C’è un nome che ancora oggi evoca terrore, mistero e una fascinazione oscura capace di attraversare i secoli come un’eco: Lizzie Andrew Borden. Nata il 19 luglio 1860 a Fall River, nel Massachusetts, Lizzie è entrata nella storia per uno dei delitti più crudeli e controversi dell’Ottocento americano. Accusata di aver ucciso a colpi d’ascia il padre Andrew e la matrigna Abby Borden nel 1892, Lizzie divenne il volto perfetto del mostro domestico, l’icona gotica ante litteram di un’America puritana che improvvisamente si trovò a guardare l’orrore dentro le mura di casa.
Una casa piena di silenzi e segreti
La famiglia Borden abitava in una casa modesta ma soffocante, senza bagno, senza acqua corrente, e con un clima familiare teso come una corda di violino. Il padre Andrew, uomo ricchissimo ma di una parsimonia patologica, arrivava a vendere le uova delle proprie galline pur di non spendere un centesimo. Con lui vivevano le due figlie nubili, Emma, di quarantadue anni, e Lizzie, di trentadue, insieme alla seconda moglie, Abby, e alla domestica irlandese Bridget Sullivan.
Lizzie non aveva mai perdonato al padre il risposarsi dopo la morte della madre naturale, Sarah. La convivenza con Abby era fredda, distaccata, fatta di convenevoli e rancori taciuti. La casa stessa — spoglia, priva di comfort moderni — sembrava riflettere quella tensione domestica, un luogo in cui ogni oggetto era impregnato di risentimento e malinconia. Persino i piccioni di Lizzie, la sua unica tenerezza, vennero uccisi dal padre dopo un furto nel pollaio. Un gesto che, nella narrazione postuma, suona quasi come il preludio di una tragedia.
Quella mattina del 4 agosto 1892
Era un giorno come tanti a Fall River, ma si sarebbe trasformato in una delle mattine più famigerate della storia americana. Andrew uscì presto, lasciando in casa Abby, Lizzie e la domestica. Emma era via in vacanza. Quando tornò, attorno alle 10:40, l’uomo si sdraiò sul divano del salotto per leggere il giornale. Poco dopo, la domestica sentì il grido disperato di Lizzie: “Vieni, presto! Padre è morto! Qualcuno l’ha ucciso!”
Sul divano c’era il corpo di Andrew Borden, il volto sfigurato da tredici colpi d’ascia. Al piano di sopra, il medico di famiglia e una vicina trovarono Abby, colpita diciotto volte alla testa. La scena era talmente brutale da sembrare uscita da un racconto di Poe. Ma non c’erano segni d’effrazione. Nessuna traccia di un intruso. Solo due donne in casa: la domestica e Lizzie.
Il processo che divise l’America
L’autopsia rivelò che Abby era stata uccisa almeno un’ora prima del marito. Troppo tempo per un assassino sconosciuto rimasto nascosto in silenzio. Troppo perfetto l’alibi di Lizzie. In casa fu trovata un’ascia accuratamente pulita, e testimoni giurarono di averla vista bruciare un vestito il giorno dopo gli omicidi — proprio quello che sembrava indossare quel giorno.
Nonostante ciò, il processo, seguito come un evento mediatico ante litteram, si concluse con un verdetto di assoluzione. Il suo avvocato, difendendola con abilità teatrale, sottolineò che nessuna “signora perbene”, insegnante di catechismo e filantropa, avrebbe potuto infierire con tale ferocia. “Lizzie Borden took an axe and gave her mother forty whacks”, recitava però la filastrocca popolare nata in quei giorni, e l’opinione pubblica non smise mai di credere alla sua colpevolezza.
Dall’aula del tribunale al mito americano
Dopo l’assoluzione, Lizzie rimase a Fall River, arricchita dall’eredità paterna ma isolata da tutti. Persino la sorella Emma si allontanò da lei. Negli anni successivi, la donna divenne una figura quasi spettrale, accusata perfino di un furto di porcellane in una galleria d’arte. Morì nel 1927, lasciando gran parte del suo patrimonio a parenti, amici e — ironia della sorte — alla Lega per la Protezione degli Animali.
Ma la storia non finì lì. Lizzie Borden continuò a vivere nella cultura americana come un simbolo inquietante: la figlia devota trasformata in assassina, l’angelo del focolare che brandisce un’ascia. La sua casa è diventata meta di tour e documentari, e il suo volto, immobile nelle foto d’epoca, sembra ancora oggi scrutare chi cerca risposte in un mistero forse insolubile.
Da “The Lizzie Borden Chronicles” a Netflix: il fascino eterno del mostro
La figura di Lizzie è riemersa ciclicamente nei decenni, tra letteratura, musica e cinema. Nel 1982 Gian Pietro Calasso realizzò la miniserie “L’enigma Borden”, mentre nel 2015 la rete Lifetime produsse “The Lizzie Borden Chronicles”, poi arrivata su Netflix, con Christina Ricci nei panni della protagonista. Nel 2018, Chloë Sevigny e Kristen Stewart portarono al cinema “Lizzie”, un film che rileggeva la vicenda con un taglio psicologico e queer.
Il suo nome compare ovunque: nel metal, con la band Lizzy Borden; nei Simpson, dove giudica l’anima di Homer all’Inferno; persino in Supernatural e Mrs. Maisel, in cui la sua leggenda diventa teatro e metafora. La canzone She Took an Axe dei Flotsam and Jetsam la trasforma in icona thrash, mentre la cultura pop continua a riplasmare la sua immagine come una Medea moderna intrappolata nel puritanesimo.
Perché Lizzie ci ossessiona ancora
Forse perché rappresenta la rottura più radicale con il modello femminile del suo tempo. Forse perché, in un’epoca di serial killer e cronaca mediatica, la sua ambiguità è più viva che mai. Lizzie Borden è il simbolo di una colpa che non si dissolve, di un mistero che resiste al tempo, di un’America che ha imparato a guardare l’abisso dietro il volto di una donna perbene.
E mentre Netflix prepara la nuova serie “MONSTER: The Legend of Lizzie Borden”, prodotta da Ryan Murphy e Ian Brennan, con Ella Beatty nel ruolo della protagonista, il mito è pronto a rinascere. Perché ogni generazione ha bisogno della sua mostruosa innocente. E Lizzie, con la sua ascia e il suo silenzio, è sempre lì ad aspettarci, dietro la porta di casa.











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