Ci sono film che si raccontano. E poi ci sono film che si sentono, si vivono, si attraversano come stanze di una memoria che non sappiamo più se ci appartiene davvero o se l’abbiamo solo sognata. Reflection in a Dead Diamond – Reflet dans un diamant mort in originale – è uno di quei film rari, capaci di spegnere per un momento il rumore bianco dell’intrattenimento usa-e-getta per riportarci al piacere profondo del cinema come arte sensoriale e stratificata. Presentato in concorso al 75° Festival Internazionale del Cinema di Berlino, dove ha saputo distinguersi come una gemma inaspettata nel cuore di una Berlinale definita da molti “fiacca”, il film è arrivato nelle sale italiane il 3 luglio 2025, pronto a dividere il pubblico e a conquistare i cinefili più attenti.
Firmato dall’inconfondibile coppia artistica Hélène Cattet e Bruno Forzani – già noti per i visionari Amer e L’Étrange Couleur des Larmes de ton Corps – Reflection in a Dead Diamond è, a prima vista, un omaggio agli Eurospy anni ’60 e ’70. Ma è solo grattando la superficie patinata della sua estetica scintillante che si intravede la vera anima di quest’opera: una riflessione metacinematografica sul tempo, sul ricordo e sull’identità sfocata che ci costruiamo attraverso le immagini.
Un agente segreto in pensione e la minaccia del passato
La trama è un’esca: John Diman, interpretato da un sontuoso Fabio Testi, è un ex agente segreto ormai settantenne che trascorre le sue giornate in un hotel di lusso affacciato sulla Costa Azzurra. I suoi giorni si rincorrono lenti tra ricordi sbiaditi e cocktail al tramonto, finché una nuova, intrigante vicina – la magnetica Maria de Medeiros – non attira la sua attenzione. Quando la donna scompare senza lasciare traccia, John comincia a sospettare che i fantasmi del passato siano tornati a cercarlo.
Ma Reflection in a Dead Diamond non è un semplice thriller spionistico. È una discesa in un labirinto mentale, dove la linea tra realtà e immaginazione si sfalda scena dopo scena. Attraverso una serie di flashback – interpretati da Yannick Renier nel ruolo del giovane Diman – il film ci trasporta nelle atmosfere della Guerra Fredda, tra spie, tradimenti e missioni impossibili. Ma lo fa con un linguaggio visivo volutamente sghembo, fratturato, ipnotico. Come se il tempo stesso non fosse più lineare, ma liquido, scomposto, malinconico.
Il cinema come esperienza, non come racconto
Difficile, se non impossibile, incasellare Reflection in a Dead Diamond in una definizione univoca. Non è un thriller, non è un noir, non è un film di spionaggio nel senso tradizionale del termine. È un’opera-matrioska, una stratificazione infinita di riferimenti, suggestioni e rotture, che richiama lo stile di un certo cinema italiano d’autore, il fumetto pop degli anni Sessanta, le atmosfere psichedeliche del cinema europeo sperimentale.
Il lavoro di regia di Cattet e Forzani è maniacale, quasi alchemico: ogni inquadratura è studiata come un quadro, ogni transizione è un colpo di montaggio che ti strappa dalla sicurezza narrativa e ti costringe a rimettere tutto in discussione. Nulla è mai dove dovrebbe essere. Gli ambienti mutano, i personaggi si sdoppiano, la logica lineare implode. Non ci sono punti fermi, né appigli: come in un sogno lucido, ci si muove sospesi tra immagini che bruciano di bellezza e inquietudine.
In questa scelta radicale sta anche il cuore della poetica dei due registi: il cinema non come mezzo per raccontare, ma come oggetto da vivere. Un’ossessione visiva che, proprio come nel cinema di genere più audace, sfida lo spettatore a fidarsi più dell’istinto che della ragione.
Attori, volti, icone
Fabio Testi è perfetto nel ruolo di John Diman: presenza magnetica, volto segnato, sguardo perso in un passato che forse non è mai esistito davvero. C’è in lui qualcosa di Sean Connery e molto di Dirk Bogarde, in un’eleganza decadente che parla di tempo, perdita e fascino perduto. La sua performance è tanto fisica quanto emotiva, sospesa tra virilità e fragilità.
Yannick Renier, nei flashback, regala al personaggio una dimensione giovanile ma già carica di disillusione, mentre Maria de Medeiros incarna una figura femminile ambigua, perturbante, tra femme fatale e spettro. Accanto a loro, nomi come Koen De Bouw, Thi Mai Nguyen e Céline Camara completano un cast internazionale di grande solidità, che si presta al gioco metacinematografico senza mai perdere intensità.
Una produzione che sa di sogno
Il film è il frutto di una raffinata coproduzione europea tra Belgio, Francia, Italia e Lussemburgo, con il supporto di screen.brussels e la regia logistica di Kozak Films, Les Films Fauves, Dandy Projects e Tobina Film. Le riprese, suddivise tra Bruxelles e la Costa Azzurra, durano quaranta giorni e restituiscono una varietà scenografica che amplifica la stratificazione narrativa.
Manuel Dacosse firma una fotografia fuori dal tempo, che non si limita a illustrare ma amplifica, trasforma e dilata. I colori sono intensi ma mai gratuiti, le luci tagliano le figure come lame o le avvolgono come nebbia. La bellezza visiva non è mai fine a sé stessa: è parte integrante della narrazione.
La distribuzione internazionale è curata da UFO Distribution, mentre True Colours e Shudder ne hanno acquisito i diritti per la diffusione in tutto il mondo, includendo anche i mercati di Nord America, Regno Unito, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda.
Berlino e oltre: il cinema che osa
L’anteprima mondiale alla Berlinale 2025 non è un caso. In un’edizione povera di sorprese, Reflection in a Dead Diamond ha rappresentato una scossa tellurica: un film divisivo, certo, ma capace di riportare al centro del dibattito il concetto di cinema come linguaggio visivo puro. Cattet e Forzani non si curano dell’accessibilità, non cercano consensi facili. Il loro è un cinema elitario, in senso nobile: richiede attenzione, pazienza, apertura.
Eppure, per chi accetta la sfida, l’esperienza è totale. Non è solo una questione di trama (che, anzi, si sfalda continuamente), ma di atmosfera, ritmo, estetica. Una sinfonia visiva che alterna nostalgia e innovazione, omaggio e decostruzione, costruendo un’opera che è tanto una lettera d’amore quanto un atto di ribellione.
Un diamante che riflette il nostro sguardo
Reflection in a Dead Diamond non è un film facile. Ma proprio per questo è necessario. In un’epoca in cui il cinema è sempre più algoritmico, prevedibile, seriale, questo film rappresenta un gesto di rottura, una dichiarazione d’intenti. Non tutto deve essere spiegato, non tutto deve essere compreso: alcune cose devono solo essere viste, e lasciate risuonare.
Cattet e Forzani ci regalano un’opera che è insieme cinema di genere e astrazione poetica, sogno febbrile e riflessione sulla natura stessa dell’immagine. Non è un film che piacerà a tutti – e forse nemmeno vuole esserlo – ma è un film che resterà. Come un diamante, certo. Ma un diamante morto, il cui riflesso, paradossalmente, brilla più che mai.
E voi, siete pronti a specchiarvi in questa visione ipnotica? Se lo avete già visto, raccontateci nei commenti come l’avete vissuto. E se vi ha fatto battere il cuore cinefilo anche solo per un istante, condividetelo: perché certi film meritano di essere scoperti, discussi, vissuti.
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