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Alla scoperta del Monogatari: l’anima narrativa del Giappone antico

C’è un termine che risuona dolcemente tra le pagine della letteratura giapponese, un termine che porta con sé il fascino delle corti imperiali, il sussurro della poesia e la potenza immaginifica del racconto epico: monogatari. Da appassionata di cultura giapponese e divoratrice di manga, anime e testi classici, ogni volta che incontro questa parola sento come se si spalancasse un portale verso un tempo in cui narrare era un atto quasi sacro, un’arte che fondeva voce e poesia.

Il monogatari, che in giapponese significa letteralmente “racconto”, è molto più di una semplice storia. È un genere letterario che affonda le radici nella tradizione orale del Giappone antico, ma che si è evoluto nei secoli diventando qualcosa di unico e profondamente radicato nella cultura nipponica. Si tratta di lunghe narrazioni in prosa, spesso paragonate alle epopee occidentali, ma con un’anima tutta loro: fluida, poetica, e spesso intrisa di malinconia.

Pensiamo ad esempio al Genji monogatari, il capolavoro assoluto di Murasaki Shikibu, una donna straordinaria che visse nell’epoca Heian e che ci ha regalato una delle prime opere narrative della storia mondiale. La sua opera è un viaggio intimo nella psicologia dei personaggi, un ritratto dell’aristocrazia giapponese, e un esempio perfetto di come il monogatari riesca a fondere finzione e poesia con eleganza disarmante. Un altro pilastro è il Heike monogatari, che racconta in modo epico – ma sempre con uno sguardo velato di tristezza – le guerre tra i clan Taira e Minamoto.

All’interno di questo genere, si distinguono due principali filoni. Da un lato c’è il tsukuri monogatari, ovvero il “racconto di finzione”, in cui la narrazione è la protagonista assoluta. Dall’altro troviamo lo uta monogatari, letteralmente “racconto poetico”, dove la storia ruota attorno a componimenti poetici (spesso waka) che fungono da motore emotivo e da filo conduttore per la vicenda. È come se la narrazione fosse un giardino e le poesie, i suoi fiori più preziosi.

Il periodo d’oro del monogatari si colloca tra il IX e il XV secolo, in particolare nel X e nell’XI, quando la cultura di corte fioriva e le dame e i nobili amavano dedicarsi alla scrittura e alla lettura di queste storie raffinate. Secondo una raccolta del XIII secolo, il Fūyō Wakashū, esistevano all’epoca quasi duecento monogatari. Oggi ne sono sopravvissuti circa quaranta, reliquie preziose di un’epoca che continua a parlarci con voce poetica.

E se pensate che il termine “monogatari” sia qualcosa di relegato al passato, pensateci bene: in Giappone, questa parola ha continuato a vivere, a trasformarsi e a reinventarsi. Oggi la troviamo nei titoli di opere contemporanee – pensiamo alla celebre serie di light novel di Nisio Isin, appunto intitolata Monogatari – e persino nei titoli di traduzioni di capolavori stranieri: Il Signore degli Anelli diventa Yubiwa monogatari e Il Racconto di due città diventa Nito monogatari. Un’eredità linguistica e culturale che non ha mai smesso di vibrare.

Personalmente, ogni volta che leggo o sento la parola “monogatari”, mi sento trasportata in una Kyoto antica, tra tende di seta e profumi di incenso, dove le parole erano carezze dell’anima e le storie, incantesimi. Il monogatari non è solo un genere: è un modo di pensare, di sentire e di vivere la narrazione. Un invito a guardare il mondo con occhi più lenti, più profondi, più poetici.

E per chi, come me, ama scoprire le radici delle emozioni che anime e manga riescono a trasmetterci ancora oggi, il monogatari è una chiave preziosa per entrare nel cuore della cultura giapponese. Una porta che vale la pena aprire, ogni volta che si cerca una storia capace di toccarci davvero.

Redazione

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