Nel panorama del cinema mondiale, pochi film riescono a lasciare un’impronta così profonda e duratura come “La dolce vita”, diretto da Federico Fellini e uscito nel 1960. Questo straordinario lungometraggio ha ricevuto tre nomination agli Oscar nel 1962, tra cui miglior regista per Fellini e migliore sceneggiatura originale, ottenendo però il riconoscimento per i migliori costumi per un film in bianco e nero. Le sue atmosfere uniche e i personaggi indimenticabili lo rendono un classico che continua a ispirare e affascinare generazioni di cinefili.
Girato tra la primavera e l’estate del 1959, “La dolce vita” è il risultato di un processo creativo che si è evoluto da una sceneggiatura precedente, “Moraldo in città”. Quest’ultima era incentrata sulle avventure romane del protagonista de “I Vitelloni”, ma fu Federico Fellini, insieme ai co-sceneggiatori Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, a plasmare il racconto finale. La produzione del film, tuttavia, non fu priva di ostacoli: Dino De Laurentiis, inizialmente produttore, abbandonò il progetto per timore dei costi elevati, lasciando spazio a Peppino Amato e al finanziatore Angelo Rizzoli.
La struttura narrativa di “La dolce vita” si presenta come un accumulo di episodi apparentemente scollegati, incorniciati da un prologo e un epilogo. Il protagonista, Marcello Rubini, un giornalista romano, si muove attraverso la città in un viaggio erratico, alternando momenti di luce solare accecante a notti illuminate da luci artificiali. Questo flusso di eventi, privo di una linea temporale rigorosa, crea un’atmosfera onirica, quasi sonnambolica, che si discosta decisamente dal neorealismo, allora in crisi nel rappresentare una realtà complessa e sfaccettata.
Fellini intendeva con “La dolce vita” realizzare una sorta di radiografia della mutazione della società italiana, esplorando come la vita venisse influenzata dai nuovi media. Per costruire la narrazione, si appropria di eventi reali, come nel caso dell’episodio iconico di Anita Ekberg nella fontana di Trevi, immortalato da Pierluigi Praturlon nel 1958, e il famigerato spogliarello di Aiché Nanà, fotografato dal re dei fotoreporter Tazio Secchiaroli. In questo modo, il film diventa un’analisi critica della crescente mediatizzazione della società, un saggio sulla manipolazione dell’informazione e delle immagini.
Il personaggio di Marcello, interpretato da Marcello Mastroianni, rappresenta un giovane disincantato, coinvolto in un mondo di eccessi e superficialità. La sua vita si dipana attraverso una serie di incontri memorabili: dall’arrivo della famosa stella del cinema Sylvia, ai litigi con l’amante Emma, fino all’episodio di un’apparizione miracolosa che genera un fanatismo temporaneo. Un elemento chiave è l’incontro con Steiner, un intellettuale che incarna le aspirazioni di Marcello come scrittore, e con Paola, una ragazzina innocente che rappresenta una fugace speranza. Il finale, in cui Marcello non riconosce Paola, suggella la sua incapacità di cogliere il significato della vita che lo circonda.
Il film, tuttavia, è molto più di una semplice narrazione di episodi. In esso, Fellini utilizza una vasta gamma di elementi visivi e simbolici, creando un linguaggio cinematografico che continua a influenzare registi e artisti. La bellezza della fotografia in bianco e nero, con il suo contrasto drammatico, è uno degli aspetti che conferisce al film un’atmosfera magica e quasi surreale.
Tra le curiosità legate a “La dolce vita”, spicca la scelta iniziale di Paul Newman come protagonista, una decisione che non si concretizzò mai. Inoltre, il personaggio di Paparazzo, il fotografo che collabora con Marcello, ha dato origine al termine “paparazzo” utilizzato in molte lingue per definire i fotografi scandalistici. La casa di Steiner è ambientata nel quartiere EUR di Roma, ma per motivi pratici le riprese esterne furono girate in un’altra location. La censura franchista in Spagna ha addirittura proibito il film, rendendolo accessibile solo vent’anni dopo la sua uscita.
Il passaggio del film in RAI nel 1976 fu un evento eccezionale, sebbene con alcuni tagli, tra cui la scena finale con la spogliarellista. In edizioni successive, la figura effeminata interpretata da Giò Staiano ha ricevuto particolare attenzione, contribuendo a dare visibilità e rappresentanza a tematiche allora poco esplorate nel panorama cinematografico italiano.
“La dolce vita” non è solo un film, ma un manifesto culturale che analizza la società italiana del tempo, un’opera d’arte che continua a stimolare riflessioni profonde e a risuonare con il pubblico moderno. Con il suo stile visivo inconfondibile e la sua capacità di raccontare storie complesse attraverso una lente critica, il capolavoro di Fellini rimane un punto di riferimento nel mondo del cinema e una fonte di ispirazione per artisti di ogni genere.
Aggiungi commento