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Marko Djurdjevic, tra arte e fandom

 Quest’anno ho seguito per la prima volta il Festival del Fumetto Romics, e ho scoperto un mondo che non mi aspettavo di trovare. Che forse non mi susciterà mai emozioni da fan, ma che da occhio critico esterno mi interessa invece molto. Per me i fumetti erano sostanzialmente un ricordo dell’infanzia (i vari album e film della Walt Disney) o qualche momento strappato al tram-tram quotidiano (Diabolik mimetizzato e nascosto sotto i testi scolastici…), ma soprattutto le indimenticabili ore passate a guardare cartoni animati giapponesi come Holly e Benji, Ken il Guerriero, i Cavalieri dello Zodiaco e via dicendo.

Più recentemente, il mondo del fumetto l’avevo frequentato attraverso il cinema, dato il successo che almeno dal 1989 i supereroi hanno sul grande schermo. Soprattutto ero rimasto colpito dall’ultimo film di Christopher NolanIl cavaliere oscuro (uscito a fine agosto in Italia, sequel di Batman Begins dello stesso regista), autentico capolavoro cinematografico, che rilancia e perfeziona non solo la precedente versione di Batman (quelli di Tim Burton, del 1989 e 1992), ma più in generale tutte le pellicole basate su personaggi dei fumetti. Non è un caso che voci autorevoli della critica lo abbiano definito «il più importante film supereroistico di tutti i tempi» e «forse il più importante film commerciale di sempre», o ancora «destinato a diventare una pietra miliare». Dunque, data anche la mia ambivalenza nei confronti del medium “scrittura”, l’interesse per il fumetto è stato sempre nelle sue forme “ri-mediate” (Bolter – Grusin), attraverso il cinema o la tv.

Proprio sulla scia dell’interesse per Il cavaliere oscuro (e del clamore attorno alla misteriosa morte di Heath Ledger, la cui ultima performance è stata proprio la meravigliosa interpretazione di Joker), di cui avevo addirittura scritto sul mio blog, decisi di partecipare al Festival. Ed era la prima volta che ero stimolato a focalizzare l’attenzione sul fumetto come medium per creare un territorio relazionale, più che come patrimonio/data-base. Le sollecitazioni che ho trovato nei quattro giorni alla Fiera di Roma mi hanno prima sorpreso e poi spinto a mia volta a cercare, a guardare meglio, ad approfondire qualche stimolo imprevisto.

Così è stato nel caso di Tex, che non avevo mai preso in mano fino ad allora, e che invece ho apprezzato sia nell’introduzione fatta da Abruzzese nel programma, sia nelle tavole rotonde ad esso dedicate. Sia, ancora e soprattutto, nelle parole degli autori (Tito Faraci, lo sceneggiatore, più i quattro disegnatori) premiati con il Romics D’Oro 2008, che mi hanno stuzzicato e invogliato a comprare lo speciale numero appena uscito. Infatti quest’anno si festeggiano i 60 anni di Tex (il più longevo e popolare, ma anche complesso, tra i fumetti italiani), comparso per la prima volta il 30 settembre 1948, quindi subito dopo le prime elezioni della Repubblica. Il merito di questo fumetto è di aver saputo assorbire e rielaborare tutta la storia italiana dal dopoguerra ad oggi, senza mai risultare né datato né stantio, ma riuscendo sempre ad appassionare il pubblico, pur seguendo un certo tradizionalismo (è difficile infatti trovare nelle varie edizioni di Tex grandi innovazioni: i cambiamenti devono essere piccoli e ben calibrati, per mantenere una certa linea di riconoscibilità).

Così è stato anche per la tavola rotonda iniziale sul Cosplay, che a dire la verità non mi ha interessato per l’argomento in sé (al di là della semplice analisi del fenomeno socio-culturale), ma per i discorsi che ho sentito a proposito di fandom (Valeriani) e di rapporti tra arte e fumetto (Speroni). E così, infine, è stato per l’incontro con Vittorio Giardino, un cult del fumetto d’autore che io neppure conoscevo, ma il cui Max Fridman mi ha stregato forse più di tutti: le avventure di un ex agente dei servizi segreti francesi in giro per l’Europa, alla vigilia della seconda guerra mondiale, nelle quali la fiction si intreccia con la storia reale, creando un’atmosfera che induce nel lettore una curiosità critica e consapevole. Dalle parole di Giardino e dalle pagine mostrateci è emersa la minuzia dei dettagli, il gusto per l’indizio, per l’ombra e per il torbido, per il sottile filo che unisce/separa apparenza ed inganno. Avvincente, senza dubbio. E poi mi hanno sempre affascinato le storie tra il misterioso e il politico.

