Immaginate questa scena: alla fine del 2024, un libro intitolato “Ipnocrazia” fa la sua comparsa sugli scaffali, pubblicato da una casa editrice indipendente. In poco tempo, diventa un argomento di conversazione, se ne parla nei circoli letterari, sui blog, durante eventi culturali. Tutti sono colpiti dalle idee contenute nel libro, che descrive una nuova forma di controllo sociale basata sulla nostra tendenza a credere a ciò che ci viene raccontato, una specie di “trance collettiva” resa possibile da storie sempre più pervasive. L’autore, un certo Jianwei Xun, viene presentato come un giovane filosofo di Hong Kong, con un’ottima formazione e un pensiero originale.
Le recensioni sono entusiastiche, lo stile di scrittura viene lodato e il libro sembra offrire una chiave di lettura inedita per capire il mondo di oggi. Sui social media il termine “ipnocrazia” inizia a circolare, la gente si scambia citazioni, discute le teorie. In Italia, ma anche in Francia, il libro riscuote un successo inaspettato, tanto che persino figure di spicco sembrano apprezzarlo.
Eppure, c’è un colpo di scena.
Jianwei Xun non esiste. Il libro è frutto di un’operazione particolare, un po’ come quelle che faceva il collettivo Luther Blisset anni fa. Dietro a quel nome si cela in realtà Andrea Colamedici, che per scrivere il libro si è avvalso anche dell’intelligenza artificiale. Jianwei Xun, con la sua biografia, il suo sito web, il suo modo di comunicare, era tutta una finzione, parte di un progetto più grande.
L’idea era quella di mettere alla prova la nostra credulità, di capire come mai ci fidiamo così facilmente di certe narrazioni. Il libro era stato creato apposta per sembrare autentico, con un nome plausibile ma non rintracciabile, senza foto o video dell’autore. Era come se Xun fosse un’idea, un insieme di caratteristiche che lo rendevano credibile.
Ma perché ci siamo cascati così facilmente?
Perché abbiamo creduto a un autore che non esisteva? Forse perché il libro diceva cose che sentivamo vere, che risuonavano con la nostra esperienza del mondo. Ci parlava di un’epoca in cui non importa tanto se una cosa è vera, ma se ci sembra vera, se ci convince. La realtà, in fondo, la costruiamo insieme, dandoci a vicenda il riconoscimento che certe storie sono valide. Se un libro è pubblicato da un editore serio, se viene recensito positivamente, lo consideriamo automaticamente autorevole.
Il libro stesso, “Ipnocrazia”, parlava proprio di questo: di un sistema in cui le narrazioni si moltiplicano al punto che diventa difficile distinguere il vero dal falso. E il successo del libro, in un certo senso, ha dimostrato quanto fosse azzeccata questa idea. Abbiamo creduto perché avevamo bisogno di una storia che funzionasse, che ci desse delle risposte, più che di una verità verificata.
Questa storia ci porta a riflettere su molte cose.
Su come costruiamo la nostra idea di realtà, su quanto siamo influenzabili dalle storie che ci vengono raccontate, soprattutto in un’epoca in cui le informazioni circolano così velocemente. Ci fa anche pensare al ruolo dell’intelligenza artificiale nella scrittura e nella creazione di contenuti. Se una macchina può aiutarci a creare un libro così convincente, cosa significa essere autori? Chi è veramente l’autore di un’opera?
“Ipnocrazia” non è solo un libro, ma un esperimento sociale che ci pone domande importanti sul nostro rapporto con la verità, con l’autorità e con il modo in cui percepiamo il mondo che ci circonda. Ci invita a essere più scettici, a non dare per scontato tutto ciò che leggiamo o sentiamo, e a interrogarci sempre sulla fonte delle informazioni. In fondo, la storia di Jianwei Xun ci ricorda che a volte la realtà è più strana della finzione, e che la nostra credulità può essere un’arma a doppio taglio.
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