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Il nauseante egocentrismo social sulla morte di Giulia Tramontano

Il nauseante egocentrismo social sulla morte di Giulia Tramontano

Come fosse la finale di Sanremo da commentare. Come quelli che pubblicano una scontata battuta sul tornare al lavoro di lunedì o sulla difficoltà di alzarsi con l’ora legale, nel tentativo di  raccogliere qualche like e sentirsi accettati dal mondo.

Come e oltre, insomma, ogni facile nannimorettismo in cui “mi si nota di più se ne parlo con una mia opinione, se ne riporto un’altra rimanendo defilato, oppure se non ne parlo proprio”. La tragedia di Giulia Tramontano, “il delitto di Senago”, si è trasformata in poche ore – e purtroppo continua ad esserlo da giorni – in un gigantesco specchio in cui finisce per riflettersi l’egocentrismo del “popolo dei social”. Tuffandocisi sopra come un cane affamato sull’osso da spolpare.

Se sulla gravità del gesto e sulla disumanità dell’uomo (?) Alessandro Impagnatiello l’intero universo è d’accordo, è vero anche che orde di mitomani hanno deciso di sfruttare l’occasione per parlare di sé, per postare una facile foto “acchiappa clic” su Instagram o per fare un video su tiktok.

Il nauseante egocentrismo social sulla morte di Giulia Tramontano
La tragedia della povera Giulia sfruttata da cinici egocentrici pur di avere qualche like sui social

Ci sono i vip che hanno pubblicato gli screenshot dei “like” che la povera Giulia gli metteva, pur di avere la scusa per parlarne e “fare hype”, gonfiare le visualizzazioni. Ci sono i wannabeinfluencer che hanno messo il loro faccione in primo piano per sparare frasi fatte, con musica strappalacrime, su quella ragazza che non conoscevano. E che magari mai avrebbe voluto finire protagonista di ogni bacheca di ogni singolo essere umano di questo Paese, con la propria intimità scandagliata non solo dai titolari dell’inchiesta (questo sì che è giusto e ha un senso), ma da ficcanaso che sono andati a studiare i suoi post, a leggere i suoi commenti, a vedere a chi “metteva un like”.

Viene in mente quella striscia di Zerocalcare, “Quando muore uno famoso”, in cui un qualsiasi cinico essere X, mentre sta a casa sua in pantofole, commenta con toni eccessivamente accalorati il passaggio a miglior vita di qualcuno di minimamente conosciuto (in quel caso il pupazzo Uan): non gliene importa nulla, è freddo e cinico. Ma sfrutta l’occasione per dire la sua. Per postare il suo ricordo speciale. Per parlare di un aneddoto. E così ogni volta, la tragedia finisce per essere messa in secondo piano per fare spazio all’Io.

Così è successo anche per Giulia. La cui vicenda ovviamente – è bene ribadirlo – colpisce l’anima, i pensieri, le riflessioni di ogni persona degna di questo nome. Ma che è stata trasformata per l’ennesima volta nell’argomento su cui tuffarsi, su cui far discutere ogni falso esperto che mai ha avuto la fortuna di conoscerla, ma ne parla come se fosse una sua amica.

Qualcuno, il cantante Pupo, ha pensato bene di scrivere una lettera aperta in cui ricorda che anche lui come Impagnatiello, ha da anni una relazione con due donne. Ma lui la sa gestire, “voglio tranquillizzare tutti e soprattutto le mie due donne, mia moglie Anna e la mia compagna Patricia, non ho intenzione di uccidere nessuno”. Sentivamo il bisogno di questa lettera? Di questa riflessione?

 

Quello che è accaduto a Giulia Tramontano è diventato anche l’ennesima occasione per i creatori seriali di hashtag. Il più famoso è #losapevamotutte e sta a significare che l’aberrante delitto di questa ragazza sembrava già scritto nel momento in cui si erano diffuse le prime notizie sulla sua scomparsa. Si può essere d’accordo (accettando poi una banalizzante e scontata tesi per cui quando scompare una ragazza, automaticamente l’uomo più vicino è colpevole), ma a cosa porta questo hashtag? Non è una campagna social di sensibilizzazione, non è un messaggio proattivo, non è un modo per lanciare l’allarme. È forse solo la scusa per poter fare un bel post sul proprio social?

Sarebbero altre, forse, le battaglie utili da fare via hashtag. La diffusione dei numeri dei centri antiviolenza ad esempio. O la richiesta di un potenziamento degli stessi o dei fondi a loro disposizione. Sarebbe utile una campagna in cui si spiega quali sono i segnali da fare alle forze dell’ordine quando si è in difficoltà. Oppure di come – semplicemente chiedendo una “mascherina 1522” in farmacia – si possa far partire un protocollo di protezione.

Questi sono gli hashtag che vogliamo. Che non hanno necessariamente bisogno del pancione in primo piano e del bel viso di lei. Un viso che purtroppo – proprio in virtù di quella bellezza – si è trasformato persino in “fotogallery” su tanti siti di pseudo informazione.

 

Intendiamoci: l’informazione, quella seria, quella “di settore”, ha tutto il diritto e anche il dovere di fare il suo. Ma parliamo di giornali o di trasmissioni tv che spesso parallelamente alla cronaca diffondono anche campagne di sensibilizzazione. Così non accade invece a chi – oramai soprattutto siti di seconda categoria ma pieni di visualizzazioni – pubblica notizie di gossip affiancate al viso di questa ragazza, con tanto di video, degli approfondimenti morbosi su “le reazioni dei social”.

Almeno questo, risparmiamolo alla povera Giulia. A cui risparmieremo, su questo nostro sito – ci scusiamo per i più morbosi – l’ennesima pubblicazione della sua foto con il pancione o del suo viso al tramonto.

Ci sono altri modi per aiutare le indagini e sensibilizzare sulla lotta alla violenza sulle donne.

Luigi Rizzitelli

Luigi Rizzitelli

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