Vorrei però soffermare la mia attenzione su quello che dal mio punto di vista è stato l’evento clou di tutto il Festival: l’incontro con il giovane artista serbo-tedesco Marko Djurdjevic. Luca Raffaelli lo ha intervistato, facendolo parlare di sé, del suo lavoro, delle sue ispirazioni; e nel frattempo scorrevano sullo schermo le immagini delle sue copertine: una più bella dell’altra, emozionanti, fortissime. E soprattutto mi ha colpito l’incredibile quantità di questa sua produzione! Una sorpresa, davvero. Così ho meditato un po’ su di lui, ho cercato notizie su internet e su youtube, partendo dai discorsi fatti nell’incontro e dalle osservazioni del pubblico.

Anzitutto ho scoperto che Djurdjevic è uno dei più importanti esponenti della concept art ed è conosciutissimo tra i ragazzi. Negli ultimi anni sta emergendo prepotentemente fra le nuove promesse della scuderia Marvel Comics, tanto che da “semplice” character designer che disegna esclusivamente copertine, ora ha avuto addirittura un fumetto (“Thor” della Panini Comics) tutto per sé, e proprio in questi giorni stanno uscendo i primi capitoli.

Marko è completamente autodidatta: dice di non aver frequentato scuole specifiche, di non essersi ispirato a nessun autore in particolare e di non avere alcun modello di riferimento, né cinematografico, né pittorico, né cartoonistico. Intorno ai 14 anni ha smesso di leggere fumetti e per molto tempo non ha avuto alcun contatto con quel mondo: li ha ripresi giusto recentemente, una volta assunto dalla Marvel. Proprio per questo non saprebbe definirsi attraverso alcuno stile e nemmeno gli interessa farlo; tanto che al Festival rigettava sistematicamente ogni possibile confronto artistico che il pubblico e gli studiosi presenti in sala cercavano di instaurare.

Sarà anche vero, ma resta il fatto che per sua stessa ammissione da piccolo si è esercitato a lungo sui modelli preferiti (He-Man), introiettando ed imparando a memoria le tavole critiche di Burne Hogarth (Dynamic Anatomy). E’ attraverso questo esercizio riflessivo e solitario che ha acquisito una mano veloce (capace di disegnare ben 18 copertine in soli 3 giorni!) ed estremamente precisa nel tratto, realistico ed efficace. Basta osservare il modo in cui a matita compone il disegno, perché si affaccino immediatamente alla memoria gli studi di Durer (Studio di mani), per l’immediatezza e il realismo con cui costruisce l’anatomia.

Analoghi confronti si potrebbero fare tra il modo in cui Marko sa rendere i movimenti dei corpi nello spazio, le torsioni anatomiche e gli incastri tra membra: la libertà compositiva, il gioco di luci e ombre nel contatto tra i corpi, richiamano certi caravaggismi.E il controluce del primo piano sullo sfondo di luce rimanda la memoria agli affreschi del Tiepolo (Nobilità e Virtù abbattono la Perfidia), in cui gli squarci di cielo danno alle immagini e ai corpi una leggerezza mai vista prima di allora.

Cosa ci dicono tali confronti? Sicuramente non contraddicono la sincerità di Djurdjevic, ma dimostrano che la potenza delle immagini agisce anche nel subconscio, anche quando l’autore non se ne rende razionalmente conto. Agisce come database, come pattern che si trasmette nell’immaginario. E allora sono vere entrambe le cose: che l’eredità dello sguardo occidentale agisce anche su un concept artist autodidatta, e che quel concept artist ha imparato lavorando il più possibile in solitudine, lontano da qualsiasi contatto che potesse influenzarlo, avendo come unico criterio il massimo realismo. Ne emerge un dato estremamente interessante, perché rispetto alla cittadella dell’arte Djurdjevic si comporta come quello che Abruzzese definisce un “analfabeta”, un “barbaro”: la assalta da fuori per istallarcisi dettando nuove regole.

E in effetti, al di là delle sue rivendicazioni di autonomia ideativa, il dato forse più rilevante della sua carriera è che essa non si è costruita dall’alto ma dal basso, non da dentro ma da fuori! Djurdjevic non si è distinto in scuole di fumetto, non ha fatto stages presso case editrici dedicate, insomma non è partito “dall’interno”. La sua fortuna è nata in rete, attraverso i siti come conceptart.org su cui pubblicava i suoi disegni, ricevendo feedback altamente positivi dagli utenti! E’ grazie ad internet, infatti, che Marko è stato contattato una prima volta dalla compagnia Massive Black e, più recentemente, dalla Marvel Comics. Quindi un legame a doppio filo con il fandom, poiché a selezionarlo non sono stati degli esperti addetti ai lavori, ma gli stessi imprenditori che si sono comportati da fan e in quanto tali l’hanno notato. Si torna così, anche attraverso l’esempio luminoso di Djurdjevic, al nesso tra arte, fumetto e fandom evidenziato nelle premesse teoriche dell’Università del Fumetto.

di Marcello Malgeri Zeri

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