Il cinema può essere definito in tanti modi. Esso è, però, essenzialmente, un ricettacolo di sogni. I sogni dei giovani, appassionati aspiranti cineasti (come il sottoscritto) che, nel buio delle sale cinematografiche, continuano ad emozionarsi come la prima volta pur sapendo perfettamente come siano state realizzate le immagini che scorrono davanti ai loro occhi. Ma anche i sogni degli spettatori che, per due ore, hanno l’illusione di vivere in un mondo distante e assai diverso da quello caotico e cinico, nemico di ogni meraviglia, che si trova al di fuori. La fascinazione generata dalle immagini proiettate sullo “schermo argentato” ci rende tutti dei bambini sognanti.
E bambino era anche Peter Jackson quando, un venerdì sera, vide il film che per primo, nel 1933, ebbe il merito di dare forza e vigore a questa visione del cinema. Si trattava di King Kong, “film-logo” del cinema (non Hollywood) come “fabbrica dei sogni” e oggi quel bambino neozelandese, cresciuto e diventato uno dei più acclamati registi del nostro tempo, ne ha fatto un remake che rappresenta uno dei più sontuosi omaggi che un cinephile abbia mai fatto al film che ha ispirato la sua carriera. La storia è rimasta la stessa: uno scimmione gigantesco, strappato alla sua terra incontaminata e trapiantato nella New York degli anni ’30 corrotta dalla civilizzazione del progresso economico e tecnologico per essere esposto come “ottava meraviglia del mondo”, spezza le catene che lo imprigionano per amore dell’attrice Ann Darrow, per la quale arriverà a sacrificare la sua stessa vita precipitando dall’Empire State Building.
La grandezza del progetto di Jackson sta proprio nel prendere il medesimo materiale di partenza portandone, però, ad evoluzione il sottotesto socio-culturale. Il cinema è cambiato, in questi ultimi settant’anni. E non necessariamente in meglio, nonostante l’evoluzione tecnologica. Non è un caso, infatti, che il cambiamento più evidente rispetto alla pellicola del ’33 sia rappresentato dal personaggio di Carl Denham (Jack Black, sorprendentemente in parte), il regista-avventuriero che cattura Kong e ne fa una bestia da baraccone. Le sue azioni non hanno più la loro motivazione nella passione artistica ma solo nell’ambiziosa rincorsa al prestigio personale. Dall’essere “un’entusiasta”, come lo definiva una magnifica battuta del film di Cooper e Schoedsack, egli diviene un uomo con l’”inesauribile capacità di distruggere quello che ama”, citando un’altra battuta, altrettanto significativa, stavolta di questo remake, pronunciata dal commediografo amante del teatro Jack Driscoll (Adrien Brody, purtroppo nota stonata del film: la scimmia ha maggiore espressività!)
Anche la storia d’amore tra Kong ed Ann (Naomi Watts, bravissima e semplicemente incantevole, grazie anche ad una regia e ad una fotografia che, in ogni inquadratura, ne esaltano la naturale bellezza), nodo centrale dell’intero film con il suo innocente, divertente e, al tempo stesso, malinconico romanticismo, s’incastra in questo disegno. La Bestia non è, in questo film, conquistata dalla Bella per via di un’animalesca passione erotica: Kong è sedotto dall’artista, l’attrice di vaudeville che con i suoi numeri da giocoliere e le sue danze lo rinfranca dopo una faticosa (ma stupefacente, per lo spettatore) lotta con i Tyrannosaurus rex. E’ ammaliato dallo Spettacolo (la maiuscola non è casuale), quello puro e fatto da veri appassionati che il cinema contemporaneo, trascinato dalla degenerazione della logica dello studio-system, sta inesorabilmente perdendo.
Al di là di tutte queste metafore e simbolismi, il King Kong di Peter Jackson è un grande film. Forse un capolavoro. E’ un film appassionato, romantico, commovente, come un tramonto da guardare affascinati assieme a chi si ama o addormentarsi dolcemente tra le sue braccia (o, in questo caso, nel palmo della sua mano). Ma non solo: è anche un film adrenalinico, pieno, forse troppo, di scene d’azione incredibili mai viste finora e rese possibili dalla tecnologia digitale sviluppata dalla Weta Digital.
Un film d’avventura d’altri tempi, insomma, capace di emozionare dal primo all’ultimo dei suoi 188 minuti. Ma anche un’opera colma di nostalgia per un cinema che non c’è più, distrutto dalle “fiamme dell’industria” che ne segnano, però, l’intrinseca contraddizione. Perché se è sincero, e lo è, l’atteggiamento nostalgico del regista di Wellington, è altrettanto vero che esso viene espresso con l’utilizzo estremo di effetti speciali di sintesi, evidente in 20-30 minuti di dinosauri ed insetti giganti che potevano essere tagliati. Ma forse non c’è nessuna contraddizione e questo King Kong, pur guardando con ammirazione e rammarico al passato, è interamente proteso verso il futuro. Ad ogni modo la “grande scimmia” rappresenta, ancora una volta, una svolta per il mondo del cinema. Se questo sia un bene o un male, solo il tempo potrà dirlo.
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