Mentre i riflettori di mezzo mondo erano puntati su Venezia, dove Jeff Bezos ha sposato Lauren Sanchez in un matrimonio da favola tra palazzi restaurati e ospiti del calibro di Oprah Winfrey, Kim Kardashian, Ivanka Trump e Jared Kushner, nel sottobosco nerd e geek si muoveva un evento infinitamente meno mondano, ma di un’intensità tale da far tremare i polsi a chiunque ami interrogarsi sul nostro rapporto con la tecnologia e il lavoro. Sto parlando di un libro, o meglio di un manifesto, che non ha nulla a che vedere con una biografia patinata o con le memorie di un ex dirigente in cerca di rivalsa. Il suo titolo è Lettera a Jeff Bezos. Dalle relazioni pubbliche alle relazioni umane: come ho riscritto i principi di Amazon, scritto da Marisandra Lizzi, che di Amazon non è stata una semplice spettatrice, ma una voce interna per quasi vent’anni.
Per chi, come me, vive di nerd culture, questo libro è una calamita irresistibile. Non è solo il racconto di un’esperienza personale, ma un viaggio dentro i meccanismi più profondi di un colosso che ha cambiato il nostro modo di vivere, consumare, lavorare e perfino pensare. Amazon non è solo un’azienda: è un simbolo, un paradigma, un ecosistema che pulsa tra algoritmi, intelligenze artificiali, data center e una logistica che sembra uscita da un romanzo di fantascienza cyberpunk. Eppure, come ogni buona storia geek ci insegna, anche nella perfezione della macchina può insinuarsi un bug.
Marisandra Lizzi lo ha sentito sulla propria pelle. È stata una delle architette della comunicazione Amazon in Italia, uno di quei volti che si muovono dietro le quinte costruendo reputazione, senso, immaginario. E a un certo punto qualcosa ha iniziato a non quadrare più. I sedici famosi Leadership Principles di Amazon, quelli che ogni dipendente dovrebbe conoscere a memoria e incarnare in ogni azione, hanno iniziato a suonare vuoti. Non perché falsi, ma perché incompleti. Manca l’elemento umano, l’ascolto autentico, il corpo. E così, come Neo quando scopre che Matrix è solo un velo davanti agli occhi, Lizzi decide di disconnettersi e raccontare.
La forza di questo libro sta proprio qui: non è un j’accuse, non è una vendetta, non è un pamphlet sensazionalista per far scandalo. È un atto d’amore e di lucidità nei confronti di un mondo che Lizzi conosce bene, un mondo dove metriche, performance e ottimizzazione rischiano di trasformare ogni lavoratore – dev, creative, project manager, data analyst – in un ingranaggio muto. È un invito a riscrivere il codice, letteralmente. Come un hacker etico, Lizzi smonta e rimonta i principi Amazon, li rilegge, li trasforma. Da “Customer Obsession” a “Human Connection”, da “Dive Deep” a “Feel Deep”. Non distrugge: reinterpreta.
Leggere questo libro è come immergersi in una fanfiction esistenziale dove il protagonista non ha una spada laser, non spara palle di fuoco né indossa un esoscheletro potenziato, ma brandisce qualcosa di infinitamente più sovversivo: la parola. La scrittura di Lizzi è ibrida, contaminata, a tratti filosofica, a tratti diaristica, sempre viva. È un libro che parla a chi lavora nel digitale e sente di non avere più pelle, a chi si muove tra startup, software house, studi creativi, grandi multinazionali e si chiede se tutto questo abbia ancora un senso.
E c’è un dettaglio che, da nerd attento ai simbolismi, non posso ignorare. La pubblicazione del libro e il matrimonio da favola di Bezos avvengono praticamente in contemporanea. Da un lato il trionfo del potere, dell’immagine, della ricchezza. Dall’altro la voce controcorrente di chi quel mondo lo ha abitato dall’interno e decide di raccontarne l’altra faccia, quella che non finisce sui red carpet. E Venezia, con il suo fascino decadente, le sue maschere, i suoi riflessi d’acqua che distorcono la realtà, sembra essere lo sfondo perfetto per questa coincidenza: un luogo dove ogni impero è chiamato prima o poi a fare i conti con la propria anima.
Perché leggere Lettera a Jeff Bezos, allora? Perché se sei cresciuto divorando Asimov e Philip K. Dick, se passi le notti a esplorare universi digitali, se ami l’innovazione ma temi il rischio di diventare solo un numero in un foglio Excel, questo libro parla anche di te. È il sorgente di una nuova leadership, una che non si misura solo in KPIs ma anche in connessioni, in vulnerabilità, in coraggio. È un richiamo a uscire dal crunch mode, a respirare, a ripensare il lavoro come spazio di senso e non solo di efficienza.
In un’epoca in cui tutti corrono per essere più smart, più veloci, più customer-centric, Lizzi ci chiede la cosa più difficile e radicale: essere più veri. Forse, la più grande rivoluzione nerd che possiamo immaginare.
E tu, hai mai pensato a chi potresti scrivere la tua “lettera a Jeff Bezos”? Chi è il tuo personale “capo impero” al quale vorresti dire la verità? Raccontamelo nei commenti qui sotto o, ancora meglio, condividi questo articolo sui tuoi social: perché la vera innovazione nasce spesso da una parola scritta col cuore.
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