità profonda che a volte solo il cinema sa restituire.

Il Giappone, in questo film, è silenzioso come la sua cultura, ma parla attraverso ogni fotogramma. C’è la frustrazione, c’è il rispetto per le regole, c’è la distanza emotiva che non è freddezza, ma un codice. Eppure, ci sono anche gli squarci: una madre che urla in un parco, un uomo che piange mentre viene arrestato, una ragazza che guarda il suo tassista con occhi nuovi.

Mi ha colpito sapere che Senez ha lavorato a questo film dopo aver conosciuto padri francesi che avevano perso i figli in Giappone. Si sente, nella regia, l’urgenza del raccontare, ma anche il rispetto. Il dolore non viene mai spettacolarizzato. È sussurrato, ma non per questo meno devastante.

E poi c’è Duris, che porta tutto il film sulle sue spalle come se fosse la sua stessa vita. Lo guardi e senti il peso degli anni, la stanchezza, la speranza che non vuole morire. Il suo Jérôme non è un eroe, ma un uomo che ha rinunciato a tutto pur di rimanere vicino, anche senza esserlo.

Il momento in cui viene arrestato, dopo aver passato una sola giornata con la figlia, è straziante. Non tanto per l’atto – che può essere giudicato, criticato – ma per lo sguardo che Duris riesce a restituire: uno sguardo che grida “non mi resta altro”. E il finale, sospeso, dolce e crudele al tempo stesso, ci ricorda che non sempre le storie si chiudono con una porta che si apre. A volte resta solo un’app, un gesto digitale, un possibile “ciao” lontano.

Ritrovarsi a Tokyo mi ha toccata nel profondo. Perché parla di ciò che spesso evitiamo di nominare: la perdita dei legami, la burocrazia che separa, le frontiere invisibili che la globalizzazione ha tracciato dentro le famiglie. E lo fa attraverso la lente delicata di un regista che ha scelto di raccontare Tokyo senza folklore, ma con rispetto. Con amore, persino.

Se amate i film ambientati in Giappone, quelli che parlano attraverso gli spazi vuoti, i silenzi, gli sguardi, allora questa pellicola è per voi. Non aspettatevi uno scontro culturale urlato, ma piuttosto una poesia dolorosa fatta di passi lenti, di desideri trattenuti, e di un amore che sopravvive anche quando tutto lo nega.

Io non dimenticherò facilmente Ritrovarsi a Tokyo. Perché mi ha ricordato che anche nelle città più immense, ci sono storie piccole che meritano di essere ascoltate.

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