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La Guerra dei Mondi di Spielberg compie 20 anni: il blockbuster apocalittico che ancora ci inquieta

Il 29 giugno 2005, Steven Spielberg ci ha fatto alzare lo sguardo al cielo per paura, e non per meraviglia. La sua versione de La Guerra dei Mondi è un’epopea di distruzione, un film catastrofico dal cuore ferito e lo sguardo cupo, che oggi – a distanza di vent’anni – continua a ruggire nel nostro immaginario collettivo con l’intensità di un incubo senza fine. Tratto da La Guerra dei Mondi, uno dei più celebri romanzi di fantascienza mai scritti, firmato H.G. Wells nel 1898, questo adattamento cinematografico non è solo una battaglia contro gli alieni, ma soprattutto un riflesso distorto dell’umanità e delle sue paure più profonde. Spielberg, con la consueta maestria, confeziona uno spettacolo visivo dirompente, ma stavolta il sogno americano è incrinato. E dietro le esplosioni, i tripodi e i paesaggi in rovina, risuona l’eco del trauma post-11 settembre.

Spielberg e l’apocalisse: tra tensione visiva e terrore sociale

Fin dalle prime inquadrature, il film ci precipita in un abisso di inquietudine. Il cielo si oscura, la terra trema, e l’ignoto si manifesta sotto forma di colossi meccanici che ricordano le divinità pagane assetate di sacrifici. Le scene iniziali sono un crescendo di ansia: luci accecanti, terremoti, elettricità che impazzisce. È l’America suburbana che si spezza, che crolla sotto il peso dell’invisibile. E a differenza del trionfalismo à la Independence Day, qui non ci sono eroi che sventolano bandiere. C’è il caos, la paura, la disintegrazione del vivere civile. E ci sono gli umani, forse più spaventosi degli invasori alieni. In questa versione, Spielberg non guarda le stelle con speranza, ma con terrore.

Tom Cruise: un eroe imperfetto per tempi imperfetti

Ray Ferrier, interpretato da un Tom Cruise sorprendentemente vulnerabile, è l’antieroe perfetto per questo disastro. Non è un salvatore, è un padre fallito, un uomo mediocre trascinato in una situazione che lo sovrasta. Con due figli che lo disprezzano e nessun piano per salvarli, la sua fuga disperata è più morale che fisica. In netta antitesi con il papà illuminato di Incontri ravvicinati del terzo tipo, Ray è una figura spezzata che tenta di rimettersi insieme mentre il mondo si sgretola. La sua evoluzione è il cuore narrativo del film, anche se non sempre la sceneggiatura riesce a scavare a fondo. Il rapporto con il figlio Robbie, ad esempio, resta in superficie, un conflitto appena abbozzato che non trova una vera risoluzione.

Dakota Fanning, l’anima del film

A emergere con forza è invece la piccola Rachel, interpretata da una Dakota Fanning che, all’epoca, incantò critica e pubblico. I suoi occhi grandi e impauriti, la voce che si spezza nel panico, danno forma al terrore più autentico. Lei è il filo sottile che tiene unita la famiglia, la scintilla di umanità che giustifica ogni corsa, ogni decisione, ogni sacrificio. Quando piange, anche lo spettatore ha paura. Quando fissa qualcosa fuori campo, immaginiamo sempre il peggio.

Il cambio di ritmo e la claustrofobia interiore

La seconda metà del film cambia pelle. Dall’apocalisse su larga scala si passa a una tensione più psicologica, più intima. Ray e i figli si nascondono in un seminterrato insieme a Ogilvy, interpretato da un disturbante Tim Robbins. In quelle stanze anguste, Spielberg costruisce una tensione malsana fatta di sussurri, paranoia e claustrofobia. Ma proprio lì, dove ci si aspetterebbe il confronto più viscerale con il lato oscuro dell’essere umano, la narrazione perde slancio. Il ritmo si impantana, l’atmosfera si fa stagnante, e la forza visiva che aveva sorretto l’inizio sembra appannarsi.

Il finale che non convince

E poi arriva il finale. Un epilogo che, a detta di molti, tradisce tutto ciò che il film aveva costruito. Dove Wells aveva voluto mostrare l’impotenza dell’uomo di fronte alla natura e alla vita cosmica, Spielberg sembra costretto a trovare una via d’uscita rassicurante. Una redenzione forzata, un ritorno alla “normalità” che sa di compromesso hollywoodiano. La risoluzione, scientificamente coerente con il romanzo, appare troppo affrettata, troppo conciliante. Dopo tanto orrore, viene da chiedersi: davvero bastava questo per sopravvivere? E la risposta, per molti spettatori geek, è un amaro “no”.

La guerra degli uomini, più che dei mondi

Nonostante le sue imperfezioni, La Guerra dei Mondi resta un’esperienza cinematografica viscerale. La regia di Spielberg è un manuale di tensione e ritmo. La colonna sonora di John Williams, stavolta spogliata della sua abituale liricità, vibra di note sinistre e disturbanti. Le immagini – un fiume pieno di cadaveri, un treno in fiamme che sfreccia nella notte, i giganti metallici che si stagliano contro il cielo – sono incubi moderni che restano impressi. È proprio questo contrasto tra perfezione tecnica e debolezza narrativa a rendere il film così controverso. Non è un’opera perfetta, ma è un’opera potente. E, forse, anche per questo non abbiamo mai smesso di parlarne.

Un’eredità controversa, ma indelebile

Vent’anni dopo, il film di Spielberg continua a dividere. È stato un successo al botteghino, ha lasciato il segno nell’immaginario post-11 settembre, ha ridefinito il modo di raccontare le invasioni aliene. Ma ha anche deluso una parte del fandom più esigente, che sperava in una riflessione più profonda, in un racconto meno edulcorato e più coraggioso. In un’epoca dominata dal cinismo e dalle distopie, La Guerra dei Mondi resta un ibrido difficile da collocare: troppo cupo per essere puro intrattenimento, troppo accomodante per essere autentico cinema di fantascienza impegnata.

E tu, da che parte stai?

Hai vissuto il film come un pugno nello stomaco o come una corsa sulle montagne russe? Ti sei sentito coinvolto dal terrore o tradito dal lieto fine? Dicci la tua nei commenti qui sotto, condividi questo articolo sui tuoi social preferiti e preparati al confronto: perché, come diceva Orson Welles, a volte basta una voce nella radio per scatenare il panico… e ogni voce, oggi, può fare la differenza.

La Guerra dei Mondi è ancora tra noi. E noi, siamo pronti a guardarla di nuovo con occhi nuovi?

Redazione

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